Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel Settecento quel che dai lontani Paesi dell’Estremo Oriente arriva in Europa non è più accolto con stupore e meraviglia, ma con ammirato interesse: non viene riposto nelle Wunderkammern, ma esibito, indossato, riprodotto e trasformato. In Francia l’esotismo convive con il rococò nei salotti, nelle feste galanti e nelle conversazioni dei filosofi; in Inghilterra si aggira nei giardini, modifica le abitudini e ispira i poeti. Il resto dell’Europa si adegua così al nuovo gusto proveniente dall’Oriente.
Con il termine “esotismo” si definisce sia l’insieme degli elementi di provenienza straniera che caratterizzano forme espressive all’interno di una data cultura, sia la disponibilità di questa a recepirli e a farli propri, conservandone i caratteri distintivi sempre riconoscibili. Si tratta di un fenomeno che presuppone la percezione della distanza e la ricerca di un contatto nel doppio percorso di conoscenza tra il “qui” e l’“altrove”. Dopo l’implicito riconoscimento dei rispettivi valori culturali, ciò che si riporta dal viaggio come testimonianza dell’originalità di un diverso modo di pensare, di vedere il mondo, di concepire la vita e l’arte non può considerarsi semplicemente “esotico” inteso come nuovo, diverso, bizzarro, sensuale, meraviglioso, pittoresco e sublime, poiché le distanze e i contatti hanno caricato questo termine di senso e lo hanno messo in grado di provocare emozioni. Dopo la crisi recessiva del XVII secolo, a causa di guerre ed epidemie con conseguente calo demografico, nel Settecento si registra in tutta Europa un notevole progresso economico, dovuto anche alla forte espansione commerciale interna ed estera. Riprendono le esplorazioni in America del Nord, in Siberia e nel continente sudamericano; si scoprono arcipelaghi nel Pacifico e ci si addentra in terre recentemente scoperte, come l’Australia. I viaggi intrapresi per concreti interessi economici e di prestigio sono ora organizzati e finanziati dagli stessi governi: sono esperti e scienziati, non più solo missionari o avventurieri, coloro che comunicano con realtà lontane, riportando in patria informazioni e materiali già noti o del tutto nuovi. Soprattutto in Francia sono proprio i filosofi che preparano l’atteggiamento mentale favorevole all’accoglienza della civiltà, addirittura mitizzata, dei Paesi dell’Estremo Oriente. La curiosità è proporzionale alla distanza e questa rende desiderabile, se non il possesso di beni accessibili a pochi, il possesso di modelli utilizzabili da molti. Le raffinatezze formali e le preziosità delle materie, inoltre, si sposano perfettamente con lo spirito del rococò. L’inclinazione per l’esotismo, infatti, si fonda su attitudini e comportamenti incostanti come il gusto e la moda, è molto sensibile a condizionamenti esterni, registra abbandoni e ritorni, entusiasmi e rifiuti repentini. Così è per quella particolare declinazione esotica del rococò che è rappresentata dalle singeries, già ammirate durante il Seicento nelle decorazioni di Jean Bérain e che viene ripresa nel secolo successivo da Jean-Baptiste-Siméon Chardin, Jean-Antoine Watteau e Christophe Huet. Così è anche per le turqueries, accantonate con l’emergere della moda delle cineserie e che riaccendono l’entusiasmo dei Francesi dopo lo sfarzoso corteo dell’ambasceria turca di Mehemet Effendi nei giardini delle Tuileries il 21 marzo 1721. Testimoniano il rinnovato gusto per i costumi del più vicino Oriente le opere di molti artisti, tra i quali Largillière, van Mour, Nattier, Liotard, Aved, Boucher, La Tour, van Loo, Favray e Fragonard.
Anche l’evoluzione del personaggio del turco nel teatro del Settecento è emblematica di una modificazione del gusto e del giudizio avvenuta nel corso degli anni. Dietro l’apparenza lieve e frivola della commedia brillante o dell’opera buffa, si rivela così un progressivo approfondimento dei temi della cultura in grado di orientare il carattere delle rappresentazioni. Il turco come crudele pascià, astuto mercante o avido eunuco lascia il posto al sultano saggio e tollerante, al visir benevolo e leale; nobili figure da contrapporre all’ipocrita e corrotta società contemporanea.
La venatura di moralismo che il teatro accoglie dai filosofi produce però stanchezza e la moda abbandona presto i suoi idoli. Le signore, come Mademoiselle de Clermont e la contessa di Coventry, non indossano più gli abiti con cui Nattier e Liotard le ritraevano selon le costume des Turques e la curiosità si sposta oltre il Bosforo in cerca di altri esotismi.
In Europa il primo edificio a essere definito “cinese” è il Pavillon de Porcelaine al Trianon di Versailles, fatto costruire da Luigi XIV per Madame de Montespan su progetto di Louis Le Van. A un solo piano, con spigoli in bugnato e pilastri dorici a reggere il frontone d’ingresso, la costruzione è poco orientale nella struttura architettonica, ma lo è molto nella decorazione, sia per la profusione di piastrelle di ceramica che rivestono pareti e cortili, sia per i colori e i disegni tipicamente cinesi, secondo la convenzione visiva dei contemporanei. Costruito nel 1670 viene demolito solo sette anni dopo, ma il tempo è sufficiente per innescare un processo di imitazione che vede sorgere per tutto il Settecento e oltre, in ogni angolo d’Europa, padiglioni, tempietti e pagode à la chinoise. Sono gli stessi sovrani che progettano ambienti esotici per le proprie dimore o sorvegliano da vicino architetti e decoratori. Fonte di ispirazione per tutti è la prima opera illustrata sulla Cina di un funzionario della Compagnia olandese delle Indie orientali a Pechino, Jan Nieuhof, pubblicata ad Amsterdam nel 1665.
Quest’opera viene poi integrata dal fondamentale volume dell’architetto austriaco Bernhard Fischer von Erlach, prima storia dell’architettura cinese stampata in Europa, a Vienna nel 1721, che contiene incisioni di edifici cinesi tratti dalle descrizioni di Nieuhof, tra cui il Palazzo Imperiale di Pechino e la pagoda di Porcellana di Nanchino. L’elettore Massimiliano Emanuele di Baviera commissiona a Joseph Effner, architetto di corte, un Pagodenburg (1716-1719) per il giardino del palazzo d’Estate a Monaco, decorato con ceramica di Delft blu e bianca, stanze rivestite di carta cinese, pannelli di lacca rossa e oro. Fra il 1715 e il 1717 Augusto II il Forte, elettore di Sassonia e re di Polonia, appassionato cultore di porcellane orientali, fa costruire a Dresda un palazzo detto “giapponese” che rappresenta il più cospicuo esempio di cineseria in Germania e che è destinato a contenere i migliori esemplari della manifattura di Meissen. Seguono lo stesso gusto esotico il padiglione di caccia di Falkenlust e la Chinesisches Haus nel parco del castello di Brühl, costruiti per desiderio di Clemente Augusto di Colonia. Appassionato sinofilo è anche Federico II di Prussia che disegna personalmente, assecondato dall’architetto Johann Gottfried Büring, un padiglione per il parco di Sansouci a Potsdam. Costruito tra il 1754 e il 1756, l’edificio rappresenta un vero esercizio di fantasia che esaspera il carattere dei modelli convenzionali fin quasi alla caricatura: su una base trilobata, colonne come fusti di palma reggono un tetto a pagoda e statue in costume cinese sono distribuite sul basamento, una di esse con un parasole aperto è posta sul punto più alto del padiglione.
In Russia Caterina II incarica l’architetto Charles Cameron di ispirarsi ai disegni di William Chambers per progettare un villaggio cinese a Tsarkoe-Selo. Ancora in Germania, presso il lago di Wilhelmshöhe, nel 1782 viene costruito un intero villaggio cinese, Mulang, con piccole case accanto a corsi d’acqua attraversati da ponticelli ad arco. In Svezia, a Drottningholm, la casa cinese che contiene decorazioni su disegni di Boucher e Pillement è il dono di re Adolfo Federico alla moglie: nel progetto una pagoda dovrebbe caratterizzare ancor più il luogo, ma prima che si metta mano alla costruzione il gusto per tali eccentricità si esaurisce con il finire del secolo. Proprio allo spirare del Settecento a Palermo viene costruita La Favorita di Ferdinando IV di Borbone: la palazzina non è cinese per l’impianto e i volumi, ma per le sovrastrutture e le decorazioni: tetto a pagoda, pinnacoli, balaustre traforate e campanelli lungo gli sporti.
Solo nel 1709 si riesce a produrre in Europa la porcellana bianca a pasta dura, dopo secoli di inutili tentativi per imitare gli oggetti che in Cina si fanno già da mille anni. La prima fabbrica sorge a Meissen per merito di Johann Friedrich Böttger, alchimista di Augusto II il Forte, che, nel tentativo di soddisfare l’insaziabile passione del sovrano per la porcellana orientale, riesce a scoprire il procedimento di fabbricazione provando a fonderne i componenti ad altissime temperature. Il segreto non viene custodito e la formula è presto utilizzata in tutto l’Occidente: sorgono manifatture in Austria, Germania, Francia e Inghilterra; in Italia, oltre a Venezia, nascono manifatture a Capodimonte e a Doccia. Alla produzione di porcellane “cinesi” si legano i nomi di Johann Joachim Kändler, modellatore a Meissen, e dello svizzero Franz Anton Bustelli, impareggiabile Modellmeister a Nymphenburg. La possibilità di produrre in abbondanza ciò che nei secoli precedenti doveva essere importato in misura limitata e ad altissimo prezzo consente un uso decorativo della porcellana su grandi superfici: Giuseppe Gricci plasma grandi figure a rilievo per un salottino a chinoiseries del Palazzo Reale di Portici, interamente rivestito da piastrelle di porcellana (1757-1759). Quando Carlo III re di Napoli diventa re di Spagna, trasferisce maestranze da Capodimonte e fonda una nuova manifattura nel parco del Buen Retiro a Madrid. La prima realizzazione importante è una stanza nel Palazzo Reale di Aranjuez (1760-1765) tutta ricoperta, pareti e soffitto, di porcellana a intrecci e volute con gruppi di figure in rilievo che richiamano lo stile di Giandomenico Tiepolo, autore dei grandi cicli di affreschi nella villa Valmarana presso Vicenza, ultimati nel 1757. È soprattutto la manifattura di Meissen a influenzare modellatori e pittori di ceramica sia in Germania (Höchst am Main, Ludwigsburg, Frankenthal ecc.) sia in Inghilterra (Plymouth, New Hall, Derby ecc.), mentre più autonoma è la produzione delle fabbriche francesi di Chantilly, Mennecy, Vincennes e Saint-Cloud, dove si produce porcellana blanc de Chine su modelli cinesi e giapponesi. Il principe di Condé incoraggia l’imitazione di vasi Kakemon e Imari che provengono da Sarayama, sede delle più importanti fabbriche giapponesi di porcellana.
A partire dal XVI secolo vengono portate in Europa grandi quantità di oggetti laccati di provenienza orientale. La tecnica della lacca nasce in Cina dove cresce la rhus vernicifera, l’albero da cui si estrae la sostanza che applicata a strati sottilissimi, per essiccazioni successive e con l’eventuale aggiunta di materie coloranti, produce uno spessore di vernice levigata e brillante, impermeabile e resistente, la quale a sua volta può essere incisa e dipinta. Risultati analoghi, ma di minor qualità, si ottengono anche utilizzando la secrezione di un insetto diffuso in India che, dopo complesse elaborazioni, dà luogo alla gommalacca. Con questa resina si procede allo jappaning, un sistema di verniciatura largamente utilizzato nel XVIII secolo, e dal nome del più noto produttore francese la lacca così ottenuta è detta vernis Martin.
Di Guillaume Martin restano di certa attribuzione i pannelli degli appartamenti del Delfino a Versailles (1749). In Italia la lacca è usata per tutto il Settecento, soprattutto a Venezia, dove è detta “contraffatta” o “arte povera”. Le lacche cinesi da esportazione sono dette anche coromandel, dal luogo di distribuzione che fa capo alla Compagnia inglese delle Indie orientali. Rivestire pareti, divisori di salotti e cabinets con pannelli laccati e dipinti secondo motivi cinesi o giapponesi, arredare con mobili e oggetti in lacca gli ambienti, distribuire ovunque scatole e ninnoli trattati con la stessa tecnica diventa una moda contagiosa che deriva dall’uso sfarzoso di decorare con lacche interi appartamenti in regge e castelli. Nella Germania del Settecento non c’è residenza di nobili facoltosi che non conti una sua chinesisches zimmer su imitazione delle raffinate ambientazioni francesi. Così è per la camera cinese nella residenza del principe elettore di Bamberga, per il Lackkabinett del castello di Ludwigsburg o per lo studiolo ottagonale nel padiglione cinese di Nymphenburg. Nel 1723 in Portogallo, nella biblioteca dell’università di Coimbra, viene profusa la lacca per opera di Manuel de Silva con un sapiente accostamento di disegni à la chinoise e ornamentazioni barocche. Se per le estese campiture a pannelli l’esempio è francese, per i mobili la produzione è prevalentemente olandese. Data la grande richiesta e l’insufficiente importazione degli originali giapponesi, ricercati per il loro maggior pregio rispetto a quelli cinesi, in Olanda si eseguono imitazioni tanto perfette da far ipotizzare la presenza di laccatori giapponesi sul posto. Uno dei massimi esperti in quest’arte è Gérard Dagly, maestro dell’altrettanto celebre Martin Schnell. I tentativi inglesi di imitare la coromandel producono lacche poco pregiate, dette bantam. Una stanza a pannelli laccati è allestita nel Palazzo Reale di Torino da Filippo Juvarra attorno al 1732. Sessanta pezzi di lacca orientale originale sono accostati ad altri, prodotti sul posto da Pietro Massa e armonizzati con decorazioni rococò. In Piemonte, infine, si usano pannelli di lacca e carta da parati cinesi fino al 1770.
Tra la fine del Seicento e i primi trent’anni del Settecento, il gusto rococò per il disegno asimmetrico, convenzionalmente esotico, su tessuti di abbigliamento e di arredo impone l’uso delle sete “bizzarre” che vengono prodotte soprattutto a Lione, da dove pare si sia diffusa la moda, e a Spitalfields, le cui manifatture traggono vantaggio dalle leggi inglesi che vietano l’importazione e la produzione di cotoni stampati. Nel corso del Seicento la selezione dei disegni e dei colori più graditi alla clientela europea, tra quelli proposti dalle manifatture indiane e cinesi, ha finito col fissare il gusto su campionari di riferimento. Accade così che nel Settecento in Cina si producano tessuti con motivi che derivano da modelli indiani, fatti su disegni inglesi che interpretano idealmente gli originali cinesi. I motivi esotici trovano una felice applicazione nella tessitura, nella stampa su seta e su cotone e nel ricamo, ma la tecnica più esaltata è quella dell’arazzo. Particolarmente apprezzati e compatibili con questa tecnica sono i soggetti che rappresentano animali e vegetazioni tropicali, tanto più interessanti per l’allusione al mondo idealizzato del “buon selvaggio”. La manifattura Gobelins commissiona disegni a Parrocel (Ambasciata turca, 1731) e a Desportes (Le Nuove Indie, 1735-1741) e a Beauvais vengono realizzati 45 arazzi con scene di vita cinese su disegni di François Boucher.
In Inghilterra nei primi anni del secolo l’interesse per lo stile cinese si esprime soprattutto in campo letterario e teatrale. Affermatosi con il regno di Giorgio II, si diffonde come moda che può giungere alla mania e come tale si presta a essere oggetto di satira e contestazione da parte di classicisti o di cultori del neogotico. All’inizio del secolo gli Inglesi amano l’arredo cinese (che chiamano anche indiano) per la casa e l’atmosfera gotica per il giardino. A metà del Settecento l’assimilazione del rococò francese favorisce poi la combinazione delle due tendenze e non mancano situazioni ibride.
Per Strawberry-Hill, la residenza che intende costruire presso Twickenham, Horace Walpole esita a lungo tra gotico e cinese e scrive: “mi entusiasma quasi senza riserva lo sharawadgi ovvero l’assenza cinese di simmetria, sia negli edifici che nei giardini”. Sharawadgi è il termine che William Temple, in un saggio del 1685, diceva usassero i cinesi come sinonimo di asimmetria in materia di giardini. Nel Settecento questo termine viene adottato per esprimere il modo di essere di un paesaggio naturale, affinché produca l’indefinibile piacere che viene dalla contemplazione di un luogo il cui apparente disordine è il risultato di una raffinata ricerca di armonia. Il giardino sharawadgi entra nel repertorio estetico inglese con caratteri cinesi più veri del vero, elaborati su informazioni attendibili ma interpretati in modo fantasioso e bizzarro, per aderire a un’immagine interiorizzata alla cui formazione hanno contribuito le scene di genere e i paesaggi dipinti su lacche, porcellane e sete, oltre che le descrizioni di viaggiatori e mercanti. I disegnatori che producono repertori di modelli esotici di ogni tipo e per ogni scopo sono innumerevoli e non trascurano neppure la moda turca, araba e persiana. William e John Halfpenny pubblicano con grande successo tra il 1750 e il 1752 raccolte di disegni per residenze estive e ornamenti da giardino; si ristampano le ricette di Stalker e Parker per preparare e usare la lacca e se ne scrivono di nuove.
Si realizzano inoltre modelli in chinese Chippendale, dal nome del mobiliere che nel 1754 a Londra pubblica il primo esauriente libro di disegni per arredamento. La prima costruzione da giardino di gusto cinese è la casa di Confucio a Kew nel Surrey, eretta nel 1740 su disegno di Joseph Goupy, pittore di ventagli.
Il giardino anglo-cinese assorbe nel nome la caratterizzazione esotica, ma risponde a un gusto già orientato verso un assetto naturale e asimmetrico, in contrapposizione a quello formale francese e italiano. Molti sono gli architetti che si dedicano a progettare e ambientare edifici adatti a parchi e giardini, il più celebre è William Chambers – che dopo diversi viaggi in Estremo Oriente – a Canton conosce direttamente l’architettura e le arti decorative del luogo. Pubblicata nel 1757 a Londra l’opera fondamentale Disegni di palazzi, mobili, indumenti, macchine e utensili cinesi, i cui disegni avranno grande diffusione soprattutto fuori dall’Inghilterra, Chambers afferma di non ritenere opportuno per l’Europa il modello orientale per le abitazioni, ma lo ritiene adatto ai parchi per la varietà di scenari che si possono creare anche con l’aggiunta di altri esotismi: nel progetto per i giardini di Kew, Chambers disegna vicine l’Alhambra, la pagoda e la moschea. Quando alla fine del secolo neogotico e neoclassico avranno preso il sopravvento in Inghilterra, a lui si ispireranno tutti gli architetti di giardini in Francia, Germania, Scandinavia, Russia e Stati Uniti. Significativa testimonianza di eclettismo nell’architettura esotica dei giardini è la raccolta di disegni di Georges Louis Le Rouge, Dettagli dei nuovi giardini alla moda. Giardini anglo-cinesi (1770-1787).