Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Tra Cinque e Seicento l’immaginario collettivo elabora il bisogno di vedere materialmente le parole per intuirne il significato morale: un’immagine con una sentenza o una poesia forma l’emblema, con un motto conciso l’impresa. La percezione risulta immediata e sensuale, ma diviene attività conoscitiva in quanto sviluppa la tendenza didattica e dimostrativa del pensiero visivo. Imprese, emblemi, fisionomie, iconologie soddisfano alla medesima esigenza di comunicare messaggi mentali in modo fisico e corporeo. La forza di questo genere d’insegnamento sta nella facilità a essere generalizzato in norma estetica di vita applicata.
L’emblematica trascrive icone che contrassegnano concetti; questi sono espressi in forma epigrammatica, ossia con parole allusive che richiamano altro da sé: il punto di vista figurativo e quello letterario concorrono alla formazione di uno spettacolo miniaturizzato di saggezza morale, sullo sfondo erudito e galante di corti e accademie.
L’immagine elegantemente didascalica si combina a un epigramma arguto, veicolando valori estetici e speculativi. Emblema ed epigramma attingono moralità desunte da favole e apologhi, dalla storia, da allegorie, proverbi, casi straordinari, arguzie d’amore e mitologie. Considerevole successo mondano conoscono le edizioni secentesce di Natale Conti e Vincenzo Cartari, autori di manuali sul mito interpretato come repertorio filosofico e iconografico di verità.
Cesare Ripa
Sulla definizione
Iconologia
Il secondo modo dell’imagini abbraccia quelle cose che sono nell’uomo medesimo, o che hanno gran vicinanza con esso, come i concetti e gli abiti che da concetti ne nascano, con la frequenza di molte azioni particolari; e concetto dimandiamo senza più sottile investigazione tutto quello che può esser significato con le parole; il qual tutto vien commodamente in due parti diviso. L’una parte è che afferma o nega qualche cosa d’alcuno; l’altra che no. Con quella formano l’artificio loro quelli che compongono l’imprese, nelle quali con pochi corpi e poche parole un sol concetto con più quantità di parole e di corpi si manifesta. Con questa poi si forma l’arte dell’altre imagini, le quali appartengono al nostro discorso, per la conformità che hanno con le definizioni; le quali solo abbracciano le virtù e i vizii, o tutte quelle cose che hanno convenienza con questi o con quelle, senza affermare o negare alcuna cosa, e per essere o sole privazioni o abiti puri si esprimono con la figura umana convenientemente. Percioché, sì come l’uomo tutto è misura di tutte le cose, secondo la commune opinione de’ filosofi, e d’Aristotile in particolare, quasi come la definizione è misura del definito, così medesimamente la forma accidentale, che apparisce esteriormente d’esso, può esser misura accidentale delle qualità definibili, qualunque si siano, o dell’anima nostra sola, o di tutto il composto. Adunque vediamo che imagine non si può dimandare in proposito nostro quella che non ha la forma dell’uomo, e che è imagine malamente distinta, quando il corpo principale non fa in qualche modo l’ufficio che fa nella definizione il suo genere.
in G. Savarese e A. Gareffi, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980
Nata nel Cinquecento come interpretazione moderna dei geroglifici egiziani, scrittura cifrata in cui si credono riposti misteri sapienziali, la moda emblematica ispira la decorazione di medaglie, monete, colonne, archi trionfali, appartamenti. L’applicazione pratica dei geroglifici si diffonde su spade, anelli, cinture, mobili, pareti, soffitti. Dal punto di vista teorico, analizzato dall’umanista italiano Pietro Valeriano (1477-1558), il geroglifico sviluppa la tendenza simbolistica dei lapidari e bestiari medievali; per il giurista milanese Andrea Alciati (1492-1550), autore del più illustre manuale di emblemi (pubblicato a Parigi nel 1534), il modello proviene dall’epigramma greco alessandrino. Nel corso del Seicento esso influenza la struttura lirica in senso concettista: sonetto, madrigale, ottava mostrano il volto arguto della parola emblematica, breve e pungente nel profilare il ritratto critico della realtà.
La combinazione di immagine e motto presuppone la corrispondenza tra visibile e invisibile, esteriore e interiore, corpo e anima. Accanto alla mentalità emblematica si colloca la scienza fisiognomica, ossia lo studio dei segni somatici a fini caratterologici. L’origine classica della disciplina serve a giustificare la moda secentesca di stigmatizzare le inclinazioni umorali in figure dall’aspetto caricaturale.
Non si tratta solo del genere pittorico della caricatura, bensì di uno stile di pensiero medico-magico-morale che analizza gli umori (bile nera, bile gialla, sangue, flegma) per stabilire le analogie tra corpo, comportamento e passione. L’italiano Giambattista Della Porta è il più illustre studioso europeo di fisiognomica; le sue opere influenzano gli studi francesi di Cureau de la Chambre, quelli germanici di George Philipp Harsdörffer. Persino le bizzarre statue allegoriche che popolano i giardini di Versailles derivano dagli studi fisiognomici dell’artista ufficiale della corte di Luigi XIV, il versatile Charles Le Brun. Nel frattempo in Italia l’attenzione per la gestualità diviene antropologia retorica con l’Arte de’ cenni di Giovanni Bonifacio e con il Trattato sulle lettere missive di Camillo Baldi e promuove la letteratura folclorica con le fiabe napoletane di Giambattista Basile. Aspetto non secondario della fisiognomica, la comparazione tra uomo e animale è all’origine del genere favolistico dei francesi Charles Perrault e Jean de La Fontaine.
Giovan Battista Della Porta
Che cosa sia la Fisiognomia
Della fisiognomia dell’uomo
Ma narriamo alfin che cosa sia Fisiognomia. È dunque una scienza che impara da’ segni che sono fissi nel corpo, et accidenti che trasmutano i segni, investigar i costumi naturali dell’animo. Abbiam detto i costumi naturali dell’animo, acciò l’uomo non s’inganni che questa scienza insegni ancora quei costumi o passioni dell’animo che s’acquistaran col tempo, come essere Matematico o Medico; ché ciò dai segni del corpo non si può conoscere. Ci abbiamo ancora aggiunto degli accidenti che trasmutano i segni, perché alcuni segni, che non sono nel corpo, essendo alterato, vi sono e vi si scuoprono, come la paura e la vergogna; che quando l’anima non basta soffrir la vergogna, spargendo il sangue alle parti fuori del corpo, appar il rossor quasi capitano; così (...) fuggendo il sangue alle parti di dentro, come in sua fortezza, vien fuori la pallidezza; così la pallidezza e rossezza sono segni che agevolmente spariscono. E poiché parliamo dei costumi dell’animo, che sono nella parte sensitiva, la quale è commune all’uomo et alle bestie, vana è l’opinion di Trogo e Filone, i quali toglievano i segni di giudicare l’opre dell’anima nutritiva dalle piante. Infatti, essendo questa virtù vegetativa commune a tutti i viventi (...). Il nome della Fisonomia vien da physis, che vuol dir natura, e gnome, regola; quasi volesse dir legge o regola di Natura; cioè, per certa regola, norma et ordine di Natura si conosce da tal forma di corpo tal passione dell’anima.
G.B. Della Porta, Della fisiognomia dell’uomo, a cura di M. Cicognani, Parma, Guanda, 1988
Variante aristocratica dell’emblema, l’impresa diventa oggetto di studio a partire dalla metà del Cinquecento; l’erudito italiano Paolo Giovio (1483-1552) traccia la storia dei cavalieri francesi apparsi in Italia con vesti magnificamente addobbate: una figura e un motto, per lo più latino, vengono esibiti sugli abiti, spettacolarizzando l’eroismo “intenzionale” delle milizie di Carlo VIII e Luigi XII. Per spirito di emulazione i gentiluomini italiani fanno proprio il gusto impresistico e lo trasformano in una vera “filosofia del cavaliere”: rappresentare il proposito, il desiderio, il comportamento che si vuole “imprendere” o intraprendere diviene requisito necessario e sufficiente dell’onore.
Paolo Giovio
Sulla perfetta impresa
Dialogo delle imprese militari e amorose
GIOVIO: Non mancarò di ridurmi a mente tutte queste cose che voi domandate, parendomi di tornare un’altra volta giovane nel favellarne, delle quali tanto mi dilettava già, che ben pareva vero pronostico ch’io avessi a scriver l’istoria loro. Ma prima ch’io venga a questi particolari, è necessario ch’io vi dica le condizioni universali che si ricercano a fare una perfetta impresa, il che forse è la più difficile che possa essere ben colta da un ingegno perspicace e ricco d’invenzioni, la quale nasce dalla notizia delle cose scritte dagli antichi. Sappiate adunque, messer Lodovico mio, che l’invenzione o vero impresa, s’ella debbe avere del buono, bisogna ch’abbia cinque condizioni. Prima, giusta proporzione d’anima e di corpo. Seconda, ch’ella non sia oscura di sorte ch’abbia mestiero della sibilla per interprete a volerla intendere, né tanto chiara ch’ogni plebeo l’intenda. Terza, che sopra tutto abbia bella vista, la qual si fa riuscire molto allegra entrandovi stelle, soli, fuoco, acqua, arbori verdeggianti, instrumenti meccanici, animali bizzarri e uccelli fantastici. Quarta, non ricerca alcuna forma umana. Quinta, richiede il motto che è l’anima del corpo e vuole essere communemente d’una lingua diversa dall’idioma di colui che fa l’impresa perché il sentimento sia alquanto più coperto. Vuole anco essere breve, ma non tanto che si faccia dubbioso, di sorte che di due o tre parole quadra benissimo, eccetto se fusse in forma di verso o integro o spezzato. E per dichiarare queste condizioni diremo che la sopradetta anima e corpo s’intende per il motto e per il soggetto, e si stima che mancando o il soggetto all’anima o l’anima al soggetto, l’impresa non riesca perfetta.
in G. Savarese e A. Gareffi, La letteratura delle immagini nel Cinquecento, Roma, Bulzoni, 1980
Nelle numerose occasioni mondane Italiani e Francesi esibiscono magnifiche “divise” elaborate secondo codici ben regolati: corpo e anima, ossia figura e motto dell’impresa, devono mostrare giusta proporzione; il significato non può risultare incomprensibile, né evidente alla gente incolta; vanno selezionate figure piacevoli, escludendo l’aspetto dell’uomo implicito già nella moralità del motto; quest’ultimo breve, ma non tanto da essere oscuro o dubbioso, può coprirsi in una lingua straniera al portatore. Ricercando le meraviglia, si preferiscono immagini animalesche desunte dai bestiari, riconoscendo al mondo ferino un’iconicità più agevole ed evidente, perché non dissimulata dagli artifici dell’espressione umana. Non a caso il teorico d’arte italiano Ercole Tasso vanta la natura metaforica della figura leonina, al tempo stesso animale, geroglifico, segno araldico, casa zodiacale, insegna, simbolo di un Evangelista, impresa.
Non è facile distinguere tra emblema e impresa, anche se il primo ha forse carattere più popolare, conoscendo successo in tutta l’Europa senza soggiacere a precetti. Carattere realistico sviluppano i proverbi figurati dell’olandese Jacob Cats, offrendo curiosi documenti di storia del costume. Alcuni dei suoi emblemi d’amore diventano il dono tra innamorati, segno di fidanzamento e nozze che compendiano la casistica della passione in forma di leggiadra enciclopedia popolare, diffusa al di fuori degli ambienti accademici tra un giovane pubblico elitario.
Nel Seicento l’erotismo si spiritualizza: il cuore, la croce, Cristo Bambino vengono donati a Dio come emblemi d’amore sacro.
In Inghilterra il concettismo metafisico viene divulgato da manuali di devozione per immagini, tra cui quello del poeta Francis Quarles. In Italia rivive una tradizione esoterica di ispirazione neoplatonica e cristiana con il teologo barnabita Cristoforo Giarda: il riconoscimento di “immagini simboliche” testimonia l’epifania del divino nel mondo.
Il carattere didascalico degli emblemi viene abilmente utilizzato dalla propaganda religiosa, soprattutto quella gesuitica: l’orrore del peccato e dei tormenti infernali, le delizie della vita devota possono essere comunicati a tutti attraverso immagini suggestive. Combinando “pittura muta” e “pittura parlante”, l’emblema diviene “pittura di significazione” morale, secondo l’italiano Daniello Bartoli che vuole agganciare l’utile al dolce, secondo la precettistica classica. In Italia Filippo Picinelli, Giovanni Ferro, Paolo Aresi disputano dottamente inmateria di percezione sacra. Il Mondo simbolico (1653) del gesuita Picinelli è una raccolta di imprese destinate ai predicatori, in cui gli emblemi rappresentano i vari vizi e i motti traducono in forma di epigramma i messaggi visivi, esprimendo la volontà educativa della Controriforma: così il gatto che fa le fusa poco prima di graffiare raffigura la donna lasciva, che “quando scherza, schernisce” (cum ledit, laedit). Nel trattato Teatro d’imprese (1623) il letterato Giovanni Ferro (1582-1630) difende l’erudizione accademica dei teorici delle imprese, che hanno saputo trasformare in filosofia del gusto e precettistica minuziosa l’uso nobiliare di ornare gli abiti con immagini simboliche. In polemica con l’opera di Ferro, le Imprese sacre (1629) del vescovo Paolo Aresi (1574-1644) vogliono distinguersi per la trattazione precisa e rigorosa della filosofia dell’impresa, con particolare attenzione all’applicazione religiosa.
La cultura della Controriforma organizza spettacoli, tornei, feste, addobbi, esequie con solennità pubblica. Il padre Claude-François Ménestrier, teorico francese delle imprese, riflette sull’organizzazione dei balletti, spettacolo visivo e sensuale ispirato al pensiero visivo.
Nel secolo del concettismo, l’estetica del corpo si muove verso l’etica delle passioni; e le regole di tale morale funzionano nel modo irrigidito dalla codificazione religiosa controriformistica.
Attraverso la persuasione di una “immagine intelligibile” si tende a organizzare l’adesione intellettuale ed emotiva dell’uditorio al significato delle forme sensibili.
Ogni disciplina può essere appresa attraverso l’impresa: la politica esposta dallo spagnolo Diego Saavedra Fajardo in massime di governo illustrate; l’invenzione artistica attraverso l’iconologia, variante allegorica dei geroglifici, materiale serializzato di virtù, arti, parti del mondo a opera dell’italiano Cesare Ripa.
A partire dall’analogia metodologica tra l’espressione verbale di un concetto astratto o “definizione” e la realizzazione visiva delle qualità morali o “figurazione”, Ripa svolge la sua filosofia dell’immagine ricorrendo soprattutto ad associazioni ottiche di estrema efficacia percettiva e dunque facilmente memorizzabili, con un procedimento simile a quello della fisionomia di Della Porta. “Si scoprono come in teatro nell’apparenza della faccia dell’uomo”, scrive il Ripa, “qualità e disposizioni che permettono di approssimare il carattere vizioso o virtuoso”. Lo scultore Francesco Pianta applica praticamente l’insegnamento di Ripa nella Scuola di San Rocco a Venezia.
Al fine di comprendere il significato secentesco dell’emblematica conviene leggere le parole di Emanuele Tesauro, il quale dedica all’arte dell’impresa 31 “tesi”. La prima di esse afferma che la “perfetta impresa è una metafora”, intesa come ciò che può “significare una cosa per mezzo di un’altra”; modello del genere risulta la divisa di Luigi XII, un porcospino col motto “vicino e lontano” (cominus et eminus) per significare la potenza imperialistica e assoluta del re di Francia nei confronti dei nemici. L’animale dotato di spine e pronto a pungere rappresenta fisiognomicamente la virtù militare del sovrano, in rapporto di proporzione eroica.
Per l’interprete si tratta di scoprire il significato di rappresentazione del porcospino, considerando al pari dell’artista il “linguaggio” convenzionale degli attributi (spade, spine). È dunque necessaria la combinazione tra atto razionale e risposta emotiva: l’emblematica annulla la dicotomia tra percezione e ragionamento, confidando nei sensi secondo la massima aristotelica in base alla quale “l’anima non pensa mai senza un’immagine”.