L'Europa tardoantica e medievale. I popoli fuori dei confini dell'impero. Gli Avari
Popolo asiatico di cavalieri nomadi, presente nel 557 d.C. nelle regioni periferiche dell’Europa orientale, poi nel 568 nel bacino dei Carpazi, ove fondò un regno durato 235 anni. Gli storici bizantini, come Menandro Protettore (Continuatio Historiae Agathiae, X) e Teofilatto Simocatta (Historiae, I, 8, 8), ci informano delle sue origini, della sua storia e dei suoi attacchi contro Bisanzio, dettagliatamente per quanto riguarda il periodo tra il 565 e il 602, più sommariamente fino al 680. Gregorio di Tours riferisce dei primi contatti di questo popolo con i Franchi, Paolo Diacono testimonia dei rapporti avuti con i Longobardi tra il 566 e il 744, mentre gli Annales carolingi forniscono notizie riguardo agli ultimi anni del regno avaro (782-803).
Gli Avari dell’Asia Anteriore, scacciati dai Turchi, e gli Unni-Eftaliti dell’Asia Centrale, uniti a loro e dopo insieme alleati di Giustiniano I, sottomisero i popoli delle steppe della Russia meridionale e nel 562 giunsero fino al basso Danubio. Come alleati di Sigeberto I, re dei Franchi, e di suo suocero Alboino, re dei Longobardi, arrivarono nel bacino dei Carpazi e parteciparono nel 567 alla sconfitta dei Gepidi. Alcuni mesi più tardi, dopo la migrazione dei Longobardi in Italia, occuparono anche la Pannonia: così, per la prima volta nella storia gli A. unificarono il bacino dei Carpazi in un unico regno. Nel 582, sotto la guida di Bayan, il loro principe, occuparono Sirmium, sulla riva nord del fiume Sava, per poi invadere le province balcaniche con i loro alleati slavi: distrussero le città-fortezze sulla riva destra del Danubio, attaccarono due volte Tessalonica, assediarono Salona in Dalmazia e saccheggiarono numerose città della Tracia. Nel 626, alleati con i Persiani, strinsero d’assedio Costantinopoli riportando una disfatta sanguinosa. Con tale sconfitta cessò anche quel flusso d’oro con il quale il governo di Costantinopoli aveva cercato di fermare, o almeno di attenuare, i loro attacchi tra il 573 e il 625 (i pagamenti erano passati da 60.000 a 200.000 solidi annui). Per compensare la perdita del tributo, gli Avari si lanciarono in una campagna depredatrice contro il Friuli, dove saccheggiarono Forum Iulii (Cividale).
Dopo il 630 il potere degli Avari fu sempre più limitato al solo bacino carpatico, sia per la pressione delle tribù slave circostanti che per la formazione del regno bulgaro. Subito prima del definitivo insediamento dei Bulgari danubiani (680), nuovi gruppi orientali invasero il regno avaro, la cui frontiera si estendeva fino all’Istria, alle Alpi Giulie e, lungo il Danubio, fino al fiume Enns. Dopo un periodo di tendenza all’isolamento durato quasi un secolo, gli Avari si trovarono di fronte alla politica espansionistica di Carlo Magno. Nel 776 offrirono rifugio ai Longobardi, che si erano ribellati ai Franchi, e tra il 782 e il 788 il principe bavaro Tassilone III cercò il loro appoggio contro gli stessi Franchi. I conflitti di frontiera del 788, immediatamente dopo la sconfitta del principato bavaro, provocarono la sfortunata spedizione militare di Carlo Magno (791). L’incessante minaccia dei Franchi divise i principi avari e causò una guerra sanguinosa all’interno del regno; quando Krum, il khān bulgaro, effettuò un attacco alle loro spalle (803), gli Avari furono sconfitti dai Franchi. L’area occidentale del regno avaro (l’antica Pannonia) diventò un principato vassallo dell’impero carolingio fino all’828, data del suo annientamento; tra l’827 e l’832, l’area sud-orientale fece parte del regno di Omurtag, khān bulgaro; nella zona nord-occidentale si formò contemporaneamente il principato di Moravia.
L’organizzazione del regno avaro fino al 675 circa fu di tipo dispotico, con il kagan a capo. Dopo il 675 il potere venne decentrato: accanto al kagan, passato in secondo piano, apparvero i principi territoriali, il jugurrus, il tudun e i tarkani, che esercitavano il potere esecutivo; questa frammentazione fu uno dei motivi della caduta del regno. Nonostante la forma mongola del nome bayan, gli altri nomi dei dignitari avari noti (kagan, katun, tarkan, ecc.) sono in lingua turca, come gran parte dei pochi nomi personali che conosciamo (ad es., Apsiq, Targit, Solaq); anche la loro scrittura runica era di origine turca e gran parte degli Avari era probabilmente di lingua turca. Gli Avari disponevano di un esercito a cavallo, composto inizialmente da 20.000 e successivamente da 40.000 uomini, il cui nucleo era formato da cavalleria pesante che indossava la corazza di tipo persiano. La causa prima dei loro successi è da ricercarsi nella loro arma principale, l’arco riflesso che, rafforzato da lamine d’osso, era più forte e più grande di qualsiasi altro tipo e poteva quindi scagliare pesanti frecce a grande distanza. La mira e il tiro erano facilitati dal fatto che il cavaliere poteva sollevarsi dalla sella del cavallo in corsa grazie all’uso delle staffe di ferro battuto, diffuse dagli Avari in tutta Europa.
Le scarse notizie scritte sono completate da un materiale archeologico particolarmente ricco, fonte di dati sia per la storia interna che per i rapporti con i popoli vicini. Da più di duecento anni gioielli d’oro e tesori avari affluiscono alle collezioni e ai musei e il numero dei siti archeologici supera abbondantemente le 2000 unità. Non costituiscono più una rarità i cimiteri con 1200-1500-2200 sepolture, ormai scavati scientificamente; si contano a dozzine quelli che ne contengono tra 400 e 800; il numero totale delle tombe avare finora ritrovate si può valutare a 35-40.000 circa. Gli scavi di abitati, iniziati recentemente, hanno condotto alla scoperta di insediamenti (ad es., Dunaújváros, Kölked) composti da 50-150 case fatte di terra e legno, con pavimento ribassato rispetto al livello del suolo. La maggior parte dei reperti e dei siti conosciuti si trova nell’odierna Ungheria e in Voivodina, ma anche in Slovacchia e in Austria è in corso un lavoro molto intenso di scavo e d’interpretazione dei dati.
Già nel 1872 venivano collegate con il popolo asiatico degli Avari le sepolture, accompagnate dalla deposizione di un cavallo riccamente bardato, che contenevano staffe di ferro e cinture guarnite con oro del tipo “nomade”, datate grazie alla presenza di solidi bizantini depositati accanto ai defunti in funzione di obolo (Kunágota, Szentendre, Ozora). Le diverse forme di sepoltura del solo cavallo, oppure insieme al cavallo, sono ancora oggi determinanti, perché tipiche degli Avari; non è raro che in un cimitero si trovino da 30 a 80 sepolture di cavalli. Caratteristico delle tombe più antiche è il particolare rito funebre, consistente nell’abitudine, tipica dell’Asia interna, di seppellire i resti di staffe, di armi e di finimenti di cavallo dopo averli bruciati sul rogo. Tale rito, abbandonato in Europa, può servire a definire l’area degli insediamenti avari più antichi, che si estendeva nelle odierne Ungheria, Voivodina e Transilvania. La doppia origine degli Avari si rispecchia da un lato nei riti funebri, nelle armi, nei recipienti tipici dell’Asia interna e dall’altro nelle corazze, nelle cinture con guarnizioni metalliche, nei recipienti di ceramica e d’argento centroasiatici, d’influenza persiana.
L’eredità archeologica degli Avari, che abbraccia circa 250-260 anni, non è unitaria. Il primo secolo (568-670) è caratterizzato dall’abbondanza d’oro e d’argento ottenuti da Bisanzio. Nelle sepolture più ricche del periodo tra Giustiniano I (527-565) e Costantino IV (668- 685) si trovano frequentemente monete bizantine d’oro e d’argento, le quali permettono di datare il resto dei corredi. Nel periodo delle campagne contro Bisanzio, fino al 630 circa, l’orecchino d’oro, con un pendente a forma di piramide o di sfera, di misura e peso variabili, era elemento comune del costume dei guerrieri e dei loro familiari. La quantità d’oro e d’argento rispecchia bene la piramide sociale: nella tomba forse di un kagan rinvenuta a Kunbábony sono stati trovati 2,5 kg di rivestimenti d’oro, che erano pertinenti alla cintura, alla spada, alla faretra, oltre a tazze e a corni potori. Anche i nobili dell’epoca venivano accompagnati nel loro viaggio verso l’aldilà da cinture guarnite d’oro, da spade e da faretre rivestite d’oro, da brocche e da calici d’argento (sepolcreti di Kunmadaras, Kölked, Kunágota, Bócsa, Tépe, Kecel, Csepel, Nagykőrös).
Mentre le sepolture del kagan e dei nobili erano in luoghi solitari, i capi militari venivano sepolti al centro dei loro possedimenti (aul) o in tombe familiari (Szegvár, Kunpeszér, Csóka, ecc.). Le tombe dei guerrieri erano invece nei piccoli villaggi dove erano vissuti (ad es., Környe, Tiszavasvári, Deszk). Rimane senza spiegazione la storia del cimitero di Zamárdi, che testimonia un periodo di fioritura ancora nel VII secolo e un successivo declino nell’VIII. I reperti delle tombe testimoniano ampi contatti: accanto alle oreficerie bizantine non sono rari i prodotti bavari, alamanni, franchi, romani della zona alpina e longobardi del periodo italiano. Altri reperti (orecchini, cinture, finimenti di cavallo, staffe) attestano l’influenza avara presso questi stessi popoli. Le tombe degli orefici (ad es., Fönlak, Gátér, Kunszentmárton), corredate dei loro attrezzi, dimostrano come gran parte delle oreficerie e dei prodotti di ferro battuto fossero realizzati dagli Avari stessi, secondo il loro gusto e le loro necessità; la stessa cosa avveniva per le ceramiche (sito di Szekszárd).
A metà del periodo avaro avvennero cambiamenti tanto profondi da giustificare la definizione, in senso archeologico, di una nuova cultura. L’area degli insediamenti avari si ampliò fino alla Slovacchia meridionale, all’Austria Inferiore e alla Moravia meridionale: centinaia di villaggi, con i loro cimiteri, sorsero in tutto il regno. Una serie di cambiamenti è indicata dai costumi maschili e femminili, dall’armatura (ad es., la diffusione della sciabola a lama curva), dalla bardatura del cavallo (le falere tonde e le staffe a predellino diritto che indicano la diffusione degli stivali con la suola piatta) e dalla ceramica. Apparve un nuovo centro principesco sulla riva destra del Danubio, Ozora, e si rinnovò il vecchio capoluogo del kagan nell’area tra il Danubio e il Tibisco (attestato dal cimitero di Kiskőrös-Vágóhíd).
Tra il VII e l’VIII secolo dalla sintesi della cultura medio-avara nacque la “cultura del bronzo”, caratteristica degli Avari dell’VIII secolo, evidente testimonianza del declino dei contatti esterni e allo stesso tempo della chiusura e dell’isolamento. Infatti, in mancanza di metalli nobili, gli ornamenti delle cinture, i finimenti dei cavalli e gli stessi gioielli vennero fusi in bronzo e solo raramente coperti da una sottile doratura o stagnatura. Divenne prevalente lo stile denominato “a grifi e viticci”. I motivi adottati su tessuti e lavori d’intaglio su osso e su legno, derivano invece, per lo più, ancora dalla cultura tradizionale eurasiatica: le scene di lotta fra animali di significato mitico, il drago cinese (da Abony), il drago-pavone persiano, il cosiddetto šenmurv (da Kunhegyes-Bánhalma) e le raffigurazioni sciamaniche (siti di Alcsút, di Debrecen-Ondód, di Mártély). L’influenza bizantina, ormai irrilevante, si evince dalle scene d’ippodromo, dal corno dell’abbondanza, dal delfino e dai tralci d’uva. Le rappresentazioni tratte dalla vita reale sono un’eccezione come, ad esempio, l’immagine di un arciere a cavallo (rinvenuta a Klárafalva) e quella di un arciere in ginocchio (da Mödling).
Già nella prima metà dell’VIII secolo, gli Avari erano diventati sedentari e abitavano in villaggi permanenti. Un limitato gruppo armato che conservava la memoria della “cultura della steppa” governava una popolazione contadina, che ormai allevava maiali e pollame, invece del bestiame di grossa taglia come nel passato. Le sepolture, spesso con il cavallo (ad es., Komarno/Komárom, Hortobágy Árkus), erano ricche e caratterizzate da cinture e da finimenti per cavallo decorati con composizioni di motivi vegetali, molto simili all’ornamentazione adottata sui recipienti d’oro del tesoro di Nagyszentmiklós. Per due secoli e mezzo gli Avari trapiantarono l’Oriente nel cuore dell’Europa e ciò non rimase senza effetto sulla cultura dell’epoca. Ma nell’VIII secolo essi si rinchiusero e si isolarono, diventando un anacronismo vivente e non furono quindi capaci d’inserirsi nel successivo sviluppo del continente europeo.
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