L'Asia islamica. Altopiano iranico
di Martina Rugiadi
L'altopiano iranico, cinto da rilievi montuosi, si eleva fra la Mesopotamia e la valle dell'Indo, delimitato a nord dalle depressioni caspica e turanica e a sud dal Golfo Persico e il Mare Arabico; ne fanno parte l'Iran e l'Afghanistan.
Al momento delle prime incursioni degli Arabi musulmani, durante il califfato di Abu Bakr (632-634), l'impero sasanide che dominava le regioni dell'Iran e della Transoxiana era già fortemente indebolito per cause sia interne sia esterne. Il malcontento popolare, che un regime di stampo militare non riusciva a soffocare, era esacerbato dalle ripetute epidemie, dalle lunghe guerre con i Bizantini e dalle scorrerie dei nomadi turchi dell'Asia Centrale. A questa instabilità politico-militare, aggravata da una sempre maggiore autonomia dei signori locali nelle regioni periferiche, si aggiunse la scomparsa del regno dei Lakhmidi, Stato cuscinetto della frontiera occidentale dell'impero.
La sconfitta dei Sasanidi, sancita dalle battaglie di al-Qadisiyya (636), Gialula (637) e Nihawand (642), si realizzò nell'arco di soli dieci anni, anche se la conquista delle singole città avvenne con modalità diverse e in tempi molto più lunghi, così come la conversione all'Islam delle popolazioni sottomesse. Durante il califfato di Umar (634-644) la proprietà delle terre conquistate venne attribuita allo Stato islamico e la popolazione assoggettata al pagamento delle tasse fondiarie e al testatico; tuttavia alcune città, che si erano arrese, godevano di condizioni più vantaggiose.
Queste regioni orientali del califfato furono fin dall'inizio teatro di rivolte e ribellioni locali che mettevano a dura prova il potere centrale. Nel Khurasan, in particolare, la cui completa conquista avvenne in più tappe, si rese necessario il trasferimento di un gran numero di coloni arabi (ca. 50.000), provvedimento che acuì le insofferenze nella regione e spianò la strada alla propaganda abbaside. Sobillati contro la dominazione omayyade, sia i mawālī (Persiani neoconvertiti all'Islam) sia i coloni arabi ebbero un ruolo fondamentale nella "rivoluzione" abbaside: i primi esasperati dalla disparità di trattamento, soprattutto fiscale, tra Arabi e Persiani, i secondi stanchi del predominio dei Siriani negli affari di governo.
La vittoria della dinastia abbaside, con il successivo spostamento della capitale da Damasco a Baghdad, aumentò l'importanza politica e culturale dell'Iran, ma le istanze egalitarie che le avevano fruttato il sostegno della popolazione lasciarono il posto ad altri interessi, scatenando costanti rivolte. Alla morte del califfo Harun al-Rashid (809) il califfato venne suddiviso tra province orientali persiane e occidentali arabe, assegnate rispettivamente ai figli al-Amin e al-Mamun; la guerra civile che ne scaturì, con la vittoria di quest'ultimo (813), indebolì ulteriormente il califfato e determinò l'affermazione politica del generale persiano Tahir b. al-Husayn, che si rese di fatto indipendente dopo esser stato nominato governatore del Khurasan e del Sistan.
La dinastia tahiride (821-873) fu la prima delle dinastie autonome persiane che, pur riconoscendo nominalmente l'autorità del califfato abbaside, operavano del tutto indipendenti. L'ascesa delle dinastie locali nelle instabili regioni iraniche venne favorita dalle ribellioni a carattere sociale e religioso (si pensi ai Khurramiti e alla lunga rivolta mazdakita capeggiata da Babak in Azerbaigian, alle turbolenze causate dai Kharigiti e dalla fazione sciita) e dalle aspirazioni regionali all'indipendenza, legate a una rinascita degli ideali iranici attribuiti alla tradizione sasanide. In questo contesto emerse nel Sistan, sotto la guida di Yaqub b. al-Layth, la dinastia saffaride (861-911) che, espandendosi nel Kirman, nel Fars e nel Khurasan, pose fine a quella tahiride.
Nel contempo a est cominciò ad affermarsi una potenza regionale che ebbe la meglio anche sui Saffaridi e si propose come dinastia persiana emergente: i Samanidi (892-999). Dalla Transoxiana (città principali erano Afrasiyab e Bukhara) estesero il proprio dominio su gran parte dell'Iran, instaurando un efficiente sistema burocratico, favorendo e sviluppando i commerci con l'Asia Centrale e promuovendo l'uso del neopersiano (fārsī) come lingua ufficiale dell'amministrazione. Nel 945 l'autorità formale del califfato abbaside subì un ulteriore tracollo, nel caos per il conflitto tra i soldati turchi e daylamiti, con l'occupazione di Baghdad da parte del buyide Muizz al-Dawla. I Buyidi (945-1055), di fede sciita, erano emersi come dinastia indipendente nel Daylam, per poi conquistare vasti territori a spese dei Samanidi nel Fars.
L'indebolimento interno della dinastia samanide era dovuto allo strapotere dell'esercito, cui gli emiri erano del tutto sottomessi e che era composto principalmente da schiavi turchi. Uno di questi, Alptegin, riparando in Afghanistan a Ghazni, pose le basi per la fondazione, da parte di Sebüktegin, della dinastia ghaznavide.
In Afghanistan la cultura islamica non si era affermata subito con le imprese militari del primo Islam: molte regioni resistettero a lungo alla conquista degli Arabi musulmani (in alcuni casi fino al X-XI sec.) mantenendo le proprie tradizioni religiose. I Ghaznavidi (977-1186), di origine turca, allargarono i propri territori dal Khurasan soprattutto verso l'India, che fu oggetto di numerose spedizioni militari animate dal fanatismo sunnita dei sultani ghaznavidi. Nel frattempo la dinastia samanide, attaccata dai Buyidi a occidente e da Ghaznavidi e Qarakhanidi (992-1211) a oriente, era stata definitivamente sopraffatta. L'India rimarrà un'area d'influenza anche della dinastia che soppianterà i Ghaznavidi, quella ghuride (ca. 1000-1215).
Le migrazioni dei nomadi turchi Ghuzz (o Oghuz) verso il Khurasan, con la presa di Nishapur nel 1038 e la conseguente conquista dei territori occidentali dei Ghaznavidi, posero fine alla dinastia buyide ‒ Baghdad venne conquistata nel 1055 ‒ e dettero inizio a un lungo sultanato con i Selgiuchidi (1038-1218), che estero i loro domini fino alla Siria e all'Anatolia. A Isfahan, scelta come capitale dei Grandi Selgiuchidi d'Iran, operò sotto Alp Arslan e suo figlio Malik Shah il gran vizir Nizam al-Mulk, che lasciò un segno tangibile nella storia del sultanato selgiuchide: la centralizzazione dell'amministrazione e l'assegnazione delle zone di provincia ai ġulām (schiavi turchi militarizzati) permisero il controllo del vasto territorio, mentre venivano promosse le arti e la cultura ed era patrocinata la costruzione di madrasa quali centri di formazione religiosa per i funzionari del governo. Nello stesso periodo, tuttavia, la setta ismailita era riuscita a insediarsi in Iran con la presa di alcune fortezze, fra cui quella di Alamut, che sfuggirono a ogni tentativo di riconquista selgiuchide (cederanno solo ai Mongoli nel XIII sec.). La morte di Nizam al-Mulk e di Malik Shah (1092) per mano di attentatori ismailiti segnò l'inizio della dissoluzione del sultanato selgiuchide, disgregato in varie province.
In Afghanistan era emersa la dinastia dei Ghuridi (ca. 1000-1215), ma saranno soprattutto i Khwarazmshah (ca. 1077-1221) a beneficiare della debolezza selgiuchide, stabilendo l'ultimo grande regno iranico prima dell'arrivo dei Mongoli.
Le distruzioni arrecate dall'invasione dei Mongoli di Gengis Khan a partire dal 1220 stravolsero l'intera regione: le città e le campagne vennero devastate e la popolazione massacrata, si incrementò il nomadismo e si acuirono gli squilibri etnici. In Iran si affermò, fondato da Hülägü, il regno mongolo degli Ilkhanidi (1251-1335) di Persia, che si convertirono dal buddhismo all'Islam e riuscirono a far rifiorire l'economia e la cultura per tutto il XIII e la prima metà del XIV secolo. Regione d'elezione degli Ilkhanidi fu l'Azerbaigian, dove erano le capitali Maragha, Tabriz e Sultaniyya.
Alla morte dell'ultimo sultano ilkhanide l'Iran vide avvicendarsi dinastie diverse che, pur in un clima di lotte intestine, furono spesso promotrici delle arti e avviarono attività edilizie nelle rispettive capitali: i Mongoli gialairidi (1336-1432) a Baghdad e Tabriz, i Muzaffaridi (1314-1393), di origine araba, a Isfahan, e gli Ingiuidi (1303-1357) a Shiraz. Nella zona di Herat si affermarono invece i Kartidi (1245-1389) che dal 1245 erano diventati vassalli dei Mongoli.
Quando, nel 1370, il mongolo Timur (Tamerlano) cominciò a conquistare i territori dell'Asia Centrale e della Persia, fondando la dinastia timuride (1370-1506), l'Iran era oramai disgregato. I Timuridi dettero un nuovo impulso al commercio con l'Asia orientale e la Siria. Il conflitto con la potenza ottomana a occidente venne affrontato sfruttando la rivalità tra due importanti confederazioni tribali di origine turcomanna, i Qara Qoyunlu (1380-1468) e gli Aq Qoyunlu (1378-1508), con i quali si allearono i Timuridi. Le due confederazioni, nonostante i dissidi interni, accrebbero gradualmente il proprio potere: alla metà del XV secolo i Qara Qoyunlu conquistarono l'Iran centrale e meridionale, mentre nel 1469 gli Aq Qoyunlu sconfissero gli ex alleati timuridi.
In Afghanistan dopo la deposizione dei Ghuridi il territorio era divenuto una provincia ilkhanide prima e timuride poi; dopo la conquista del potere da parte dei Moghul in India esso divenne dominio in parte di questi e in parte degli šāh persiani: Kabul e Kandahar furono in genere in mano moghul (sino alla morte di Aurangazib, 1707), mentre Herat era nella sfera d'influenza dell'Iran.
La frantumazione politica e religiosa dell'Iran incrementò con la dinastia turco-mongola degli Shaybanidi (1500-1598), che conquistarono gradualmente i territori timuridi, attestandosi nella Transoxiana; negli stessi anni è da collocare l'ascesa di Ismail, fondatore della dinastia dei Safavidi (1501-1732). Cacciati dall'Iran gli Aq Qoyunlu, nel 1501 Ismail entrò a Tabriz e dette inizio alla dinastia che determinò la fioritura delle arti e della cultura nel territorio persiano, estendendo alla popolazione la fede sciita da poco accolta; capitale del regno dal 1598 divenne Isfahan, che fu oggetto di intense opere di costruzione e di pianificazione urbanistica.
Nadir Shah, sovrano afsharide di Persia (dinastia di origine turkmena che regnò nell'Iran nord-orientale dal 1736 al 1796), assediò Kabul e Kandahar e arrivò in India; dopo il suo assassinio (1747) l'Afghanistan divenne indipendente dall'Iran e fu guidato da capi di più tribù locali. Ahmad Shah (1747-1773) conquistò Herat e il Khurasan, invase ripetutamente l'India, occupò per un certo tempo Delhi, annesse Kashmir, Sind e parte del Pangiab.
Nel 1779 i Qagiar conquistarono l'Iran e insediarono la capitale a Tehran.
L'archeologia islamica si è affermata con grandi difficoltà nell'altopiano iranico. In un primo momento le spedizioni archeologiche non intervenivano con scavi sistematici, ma limitavano la loro attività, talvolta correlata all'ambiente antiquario, a una perlustrazione del territorio allo scopo di individuare siti archeologici (i quali, purtroppo, venivano puntualmente violati da scavi clandestini; ancora oggi tale pratica, pur arginata in Iran, rappresenta una situazione d'emergenza in Afghanistan). La formazione dei criteri metodologici della nuova disciplina, inoltre, è stata fortemente influenzata dall'impostazione storico-artistica prevalente. Ciononostante furono condotte importanti missioni scientifiche, quali quelle di F. Sarre ed E. Diez.
L'apporto di grandi studiosi orientalisti è stato fondamentale per restituire all'archeologia islamica dell'altopiano il proprio valore scientifico. L'opera che maggiormente ha contribuito in tal senso, offrendo un panorama completo delle ricerche scientifiche in Iran, è stato il monumentale A Survey of Persian Art from Prehistoric Times to the Present diretto da A.U. Pope, ai cui volumi, pubblicati negli anni Trenta, parteciparono molti dei più illustri studiosi contemporanei (Godard, Herzfeld, Monneret de Villard, Schmidt, Schroeder, Siroux, Smith, Wilber). Importanti riviste specializzate furono: Āthār-é Īrān (Service Archéologique de l'Iran, 1936-49, fondata da Godard), Archäologische Mitteilungen aus Iran (Berlin, 1929-37 e 1968-), Afghanistan (Kabul, 1946-), Iran (British Institute of Persian Studies, 1963), Cahiers de la Délégation Archéologique Française en Iran (1971-).
La prima spedizione archeologica mirata in Iran fu effettuata dal Metropolitan Museum di New York a Nishapur (v.) e diretta da W. Hauser e Ch.K. Wilkinson. Negli anni Trenta del Novecento la Joint Expedition to Persia diretta da E.F. Schmidt effettuò indagini a Rayy, mentre lo stesso Schmidt scavava anche a Istakhr con E. Herzfeld e produceva un'importante ricognizione aerea sui siti archeologici di tutto l'Iran. La missione archeologica della Délégation Archéologique Française en Iran (DAFI) a Susa (v.) fu uno dei primi casi in cui si sentì l'esigenza di affiancare agli studiosi dei periodi preislamici, che pur rappresentavano l'obiettivo primario della spedizione, specialisti dell'epoca islamica (M. Rosen-Ayalon). La missione del British Institute of Persian Studies nella città portuale di Siraf (iniziata nel 1966, v.) ha dato un apporto fondamentale alla conoscenza di una comunità urbana del IX-XI secolo e dei suoi rapporti commerciali marittimi con altri Paesi, fra cui la Cina.
In Afghanistan sono state poche le grandi spedizioni di scavo in siti di epoca islamica; nella maggior parte dei casi, infatti, gli strati islamici sono stati indagati allorché si sovrapponevano a strati di epoche precedenti. Le due più importanti missioni archeologiche mirate furono quelle della Délégation Archéologique Française en Afghanistan (DAFA) a Lashkari Bazar (1949 e 1951, v.) e quella italiana dell'IsMEO (oggi IsIAO, Istituto Italiano per l'Africa e l'Oriente) a Ghazni (1957-68, v.).
Le ricognizioni sul territorio allo scopo di individuare siti e monumenti sono state particolarmente intensificate nella seconda metà del XX secolo: fra queste le più significative sono forse le indagini estensive effettuate da W. Kleiss in tutto l'Iran a partire dalla fine degli anni Sessanta e quelle effettuate da K. Fischer nel Sistan afghano.
Un quadro complessivo dei risultati ottenuti dall'archeologia islamica sull'altopiano è delineabile anche attraverso le ricognizioni e le raccolte di superficie, ma soprattutto attraverso i dati emersi dagli scavi archeologici. Alcuni di questi dati sono stati forniti da ricerche mirate in siti di epoca islamica, altri da ricerche in siti di fondazione preislamica ‒ i primi e più massicciamente a essere stati indagati ‒ i cui strati superiori sono stati identificati in livelli occupazionali islamici. Le informazioni emerse dallo studio di queste indagini archeologiche hanno contribuito ad ampliare le conoscenze storico-archeologiche della cultura materiale e artistica.
Strumenti utili per comporre una mappa delle indagini archeologiche su questi territori (compresi i sopralluoghi e le indagini di superficie) sono, per l'Iran, le sintesi delle ricerche archeologiche (anche quelle pubblicate in lingua persiana) raccolte nella rivista Iran; per l'Afghanistan, le informazioni contenute nei Gazetteers di L.W. Adamec e di W. Ball.
L'attribuzione di alcuni siti all'epoca protoislamica piuttosto che tardosasanide ha sempre suscitato accesi dibattiti fra gli studiosi; ad esempio, per i complessi di Sarvistan (a est di Shiraz) si propende attualmente per una datazione al IX secolo. Nei due complessi palatini di Chal Tarkhan Ishqabad (presso Rayy), in cui l'aspetto più rilevante della decorazione architettonica in stucco è la raffigurazione di un episodio legato al re sasanide Bahram V, sono rintracciabili caratteristiche più probabilmente ascrivibili a età protoislamica.
Iran nord-occidentale: Azerbaigian iraniano - Indagini archeologiche effettuate negli anni Settanta a Bastam (alla confluenza dei confini turco e azerbaigiano), sulla fortezza di epoca urartea, hanno limitatamente interessato anche un insediamento fortificato di epoca medievale attribuito a una comunità cristiano-armena (IX-XIII/XIV sec.). I reperti (ceramica datata dal IX al XIII sec., monete armene, bizantine e islamiche) dimostrano una cultura materiale non dissimile da quella islamica coeva. A sud del lago di Urmia, gli scavi di Hasanlu hanno individuato un periodo islamico, definito "molto tardo" e "recente", i cui resti sono visibili in superficie sul tell. Una situazione simile si ha a Dinkha Tepe, rioccupato solo "nel periodo tardoislamico" (ibid.).
A Maragha, a sud-est del lago, indagini archeologiche effettuate negli anni 1972-76 (Vardjavand 2536/1977, 1979) hanno messo in luce un vasto complesso scientifico ‒ notevole la presenza di un osservatorio astronomico ‒ fatto costruire nel 1258 da Hülägü su richiesta dello studioso Nasir al-Din Tusi. Diverse le strutture architettoniche di pietra individuate: muri che fungevano verosimilmente da strumento per misurazioni; cinque ambienti a pianta circolare e uno a pianta quadrata; un edificio a pianta cruciforme (forse la biblioteca); una madrasa; una fonderia per gli strumenti di misurazione; un edificio con īwān centrale. La costruzione di maggior interesse è la torre rettangolare centrale dell'osservatorio, orientata secondo i punti cardinali: l'ingresso, a sud, introduceva nella lunga sala centrale dell'edificio, in cui era il supporto per il quadrante graduato murale di metallo.
Sultaniyya (277 km a nord/nord-ovest di Tehran) fu la nuova capitale fondata da Ülgiaytü (1307), che vi costruì un grande mausoleo. Scavi condotti nella zona orientale (Gandjavi 1979) hanno interessato alcuni ambienti interrati di epoca mongola, con volte di mattoni; sono stati individuati anche altri muri con alzato di mattoni e basamento di pietra, anche lavorata. Negli anni Novanta del Novecento, in seguito a nuovi sondaggi sulla cittadella, sono stati messi in luce un torrione, parte delle fortificazioni e un secondo ingresso a sud; all'interno sono stati identificati tracce di abitazioni presso il bazar e un cortile con quattro īwān di fronte all'ingresso principale a est del mausoleo.
Iran centrale - Negli anni Trenta del Novecento Schmidt ha diretto tre campagne di scavo nel sito di Rayy (ca. 20 km a sud di Tehran), ma solo negli anni Settanta E.J. Keall e R. Holod sono stati incaricati della pubblicazione definitiva degli scavi di Schmidt (Keall 1979). L'indagine archeologica ha interessato più aree: in particolare la cittadella (Keall ne propone una diversa identificazione d'uso domestico), la collina di Chashma Ali, il cosiddetto "quartiere del governatore", altri siti in diversi quartieri e tre delle numerose torri funerarie. La cittadella si trova su un colle a nord della città. Il sondaggio di scavo è stato effettuato alle spalle delle mura di cinta e delle torri situate sul crinale. Lo strato islamico più antico, datato da un tesoro di monete alla prima metà dell'XI secolo, comprende edifici domestici. Al di sotto delle mura difensive è stato individuato il livello postmongolo, che ha riportato una moneta dell'836 a.E. - 1432/3 d.C. e ceramica timuride e safavide. Il sondaggio a Chashma Ali ha individuato una fase architettonica principale buyide-selgiuchide; minori sono le evidenze omayyadi e abbasidi. Importante il rinvenimento di un tesoro comprendente 107 dīnār datati fra il 1116 e il 1161. A nord della collina gli scarti di lavorazione indicano un'area di produzione ceramica (molti i reperti di forma sferoconica). Il quartiere del governatore è sotto la cittadella, a est di Chashma Ali. In quest'area sono stati scavati parzialmente due edifici, entrambi di incerta attribuzione: una probabile moschea abbaside di tipo ipostilo (Keall segnala affinità con le case commerciali di Siraf, v.) e un secondo edificio con corte porticata e quattro īwān fiancheggiati da ambienti minori, forse identificata come madrasa. Una madrasa con pianta simile è stata scavata a Rayy dal Service Archéologique de l'Iran e datata all'inizio del XII secolo (Godard 1951). Sondaggi nel "centro selgiuchide" della città hanno riportato materiali databili dall'epoca omayyade a quella mongola. A sud di quest'area è stato condotto un ampio saggio archeologico che ha rivelato edifici domestici con magazzini a volta e seminterrati, oltre a numerose discariche che hanno restituito materiale medioislamico.
Sul limite della pianura è un'area comprendente numerose tombe e torri funerarie. Delle tre torri funerarie indagate la più elaborata è la Naqqara Khana, che presenta una cripta a volta al di sotto dell'ambiente principale. Le indagini riguardanti le zone funerarie sono state ampliate nei vecchi cimiteri superiore e inferiore negli anni 1976-77 alla ripresa degli scavi, diretti da Adle (1990), che hanno messo in evidenza tombe semplici, torri a base circolare o a frazione di cerchio, costruzioni rettangolari, altre più complesse e parte del terzo muro di cinta di Rayy. Altre indagini sono state effettuate sulle mura della città per delimitare la zona urbana. La prima muraglia, comprendente la cittadella, doveva circondare l'area amministrativa e militare della città; la seconda, oggetto di due sondaggi, è costruita con file sovrapposte di pisé e di mattoni crudi ed è databile al IX o X secolo; ha restituito ceramica datata fino all'XI secolo. Al di sotto della terza cerchia, in pisé con inserimento di mattoni crudi e cotti, databile all'XI secolo (vi è stata rinvenuta ceramica "a macchie" del IX-X sec.), sono stati individuati due scheletri; le fondazioni si erigono su una costruzione più antica.
Qala Gabri, a sud di Rayy, è un vasto recinto preislamico di mattoni crudi in cui sono stati effettuati sondaggi da Schmidt (Keall 1979) e, recentemente, da archeologi iraniani (Kowsari 1374/1996): l'area è risultata esterna alla città e ha restituito, da scarichi e ambienti sotterranei, materiale protoislamico (fra cui ceramica "a macchie" e vetro).
Nel 1966, nel mettere alla luce le fondamenta della Moschea del Venerdì di Varamin (ca. 100 km a sud/sud-est di Tehran), risalente agli inizi del XIII secolo, gli archeologi iraniani hanno rilevato l'esistenza di una doppia navata nel lato ovest (forse un edificio antecedente; Kleiss 1995-96). Indagini effettuate nella cittadella islamica di Puinak, nei pressi di Varamin, hanno rilevato ceramica del X-XIII secolo: invetriata verde oliva e "a macchie" buyide, Fritware selgiuchide (anche a lustro) e fornaci per la produzione ceramica (Shahmirzadi 1376/1997; Chubak 1376/1997).
A Kashan (a circa mezza strada fra Tehran e Isfahan), il rinvenimento di fornaci e di oltre 60 scarti di produzione di ceramica invetriata turchese (Pope 1938-39, p. 1567) rappresenta una conferma archeologica di questa produzione in epoca selgiuchide, ben nota dalle fonti.
Iran sud-occidentale: Kurdistan, Luristan, Khuzistan - Lo scavo di Hamadan (a ovest/sud-ovest di Tehran) ha rivelato una struttura urbana regolare, indubbiamente pianificata, ma di incerta datazione. Il materiale rinvenuto va dall'epoca meda a quella islamica (Sarraf 1374/1996a, b). Nelle vicinanze di Hamadan il cimitero islamico di Sang-i Shir, probabilmente datato al X-XI secolo, ha rivelato ceramica graffita e una moneta forse del X secolo; esso si impianta negli strati sottostanti, contenenti una necropoli preislamica (Azarnoush 1979).
Kangavar (a sud-ovest di Hamadan), in una delle valli degli Zagros occidentali, è un sito che presenta testimonianze principalmente di epoca partica e sasanide, indagato dal 1968 (Azarnoush 1981; Kambakhsh-Fard 1373/1995-96). L'insediamento è stato scavato da Kambakhsh-Fard, che propone una sequenza cronologica che va dall'epoca partica e sasanide (le cui testimonianze non pertengono a strati differenziati) a quella islamica. La sequenza islamica comprende ceramica e monete del IX-XI secolo, un ampio insediamento selgiuchide (XII-XIII sec.) composto di case, un bagno (?) e un sistema di approvvigionamento idrico e di scarico fognario, resti di epoca ilkhanide, evidenze risalenti ai periodi safavide e Qagiar (XVI-XIX sec.). A nord-ovest del sito sono un imāmzāda e una moschea di epoca ilkhanide e safavide; la rimozione di edifici in quest'area ha rivelato una fase più antica della moschea, forse selgiuchide, a conferma di quanto attestato nelle fonti. Godin Tepe (12 km a sud-est di Kangavar) è un sito preistorico in cui è stato individuato uno strato islamico (Schippmann 1972).
Nell'alto Khuzistan presso Susa (v.), due dei numerosi tell sono risultati essere siti cimiteriali islamici. Tepe Giaffarabad è un tell pressoché circolare; gli scavi del 1969-71, anticipati da sondaggi di de Mecquenem (1930) e di Le Breton (1934), hanno individuato, al di sotto di una piattaforma rettangolare di epoca recente (con ceramica datata dal IV millennio a.C. al XIII sec. d.C.), 86 tombe islamiche. Le sepolture sono generalmente orientate est-ovest, spesso con una lastra verticale sul lato nord e rivestite con mattoni cotti; pochi i reperti recuperati, fra cui perline e braccialetti di vetro, anelli metallici e una coppia di orecchini (Dollfus 1971). Le 31 tombe portate alla luce a Tepe Bandabad, invece, non presentano alcuna struttura precostruita; figurano tra i reperti frammenti di braccialetti di vetro e di metallo e tre anelli (Dollfus 1983).
I tell che caratterizzano il sito della città reale sasanide di Giundi Shahpur, a nord di Susa, presentano in superficie abbondanti resti ceramici ‒ anche di epoca abbaside ‒, come nei sondaggi effettuati a Tabl Khana (rari i frammenti dell'XI sec.) e sulla piana e sulla collina di Kashk-i Bozi (forse una piattaforma artificiale). Lo scavo sulla Qala-i Khan ha messo in luce evidenze di epoca protoislamica, come i mattoni (di periodo tardoabbaside) e la ceramica. La costruzione, di mattoni crudi con uso selettivo dei cotti, presenta una pianta rettangolare con diversi cortili ‒ uno dei quali con vasca quadrata ‒ separati da ambienti (Adams - Hansen 1968).
Nel sito di Darra Shahr, a nord di Susa, sono stati effettuati scavi recenti nel sito di 60 ha, che presenta testimonianze di strutture di pietra. In un'area elevata, posta a ovest, sono stati portati alla luce edifici a pianta quadrata (probabilmente distrutti da un terremoto) comprendenti una fila di ambienti rettangolari con soffitto a botte, aperti su quello che era probabilmente un cortile centrale; il materiale rinvenuto (ceramica e metalli) ha permesso una datazione al VII-IX secolo (Lakpur 1376/1997).
Iran nord-orientale: Gurgan, Khurasan - Negli anni Trenta del Novecento Schmidt effettuò alcuni sondaggi sulla cittadella di Damghan (361 km a est di Teheran, nel Gurgan), nelle rovine della moschea di Tarikh Khana e nel sito contiguo di Tepe Muman (Schmidt 1937). Gli scavi fecero escludere per tutti i siti l'esistenza di livelli occupazionali preislamici. Sulla cittadella sono state rinvenute monete (una del XIII sec., altre datate tra il XV e il XIX sec.) e coppe di ceramica invetriata (successive al XV sec.); a Tepe Muman furono trovate una moneta del XV secolo e alcune coppe di ceramica invetriata.
Gli scavi iraniani degli anni Settanta a Gurgan (a nord di Damghan, presso il Mar Caspio; Kiani 1984) hanno individuato quattro strade dell'impianto urbanistico, con mattoni di taglio che formano motivi geometrici. Gli edifici più rilevanti rinvenuti sono: una moschea con pianta a quattro īwān (non terminata, degli inizi del XIII sec.); un edificio a corte centrale del IX-X secolo (ricostruito quale ḥammām in età selgiuchide e riutilizzato in epoca ilkhanide come abitazione); numerose fornaci (una per i mattoni, cinque per la ceramica, due per il metallo e due per il vetro). La città, dotata di un elaborato sistema idrico e fognario, era un importante centro di produzione ceramica (i reperti comprendono tutti i principali tipi ceramici dal IX sec. all'età selgiuchide e postmongola).
Ribat-i Sharif era un caravanserraglio selgiuchide sulla strada tra Nishapur (v.) e Merv (v. in L'Asia islamica. Asia Centrale), dove lavori di scavo e di restauro sono stati condotti dall'Organizzazione Nazionale Iraniana per la Conservazione dei Monumenti Storici (Kiani 1981). L'edificio venne costruito probabilmente da Sharaf al-Din Ibn Tahir, governatore del Khurasan per quarant'anni e in seguito ministro del selgiuchide Sangiar. Un'iscrizione (datata al 549 a.E. / 1154/5 d.C.) fa il nome di quest'ultimo, ma è da riferire ai primi lavori di restauro effettuati dopo la costruzione. L'edificio comprende due corti, ciascuna con quattro īwān; a sud-est l'ingresso conduce a un vestibolo. All'interno si trovavano anche due moschee, una con un miḥrāb, l'altra con due, decorati in stucco; completavano la struttura stalle, cucine, latrine, un mulino e una cisterna. La decorazione architettonica era di mattoni intagliati e stucco. Lungo le mura esterne stavano sei torrioni con diverse piante (pentagonale, semicircolare con annessa struttura triangolare aggettante, a trifoglio). I reperti comprendono 17 documenti scritti safavidi, una scatola di legno laccato (XI o XII sec.), 57 oggetti di metallo (XI-XIV sec.), ceramica (X-XIII sec.), vetro (XII sec.) e monete selgiuchidi (XI sec.).
Iran meridionale: Fars, Kirman, Baluchistan - Gli scavi francesi a Bishapur (a est di Shiraz), diretti da G. Ghirshman (1937-41), avevano come interesse principale i periodi preislamici. Nel periodo omayyade l'edificio sasanide D è stato modificato e riutilizzato; la decorazione in stucco anticipa, secondo Ghirshman, quella di Samarra (altri edifici islamici sono stati individuati; Keall 1990). In un ambiente è stata rinvenuta una giara invetriata blu con decorazione alla barbotina (del tipo "sasano-islamico") contenente 15 oggetti interi (vetri, ceramiche a lustro metallico, bronzi), probabilmente sotterrata prima dell'arrivo dei Mongoli (Ghirshman 1938; Salles 1939; Keall 1990). Dal 1968 sono stati effettuati scavi nella zona nord della cinta muraria sasanide, diretti da A.A. Sarfaraz, che hanno evidenziato, al di sopra dei livelli sasanidi, edifici attribuiti a tre periodi occupazionali islamici (dall'VIII-IX al XIII sec.): gli esemplari meglio preservati risalgono al tardo XI - inizi XII secolo (Sarfaraz 1970; Yasi 1971).
Le rovine di Istakhr (non lontano da Shiraz, v.) sono state scavate negli anni Trenta del Novecento da E. Herzfeld e E.F. Schmidt, ma solo negli anni Settanta D. Whitcomb è stato incaricato di pubblicare lo scavo (Whitcomb 1979). La prima città islamica, a est di quella sasanide, ha una struttura quadrata (ca. 400 m di lato) e segue l'orientamento della grande moschea; le mura a sud disponevano di torrioni semicircolari. Il quadrante a sud-ovest conteneva la moschea, il bazar e il palazzo, mentre gli altri tre avevano funzioni residenziali. La moschea è da ritenere tra le più antiche dell'Iran: venne edificata forse sotto il governatore Ziyad ibn Abihi (659-662) utilizzando colonne achemenidi. Whitcomb ritiene che si tratti di materiale di spoglio, rigettando l'ipotesi di Herzfeld secondo cui il santuario preislamico era stato incorporato nella moschea. Le mura sud erano probabilmente munite di torrioni, come riportato da Flandin e Coste, sebbene gli scavi non sembrano aver portato alla luce tale evidenza. La nicchia del miḥrāb presenta una decorazione floreale dipinta e in stucco. Accanto alla moschea era il bazar, mentre a ovest della stessa si trovava il palazzo (oggi sotto il moderno qal῾a Takht-i Tavus). La città si sviluppò anche al di fuori della griglia urbana, ma in maniera più libera e organica; gli scavi hanno dimostrato che tale sviluppo avvenne sopra livelli di epoca sasanide (la ceramica islamica rinvenuta è associata a una fornace). Successivamente, nel corso dei secoli IX e X Istakhr fu un prospero centro urbano. In un sondaggio effettuato a nord della moschea è stata individuata una fila di botteghe del bazar; alle spalle di queste sono state portate alla luce tre abitazioni di un complesso residenziale che presentano una pianta simile, con uno stretto ingresso con contrafforti rettangolari e ambienti che si aprono su una corte centrale; la pavimentazione è sia di mattoni cotti sia di pietra.
Di particolare interesse è l'analisi dell'ambito regionale in cui Istakhr è inserita e dell'interazione fra questo e la città, effettuata tramite lo studio comparato del sito urbano scavato e del territorio del Marvdasht oggetto di ricognizioni. Nel periodo protoislamico (tra l'800 e il 1150) la maggior prosperità della città determinò una concentrazione dei lavori di irrigazione nella pianura, avvantaggiando notevolmente la produzione agricola (principalmente lino per l'industria tessile e riso). Nello stesso periodo si colloca la costruzione della grande diga a Bandamir, voluta dal buyide Adud al-Dawla nel 900 circa. Fra il 1150 e il 1500 Istakhr perse la propria importanza a favore di Shiraz ‒ che da centro urbano si era sviluppato in vera e propria metropoli ‒ riducendosi a poco più di un villaggio di un centinaio di abitanti; contemporaneamente si espandeva il nomadismo pastorale, aumentava la militarizzazione dello Stato e del territorio e conseguentemente accresceva l'instabilità dell'economia industriale e commerciale.
Il porto di Harira, nell'isola di Kish, si è sviluppato dall'XI al XVI secolo lungo le rotte del Golfo. Gli scavi, cominciati nel 1991-92, hanno interessato un complesso industriale, un grande edificio residenziale e un ḥammām del XII-XIII secolo; sono stati rinvenuti anche resti di una macina per datteri (madbasa). La ceramica è di produzione locale, simile a quella di Sirgian (v.) e Siraf (v.), ma vi sono anche importazioni di graffita, céladon e porcellana bianca e blu estremo-orientale (Mūsavī 1376/1997).
A. Williamson ha condotto campagne di scavo presso Tepe Dashti Deh (regione del Kirman) tra il 1970 e il 1971 (Williamson 1971; 1972). Il sito consiste di una vasta area con abbondante ceramica islamica e di un colle centrale squadrato dove è stato effettuato il sondaggio. In superficie è stata individuata una concentrazione di scarti di produzione ferrosi. A sud-est dello scavo resti di mura e di colonne in pietrame sono stati attribuiti a una moschea con sette navate in lunghezza e tre in larghezza, la cui pianta suggerisce una datazione omayyade o protoabbaside; a est sono evidenze di una corte probabilmente porticata. I primi segni di utilizzo del sito sono alcune inumazioni islamiche. In una seconda fase si colloca un edificio databile al XIII secolo: si tratta di una residenza fortificata la cui struttura difensiva esterna è costituita da due muri in pisé riempiti nell'intercapedine con pietre e ghiaia. Il secondo piano della residenza, oggi crollato, era di uso domestico; all'esterno un glacis declinava verso un fossato. Tra i reperti ceramici (Fritware monocroma o a lustro; graffita) è stato rinvenuto anche uno stampo per la manifattura di ceramica non invetriata. Una costruzione minore a scopo domestico, di cui sono stati portati alla luce un cortile e tre ambienti che riutilizzano le mura esterne precedenti, è ascrivibile a una terza fase. I reperti, databili intorno al XIV secolo, fanno ipotizzare un rapido abbandono del sito: si tratta di ceramica (77 esemplari integri e frammenti di Fritware di imitazione céladon, dipinta sotto invetriatura tipo Sultanabad, tre giare non invetriate dipinte; frammenti di céladon), oggetti di bronzo, ferro, osso, steatite.
Gli scavi a Bampur (nel Baluchistan) hanno interessato anche la cittadella di epoca afsharide, posta su un terrazzamento ampio circa 600 × 600 m e alto 4-7 m, individuando una seconda piattaforma appartenente a una fase costruttiva precedente (forse selgiuchide) e, al di sotto di questa, tracce di una terza piattaforma. La sequenza dei reperti rivela un'occupazione pressoché continua dall'epoca selgiuchide all'epoca Qagiar. Negli ultimi tre secoli, tuttavia, l'utilizzo cimiteriale ha disturbato sia gli strati islamici che quelli protostorici (Sajjadi 2004).
La cultura materiale delle popolazioni islamizzate sembra essersi modificata più lentamente rispetto alle altre regioni conquistate dall'Islam (ad es., a Balkh la popolazione continuò a far uso della stessa ceramica prodotta nel periodo sasanide fino al IX sec.), mentre non dovevano mancare gli scambi economici. Si inseriscono in questo contesto i ritrovamenti di monete islamiche in alcuni siti buddhisti: si pensi, in particolare, al tesoro di monete arabo-sasanidi rinvenuto in una nicchia nel monastero di Fondukistan o a quello di monete ghaznavidi e ghuridi del monastero di Begram.
Afghanistan centro-occidentale: Khurasan, Ghur - Sondaggi eseguiti a Herat hanno interessato principalmente la cittadella in mattoni cotti del XV secolo, situata su un'altura e originariamente protetta da un glacis (Ball 1982).
Nelle valli del Ghur (a ovest di Kabul e del fiume Hilmand), probabile sito della capitale ghuride Firuzkuh, si trova il minareto di Giam (ca. 1194), alto 63 m, costruito con mattoni cotti e con ornati in cotto e mattonelle invetriate. Le prime indagini archeologiche sono state compiute nel 2003 (IsIAO; Thomas - Pastori - Cucco 2004): i sondaggi, effettuati sulla riva sud del Hari Rud, a est del minareto, hanno individuato porzioni di due pavimenti in cotto (uno dei quali in mattoni di taglio a spina di pesce), forse pertinenti a una moschea o a una madrasa associata al minareto. Tra i reperti figurano ceramica, metalli, frammenti di stucco e due monete, una delle quali reca la data 497 a.E. / 1103/4 d.C. o 499 a.E. / 1105/6.
Afghanistan meridionale: Sistan, Zabulistan - Alcuni sondaggi nella provincia di Nimruz hanno approfondito sopralluoghi di superficie nei due vasti siti urbani fortificati, comprendenti palazzi, edifici domestici, bazar e moschee, di Chighini e Sar-u Tar. A Chighini (XI-XIV sec.) è stato indagato un canale di irrigazione (Fischer Morgenstern - Thewalt 1974-76), mentre dalla moschea di Sar-u Tar (IX-XVI sec.) proviene un tesoro di monete di rame del 1167-1221 (Hackin 1959; Trousdale 1976).
A Kandahar (a sud-sud-ovest di Ghazni) sono stati compiuti diversi scavi archeologici negli anni 1974 (Whitehouse), 1975 (McNicoll) e 1976-78 (Helms). Le testimonianze di epoca islamica sono risultate particolarmente interessanti per quanto riguarda gli usi funerari (McNicoll - Ball 1996, Helms 1997). Nel sito cimiteriale a sud di Shahr-i Kuhna (la città antica di Kandahar), costituito da circa 400 tumuli di forma generalmente circolare e talvolta squadrata, sono stati condotti sondaggi (siti A, B) che hanno messo in evidenza due costruzioni funerarie caratterizzate da piattaforme ‒ una ottagonale e una quadrata ‒ che sormontano le sepolture, rivestite con volte di mattoni crudi. L'orientamento degli scheletri e l'assenza di corredo funerario datano i tumuli a epoca islamica (XII sec. in base alla ceramica). La pecularietà di tali strutture, accostabili alle tradizioni funerarie nomadiche dell'Asia Centrale, deve essere probabilmente ricercata in retaggi preislamici sopravvissuti all'islamizzazione. Le tombe più tarde (1300-1500 ca.), scavate in un secondo cimitero di epoca islamica (sito G), presentano un'inumazione senza alcuna struttura soprastante, semplificata rispetto al periodo precedente. L'età tardoislamica (successiva al 1500) è ben rappresentata dalle evidenze archeologiche in tutti i sondaggi effettuati: l'antico sistema difensivo a est fu rimaneggiato e sono state identificate strutture nei siti E (un edificio rettangolare), F (costruzioni che modificano l'allineamento delle epoche precedenti), H (un edificio domestico in pisé) e, soprattutto, D. In quest'area elevata a sud-est del sito misurante 50 × 50 m, infatti, è stato identificato un ḥammām di epoca tardoislamica che i reperti datano al XVII secolo.
Alla confluenza dei fiumi Arghandab e Dori, 24 km a ovest di Kandahar, si trova il sito di Shamshir Ghar: nella parete rocciosa sul versante sud dell'Arghandab una grotta naturale, al cui interno non si hanno evidenze architettoniche (Dupree 1956), ha riportato materiali interessanti; nei depositi riferibili al periodo islamico (867-1222) i sondaggi hanno rilevato ceramica, metallo, vetro e monete (VIII-XI sec.).
Afghanistan centro-settentrionale: Guzgan - Balkh, presso il confine settentrionale con l'Uzbekistan, è un ampio sito urbano (11 km2) circondato da mura in cui sono stati compiuti scavi archeologici dalla Délégation Archéologique Française en Afghanistan (1947-48 e 1955-56; Gardin 1957; Le Berre - Schlumberger 1964; per altri scavi: Matson 1957). Le indagini, mirate principalmente ai periodi preislamici, hanno individuato anche uno sviluppo della città in epoca islamica: la ceramica rinvenuta indica una crescita in età ghaznavide, ripresa poi solo in epoca timuride. Del periodo islamico più antico (IX-XII sec.) si hanno evidenze ceramiche a Tepe Zargaran (all'interno della cinta muraria) e in altri sondaggi. La cinta muraria preislamica II (rinnovata in epoca abbaside), costruita con mattoni di grandi dimensioni, era munita di torri squadrate e glacis; inglobava la città bassa a sud-est di quella alta fortificata (Bala Hisar), corrispondente forse all'area urbana islamica più antica, che venne devastata dai Mongoli. In epoca timuride fu spostata (con l'eccezione del Tepe Zargaran) a sud-ovest di Bala Hisar, come dimostrano gli scavi delle mura con torrioni semicircolari in crudo. Le due diverse fasi costruttive nelle fortificazioni del Bala Hisar e la ceramica bianca e blu indicano che la città alta, di fondazione preislamica, è rimasta abbandonata fino al XV secolo, epoca di costruzione del muro timuride in cotto, con contrafforti o torrioni semicircolari in crudo.
Hazar Sum (provincia di Samangan) è una piana circondata da wādī e pareti rocciose con oltre 200 grotte artificiali; l'area, di circa 350.000 m2, comprende oltre 40 piccoli tell, testimonianza di edifici costruiti nel periodo protoislamico (come documenta la ceramica in superficie); nelle aree scavate è attestato il riutilizzo delle strutture più antiche e delle grotte. L'abbandono coincise forse con la distruzione delle canalizzazioni da parte dei Mongoli (Puglisi 1963).
Nel sito di Bamiyan (a nord di Kabul), conquistato dai Ghaznavidi solo nell'XI secolo, sono stati effettuati nel 1933 degli scavi in una zona a est della statua del Buddha di 35 m. In particolare, un sondaggio nella grotta G.1 ne ha dimostrato l'occupazione in epoca islamica; ceramica islamica analoga inoltre è stata rinvenuta in altri sondaggi del 1930 nella cittadella di Shahr-i Ghulghula, sul versante opposto della vallata (Hackin 1959).
Storia. Fonti:
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Lett. moderna:
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Storia degli scavi:
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di Roberta Giunta
Sito dell'Afghanistan meridionale, presso la strada Herat - Kandahar, alla confluenza dei fiumi Hilmand e Arghandab, a sud del complesso di Lashkari Bazar.
B. ‒ la cui più antica menzione figura nelle Mansiones Parthicae di Isidoro di Sharak/Charax (seconda metà del I sec. d.C.) ‒ fu conquistata dai musulmani nei primissimi anni del califfato omayyade (661-750). Verso la metà del IX secolo fu inglobata nei possedimenti dei Saffaridi (861-1003): nel 905 Tahir (900-909) vi costruì una residenza. Nel 910 fu conquistata dai Samanidi (819-1005) e, nel 977, passò nelle mani dei Ghaznavidi (977-1186) che sconfissero il governatore locale, il ġūlam (lett. "schiavo") turco Baytuz, di cui gli scavi hanno restituito una moneta di bronzo (359 a.E. / 969/70 d.C.), la più antica moneta islamica rinvenuta nell'intera area. I Ghuridi causarono, intorno al 1150, la distruzione di B. e del complesso di Lashkari Bazar i cui palazzi furono successivamente restaurati e rioccupati. B. fu definitivamente abbandonata alla fine del XIV secolo; la cittadella fu utilizzata finché il safavide Nadir Shah Afshar (1736-1748) la distrusse nel 1738.
I sondaggi, effettuati soprattutto nella zona occidentale (nel corso degli scavi a Lashkari Bazar della Délégation Archéologique Française en Afghanistan diretti da D. Schlumberger, 1949-51), hanno fornito alcune informazioni sulla città di cui, sin dalla seconda metà del XIX secolo, erano noti solo l'imponente cittadella e un arco monumentale.
L'antica B. è delimitata da un muro di cinta protetto da un fossato. All'interno è suddivisa in due zone, una a sud e una a nord, separate da un secondo muro di cinta interno, ugualmente con fossato. Nella zona meridionale si eleva la cittadella (qal῾a-i Bust) occupata, a ovest, da un tepe alto circa 20 m con i resti di una fortezza pressoché quadrata, il cui nucleo più antico sembra precedente all'epoca partica. La maggior parte delle strutture in cotto e in crudo datano al periodo ghaznavide e ghuride; le rovine di un pozzo, sulla parte più alta, vengono datate invece all'epoca timuride (1370-1507) e testimoniano dell'impegno dimostrato da questa dinastia per lo sviluppo agricolo dell'area. A nord-est della cittadella, all'interno del muro di cinta, s'innalza un arco monumentale in cotto scolpito quasi sicuramente di epoca ghuride, riccamente decorato e con un'iscrizione cufica in arabo che conteneva un testo di costruzione la cui data non è più leggibile. A lungo ritenuto l'arco di testa dell'īwān di una grande moschea, era forse un arco cerimoniale che precedeva l'entrata principale della cittadella sul lato orientale (Allen 1988). Il secondo ingresso a ovest, accanto a una torre circolare, era riservato molto probabilmente alle forze militari.
La città propriamente detta si sviluppa nella zona settentrionale, su una superficie quasi doppia rispetto alla cittadella; l'approvvigionamento idrico era garantito da un sistema di canali che convogliavano le acque del Hilmand. Non è mai stata trovata traccia della Grande Moschea (ǧāmi῾) che, secondo al-Muqaddasi (pp. 304-305), alla fine del X secolo si trovava all'interno della città (madīna). Sulla base delle sue prospezioni, T. Allen (1988) avanza l'ipotesi che sorgesse in prossimità dell'ingresso orientale in un luogo in cui un tumulo abbastanza regolare è orientato verso Mecca. Come a Lashkari Bazar la maggior parte dei ritrovamenti consiste in monete e ceramica invetriata e non invetriata.
Lungo il fiume Hilmand, in prossimità di B., sono state parzialmente scavate alcune dimore che rappresentano esempi di un'importante architettura islamica non palatina premongola. Da strutture vicine provengono numerosi frammenti di pannelli in cotto con decorazione soprattutto epigrafica, di epoca ghaznavide.
Bibliografia
al-Muqaddasī, Aḥsan al-taqāsīm fī ma῾rifat al-aqālim (ed. M.J. de Goeje), Leiden 19062; O. von Niedermayer - E. Diez, Afganistan, Leipzig 1924; E. Schroeder, Islamic Architecture. F. Seljūq Period, in A.U. Pope - Ph. Ackerman (edd.), A Survey of Persian Art from Prehistoric Times to the Present, Oxford 1938-39, pp. 981-1045; J. Sourdel-Thomine, Stèles arabes de Bust (Afghanistan), in Arabica, 3 (1956), pp. 285-306; J. Sourdel-Thomine, s.v. Bust, in EIslam2, I, 1960, pp. 1384-85; J.-C. Gardin, Lashkari Bazar, II. Les trouvailles. Céramique et monnaies de Lashkari Bazar et de Bust, Paris 1963; H. Crane - W. Trousdale, Helmand-Sistan Project. Carved Decorative and Inscribed Bricks from Bust, in EastWest, 22 (1972), pp. 215-26; E. Knobloch, Beyond the Oxus. Archaeology, Art & Architecture of Central Asia, London 1972; F.R. Allchin - N. Hammond (edd.), The Archaeology of Afghanistan from Earliest Times to the Timurid Period, London - New York - San Francisco 1978; D. Schlumberger - J. Sourdel-Thomine, Lashkari Bazar. Une résidence royale ghaznévide et ghoride. 1A. L'architecture. 1B. Le décor non figuratif et les inscriptions, Paris 1978; T. Allen, Notes on Bust, in Iran, 26 (1988), pp. 55-68; 27 (1989), pp. 55-66.
di Roberta Giunta
Città situata nella zona orientale dell'altopiano dell'Afghanistan centrale, circa 140 km a sud-ovest di Kabul, sulla strada Kabul - Kandahar, ai piedi della parte terminale di una catena di montagne lungo il corso dell'Arghandab.
All'inizio della seconda metà del IX secolo la città fu saccheggiata dal saffaride Yaqub b. Layth e in seguito ricostruita dal fratello di questi, Amr b. Layth. Alptigin, generale turco dei Samanidi (819-1005), arrivò a Gh. nel 962 e fondò un piccolo Stato indipendente che passò nelle mani di Sebüktigin (977-997), fondatore della dinastia ghaznavide (977-1186), che ne ampliò i confini. Sotto Mahmud (998-1030) Gh. divenne una delle città più prospere dell'Asia, capitale di un regno i cui confini si estendevano dall'Iran alle regioni dell'India nord-occidentale. I Ghuridi (inizi XI sec. - 1215) misero a sacco la città nel 1150/1, se ne impadronirono nel 1163 e, sotto Muhammad b. Sam (1173-1203), le riconferirono il ruolo di capitale. Con l'arrivo delle orde mongole nel 1221, Gh. perse per sempre la sua antica egemonia.
Alla fine del X secolo al-Muqaddasi (pp. 296, 304) precisa che la città era scarsamente estesa, formata da una cittadella (che ospitava una Grande Moschea e il palazzo del sovrano) e da un vasto quartiere nel quale erano concentrati i mercati e le abitazioni. All'inizio dell'XI secolo al-Utbi riferisce che Mahmud, nel 1019, ordinò la costruzione di una Grande Moschea nota come la Sposa del Cielo (῾arūs al-falak) che sostituiva una moschea più antica, opera probabilmente del saffaride Amr b. Layth; a questo edificio il sovrano fece aggiungere una madrasa con una ricca biblioteca. Nell'XI secolo al-Bayhaqi (pp. 271, 356, 499) attesta che Mahmud ordinò la costruzione della propria residenza in una località chiamata Afghan Shal e che suo figlio Masud I (1031-1040) tracciò di propria mano il progetto del palazzo, la cui costruzione durò quattro anni. Tuttavia nessuno degli edifici menzionati nelle fonti storiche è stato sinora rintracciato. Fino alla metà degli anni Cinquanta del Novecento gli unici monumenti ghaznavidi noti a Gh. erano i minareti in cotto scolpito costruiti per volere dei ghaznavidi Masud III (1099-1115) e Bahram Shah (1117-1157), i monumenti funerari in marmo eretti per Sebüktigin e per Mahmud, un elemento tombale, anch'esso in marmo ‒ appartenente con ogni probabilità alla tomba di Masud I ma reimpiegato come coronamento di un monumento funebre più tardo ‒ e alcune lastre, sempre in marmo, rilevate dalla Délégation Archéologique Française e pubblicate nel 1925 da S. Flury.
Dopo un primo sopralluogo di A. Bombaci nel 1956, la Missione Archeologica Italiana in Afghanistan dell'IsMEO (oggi IsIAO), diretta negli anni da A. Bombaci, U. Scerrato e D. Adamesteanu, ha condotto cinque campagne di scavo e numerosi sopralluoghi nelle aree cimiteriali intorno alla città (1957-64). Nel 1966 furono portati a termine i lavori di restauro, protezione e consolidamento delle strutture emerse nel corso degli scavi e fu allestito un Museo Islamico nel villaggio di Rawza, all'interno del mausoleo di Abd al-Razzaq, poco distante da quello di Mahmud il Ghaznavide. Lo scavo principale fu effettuato nella piana del Dasht-i Manara, nella parte orientale dell'antico nucleo urbano di Gh., tra la cittadella e Rawza, circa 300 m a est del minareto di Masud III, presso il tardo mausoleo a cupola noto come ziyāra Sultan Ibrahim, o Sultan Halqum (in una nicchia al suo interno fu rinvenuta la parte superiore di un arco con un'iscrizione in arabo a nome di Masud III). I resti dell'edificio portato a vista in quest'area corrispondono a quelli del palazzo reale di Masud III, con evidenti tracce di più fasi di costruzione e forse in rovina già all'inizio del XIII secolo. Terremoti e scavi clandestini hanno contribuito alla distruzione di numerose parti del palazzo e dell'intera zona orientale, completamente scomparsa. Le principali strutture originarie poggiavano su robuste fondazioni in pietrame di scisto misto a blocchi di pietra di media grandezza, sulle quali si impostavano muri di mattoni crudi di grandi dimensioni e ben squadrati, in gran parte intonacati con calce. Il cotto era impiegato solo nei punti di maggiore impegno statico. Nessun elemento della copertura originaria era rimasto in situ, ma è probabile che la maggior parte degli ambienti fosse coperta con volte.
La pianta è quadrangolare (ca. 100 m di lato) ma asimmetrica a causa dell'adattamento a una precedente situazione topografica. L'orientamento del muro meridionale del palazzo fu condizionato dalla presenza del muro settentrionale di un ampio recinto rettangolare annesso a un secondo recinto rettangolare di estesissime dimensioni. Entrambi i recinti, facilmente individuabili in una foto aerea (Scerrato 1959, figg. 16-17), corrispondevano con ogni probabilità a un nucleo urbano o a un accampamento militare di epoca preislamica. Il muro di cinta del palazzo era provvisto di torri angolari con pianta a tre quarti di cerchio; un bastione semicircolare di mattoni crudi era al centro del muro meridionale. Un bazar con una serie di botteghe su un'unica fila fronteggiava l'unico ingresso del palazzo, nel muro settentrionale, prospiciente una delle due strade antiche che attraversavano la città in direzione est-ovest. Il palazzo si articolava intorno a una grande corte centrale rettangolare (50,6 × 31,9 m) su cui si aprivano assialmente quattro īwān. La corte era pavimentata con lastre di marmo di diverse dimensioni e circondata sui lati da una pedana (alt. 15 cm, largh. 4,5 m) sulla quale si aprivano una trentina di nicchie con una zoccolatura di circa 510 lastre rettangolari di marmo scolpito in bassorilievo, di cui solo 44 rinvenute in situ. L'iscrizione in cufico sulla parte superiore di ognuna di esse contiene un poema in versi a gloria dei regnanti ghaznavidi e costituisce una delle prime testimonianze dell'uso del persiano nell'epigrafia monumentale islamica. Nel corso della terza campagna (1960) nell'angolo sud-ovest della corte fu rinvenuto un sepolcreto di modeste dimensioni (13 × 16 m), risalente a un periodo successivo, delimitato da un muretto di materiali di reimpiego; le tombe, orientate nord-sud, erano definite da mattoni e frammenti di lastre di marmo del palazzo.
L'ala settentrionale del palazzo era sopraelevata di circa 1,2 m rispetto a quella meridionale. Della facciata principale rimanevano solo scarse porzioni ma la grande quantità di frammenti di cotto e di stucco di elegante fattura, rinvenuta all'esterno nell'area nord-occidentale, testimonia della ricca decorazione originaria. L'ingresso conduceva a un vestibolo che consentiva l'accesso all'īwān nord attraverso un passaggio tra due massicci pilastri quadrati ornati con pannelli di cotto e stucco con ornati geometrici. All'interno di quest'area, solo parzialmente scavata, furono trovati numerosi frammenti architettonici di marmo e di cotto nonché una statua frammentaria in marmo di Brahma (alt. 98 cm) con il volto completamente corroso, forse parte del ricchissimo bottino recuperato da Mahmud durante la spedizione a Somnath, riutilizzata come soglia dell'ingresso. A ovest di quest'ultimo un'ampia sala quadrata pavimentata con mattoni cotti era provvista di quattro massicci pilastri privi di fondazione; nell'angolo sud-est fu rilevato un piano di lavorazione per la realizzazione fuori opera dei pannelli architettonici, ben spianato e in mattoni, rivestito di malta di gesso, su cui erano tracciati gli intrecci geometrici da riprodurre. Uno stretto passaggio sul lato settentrionale della sala permetteva l'accesso a una moschea ipostila ‒ fuori asse rispetto alla corte ‒ pavimentata con grandi mattoni in cotto, con evidenti tracce di un incendio. L'ambiente, rettangolare, era diviso in cinque navate da due file di colonne lignee, di cui al momento del ritrovamento restavano le sole basi di marmo scolpito con ornati vegetali, a forma di piramide tronca. La navata centrale era più larga delle laterali; il miḥrāb era formato da una nicchia scalare molto profonda, a pianta quadrata, originariamente decorato con alabastro scolpito (di cui sono stati rinvenuti molteplici frammenti sparsi sul suolo). Un secondo ingresso a est permetteva l'accesso alla moschea dalla corte centrale.
L'īwān occidentale, poco più a sud della moschea, era parzialmente nascosto dalla ziyāra Sultan Ibrahim nella cui area, ai piedi di un pilastro, furono portate alla luce due transenne di marmo scolpito e traforato, una delle quali reca un'iscrizione in arabo con un testo di fondazione datato al 1° ramaḍān 505 a.E. / 3 marzo 1112 (il terzultimo anno di regno di Masud III).
L'ala meridionale ospitava la zona cerimoniale: un ampio īwān, con pavimento di grandi mattoni quadrati disposti di taglio a spina di pesce, consentiva l'accesso alla sala delle udienze mediante un passaggio largo 2,5 m, originariamente voltato. La sala era suddivisa in tre ambienti: quello centrale, quadrato, presentava nel muro di fondo, in asse con l'ingresso, una grande nicchia rettangolare nella quale forse era collocato il trono. Numerosi frammenti di una decorazione architettonica di stucco e cotto a sezione sferica lasciano supporre che l'ambiente fosse stato originariamente coperto da una cupola. I due ambienti laterali, rettangolari, comunicavano solo con quello centrale e ospitavano forse la guardia del sultano. Secondo un'antica consuetudine accanto alla sala del trono si sviluppavano gli appartamenti della zona privata. Quello principale, a nord, di notevoli dimensioni, era adiacente alla sala delle udienze dalla quale era separato per mezzo di un possente muro in crudo e presentava originariamente uno schema a quattro īwān assiali su una corte centrale quadrata. Malgrado le profonde alterazioni causate da numerosi interventi successivi esso conservava ancora il pavimento originario di mattoni cotti disposti di taglio che formavano motivi geometrici. Un secondo appartamento di dimensioni minori, immediatamente a nord, fu portato a vista solo in parte: presentava una serie di ambienti (di cui uno con scala di accesso a un piano superiore) intorno a una piccola corte con pavimento di mattoni quadrati e un piccolo bacino al centro.
La planimetria del palazzo è confrontabile con quella del Palazzo Meridionale a Lashkari Bazar, sebbene quest'ultimo presenti una diversa sistemazione della zona cerimoniale e comporti un maggiore impiego del mattone cotto nelle murature.
La decorazione del palazzo di Gh. era affidata a un ricco repertorio ornamentale (numerose varietà di intrecci geometrici, elaborati arabeschi vegetali, ornati zoomorfi e antropomorfi, iscrizioni in diversi stili di scrittura cufica e corsiva, spesso di considerevoli dimensioni) e utilizzava soprattutto lastre e pannelli di marmo e rivestimenti di cotto (o cotto e stucco) ‒ generalmente dipinti di blu, rosso e giallo. Gli ornati dei pannelli in cotto erano scolpiti, intagliati o traforati secondo una tecnica che trova uno degli esempi più rappresentativi nel minareto di Masud III, la cui decorazione rimase incompiuta alla morte del sultano (1115). Il marmo, completamente assente nella decorazione architettonica dei palazzi di Lashkari Bazar e largamente impiegato a Gh. anche per soglie, stipiti e archivolti, proveniva da una cava nelle immediate vicinanze della città. La maggior parte dei reperti provenienti dallo scavo del palazzo è costituita da oggetti in ceramica invetriata e non. Fra l'invetriata si individuano più classi: la Slip Painted, la graffita (sia monocroma sia policroma), alcuni lustri metallici molto probabilmente di importazione. Un gruppo interessante è rappresentato da mattonelle di piccole dimensioni, quadrate o poligonali, stampate in rilievo con quadrupedi, uccelli e fiori e invetriate in monocromia verde, marrone o giallo; appartenevano forse alla decorazione parietale del palazzo. Dall'ala settentrionale provengono due secchielli di bronzo, tra i primi rinvenuti da scavo in Afghanistan.
Nel corso della campagna del 1959 la Missione Archeologica Italiana effettuò uno scavo anche sulle pendici occidentali delle colline di Rawza, a circa 200 m a ovest della tomba di Sebüktigin, in una zona in cui si individuava un tumulo di modeste dimensioni (ca. 30 × 40 m). Furono portati in luce i resti di un'abitazione privata che presentava varie fasi di rimaneggiamenti successivi ed era stata notevolmente danneggiata dagli scavi clandestini, soprattutto nella zona meridionale. Era circondata da un muro di cinta scandito da contrafforti quadrangolari e presentava un unico ingresso sul lato meridionale, che dava accesso a un lungo vestibolo rettangolare. Dodici ambienti erano distribuiti sui quattro lati di una corte centrale, originariamente coperti con volte a botte talvolta dipinte, come nel caso dell'ambiente IV di fronte al vestibolo d'ingresso (ma fuori asse), sul cui pavimento furono rinvenuti numerosi frammenti di stucco con decorazione vegetale in blu e nero su fondo bianco. I muri, su fondazioni di pietra, erano in crudo rivestito di uno o più strati d'intonaco. I frammenti di cotto appartenevano probabilmente alla pavimentazione di uno o due ambienti, poiché il suolo era generalmente in terra battuta. La zona nord-occidentale della corte, in cui furono rinvenuti i resti di una scala per l'accesso a un piano superiore, non sembra risalire alla fase originaria dell'edificio. Questa abitazione fu soprannominata "casa dei lustri" per il rinvenimento di numerose ceramiche dipinte a lustro metallico, di cui il nucleo più consistente fu trovato all'interno di una nicchia rettangolare nella parete meridionale dell'ambiente a est della corte (II), al di sotto del livello del piano; un altro gruppo era nascosto in una giara di terracotta parzialmente seppellita nel pavimento del piccolo ambiente a nord del precedente (III); numerosi frammenti inoltre erano sul suolo dell'ambiente IV. Nelle vicinanze dell'ingresso furono trovati un piccolo bacino di marmo e una lastra frammentaria di alabastro con un'iscrizione in persiano.
Le due aree di scavo hanno restituito un discreto numero di monete di bronzo (109 provenienti dal palazzo e 9 dalla "casa dei lustri"), oltre a due esemplari d'argento da due diversi ambienti del palazzo.
Fonti:
al-Muqaddasī, Aḥsan al-taqāsīm fī ma῾rifat al-aqālim (ed. M.J. de Goeje), Leiden 19062; Bayhaqī, Tārīḫ-i Bayhaqī (edd. Ġanī - Fayyāḍ), Tehrān 1925; al-῾Utbī, Tārīḫ-i Yamīnī (edd. A.N. Ǧorfadeqānī - A. Qavīm), Tehrān 1955-56.
Studi:
S. Flury, Le décor épigraphique des monuments de Ghazna, in Syria, 6 (1925), pp. 61-90; J. Sourdel-Thomine, Deux minarets d'époque seljoukide en Afghanistan, ibid., 30 (1953), pp. 108-36; A. Bombaci, Ghazni, in EastWest, 8, 3 (1957), pp. 247-58; Id., Introduction to the Excavations at Ghazni. Summary Report on the Italian Archaeological Mission in Afghanistan, ibid., 10 (1959), pp. 3-22; U. Scerrato, The First two Excavation Campaigns at Ghazni, 1957-1958. Summary Report on the Italian Archaeological Mission in Afghanistan, ibid., pp. 23-55; D. Adamesteanu, Notes sur le site archéologique de Ghazni, in Afghanistan, 15, 1 (1960), pp. 21-30; A. Bombaci, La "Sposa del Cielo", in A Francesco Gabrieli. Studi orientalistici offerti nel sessantesimo compleanno dai suoi colleghi e discepoli, Roma 1964, pp. 21-34; Id., The Kūfic Inscription in Persian Verses in the Court of the Royal Palace of Mas῾ūd III at Ghazni, Rome 1966; E. Galdieri, A Few Conservation Problems Concerning Several Islamic Monuments in Ghazni (Afghanistan). Technical Report and Notes on a Plan of Action, Rome 1978; R. Giunta, Les inscriptions funéraires de Ġaznī, Napoli 2003; Ead., Un texte de construction d'époque ġūride à Ġaznī, in M.V. Fontana - B. Genito (edd.), Studi in onore di Umberto Scerrato per il suo settantacinquesimo compleanno, Napoli 2003, II, pp. 439-55; Ead., Islamic Ghazni. An IsIAO Archaeological Project in Afghanistan. First Preliminary Report (July 2004 - June 2005), in EastWest, 55, in c.s.; Ead., Le monete provenienti dagli scavi islamici di Ghazni (Afghanistan): nota preliminare, in AnnIstItNum, 50, in c.s.
di A. David H. Bivar
In posizione centrale nella provincia di Kirman, al crocevia della rotta orientale che collega Sirgian a Bam.
L'insediamento è nell'angolo formato dalla confluenza del fiume stagionale Ghubayra e del fiume perenne Chari. Uno sperone roccioso, che si erge dal pianoro a sud, si prolunga nella piana. Quest'area, denominata "cittadella" (in persiano qal῾a), sembra essere stata cinta da mura. Un profondo qanāt, evidenziato in superficie da cumuli di terra di risulta, nasce al di sotto del pianoro e, scorrendo circa 7 m più in basso della cittadella, costituiva una fonte di approvvigionamento di acqua potabile (attingibile tramite un pozzo) per la zona abitata, che presumibilmente proseguiva rifornendo i villaggi e i terreni agricoli. La data della sua costruzione è ignota (come è ignota la sua estensione totale), ma alcune fonti l'attribuiscono al periodo in cui i Qarakhitai regnavano sul Kirman.
Le descrizioni più dettagliate di Gh. sono contenute in al-Muqaddasi (X sec.) il quale tramanda che, allorché ottenne il comando della provincia di Kirman, il generale samanide dissidente Muhammad ibn Ilyas per esigenze difensive trasferì la capitale a Bardsir, l'odierna città di Kirman; fece edificare fortezze in diverse città periferiche, mentre a Gh. ordinò la costruzione di un mercato (qui probabilmente esisteva già un forte e vi sono tracce della presenza di un muro di cinta, forse più antico, che racchiudeva l'area della cittadella).
Le indagini archeologiche sul sito consentono di ipotizzare che queste mura e lo stesso insediamento vennero distrutti quando le armate di Timur (Tamerlano) invasero la provincia, nel 1393. Gli scavi sono stati condotti dal Centro Iraniano per la Ricerca Archeologica e dalla School of Oriental and African Studies dell'Università di Londra (1971-76). È stata rilevata un'intensa attività antropica in epoca preistorica e al di sotto della cittadella è stata individuata la presenza di camere sepolcrali risalenti probabilmente al III millennio a.C. (sono forse da ascrivere a un antico potentato dell'area, quello di Marhashi). In tutte le camere sono state trovate evidenze di frequentazione di epoca islamica; la maggior parte di esse conteneva ceramica Slip Painted del tipo samanide Yellow-Staining, lampade di ceramica e un esemplare di bronzo lavorato a giorno, rinvenuto contestualmente a corde di foglia di palma e a un contenitore di cuoio (equipaggiamento per uno scavo sotterraneo). Probabilmente durante il regno di Ibn Ilyas, periodo di contatti con i Samanidi, fu individuato ed esplorato il sistema di camere sotterranee, operazione che cancellò ogni evidenza del loro precedente uso (è ipotizzabile un'esplorazione dei tunnel da parte di chi, ristrutturando la fortezza, si preoccupasse di localizzare e ostruire eventuali vie sotterranee che vi conducessero). In numerosi punti sono state individuate evidenze di un riutilizzo dei tunnel in epoca sasanide.
Nell'area della cittadella sono stati rinvenuti in superficie solo due frammenti di ceramica sasanide, sebbene una pur modesta percentuale di ceramica comune potrebbe risalire anch'essa a epoca preislamica. È stata invece riscontrata abbondante ceramica islamica, con una scarsa presenza di vasellame più antico quale l'invetriata blu alcalina "sasanide-islamica", invetriata verde protoislamica e dipinta "a macchie" abbaside. È stata rilevata una cospicua percentuale di ceramiche Slip Painted "samanidi", soprattutto nella varietà Yellow-Staining Black, e Slip Painted con ingobbio colorato. Due frammenti di Slip Painted presentavano iscrizioni ebraiche e altri ornati pseudoepigrafici in caratteri arabi o, verosimilmente, nāgarī indiani.
Sono ben rappresentate anche le molte varianti ceramiche di periodo selgiuchide: vasellame sottile con invetriatura monocroma, a silhouette, a lustro metallico, importato senza dubbio dall'Iran settentrionale, forse da Kashan. È attestata anche la graffita selgiuchide su fondo verde o verde e giallo, soprattutto nella varietà denominata "graffita elettrica" a causa di un ornato composto di linee radiali a zig-zag. Una coppa particolarmente ben conservata appartenente a questa tipologia è stata rinvenuta in una fossa di rifiuti contenente vasellame Slip Painted più antico: potrebbe risalire agli inizi del regno selgiuchide di Kirman (1041), periodo in cui furono rimossi i detriti prodotti dalle precedenti occupazioni, consentendo di ipotizzare che la "graffita elettrica" sia stata un'antica forma di graffita. Infine, le ceramiche dell'ultima fase, risalenti cioè a poco prima della distruzione del sito, sono quelle dipinte sotto invetriatura, sia nelle più ricercate varietà policrome, con decorazione radiale o floreale, simili al "vasellame Sultanabad", sia nei molto più comuni motivi in nero su blu (branchi di pescicani o una varietà di altri disegni) con vetrine deperibili. La ceramica blu e bianca di epoca safavide è stata trovata solo in superficie e in strati non pertinenti, successivi alla distruzione della città. La sequenza ceramica fornisce un'utile guida alle tipologie di invetriata dell'Iran meridionale.
Dagli scavi è inoltre emerso un interessante gruppo di vetri. Il reperto più importante è una brocchetta dell'VIII-IX secolo, quasi integra e con una fascia centrale a rilievo con ornato antropomorfo stilizzato; sono integri una bottiglia per profumo verde brillante, del tipo a "molare", simile a esemplari di bronzo, e una boccetta per profumo verde a forma di anatra seduta. Esemplari sfaccettati sembrano documentare il lungo perdurare di questo stile fino all'epoca islamica.
Tra gli oggetti di metallo, una coppa di bronzo decorata con motivi lobati e un'arpia reca un'iscrizione araba di commiato, vi sono anche un calamaio frammentario (vasmeǧūš) e molti cucchiai di bronzo. Tra le monete di rame od ottone vi sono un esemplare del sultano mongolo Ülgiaytü (1304-1316) proveniente da Sultaniyya e uno del muzaffaride Shah Shugia (1364-1384) della zecca di Shiraz. Vi erano inoltre numerose monete, in diverse calligrafie, recanti la formula ῾adl-i sulṭān / ḍarb-i Kirmān ("conio esclusivo del sultano, zecca di Kirman"), alcune probabilmente attribuibili ai sovrani Qarakhitai della provincia di Kirman. Un'emissione di Timur da Sirgian documenta la fase terminale del sito. È sporadica una moneta della zecca di Kirman risalente all'epoca del Qara-Qoyunlu Giahanshah (1438-1467).
Un interessante gruppo di reperti è costituito da alcuni pesi di bronzo, di epoca mongola o postmongola. Tre sono della serie del miṯqāl (4,25 g) e rappresentano rispettivamente 1, 5 e 20 miṯqāl. Un altro, del peso di 14 g, era evidentemente un pezzo da 5 dirham della serie da 2,8 g. Il più grande e più importante, forse equivalente a 50 miṯqāl, ora a Tehran, non ha potuto essere adeguatamente documentato. Tra i reperti in ferro figurano un lucchetto, quattro paia di forbici, pale, seghe e sgorbie; sette fusaiole d'osso o avorio, alcune decorate, e un'altra in pietra; infine un frammento di cofanetto di legno laccato e un elemento del gioco degli scacchi d'avorio.
Le evidenze di attività di assedio sono limitate e intorno al perimetro della città non sono stati rinvenuti frecce né resti umani; ciò lascia supporre che la città non fu difesa; tuttavia nei pressi del bordo occidentale dell'insediamento venne rinvenuta una piccola sfera di pietra (diam. 10 cm), che è probabilmente da interpretare come proiettile per un'arma da lancio del tipo balista (῾arrāda), piuttosto che una palla di cannone. Sotto il margine orientale della cittadella è stato rinvenuto un pesante asse di ferro di una ruota di mulino (ruote di mulino venivano impiegate come munizioni per i potenti contrappesi di mangano utilizzati nelle operazioni di assedio). Dopo l'occupazione timuride della provincia queste macchine da assedio potrebbero essere state utilizzate per demolire le fortificazioni.
Vi sono scarse evidenze di una prolungata occupazione urbana dopo il passaggio di Timur. A est del perimetro murario una costruzione, forse una moschea, potrebbe essere stata sporadicamente utilizzata; in altre zone, invece, vi sono molte tracce di accampamenti nomadici, come focolari e tipiche piattaforme di pietre utilizzate per accatastare i carichi animali. Un'altra area pavimentata con mattoni riutilizzati, e forse originariamente protetta da ramaglie, sembra essere stata utilizzata come lavatoio dalle stesse comunità.
al-Muqaddasi, The Best Divisions for Knowledge of the Regions. A Translation of Ahsan al-Taqasim fi Ma῾arifat al-Aqalim (trad. B.A. Collins), Reading 1994 (per un errore di stampa, alla p. 456 Gh. è scritto "Thubayra"); A.D.H. Bivar, Excavations at Ghubayrā, Iran, London 2000 (con bibl. prec.).
di Maria Vittoria Fontana
I. (ar. Iṣbahān), capoluogo della provincia omonima, si trova in un'area pianeggiante dell'altopiano iranico a circa 1700 m s.l.m. (l'antica Media), particolarmente fertile a causa del clima eccellente e della presenza del fiume Zayanda; le produzioni più abbondanti comprendono grano, orzo, riso, cotone, tabacco, legumi, varie specie di vegetali e di frutta, mandorle e oppio. Il toponimo originario, Spahān, potrebbe derivare da "esercito, armata" (spāh), ma la sua origine non è stata acclarata (Cereti 2004). In epoca sasanide e protoislamica fu un'importante provincia, a cui era stato concesso, in entrambi i periodi, di coniare moneta.
In età sasanide la capitale della provincia di Spahan fu Gay (in età achemenide Gábai faceva parte dell'area sud-occidentale del Fars), corrispondente all'insediamento che in età islamica fu chiamato Giayy, come attestato in opere di carattere storico-geografico del periodo. Sulla fondazione di Gay/Giayy Abu Nuaym (che scrive nel 1030) racconta che il luogo fu scelto da un medico esperto che l'imperatore bizantino aveva inviato al re sasanide Firuz (457/9-484), su richiesta di quest'ultimo il quale desiderava spostare la sua capitale in un luogo più salubre (Abu Nuaym, I, p. 34; al-Mafarrukhi [XI sec.], pp. 16 ss.; per Hamza al-Isfahani e al-Dimashqi cfr. Schwarz 1925, p. 589). La conquista islamica (640 ca.) non privò Giayy dell'importante ruolo di sede del governatorato; secondo Abu Nuaym, nel 767/8 fu un governatore abbaside che si insediò nel villaggio di Kushinan ‒ fra Giayy e il villaggio di Yahudiyya (lett. "il quartiere dei giudei") ‒ dove fu eretta, secondo Ibn Rustah (p. 200), la prima moschea. Quando successivamente, nel 772/3, la zona fu affidata al controllo di arabi provenienti dalla vicina località di Tihran (Ṭihrān), la nuova sede amministrativa fu stabilita a Yahudiyya ed estese il suo potere su 15 villaggi limitrofi. Molti di questi divennero quartieri della nuova città che stava sorgendo, della quale Giayy (l'attuale villaggio di Shahristan, a est della città) non faceva più parte (Abu Nuaym, p. 17; Golombek 1974, p. 25), mentre Yahudiyya ‒ presso cui furono posti dei mercati e le cui case toccavano quelle di Khushinan ‒ è stato spesso identificato nell'ampio quartiere di Giubarah, nell'area a nord-est della Moschea del Venerdì.
Nel X secolo Yahudiyya occupava un'area pressoché circolare di poco più di 14.000 m2, circondata da villaggi la cui lista viene fornita da Abu Nuaym (l'estensione dell'intera città raggiungeva un'area compresa fra i 37.467 e i 41.060 m2; cfr. Abu Shaykh, in Arioli 1979, pp. 63-64). Il primo conio islamico a recare il nome I. risale al 200 a.E. - 815/6 d.C., si tratta di dirham recanti la zecca: madīnat Iṣbahān (Mitchiner 1978, p. 74). I Buyidi (che governarono I. con vicende alterne a partire dal 933 sino all'arrivo dei Selgiuchidi nel 1051, con un'ampia parentesi di dominio ghaznavide nel secondo quarto dell'XI sec.) eressero una cinta muraria e una cittadella, sicuramente prima del 979/80, anno in cui muore Abu Shaykh (Arioli 1979, pp. 63-64), che parla di mura della città con cento torri e cinque porte, mentre nel 985 al-Muqaddasi (p. 389) descrive la città munita di mura e di dodici porte, delle quali si è anche tentata l'identificazione (Golombek 1974, pp. 25-26 e fig. 3).
La città assunse una forma ovale (ca. 15.000 × 21.000 passi); il vizir Sahib ibn Abbad vi costruì la sua residenza e la moschea Giurgir, furono eseguiti lavori nella Moschea del Venerdì. Risalirebbe a quest'epoca anche la suddivisione della città murata in quattro quartieri di cui sono noti tre nomi: Giubarah (probabilmente l'antico Yahudiyya, v. supra), Karaan e Dardasht (che comprendeva i vecchi villaggi di Yavan e Chumulan); l'altro quartiere, quello che potrebbe essere divenuto Dawlat in epoca safavide, aveva forse il nome di Kushk. Nasir-i Khusraw (p. 92) scrive nel 1052 e racconta di essere rimasto impressionato dal numero di mura e di porte di cui sono forniti anche i quartieri, le strade e i bazar. Si può presumere che al centro della città fosse collocata la Piazza Vecchia (maydān-i qadīm). Nel corso del lungo dominio selgiuchide I. divenne la capitale, vivendo il suo periodo migliore sotto Malikshah (1072-1092). Con il vizir di questi, Nizam al-Mulk, la città ebbe un importante sviluppo urbanistico e architettonico.
A partire dal 1194 i Khwarazmshah (1077 ca. - 1231) si impossessarono di I. a più riprese, finché (1240/1) la città non cadde in mano ai Mongoli ilkhanidi (1256-1353) con i quali non fu più capitale; nel secondo quarto del XIV secolo si impossessarono di I. i Chubanidi e successivamente, nel 1341/2, gli Ingiuidi, sino alla conquista muzaffaride nel 1357. Nel 1387 Timur (Tamerlano) conquistò I. e 70.000 suoi abitanti furono uccisi; nel 1452 la città fu presa dai Qara Qoyunlu (i Montoni Neri, 1380-1468) e successivamente dagli Aq Qoyunlu (i Montoni Bianchi, 1378-1508). Con la conquista safavide, nel 1502/3, ebbe inizio per I. un lungo periodo di pace, se si eccettua la breve occupazione ottomana intorno alla metà del XVI secolo. Nel 1596/7 Shah Abbas la nominò capitale di questo importante regno, ne modificò in buona parte l'assetto urbanistico ed eresse edifici di grande interesse sia civili sia religiosi, consentendole di assumere l'aspetto di una metropoli. Nel XVII secolo la popolazione contava intorno al milione di abitanti. Nel 1722 I. fu assediata e poi catturata dagli Afghani. In seguito l'afsharide Nadir Shah (1736-1747) prese I. nel 1729 e trasferì la capitale a Mashhad; da qui ebbe inizio il lento declino della città che, nel corso dei successivi domini Zand (1750-1794) e Qagiar (1779-1924), non fu più capitale, benché sotto quest'ultima dinastia la città divenne per un certo lasso di tempo il principale centro commerciale.
Nel 985 al-Muqaddasi (p. 389; cfr. anche Abu Nuaym, I, p. 28) fa riferimento a una moschea a Giayy molto bella e molto antica. Scavi di una missione archeologica iraniana hanno messo in luce, in prossimità dell'antico ponte di Shahristan e in connessione con il mausoleo di Rashid Billah, i resti di una primitiva moschea, la cui pianta non è ricostruibile salvo che per quattro file di colonne (di cui restano solo tronconi) di circa 90 cm, con un intercolumnio di circa 2 m (Mīrfataḥ 1977, fig. 20). Il minareto, di epoca selgiuchide, è stato demolito negli anni Trenta del XX secolo (Finster 1994, p. 190 e fig. 75).
Abu Nuaym (I, p. 16; cfr. Hunarfar 1966, p. 18) afferma che a I., nell'area di Kushinan, il governatore abbaside Ayyub ibn Ziyad eresse nel 767/8 una moschea (che guardava le rive di un canale: nahr Fursān, ancora esistente) e, di fronte a essa, il complesso palaziale, sul luogo dell'attuale masǧid-i Sha῾yā (Golombek 1974, fig. 2). L. Golombek (1974, p. 24) suggerisce che il vecchio čahār ṭāq studiato da Siroux (1954) nel masǧid-i Sha῾yā potrebbe appartenere a una di queste costruzioni.
Uno dei villaggi che composero I., secondo la lista di Abu Nuaym (v. supra), è Yavan. Il medico bizantino che aveva scelto il luogo per la fondazione di Gay/Giayy per conto del sasanide Firuz decise di rimanere in questo luogo e chiese al re sasanide di poter risiedere fra i due muri di fortificazione (bayna l-ḥiṣnayn) del villaggio di Yavan, chiese inoltre di potervi costruire la sua residenza e una chiesa (Abu Nuaym, I, p. 34): la residenza fu eretta "di fronte ai due muri" (bi-izā' al-ḥiṣnayn), la chiesa di fronte all'"altro muro" (al-ḥiṣan al-āḫar): Abu Nuaym (inizi XI sec.) spiega che l'"altro muro" è il luogo dell'"attuale" masǧid-i Ǧāmi῾ (Moschea del Venerdì), precisa inoltre che quest'ultima, che si erge dove un tempo era la chiesa (bī῾a), è situata lungo un lato del maydān-i (piazza di) Sulaymān. La Moschea del Venerdì fu fondata nel 772/3 e vi fu trasferito il minbar posto alcuni anni prima (767/8) dal governatore abbaside nella moschea di Kushinan (Abu Nuaym, I, p. 17). Correttamente la Golombek (1974, pp. 22-23 e fig. 2) sostiene che sia dunque a Yavan, uno dei villaggi limitrofi a Yahudiyya, che sotto la moschea dovrebbero trovarsi fortificazioni sasanidi e una chiesa (una comunità cristiana fu presente nell'area fino al XVII sec.). Il maydān-i Sulaymān, su cui prospettava il masǧid-i Ǧāmi῾ all'epoca di Abu Nuaym, si potrebbe identificare nella Piazza Vecchia (maydān-i qadīm), di cui oggi resta riferimento nel maydān-i sabz (cfr. la ricostruzione in Golombek 1974, fig. 4). Altre fonti collocano il masǧid-i Ǧāmi῾ a Yahudiyya (Abu l-Shaikh, in Arioli 1979, pp. 63-64; e Ibn Hawqal, p. 362, che sostiene ci fossero ‒ seconda metà del X sec. ‒ due moschee con minbar, cioè due masǧid-i Gāmi῾, una a Yahudiyya e l'altra a Sharistan = Giayy).
Negli anni Settanta del Novecento a I. operarono due Missioni italiane dell'IsMEO (oggi IsIAO): quella di restauro (diretta da E. Galdieri) a partire dal 1970 e quella archeologica (diretta da U. Scerrato) a partire dal 1972. Quest'ultima non ha potuto effettuare saggi estensivi e intensivi in tutta l'area a causa dei problemi di staticità dell'edificio. Alcuni sondaggi condotti nel sottosuolo del masǧid-i Ǧāmi῾ dalla Missione di restauro rivelarono importanti strutture al di sotto dell'attuale impianto della moschea che risale, nell'elaborazione planimetrica principale (cfr. la pianta del 1931 di E. Schroeder per l'American Institute for Persian Art and Archaeology; Schroeder 1938-39, pp. 954-55), all'epoca selgiuchide, in particolare a Malikshah (1072-1092). A questo periodo, anche se differenziate negli anni, risalgono le opere di risistemazione di un vecchio impianto abbaside di moschea ipostila, sostituito da quattro īwān che si affacciano sulla corte e da due sale cupolate poste una a sud e l'altra a nord.
I risultati degli scavi (1972-78) della Missione Archeologica Italiana hanno consentito di ricostruire la storia del monumento sin dalla prima fondazione del 772/3, di cui sono stati rintracciati buona parte del muro qiblī e l'angolo sud-occidentale (Scerrato 1973, 1977, 2001); l'orientamento, di 228° 50' nord, è molto più prossimo al reale (225° 56') rispetto a quello delle fasi successive (la differenza risultante è di 15° 56'; Galdieri 2002). Il miḥrāb, di pianta quadrangolare, è stato rinvenuto al di sotto della pavimentazione selgiuchide della sala cupolata meridionale (settore 190), grosso modo in corrispondenza con quello selgiuchide; il proseguimento del muro e l'angolo sono venuti alla luce al di sotto dei settori attigui (204-5, 218-19). Il pavimento era in terra battuta e gesso, ben visibile davanti al miḥrāb, la zona occidentale è stata successivamente pavimentata, come è evidente dalle tracce lasciate nella malta. L'intera parete qiblī è rivestita da pannelli di stucco modellato e dipinto, particolarmente danneggiati nella porzione (tagliata fra i 15 e i 30 cm ca.) trovata nella sala cupolata, molto ben conservati nella zona attigua (tagliati a ca. 90 cm): questi ultimi sono larghi circa 52 cm, separati da cornici perlate e poggianti su una base con medaglioni campiti da foglie lanceolate; gli ornati dei pannelli, simmetrici, sono composti di elementi vegetali resi in maniera naturalistica, non dissimili da alcuni esemplari rinvenuti in un palazzo di Raqqa (ultimo quarto VIII sec.).
Essendosi conservati il miḥrāb e un angolo della parete qiblī è stata ricostruita la lunghezza di quest'ultima (52-55 m) che corrisponde alle misure della moschea fornite da Abu l-Shaikh (in Arioli 1979: 91,8 × 55,08 m). Nell'840/1 questa primitiva moschea fu sostituita da una nuova, ugualmente ipostila ma recante il cambiamento di orientamento (Abu Nuaym, I, p. 17; al-Mafarrukhi, p. 19). Di essa sono state rinvenute alcune basi e resti di colonne in mattone cotto ‒ una anche nell'area di fronte al miḥrāb ‒; frammenti della decorazione parietale in stucco scolpito e dipinto e di intonaco dipinto con ornati vegetali e geometrici. Nel corso dei lavori della missione di restauro prima (Galdieri 1973) e di quella archeologica poi (Scerrato 1975-77) sono venute alla luce anche alcune delle colonne in mattone cotto e a sezione polilobata che, in età buyide (X sec.), restrinsero l'ampiezza della corte. Le evidenze archeologiche (Scerrato 1976) hanno inoltre confermato la presenza di un complesso di costruzioni "caritatevoli" adiacenti ai riwāq, cioè lungo il perimetro della moschea ‒ nell'area orientale, al di sotto dell'attuale madrasa (la "zona muzaffaride"), e nell'angolo sud-occidentale (la "zona safavide") ‒, che sia Abu Nuaym (I, p. 17) sia al-Mafarrukhi (p. 62) fanno risalire al 919/20, all'epoca del califfato di al-Muqtadir; questi locali sarebbero stati destinati a luoghi di riunione per ṣūfī e scienziati, a una biblioteca, ad ambienti di vario tipo e a una casa del tesoro (nel 1121/2 la moschea e la biblioteca subirono un incendio provocato dalla setta batinite: Ibn al-Athir, X, p. 420).
I ritrovamenti del sottosuolo documentano inoltre sia una fase islamica del sito precedente alla costruzione della moschea, sia una fase preislamica. Resti di un abitato protoislamico sono venuti alla luce sia nell'area nord (Scerrato 1973-1975) sia nella cosiddetta "zona muzaffaride" a est dove, in particolare, è stata rinvenuta un'abitazione di cui è visibile almeno un īwān (Scerrato 1976). Si tratta, con ogni probabilità, di quella porzione del villaggio su cui gli arabi provenienti da Tihran nel 772/3 costruirono la moschea. Resti di un centro di epoca sasanide sono stati rintracciati nell'area settentrionale (Scerrato 1973-1975): essi sono di lettura piuttosto complessa in particolare nel quadrante nord-ovest, probabilmente affacciavano su una sorta di piazza oblunga (nord-sud) corrispondente all'incirca alla corte della moschea (Scerrato 2001); i ritrovamenti nella zona sud, al di sotto della sala cupolata eretta da Nizam al-Mulk, inducono a ipotizzare in quest'area la presenza di un edificio di una certa importanza coevo all'abitato settentrionale. Già la missione di restauro aveva portato alla luce il fusto di una colonna in mattoni cotti rivestito di stucco scolpito con ornato e stile tipici sasanidi (Galdieri 1972); i lavori della missione archeologica hanno consentito di appurare che l'orientamento dell'edificio di cui la colonna faceva parte ‒ e di cui resta la malta del pavimento in mattoni ‒ era molto prossimo a quello della moschea di VIII secolo (Scerrato 1973, 1977). Una possibile identificazione dell'edificio (Scerrato 2001) potrebbe essere nella chiesa fatta costruire dal medico bizantino richiesto dal sasanide Firuz di cui ci dà notizia Abu Nuaym (cfr. supra). Lo scavo nell'area dell'īwān orientale, infine, ha permesso la scoperta di una tomba di tarda età sasanide, deducibile dalla morfologia di una coppa bronzea ritrovatavi, che induce all'ipotesi di un'area cimiteriale risalente a questo periodo (Scerrato 1976). Dal 1999 la Missione Archeologica Italiana ha ripreso il lavoro di archiviazione dati e studio dei materiali relativi allo scavo.
Fonti:
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Letteratura:
P. Schwarz, Iran in Mittelalter nach den arabischen Geographen, V, Leipzig 1925, pp. 582-630; A. Gabriel, Le Masdjid-i Djum῾a d'Iṣfahān, in ArsIsl, II (1935), pp. 7-44; A. Godard, Historique du Masdjid-é Djum-a d'Iṣfahān, in Āthār-è Īrān, I, 2 (1936), pp. 211-82; E. Schroeder, Islamic Architecture. C. Standing Monuments of the First Period. The Masjid-i-Jāmi῾ of Ardistān and the Masjid-i-Jāmi῾ of Iṣfahān, in A.U. Pope - Ph. Ackerman (edd.), A Survey of Persian Art, London - New York 1938-39, pp. 949-64; M. Siroux, La mosquée Sha'yā et l'imam-Zadeh Ismaël à Ispahan, in Mélanges Islamologiques, 1 (1954), pp. 1-51; L. Hunarfar, Ganǧīna-yi āṯār-i tārīḫī-yi Iṣfahān [Guida degli antichi monumenti di Isfahan], Iṣfahān 1344/1966; E. Galdieri, Iṣfahān: Masǧid-i Ǧum῾a, I. Documentazione fotografica e rapporto preliminare, Photographs and Preliminary Report, Rome 1972; Id., Iṣfahān: Masǧid-i Ǧum῾a, II. Il periodo al-i Būyide, The Al-i Būyid Period, Rome 1973; U. Scerrato, IsMEO Activities - Archaeological Mission in Iran. Isfahan, Masǧid-i Ǧum῾a, in EastWest, 23 (1973), pp. 416-18; 24 (1974), pp. 475-77; 25 (1975), pp. 538-40; 26 (1976), pp. 593-95; 27 (1977), pp. 451-55; 28 (1978), p. 329; L. Golombek, Urban Patterns in Pre-Safavid Isfahan, in Iranian Studies, 7 (1974), pp. 18-44; A.A. Mīrfataḥ, Āṯār-i bāstānī-yi Ǧayy-yi bāstān [Scavi archeologi a Giayy], in Barrasīhā-yi tārīḫī, 11, 6 (1977); A.K.S. Lambton, Iṣfahān, in EIslam2, IV, 1978, pp. 101-10; M. Mitchiner, Oriental Coins and their Values, II. The Ancient & Classical Word 600 B.C. - A.D. 650, London 1978; A. Arioli, Notizie sulla moschea Ǧami῾ di Iṣfahān in una fonte prosopografica del X secolo, in Annali di Ca' Foscari, Ser. Or., 10 (1979), pp. 61-69; E. Galdieri, Iṣfahān: Masǧid-i Ǧum῾a, III. Research and Restoration Activities, 1973-1978, New Observations, 1979-1982, with an Introduction by Prof. Oleg Grabar, Rome 1984; K.A.C. Kreswell, A Short Account of Early Muslim Architecture, Revised and Supplemented by James W. Allan, Aldershot 1989, pp. 345-46; O. Grabar, The Great Mosque of Iṣfahān, London 1990; B. Finster, Frühe Iranische Moscheen, Berlin 1994, pp. 64-66, 192-98, 276-77; U. Scerrato, Ricerche archeologiche nella moschea del Venerdì di Isfahan della Missione archeologica Italiana in Iran dell'IsMEO (1972-1978), in Antica Persia. I tesori del Museo Nazionale di Tehran e la ricerca italiana in Iran, Roma 2001, pp. xxxvi-xliii; E. Galdieri, Une correction de ḳibla dans la Mosquée du Vendredi à Ispahan, in Cahiers de Studia Iranica, 26 (2002), pp. 485-95; C.G. Cereti, Some Notes on the Sasanid Coinage of Esfahān and a Few Mint Signatures, in Atti del Convegno Internazionale La Persia e Bisanzio (Roma, 14-18 ottobre 2002), Roma 2004, pp. 309-26 (con bibl. prec.).
di A. David H. Bivar
Nome storico di una città e di un castello 17 km a sud di Isfahan, lungo il corso superiore dello Zayanda Rud.
Notizie leggendarie sul luogo sono riportate da al-Mafarrukhi (p. 22), il quale afferma che il sovrano sasanide Bahram Gur era nato a Rusan, un villaggio localizzato nelle vicinanze, e soleva risiedere nel vicino castello. La descrizione più dettagliata su Kh.L. è quella di Ibn Hawqal, che chiama l'insediamento Ḫān Alanǧān e riferisce che il castello veniva utilizzato come deposito dagli amīr di Isfahan. Per conservare Kh.L. i Buyidi dovettero combattere dure guerre (951-955) con i Samanidi. Nel 1052 Nasir-i Khusraw (p. 98) visitò Kh.L. e notò l'iscrizione del selgiuchide Tughril Beg (1038-1063) al di sopra della porta della città; commentò inoltre le condizioni di sicurezza godute dai suoi cittadini, forse riferendosi in particolare agli Ismailiti.
Il castello di Kh.L. venne conquistato dagli Ismailiti (1090-1256) nel decennio tra il 1077 e il 1087, ma da questi già perso prima del 1107. Gli Ismailiti si erano offerti di trasferirsi a Kh.L., ma il selgiuchide Ghiyath al-Din Muhammad (1105-1118) ordinò che quest'ultima fortezza venisse rasa al suolo. Nei pressi di Kh.L., probabilmente sul lato opposto, lungo la riva settentrionale dello Zayanda, era ubicato il distretto di Firuzan, citato da Ibn Battuta e Hamdullah Mustawfi, ma identificato da qualche commentatore con la stessa Kh.L. (la località è attualmente designata come Pīr-i Bakrān, presso Isfahan).
Il castello si sviluppa lungo la sommità del crinale di un monte a nord-est di Kh.L.; nel 1965 E. Beazley e A. Dobson vi effettuarono ricognizioni, ma non poterono attribuire al sito una datazione certa; ancora oggi non si hanno dati sufficienti per proporre ipotesi di attribuzione ai diversi periodi di occupazione. All'estremità nord-occidentale del crinale si localizza un'alta cittadella con i resti di un torrione rettangolare in pietra ‒ in posizione dominante (probabilmente un posto di guardia), che si sviluppa su due piani ‒ e di una piattaforma con mura e torrioni che corrono lungo il lato nord-orientale. Circa 70 m a sud-est, più in basso, è stata individuata una fortificazione centrale, il castello vero e proprio, alla cui entrata si trovano un fortino in pietra e un'ampia cisterna. Alcune centinaia di metri a sud-est vi era un forte più basso e più accessibile, probabilmente sede del signore reggente nei periodi di pace, in cui sono visibili i resti di cortine murarie di pietra scandite da torrioni, di un'entrata monumentale, di due ingressi laterali ‒ per dare accesso alle stalle e agli ambienti di ricovero per coloro che giungevano a piedi ‒ e di cinque settori abitativi, la maggior parte dei quali nascosta da detriti e pietrisco (risultato delle devastazioni selgiuchidi).
La ceramica comprende esemplari di IX-XI secolo ‒ graffita, dipinta in nero sotto vetrina turchese, "a macchie" ‒ e di XII-XIII secolo a lustro bicromo.
Fonti:
Ibn Hawqal, Opus Geographicum auctore Ibn Hauqal (ed. J.H. Kramers), Lugduni Batavorum 1939, p. 365; Ibn Ḥawqal, Kitāb ṣūrat al-arḍ (edd. J.H. Kramers - G. Wiet), II, Paris 1964, pp. 357, 159-61; Nāser-e Khosraw's Book of Travels (trad. W.M. Thackston), Albany 1986.
Lett. mod.:
R.N. Frye, The Heritage of Persia, London 1962, pp. 251, 290, n. 31 e fig. 63; S.M. Stern - E. Beazley - A. Dobson, The Fortress of Khān Lanjān, in Iran, 9 (1971), pp. 45-57.
di Francesca Leoni
Sito dell'Iran meridionale, nella provincia omonima, sul margine del grande Dasht-i Lut (un esteso deserto disabitato di roccia e sabbia).
Il nome medievale della città era Bardasir, discendente forse da Beh-Ardashir, il fondatore della dinastia sasanide. K. deriva da Carmania, termine riferibile a un'antica capitale locale secondo quanto riportato da Strabone. La sua orografia e la distanza dai centri principali dell'Iran resero l'area difficile da controllare per lungo tempo facendone la sede ideale per gruppi dissidenti e ribelli. Conquistata dall'avanzata musulmana tra il 638 e il 642, acquisì preminenza intorno al X secolo con i Samanidi (809-1005) e in particolare sotto il governo della famiglia dei Banu Ilyas e dei Buyidi (a K. 936-1048). Seguì la fase di dominazione selgiuchide (1041-1187), un periodo di notevole prosperità economica e culturale per alcuni centri del Kirman come Giruft che crebbe al rango di emporio commerciale del Sud dell'Iran. L'espansione economica ‒ e la produttività di manifatture tessili o di armi che Marco Polo rimarca ancora nei suoi resoconti di viaggi alla fine del 1200 ‒ continuò nei secoli successivi. Con la dominazione muzaffaride (metà XIV sec.) questa si estese anche ad altri centri come la stessa K. che funzionò come base amministrativa e di controllo di città come Yazd, Shiraz e Isfahan. La floridità della regione subì una brusca contrazione con la conquista timuride nel 1396. Unico centro che fu in grado di sopravvivere nell'area fu K., pur attraverso una serie di disastri che si susseguirono nei secoli seguenti e in seguito ai quali non si verificarono sostanziali riprese.
L'attività archeologica si è concentrata finora nell'area intorno a K. piuttosto che nella città. J. Caldwell e G. Fehervari hanno condotto una ricognizione (1964-66) nella piana di Bardsir, risultata rilevante per i periodi dal 4000 a.C. al 2500 a.C. e dal 200 al 1000 d.C. Nel 1966 anche il sito di Qala-yi Dukhtar, la cittadella fatta risalire ad Ardashir (224-240), è stata oggetto di esplorazione, sebbene avesse attirato interesse già all'inizio del secolo (Sykes 1902) e negli anni Trenta del Novecento (Stein 1932). Sin da questa preliminare esplorazione era venuta alla luce, fra le altre, ceramica a lustro metallico, dipinta sotto invetriatura, e blu e bianca detta di K. (tipologie datate da Fehervari tra il XIII e il XV secolo, un'ulteriore prova della fioritura di questo centro nel corso di quei secoli). Altre rilevanti aree oggetto di ricognizione sono state Tepe Gagin, Qala Maynaq, Nigar ‒ dove sono visibili le rovine di una fortezza selgiuchide ‒ e Ghubayra. Una spedizione ricognitiva nell'area nel 1976 ha esteso l'indagine ai vicini centri di Bahramghir e Tazyan, confermando la zona come un'area particolarmente sviluppata in età islamica.
Bibliografia
P. Sykes, Ten Thousands Miles in Persia; or Eight Years in Iran, New York 1902; M.A. Stein, Archaeological Reconnaissance in North-Western India and South-Eastern Iran, London 1932; E. Schroeder, The Jabal-i Sang, Kerman, in IIIe Congrès International d'Art et d'Archéologie Iraniens. Mémoires (Leningrad, September 1935), Moscow 1939, pp. 230-35; H. Brocklebank, The Persian Earthenware of Kerman, in The Burlington Magazine for Connoisseurs, 88 (1946), pp. 147-51; J.R. Caldwell (ed.), Investigations at Tal-i Iblis, Springfield 1967; G. Fehervari, Archaeological Reconnaissance in Kirman Province in the Autumn of 1966, in A. Tajvidi - M.Y. Kiani (edd.), The Memorial Volume of the 5th International Congress of Iranian Art and Archaeology (Tehran - Isfahan - Shiraz, 11-18th April 1968), Tehran 1972, II, pp. 74-82; A.K.S. Lambton, s.v. Kirmān, in EIslam2, V, 1980, pp. 147-65.
di Roberta Giunta
Sito dell'Afghanistan meridionale, tra la moderna città di Lashkargah e Bust, 44 km a sud della strada Kandahar - Herat; si estende per una lunghezza di 6,5 km lungo la riva sinistra del fiume Hilmand e comprende tre palazzi, una grande moschea, numerosi edifici pubblici, un bazar e un vasto giardino.
Segnalato per la prima volta nella seconda metà del XIX secolo dal maggiore H.W. Bellew, un'estesa parte del sito fu oggetto di cinque campagne di scavo (1949-51) da parte della Délégation Archéologique Française in Afghanistan dirette da D. Schlumberger e M. Le Berre, il quale nel 1952 effettuò ricerche supplementari. Nella vasta zona compresa tra L.B. e Bust furono effettuate (1971-77) brevi campagne di scavo nell'ambito del Progetto Hilmand-Sistan diretto da W. Trousdale e finanziato dalla Smithsonian Institution. Ulteriori ricerche all'interno del medesimo progetto (1978) si devono a T. Allen. Tuttavia una gran parte del sito è ancora completamente sconosciuta.
Alla fine del X secolo al-Muqaddasi (pp. 304-305) riferisce che una sorta di città (madīna), nota con il nome di al-῾Askar ("l'esercito"), sede del sovrano, era a una distanza di mezza parasanga da Bust, in direzione di Ghazni. Nei primi decenni del secolo successivo Bayhaqi (p. 149), storico della corte ghaznavide, attesta che nella zona di Bust, presso il terreno di gioco del polo del campo militare (laškargāh) del sovrano Mahmud b. Sebüktigin (998-1030), il figlio di quest'ultimo, Masud (m. 1041), ordinò la costruzione di alcuni edifici. Immediatamente dopo il 1149, anno dell'incendio di Ghazni a opera dei Ghuridi, questi invasero Bust e distrussero i palazzi di L.B. che, successivamente, restaurarono e riutilizzarono come proprie residenze. Nel 1221 l'arrivo delle orde mongole di Gengis Khan segnò la data di abbandono definitivo dell'intero complesso.
Dei tre palazzi di L.B. il Palazzo Meridionale (C.I) è il più imponente: risale quasi sicuramente a Mahmud b. Sebüktigin, ma forse non è il più antico. Numerosi ambienti recano tracce di due incendi: subito dopo il primo, dovuto ai Ghuridi, furono effettuati lavori di restauro; dopo il secondo, causato molto probabilmente dai Mongoli, l'edificio fu abbandonato. Pressoché rettangolare, costruito con mattoni crudi su fondazioni in cotto, ha un muro di cinta scandito da contrafforti semicircolari agli angoli e lungo le cortine. Si compone di un'ampia corte centrale rettangolare (63 × 48,8 m) con quattro īwān in posizione assiale. Due gruppi di ambienti formano le due grandi ali dell'edificio: la prima, a sud della corte, contiene l'ingresso principale, alcuni locali e una piccola moschea; la seconda, a nord, racchiude gli appartamenti privati e la sala delle udienze. Una serie di ambienti di modeste dimensioni, accessibili dalla corte, è dislocata ai due lati degli īwān orientale e occidentale. Al termine dei lavori di costruzione l'edificio subì alcune trasformazioni che alterarono la pianta originaria e ne modificarono la simmetria. Le aggiunte principali hanno riguardato soprattutto la zona orientale, esterna al palazzo, dove furono costruiti un grande edificio nella parte nord (XX), in comunicazione con l'ambiente dell'angolo nord-ovest del palazzo, e un ingresso (XIX) protetto da un avancorpo, che consentiva l'accesso dall'esterno all'īwān orientale.
La facciata sud presenta due file di arcate cieche sovrapposte di cui quella superiore è andata quasi completamente perduta; quella inferiore è costituita da due serie di sei ampie arcate affiancate, scolpite ognuna ai lati dell'īwān e delimitate, alle estremità, da un'arcata minore sormontata da tre nicchiette. Grandi medaglioni di stucco scolpito su uno strato di intonaco ornano il timpano delle arcate. Una stretta fascia epigrafica in arabo (cufico), di cui restano pochi frammenti, sottolinea il livello di partenza degli archi. Ai piedi della sezione orientale della facciata gli scavi hanno portato alla luce una piattaforma (largh. 2,3 m; alt. massima 1 m) con un pavimento di mattoni cotti che sostituisce l'originale, più in basso di 40 cm circa e di cui non rimane traccia. L'assenza di una scala lascia supporre che l'accesso alla piattaforma avvenisse dall'īwān dell'ingresso (X). Quest'ultimo, poco profondo, è al centro della facciata e ha subito due restringimenti successivi; le pareti e gli stipiti della porta presentano una elaborata decorazione ‒ pannelli con motivi geometrici, vegetali ed epigrafici ‒ che risale al secondo restringimento del vano. Dell'iscrizione principale, in elegante cufico, è ancora leggibile la parte finale che reca la data, non completa, 55x a.E. / 1155-64, dunque di poco posteriore alla distruzione del palazzo per mano dei Ghuridi.
Il vano d'ingresso dà accesso a una sala cruciforme (VIII) che funge da vestibolo e comunica con la corte attraverso l'īwān meridionale. Della copertura cupolata in crudo e cotto rivestita d'intonaco dipinto rimangono numerosi frammenti. Il pavimento era in mattoni cotti disposti di taglio con cornici di mattoni in piano. Una serie di ambienti si distribuisce ai due lati della sala cruciforme. Sul lato occidentale, a ovest del vano di ingresso, è una sala (IX) con un'ampia navata centrale e un muro divisorio sul fondo, dietro al quale si sviluppano due locali; quello di sinistra contiene latrine e istallazioni per le abluzioni ed è intonacato fino a circa 1,5 m. I pilastri della navata e il muro di fondo sono aggiunte posteriori effettuate a sala a ultimata. Della decorazione delle pareti non si conservano tracce: è difficile risalire all'epoca dei lavori e stabilirne la destinazione. Un secondo ambiente è una piccola moschea (XXI) con doppio portico a tre travate, nell'angolo sud-occidentale del palazzo ma accessibile solo dall'esterno e poco distante dalla Grande Moschea (C.II) edificata nell'avancorte. Resta ancora da chiarire quando fu concepita e da chi era utilizzata.
La facciata interna della corte presentava due file sovrapposte di arcate cieche ‒ la superiore è scomparsa ‒ simili a quelle della facciata meridionale esterna. Dei quattro īwān al centro di ogni facciata, quelli orientale e occidentale sono voltati e pavimentati con mattoni rispettivamente quadrati ed esagonali. L'īwān meridionale è coperto con un sistema di archi trasversi e pavimentato con mattoni cotti disposti di taglio; nella parte alta delle pareti (a 2,2 m) una fascia di stucco scolpito è costituita da un fregio vegetale sormontato da un'epigrafe in arabo (cufico). L'īwān settentrionale è il più ampio, anch'esso coperto con archi trasversi, con un pavimento di mattoni quadrati; le pareti presentano (a 1,75 m) un fregio dipinto in blu e rosso, e la porta sul muro di fondo era delimitata da una cornice in cotto quasi certamente intonacata.
L'ala settentrionale del palazzo è costituita da due ampie zone separate da uno spesso muro trasversale che, nel progetto originario, costituiva il perimetro settentrionale del muro di cinta. La zona a sud ingloba due sale rettangolari (VI e VII) e due abitazioni con corte centrale (XI e XII) ai lati dell'īwān; questo comunica, a nord, con una piccola sala (IV) quadrata (10,3 m di lato) originariamente con cupola in cotto e crudo rivestita d'intonaco dipinto con ornati vegetali. Frammenti di colonnine, forse un tempo al di sopra del parapetto di una galleria/balcone, presentano tracce di pitture figurate ricoperte da due strati di intonaco. Una di queste pitture raffigura il volto nimbato di un adolescente, con una sorta di turbante e proteso in avanti con il gomito sollevato. Al centro della sala è stata rinvenuta una piattaforma quadrata (5,6 m di lato e 1 m di alt.), rivestita di mattoni cotti e malta, a cui si accedeva per mezzo di due scale di tre gradini: fu sopraelevata in un momento successivo e nasconde il pavimento originario formato da due strati di mattoni quadrati. L'ornato dipinto con intrecci vegetali blu e rossi su fondo bianco, sormontato da un fregio di tralci, risale anch'esso alla fase di riadattamento della sala.
Questo ambiente consente l'accesso, a nord, alla sala delle udienze (I), la parte più monumentale dell'intera residenza. Rettangolare, con pavimento di mattoni quadrati, presenta sei massicci pilastri in cotto di cui quelli a sud sono a L (dei due a nord si conservano solo le fondazioni). Questa disposizione dà origine a un ampio īwān, interno alla sala, con cinque passaggi e aperto sul lato nord, verso il fiume. Le superfici dei pilastri sono riccamente decorate: sulla parte inferiore con pitture figurate a tempera; su quella superiore con pannelli in cotto con ornati geometrici, vegetali ed epigrafici. Le pitture rappresentano un allineamento di 44 personaggi stanti (il numero originario era di ca. 60), in posizione frontale e con i piedi di profilo (alt. 1,2 m), intervallati da raffigurazioni di fiori, frutti e uccelli. I volti, di tre quarti e nimbati, sono andati pressoché perduti. Tutti i personaggi recano un'arma di cui rimane solo il manico. L'abbigliamento è tipico dell'Asia Centrale e consiste di lunghi abiti chiusi in vita da una cintura, decorati con vari motivi in cui prevalgono i colori rosso e blu. Le maniche, al di sopra del gomito, sono ornate di bracciali; la scollatura degli abiti lascia intravedere la parte superiore di una tunica; gli stivaletti sono simili a quelli ancora in uso nel Turkestan. Il ciclo pittorico (trasferito per motivi di sicurezza al Museo Nazionale di Kabul) rappresenta quasi sicuramente la guardia di Mahmud b. Sebüktigin il quale, secondo al-Giuzgiani (p. 272), disponeva di una guardia di 4000 schiavi turchi che, nei giorni delle udienze, erano allineati ai lati del trono. La sala delle udienze e il suo apparato decorativo si ascrivono al periodo ghaznavide. Alle spalle dei due pilastri meridionali dell'īwān della sala delle udienze sono stati aggiunti in un momento successivo (forse in età ghuride) due locali, di cui quello occidentale fu utilizzato come oratorio (anch'esso trasportato al Museo Nazionale di Kabul), con pareti rivestite di pannelli di stucco scolpito e un miḥrāb a pianta quadrata. Dei due appartamenti ai due lati della sala delle udienze (II e III) e in comunicazione diretta con essa, quello orientale è il tipo più completo di abitazione a quattro īwān del palazzo.
L'intera area nord dell'ala settentrionale (sala delle udienze e due appartamenti laterali), contrariamente a tutte le altre aree ‒ e solo in epoca ghaznavide ‒ era provvista di acqua corrente che alimentava una serie di vasche, di cui la principale occupava il centro dell'īwān della sala delle udienze e sprigionava un getto d'acqua continuo. L'approvvigionamento idrico era garantito da una rete di canali che consentiva all'acqua del fiume di attraversare l'intera ala, da est verso ovest, e di riversarsi nel fiume. Si conservano ancora tracce del canale di evacuazione a ovest, ma resta ignoto il sistema che consentiva di portare l'acqua dal livello del fiume a quello del palazzo.
Il Palazzo Centrale (B.I), a nord-est di quello Meridionale, ha un muro di cinta con possenti torri d'angolo e si articola su due piani a pianta rettangolare. Su entrambi i piani un ampio corridoio centrale, delimitato da īwān alle due estremità, attraversa l'edificio da sud a nord e separa due ali laterali formate ognuna da una serie di ambienti ai lati di altri due īwān: l'ala occidentale affaccia sul fiume, quella orientale guarda verso un ampio giardino e ospita la facciata principale. Quest'ultima ha due file sovrapposte di arcate cieche separate da una fila orizzontale di mattoni cotti. Alla quasi totalità degli ambienti di quest'ala si accede solo dal giardino; agli ambienti dell'ala ovest si accede dal corridoio centrale. Il piano superiore presenta una maggiore simmetria degli īwān e, al centro, una zona quadrata, originando una pianta cruciforme; l'ambiente nell'angolo nord-est ha una piccola corte centrale su cui si articolano quattro īwān. L'edificio è stato scavato solo parzialmente ed è considerato parte del nucleo più antico databile, con ogni probabilità, al periodo di poco precedente alla conquista ghaznavide. Le sue modeste dimensioni lasciano supporre che fosse usato solo come abitazione temporanea.
Il cosiddetto Castelletto (B.II) si trova immediatamente a nord del palazzo centrale da cui è separato per mezzo di un passaggio molto stretto. Si compone di due parti ‒ ognuna di tre ambienti ‒ di cui quella settentrionale sembra un'aggiunta posteriore. Fu costruito prima del Palazzo Centrale, che ne ostruisce l'entrata e nasconde il portale d'ingresso della facciata meridionale, in origine riccamente ornato. T. Allen definisce questo edificio "ampio padiglione sul fiume", poiché ritiene si tratti più precisamente di un kūšk (padiglione), provvisto forse di un secondo piano privato, e mai utilizzato a scopo abitativo. Potrebbe corrispondere al padiglione fatto costruire all'inizio del X secolo dal saffaride Tahir (come riportato nell'anonimo Tārīḫ-i Sīstān, p. 280) sulle rive del Hilmand presso il ponte che, secondo al-Muqaddasi (p. 305), si trovava nell'area di Bust. L'area a est, prospiciente al Castelletto, è occupata da un vasto giardino di cui sono state rintracciate due fasi costruttive: nella prima esso aveva un perimetro quadrato con un accesso per lato e un padiglione centrale in asse con il Castelletto (B.XI); nella seconda, verosimilmente coeva al palazzo centrale, il giardino fu esteso verso occidente e vi furono aperte due porte. Il padiglione al centro del giardino era in origine un chiosco quadrato con quattro īwān che consentivano l'ingresso a cinque ambienti quadrati di cui uno centrale. Più tardi fu edificata una piattaforma munita di vasca con cornice polilobata.
Il Palazzo Settentrionale si trova all'estremità nord della città. Pressoché quadrato, ha un muro di cinta con torri a tre quarti di cerchio negli angoli e semicircolari lungo le cortine. Comprende tre distinte unità abitative con corte centrale su cui si aprono due o quattro īwān: una a sud-ovest (A.I), una a nord (A.II) e una a sud-est (A.III). Nell'area a est e a sud-est è stato rintracciato un complesso sistema di recinti e spazi aperti con un ingresso principale a ovest; il più importante sembra quello nell'angolo nord-est, delimitato da contrafforti semicircolari e con arcate lungo i lati nord ed est.
Nella vasta avancorte rettangolare (ca. 300 × 90 m) che precede il Palazzo Meridionale è stata rinvenuta la Grande Moschea (C.II), in cui si riconoscono due fasi. La più antica, verosimilmente coeva al palazzo, presenta una sala di preghiera rettangolare (86 × 10,5 m) con due navate trasversali coperte da cupolette (16 a nord e 16 a sud). Un padiglione centrale quadrato, di fronte al miḥrāb e cupolato, separa due ali di otto travate ognuna. I pilastri e le colonne sono in mattone cotto; il pavimento è di mattoni cotti quadrati (52-55 cm). Il muro di fondo è in crudo ed è l'unico della sala di preghiera, aperta sugli altri tre lati: quello orientale affacciava forse su una corte (mai rinvenuta). Durante i rimaneggiamenti successivi i pilastri furono rinforzati, quasi tutte le colonne furono sostituite da pilastri quadrati e due contrafforti furono aggiunti tra i pilastri davanti alla parete di fondo. Un motivo a triplice colonnina fu aggiunto ai lati della nicchia del miḥrāb.
Poco più a sud dell'ingresso dell'avancorte del Palazzo Meridionale è situato il bazar e, come la Grande Moschea, è ritenuto coevo al palazzo, con la differenza che, salvo qualche bottega, fu abbandonato immediatamente dopo la morte di Mahmud. Si estende per una lunghezza di 0,5 km ed è formato da due file di circa 200 botteghe, solo in minima parte portate alla luce. La facciata sulla strada è preceduta da un portico colonnato. Le botteghe hanno muri in crudo, talvolta intonacati con calce, e sono voltate. Il suolo, quasi sempre più basso rispetto a quello del portico, è in terra battuta. È difficile risalire alla natura e all'organizzazione degli artigiani che vi risiedevano. Un bazar strutturato in maniera molto simile è stato trovato anche a Ghazni.
I reperti di L.B. ‒ studiati e pubblicati da J.-C. Gardin ‒ sono costituiti solo da ceramica e monete, poiché gli edifici della città erano stati completamente svuotati prima dell'abbandono definitivo. La maggior parte della ceramica proviene dal bazar, dai Palazzi Meridionale e Centrale, dal padiglione e dalla moschea. È di due tipi, rinvenuti in ugual numero: non invetriata e invetriata. La non invetriata costituisce un gruppo molto omogeneo per la natura e il trattamento dell'impasto, sempre privo di ingobbio. L'invetriata è stata suddivisa in quattro classi, di cui due datano all'XI secolo e due al successivo. La ceramica delle classi più antiche è generalmente ingobbiata di bianco, nero o rosso, dipinta e rivestita di vetrina piombifera trasparente e incolore (Slip Painted); è molto frequente anche l'uso dell'incisione. La classe più tarda è sempre priva di ingobbio e la vetrina è spesso opaca per la presenza di stagno.
Le monete, quasi tutte di bronzo, coprono un periodo di circa 150 anni (tra la fine del X e la metà del XII sec.) e risalgono quasi tutte ai Ghaznavidi, salvo quattro monete samanidi, trovate nel Palazzo Meridionale e nel bazar, e due forse dei Khwarazm Shah (della linea di discendenza da Anushtigin Shihna: 1077-1231) trovate, rispettivamente, in una delle botteghe e nella Grande Moschea. La quasi totalità delle monete ghaznavidi risale a Mahmud e proviene dal bazar; le più recenti recano il nome di Bahram Shah (1117-1157) e provengono soprattutto dal Palazzo Meridionale; il più antico esemplare islamico trovato nel territorio è di bronzo: fu emesso a Bust (359 a.E. / 969/70 d.C.) a nome di Baytuz.
Fonti:
Bayhaqī, Tārīḫ-i Bayhaqī (edd. Ġanī - Fayyāḍ), Tehrān 1925; al-Guzǧānī, Ṭabaqāt-i Naṣirī (ed. Ḥabībī), Quetta 1949; al-Muqaddasī, Aḥsan al-taqāsīm fī ma῾rifat al-aqālim (ed. M.J. de Goeje), Leiden 19062; Tārīḫ-i Sīstān (ed. Bahar), Tehrān 1946.
Studi:
A.A. Kohzad, Lashkargah (Camp Militaire), in Afghanistan, 4, 1 (1949), pp. 30-35; D. Schlumberger, Les fouilles de Lashkari Bazar: recherches archéologiques sur l'époque ghaznévide, ibid., 4, 2 (1949), pp. 34-44; Id., Les fouilles de Lashkari Bazar. Les résultats de la deuxième et de la troisième campagne, ibid., 6, 4 (1950), pp. 46-56; Id., Les fouilles de Lashkari-Bazar, in CRAI, 1950, pp. 46-53; A.A. Kohzad, Uniformes et armes des Gardes des Sultans de Ghazna, in Afghanistan, 6, 1 (1951), pp. 48-53; D. Schlumberger, Notes sur la troisième campagne des fouilles de Lashkari-Bazar, in CRAI, 1951, pp. 110-11; Id., La grande mosquée de Lashkari Bazar, in Afghanistan, 7, 2 (1952), pp. 1-4; Id., Notes sur les quatrième et cinquième campagnes des fouilles de Lashkari Bazar, in CRAI, 1952, pp. 66-68; Id., Le palais ghaznévide de Lashkari Bazar, in Syria, 29 (1952), pp. 251-70; A.A. Kuhzād, Lashkargāh, Kābul 1953; J. Sourdel-Thomine, Stèles arabes de Bust (Afghanistan), in Arabica, 3 (1956), pp. 285-306; Id., s.v. Bust, in EIslam2, I, 1960, pp. 1384-85; J.-C. Gardin, Lashkari Bazar, II. Les trouvailles. Céramique et monnaies de Lashkari Bazar et de Bust, Paris 1963; H. Crane - W. Trousdale, Helmand-Sistan Project. Carved Decorative and Inscribed Bricks from Bust, in EastWest, 22 (1972), pp. 215-26; E. Knobloch, Beyond the Oxus. Archaeology, Art & Architecture of Central Asia, London 1972; F.R. Allchin - N. Hammond (edd.), The Archaeology of Afghanistan from Earliest Times to the Timurid Period, London - New York - San Francisco 1978; D. Schlumberger - J. Sourdel-Thomine, Lashkari Bazar. Une résidence royale ghaznévide et ghoride, Paris 1978; G. Fehérvári - M. Shokoohy, Archaeological Notes on Lashkari Bazar, in WZKM, 72 (1980), pp. 83-95; C.E. Bosworth, s.v. Lashkar-i Bāzār, in EIslam2, V, 1986, pp. 695-97; T. Allen, Notes on Bust, in Iran, 26 (1988), pp. 55-68; 27 (1989), pp. 55-66.
di Maria Antonietta Marino
Città (pers. Nīšāpūr) principale della provincia iranica nord-orientale del Khurasan. L'antica N. era ubicata lungo una delle maggiori direttrici per l'Oriente in una fertile pianura nota per il clima favorevole e irrigata per mezzo di antichi qanāt (sistema idraulico costituito da canali sotterranei).
Benché sia probabile che un insediamento fosse presente già in epoca preistorica, è noto che la città fu fondata in periodo sasanide dal re Shapur I (241-272) e venne conquistata nel 651 dagli eserciti musulmani. In periodo abbaside godette di una certa importanza; a cavallo dell'800 il futuro califfo abbaside al-Mamun visse a N. alcuni anni durante i quali le fonti raccontano che abbia ricevuto in dono della porcellana cinese: significativo risulta dunque il rinvenimento a N. di frammenti di porcellana. A partire dal IX secolo la provincia del Khurasan si rese di fatto indipendente dal potere centrale di Baghdad. Sotto la dinastia dei Tahiridi (821-873) N. acquistò una certa preminenza nei confronti della città di Merv, fino ad allora capitale della provincia, ma fu solo in età samanide (819-1005) che divenne il maggiore centro della regione, dal punto di vista sia politico, come centro di governo, sia, soprattutto, economico per i fiorenti commerci che vi si svolgevano. La nascita di una ricca borghesia costituita principalmente da mercanti, uomini di governo, ufficiali dell'esercito, portò al crescente sviluppo delle arti. N. divenne sede di una significativa produzione di beni di lusso come tessuti, metalli, ceramica e vetro. La fortuna della città proseguì in periodo ghaznavide e selgiuchide (XI-XIII sec.), quando divenne una delle tappe fondamentali per le carovane provenienti dall'Asia Centrale e dai paesi musulmani a ovest del Khurasan. La vita di N. fu completamente sconvolta dall'invasione mongola del 1221 che devastò la regione.
La città antica si trova a sud-est della moderna N. ed è stata oggetto di intense indagini archeologiche patrocinate dal Metropolitan Museum of Art di New York negli anni Trenta del Novecento. Gli scavi hanno interessato varie zone dell'area: i siti più rilevanti e maggiormente indagati sono quattro colline denominate Tepe Madrasa, Tepe Sabz Pushan, "Vineyard" Tepe e Qanat Tepe. In nessuno di questi l'abitato è risultato essere più antico dell'VIII secolo e non sono state rinvenute tracce di strutture sasanidi. La continuità nell'utilizzo delle strutture viene interrotta dall'invasione mongola quando la città viene abbandonata.
Le strutture erano principalmente in mattoni crudi (ḫišt); in alcuni casi il mattone cotto veniva usato nei punti di maggior sforzo architettonico. Il sistema idraulico era complesso ed efficiente: qanāt non solo servivano le aree coltivate, ma scorrevano sotto la città rifornendola di acqua corrente. Le decorazioni architettoniche erano realizzate con mattoni cotti a facciavista, stucco intagliato o stampato e pitture. Sia il mattone cotto sia lo stucco erano dipinti con due colori principali: il rosso cinabro (solfuro di mercurio) e il blu lapislazzuli. In alcuni casi il mattone poteva essere invetriato di turchese, rivelando una datazione al periodo selgiuchide. La decorazione in stucco, prevalentemente vegetale e astratta, dimostra l'influenza degli stucchi di Samarra (con prevalenza del secondo tipo con cornici e motivi di origine vegetale molto stilizzati); allo stesso tempo presenta caratteristiche nuove, in particolare nella forte tridimensionalità del rilievo.
Questo sito ha restituito il maggior complesso abitativo dell'antica N.: l'architettura e la ricca decorazione hanno fatto pensare a un complesso palaziale o a strutture governative.
Sono state rinvenute più di cento monete databili tra l'VIII e il XIII secolo, la maggior parte risalenti alla fine dell'VIII-IX secolo e alla seconda metà del X, ovvero al periodo samanide. Lo scavo si sviluppa attorno a un avvallamento quadrangolare oggi coltivato e non investigato. L'intero centro urbano è orientato verso sud-ovest, ovvero verso Mecca: le abitazioni avevano tutte un potenziale muro qiblī dove spesso si aprivano dei miḥrāb e venivano create piccole aree di preghiera. La zona a sud-est si concentra attorno a una piccola moschea rettangolare e, sebbene siano stati individuati tre livelli d'occupazione, nella moschea stessa sono stati evidenziati almeno cinque livelli pavimentali differenti; sul suolo vergine sono state scoperte tre monete di cui una del 159 a.E. / 775/6 e due datate intorno al 785 che forniscono una data post quem per la costruzione della moschea e probabilmente del complesso stesso. Il miḥrāb, sul lato sud-ovest, è a pianta quadrangolare; come tutti i miḥrāb rinvenuti a N. era rivestito da una decorazione di stucco parzialmente conservata nel terzo strato. In origine la moschea era aperta solo sul lato opposto alla qibla su un cortile, in seguito fu creata un'entrata sul lato sud-est. Nel cortile, dove furono trovati numerosi frammenti di mattoni decorati che dovevano far parte di una camera sotterranea cupolata per la riserva d'acqua (āb-anbār) rifornita da un qanāt, si trovava il minareto, aggiunto alla moschea in un secondo momento, di cui è stata identificata la base ottagonale. I muri del cortile erano decorati in mattone cotto a facciavista: un pannello quasi intatto presenta una decorazione a ottagoni intrecciati, una serie di frammenti compongono un'iscrizione in ṯulṯ su uno sfondo di girali vegetali; nel cortile e nei dintorni della moschea sono stati rinvenuti anche frammenti di mattonelle a rilievo con invetriatura turchese e blu e numerosi resti della decorazione in stucco con motivi vegetali, geometrici ed epigrafici (un pannello di stucco, da un ambiente a nord del cortile, presenta motivi piriformi in forte aggetto su uno sfondo di palmette a cinque lobi). Dietro il muro qiblī della moschea si trovavano alcune strutture tra cui forse una cucina. Sul lato settentrionale un padiglione, una volta cupolato, si presenta quadrangolare all'esterno e ottagonale all'interno, con una fontana circolare al centro sotto la quale passava un qanāt: il rinvenimento di ceramica dipinta in nero sotto invetriatura alcalina blu la datano a un livello piuttosto tardo (probabilmente XIII-XIV sec.). Nei pressi della moschea fu recuperata una splendida brocca di bronzo (XI sec.).
Le aree a nord-ovest e a sud-ovest sono occupate da strutture abitative che si impostano attorno a una corte centrale quadrangolare. Sui lati della corte una serie di massicci pilastri, di cui rimangono esemplari sul lato nord-ovest, formavano probabilmente dei portici. Nell'area nord-ovest due blocchi di strutture sono poste ai lati di un'unità principale costituita da una lunga sala rettangolare connessa in fondo a una quadrata; in entrambe le sale sono stati trovati miḥrāb dal profilo trilobato incassati in una nicchia nelle pareti. Su un livello piuttosto basso della sala quadrangolare furono portate alla luce matrici d'argilla con motivi molto particolari: in una di queste è rappresentato un grosso uccello (aquila?) con una figura umana al centro del corpo, scena piuttosto diffusa su manufatti islamici e dal significato molto discusso associabile alla mitologia greco-iranica o centro-asiatica. Molte case, in questa come in altre zone di N., avevano panche in muratura lungo i muri. La zona scavata a sud-ovest di Tepe Madrasa presenta un fitto agglomerato di ambienti. Sono state trovate molte latrine afferenti a livelli piuttosto tardi: accanto a una di queste fu rinvenuto un oggetto cilindrico in bronzo, probabilmente un calamaio (J. Allan lo attribuisce alla Transoxiana, XI sec.). Alcuni ambienti presentavano una piattaforma rettangolare con una buca al centro in cui era inserita una giara di terracotta nella quale si poneva il carbone: oltre che per cuocere cibi, questo poteva essere un sistema di riscaldamento.
A N. le pavimentazioni erano costituite principalmente da terra battuta intonacata di bianco e solo raramente venivano rivestite di mattoni: in uno degli ambienti nella zona sud-ovest di Tepe Madrasa un sondaggio ha rivelato che parte della pavimentazione era dipinta di blu e rosso. La maggior parte della decorazione di stucco è stata rintracciata in alcuni ambienti di quest'area: in molti casi le pareti erano rivestite di pannelli di stucco con rilievo piatto e motivi vegetali astratti racchiusi in cornici dalle forme variegate. In uno di questi ambienti fu rinvenuto anche un frammento di vetro incassato in un pannello di stucco, prova quasi certa di una finestra in stucco con le aperture chiuse da lastre di vetro. Lo stucco delle finestre era decorato a rilievo, in alcuni casi con motivi epigrafici. Frammenti di pittura murale furono rinvenuti sia nella zona orientale che in quella nord-occidentale, ma l'ambiente che ha conservato il miglior rivestimento dipinto è una delle stanze più occidentali del complesso sud, quadrangolare e con uno zoccolo dipinto lungo le pareti: il registro maggiore presenta pannelli quadrati alternati ad altri più piccoli di forma oblunga; i pannelli più piccoli sono decorati con rombi dipinti a imitazione del marmo, mentre quelli quadrati, diversi l'uno dall'altro, dimostrano un'incredibile varietà di motivi astratti simmetrici derivati da forme vegetali.
Il sito, così denominato dalla spedizione americana a causa della coltivazione di vite che vi si praticava, restituì un abitato non molto dissimile a quello di Tepe Madrasa.
I diffusi crolli delle strutture hanno fatto ritenere che possa essere stato distrutto dal terremoto del 1145. A differenza degli altri siti scavati a N., qui non viene fatto uso di mattoni cotti, né per le strutture murarie, né per la decorazione architettonica. Molti frammenti di decorazione parietale in stucco furono portati alla luce in quasi tutti gli ambienti; quello più settentrionale doveva essere coperto da una cupola di cui si sono conservati alcuni frammenti del paramento in stucco. In un unico ambiente furono rinvenuti frammenti di pietra scolpita (una sorta di alabastro) e dipinta. La grande importanza di Vineyard Tepe risiede però nella scoperta di alcune pitture murali figurate di estremo interesse. La scena più significativa, in monocromia nera, si svolge su un'intera parete e raffigura un cavaliere con falcone, dietro il quale è posta un'altra figura stante meno conservata (oggi al Museo Nazionale Islamico di Tehran). Il cavaliere indossa un caftano con bande di iscrizioni (ṭirāz) sulle braccia, una cintura ‒ a cui sono appesi lunghi pendagli ‒ e un elmo a punta: entrambi questi ultimi di tipo centroasiatico; reca inoltre due spade di diverse misure. Il falcone è appoggiato su un braccio guantato; il cavallo ha corregge decorate e una gualdrappa maculata. L'immagine del falconiere a cavallo è piuttosto diffusa nel mondo islamico ma sono tipicamente iranici sia la staticità del personaggio sia il galoppo volante della cavalcatura (si vedano le immagini sasanidi nella metallistica e nei bassorilievi rupestri). Non è chiaro se la figura a destra del cavaliere ‒ vestita anch'essa con abiti particolarmente ricercati ‒ faccia parte della stessa scena, né che funzione abbia. Nelle vicinanze sono stati rinvenuti alcuni disegni in nero su intonaco: uno dei più interessanti raffigura un felino. Fra i manufatti recuperati nel sito vi è una lanterna cubica di stucco con aperture circolari e una quadrata: in quelle circolari dovevano essere inseriti dischi di vetro colorato.
Fu il primo sito indagato: ne è stata scavata una parte di 80 × 30 m circa; il gran numero di monete rinvenuto data per la maggior parte all'VIII-X secolo.
Le abitazioni sono di minori dimensioni rispetto a Tepe Madrasa e Vineyard Tepe, non superano i 3 m di lato e hanno mura meno spesse. Molte erano provviste del focolaio/giara incassato in una piattaforma: in alcuni casi tubature fittili collegavano la base del focolaio alla superficie, permettendo all'aria di alimentare il carbone. Alcune giare con anse e coperchio utilizzate come contenitori sono state trovate incassate nel terreno. I rivestimenti in stucco sono particolarmente importanti: nell'īwān di una della abitazioni centrali del complesso è stato trovato un grande pannello intatto con una decorazione a rosoni esalobati e motivi vegetali fra cui la tipica foglia "ornitomorfa" di N., con un occhio nel punto di curvatura della foglia. Le altre pareti dell'īwān recavano anch'esse una zoccolatura di stucco: pannelli dipinti in blu, rosso, due tonalità di giallo e bianco, per la maggior parte quadrati con rosetta centrale. Anche le stanze adiacenti all'īwān erano rivestite da una zoccolatura di stucco dipinto, ma con motivi di tipo geometrico (proviene dal cortile un pannello con ornato a nicchia trilobata). In una sala rettangolare non lontano sono stati trovati molti frammenti di pittura non in situ che probabilmente formavano un'unica scena. Tra i molti frammenti di volti femminili se ne conserva uno in condizioni migliori degli altri: delineato in rosso, è circondato da un'aureola azzurra e mostra riccioli neri sulla fronte e sulla guancia destra, spesse sopracciglia, bocca piccola e due dischi neri sotto agli occhi (forse tatuaggi o cicatrici come ancora in uso presso alcune popolazioni uzbeke). Altri frammenti raffigurano volti maschili, di cui uno con barba e sciarpa svolazzante, e probabilmente alcuni esseri mostruosi o ǧinn. I dipinti più interessanti, dal punto di vista sia architettonico sia decorativo, sono dei muqarnas, piccole nicchie sistemate a triangolo nelle zone di transizione, che presentano vari motivi a vaso, con foglie e "grandi occhi".
L'area scavata (70 × 30 m ca.) ha rivelato un abitato simile a quello di Sabz Pushan, con strutture in ḫišt di modeste dimensioni.
Come a Sabz Pushan la maggior parte delle abitazioni era provvista di un pozzo connesso al sistema dei qanāt e alcune di un focolaio incassato nel terreno. Dal punto di vista architettonico però ha restituito edifici più significativi, come un complesso termale, una moschea e una torre probabilmente di avvistamento. La maggior parte delle monete rinvenute datano al periodo abbaside e samanide. I ritrovamenti di decorazioni in mattone cotto e stucco sono scarsi, ma la pittura murale è ampiamente testimoniata. Nella parte più settentrionale dello scavo è stata trovata la moschea: rettangolare (più ampia in senso longitudinale), presentava due grossi pilastri di mattone cotto al centro della sala e un miḥrāb a sezione rettangolare con due colonnine angolari al centro del lato sud-ovest; la parte di miḥrāb afferente al livello più basso della moschea (X sec.), conservava parzialmente la decorazione dipinta.
Nella parte più meridionale del sito fu portato alla luce il complesso termale di cui facevano parte alcuni ambienti quadrangolari e un calidarium: un ambiente ottagonale con un bacino centrale a nove lati a cui erano annessi, a raggiera, cubicoli dai quali probabilmente si utilizzava l'acqua del bacino. In una delle sale quadrangolari erano collocate panche in muratura lungo i muri e una piccola piscina con doppia profondità. Nell'edificio sono stati trovati molti oggetti per la toeletta: pietre pomici, contenitori per cosmetici e una sorta di grattaschiena di bronzo. Le stanze quadrangolari a sud del calidarium erano completamente rivestite di pitture murali su vari strati sovrapposti d'intonaco. Uno di questi, molto rovinato, ha restituito l'immagine di un cavaliere diverso da quello di Vineyard Tepe: la rappresentazione dell'animale e del personaggio appare più naturale nei movimenti. Una delle più grandi differenze e novità rispetto alle pitture figurate degli altri siti di N. risiede nella rappresentazione di volti ‒ sia maschili sia femminili ‒ più rotondi, dalla fisionomia tipicamente mongolica. Sebbene la pittura mesopotamica e iranica s'ispirasse a quella centroasiatica, le affinità di questo stile pittorico di Qanat Tepe con quello delle oasi dell'Asia Centrale anche più orientale sono eccezionali; potremmo trovarci di fronte a una fase più tarda (probabilmente selgiuchide) rispetto agli altri siti della città.
Importanti e abbondanti rinvenimenti di ceramica sono attestati sia nei tepe già citati sia in aree che non hanno restituito significative strutture murarie, come Village Tepe, Falaki, Bazar Tepe e Tepe Alp Arslan. Fornaci sono state portate alla luce nei dintorni di Sabz Pushan, associate alla produzione di vasellame in terracotta non invetriato, e tre fornaci a tiraggio verticale sono state scoperte in un'importante area per la produzione ceramica a poco più di 1 km a est di Tepe Madrasa. L'abbondanza del vasellame ha permesso di elaborare una classificazione dei vari tipi dell'area del Khurasan, in particolare di periodo samanide. Si tratta per la maggior parte di ceramica a impasto argilloso, ingobbiata, dipinta e invetriata al piombo, con una tecnica definita Slip Painting, consistente nell'aggiungere al pigmento una parte di argilla molto fine che stabilizzi il colore in cottura non consentendogli di colare sotto la fusione dell'invetriatura: questa tecnica innovativa ebbe grande successo e diffusione anche in epoche successive. Le forme più comuni sono grandi coppe (fino ai 40 cm di diam.) con piede a disco e pareti oblique, ma anche coppe su piede ad anello con pareti arrotondate e orlo estroflesso a imitazione delle forme della ceramica abbaside. Le principali categorie sono state individuate in base alla tecnica e alla decorazione. La cosiddetta Buff-Ware presenta un impasto color camoscio (buff) e una decorazione o inanimata o figurata solitamente in giallo, nero, verde e rosso: questa tipologia sembra essere stata una delle produzioni più tipiche di N. e venne ampiamente esportata nella regione del Khurasan.
La classe dipinta in nero manganese su ingobbio bianco presenta motivi prevalentemente epigrafici (frasi benaugurali o proverbi); a volte nel cavetto delle forme aperte è dipinto un ornato ornitomorfo o zoomorfo stilizzato. Uno dei gruppi più numerosi probabilmente fu prodotto in vari centri tra cui N.: ne sono stati messi alla luce esemplari in un'area territoriale molto ampia dalla Transoxiana alla regione di Kirman. Una decorazione policroma con l'aggiunta del rosso al nero si può considerare una variante della classe precedente o una nuova tipologia: identici per tecnica, i due tipi differiscono negli ornati e quindi nella concezione estetica. La superficie del vasellame di quest'ultima tipologia è ornata da motivi decorativi vegetali completamente stilizzati o astratti: la sua produzione sembra sia da localizzare nella Transoxiana, molti frammenti sono stati rinvenuti infatti a Samarcanda. Nella ceramica dipinta in policromia su fondo bianco sono usati, oltre al rosso, verde, giallo e terra di Siena. Un altro tipo di Slip Painted è dipinto con colori solitamente chiari su un ingobbio colorato più scuro (dal salmone al bruno) il più delle volte con motivi epigrafici o con puntini o rosette. Anche questa tipologia è probabilmente da ascrivere alla produzione transoxiana, sebbene subì in poco tempo un'ampia diffusione in tutto il Khurasan e nella regione di Gurgan. Un'ultima categoria da annoverare nella classe delle Slip Painted è quella che imita la ceramica abbaside, in particolare i lustri, utilizzando colori simili a quelli metallici. N. importava anche ceramica abbaside con invetriatura opaca dipinta in blu cobalto o a lustro metallico di cui sono stati rinvenuti alcuni frammenti.
Fu rinvenuto anche un certo numero di ceramica decorata "a macchie", o colature, che approfittava della fusione dei colori sotto invetriatura a scopo decorativo: questa tecnica, a volte abbinata a una decorazione graffita, era già stata utilizzata in ambito abbaside. Il ritrovamento di molta ceramica a impasto siliceo con invetriatura alcalina (XII - inizi XIII sec.) conferma che la vita di N. proseguì in periodo selgiuchide, spegnendosi con l'invasione mongola.
Nelle varie aree di N. furono rinvenuti molti vetri, il più alto numero proviene da Tepe Madrasa. È verosimile ipotizzare una produzione locale, sebbene gli scavi non abbiano riportato alla luce fornaci o scarti di lavorazione. Gran parte è incolore, una certa percentuale ha tonalità verdine o gialline. Le tecniche di lavorazione sono molteplici: molto comuni sono i vetri soffiati non decorati, a volte realizzati a stampo. Le tecniche di lavorazione a caldo contemplano l'uso della punzonatura, dello stampo e della decorazione applicata. La tecnica della decorazione a freddo per mezzo dell'incisione o dell'intaglio (quest'ultima per realizzare ornati più complessi quali quelli zoomorfi e astratti che ricordano lo stile cosiddetto "smussato" di Samarra) era, dal punto di vista decorativo, la più complessa e raffinata.
Bibliografia
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di Francesca Leoni
Capitale della provincia del Fars, nell'Iran centrale, fondata nel 693 in un'area di precedente occupazione sasanide; già nel IX secolo al-Istakhri ne parla come delle più grandi città della Persia, il cui diametro raggiungeva i 5 km circa.
Centro di una certa importanza sotto i Saffaridi (868-933) che la resero capitale e vi eressero uno tra i suoi più rappresentativi monumenti, il masǧid-i ῾Atīq (864), Sh. divenne economicamente e culturalmente rilevante a partire dalla seconda metà del X secolo, sotto il buyide Adud al-Dawla (949-983). A lui risalgono numerose opere pubbliche tra le quali una fortezza, una grossa biblioteca, un ospedale, varie moschee e palazzi, oggi scomparsi, oltre a un quartiere militare, il kard Fana Khusraw da alcuni studiosi identificato con Qaṣr Abū Naṣr. Secondo Ibn al-Balkhi (XII sec.) alla fine del periodo buyide va riferita anche l'imponente cinta muraria di pietra. Il controllo della regione da parte dei Selgiuchidi venne esercitato attraverso una serie di governatori; a loro sono riferiti numerosi edifici, fondazioni pie e madrasa di cui diverse fonti successive (Zarkub Shirazi, XIV sec.) parlano in dettaglio, non più rintracciabili. Gli atabeg Salghuridi (1148-1270), giunti come vassalli dei Selgiuchidi, si resero rapidamente indipendenti e patrocinarono numerose fondazioni pie e l'istituzione di una serie di awqāf (sing. waqf, donazione) per il santuario di Ibn Khafif e altri luoghi di venerazione locale. Grazie alla presenza di questi luoghi di pellegrinaggio e alle oculate scelte diplomatiche Sh. fu risparmiata dalla furia distruttiva dell'invasione mongola cominciata intorno al 1218.
Un periodo positivo economicamente e artisticamente si ebbe sotto gli Ingiuidi che controllarono la città tra il 1325 e il 1353, come rimarca Ibn Battuta che ne descrive i bazar e la ricchezza che ispirò all'ingiuide Abu Ishaq la costruzione di un palazzo le cui imponenti volte si dice fossero state ispirate all'Īwān Kisrā del palazzo di Ctesifonte. L'avvento dei Muzaffaridi nel 1353 costituì una breve parentesi prima della conquista timuride che aprì uno dei momenti più importanti per la fioritura artistica e culturale della città. Nonostante le dispute per il controllo del Fars tra Timuridi, Aq Qoyunlu e Qara Qoyunlu (seconda metà del XV sec.), Sh. continuò a essere un crocevia di mercanti e viaggiatori, molti europei. Pur contratta e oggetto di secondaria attenzione rispetto a centri come Tabriz, Qazvin e Isfahan, una volta passata sotto il controllo dei Safavidi (1503) la città fu interessata ancora da importanti progetti architettonici. Il governatore Imam Quli Khan, attivo durante il regno di Shah Abbas (1588-1629), eresse un palazzo e una madrasa, ricostruì la cinta muraria e dotò di cipressi la strada principale imitando la coeva Isfahan.
Un'ultima fase di ripresa si ebbe a partire dal 1766 quando Karim Khan Zand fece di Sh. la capitale del proprio regno che comprendeva l'intera Persia a esclusione del Khurasan; a lui va riferito un imponente programma architettonico che produsse una nuova cinta muraria con ampio fossato, la cittadella (arg), il masǧid-i Waqīl (un complesso di moschea-madrasa e bagno). A seguito della sua morte e con il controllo della dinastia Qagiar, iniziato intorno al 1790, Sh. si contrasse a centro di provincia, entrando in una fase di progressivo e costante declino.
Sh. presenta alcune difficoltà per un'attendibile ricostruzione archeologica. La continua occupazione ha fatto sì che le fasi costruttive più antiche fossero obliterate o rese difficili da rintracciare a causa delle aggiunte successive ai singoli edifici e nel tessuto urbano. Inoltre le catastrofi naturali hanno rappresentato la causa più grave della perdita di evidenza materiale.
Il masǧid-i ῾Atīq rappresenta uno dei pochi monumenti ancora visibili dei primi secoli, nonostante le aggiunte e i restauri delle varie epoche ne abbiano modificato profondamente l'aspetto iniziale. La ricerca di Wilber sul sito agli inizi degli anni Settanta del XX secolo ha cercato di ricostruirne l'evoluzione architettonica anche grazie al materiale epigrafico sopravvissuto. I riferimenti a quest'imponente moschea nelle fonti medievali ‒ da Ibn al-Balkhi a Ibn Battuta ‒ consentono di collegare parte dell'evidenza materiale più antica con quanto faceva parte dell'edificio in quei secoli. Ibn Battuta menziona gli annessi facenti parte del complesso nel XIV secolo ‒ la madrasa, due ostelli, una stanza di lettura e un ospedale ‒ con i quali la moschea raggiunse l'estensione che tuttora occupa e che ne giustifica le estese dimensioni. Tra i vari interventi quelli associabili al periodo safavide risultano i più facili da identificare anche grazie all'adozione del mattone come materiale da costruzione in netto contrasto con i periodi precedenti durante i quali la pietra rimase dominante (nel 1935 un massiccio restauro aspirava a ricostruire il monumento).
Area di più vasta ricerca archeologica è stata invece la zona di Qaṣr (o Taḫt) Abū Naṣr, 6 km a est di Sh., dove gli scavi condotti dal Metropolitan Museum of Art nel 1932 hanno rinvenuto tracce di costruzioni di tarda età partica-inizio età sasanide (II-III sec.) e una fortezza datata all'ultima fase sasanide (VI-VII sec.). L'area occidentale del sito è risultata occupata anche e soprattutto in età islamica, avendo restituito un'interessante sequenza ceramica databile tra il IX e il XIII secolo in aggiunta a un'evidenza numismatica che attesta una lunga, sebbene spesso contratta, occupazione, fino al periodo muzaffaride (XIV sec.) a cui si riferisce buona parte delle monete rinvenute nell'area. Il primo periodo abbaside (VIII-IX sec.) è la fase saliente per quanto concerne la modalità di occupazione del sito: la fortezza, allargata considerevolmente durante l'ultimo periodo sasanide, fu abbandonata insieme all'area circostante quasi contemporaneamente allo sviluppo dell'insediamento nel settore ovest, dove gran parte della monetazione islamica è stata rinvenuta.
In questa stessa area l'evidenza ceramica include categorie tipiche del periodo abbaside ricollegabili alla produzione di Samarra, Susa, Istakhr e Siraf (dall'invetriata bianca opaca dipinta in blu cobalto alla graffita) e tipologie posteriori (come il lustro metallico con vetrina blu, XIII-XIV sec.). Sfortunatamente le circostanze in cui lo scavo si svolse negli anni Trenta del XX secolo non hanno consentito uno studio contestualizzato dei ritrovamenti e il rapporto sulla missione ha atteso 40 anni prima di venire alla luce restituendo risultati necessariamente parziali.
Fonti:
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di Maria Antonietta Marino
La città di S. (pers. Sīrāf), sulla costa del Fars, nei primi secoli dell'Islam fu uno dei maggiori porti del Golfo Persico, rivale di Basra per le importanti attività commerciali che vi si svolgevano: si commerciava non solo con l'entroterra e i paesi musulmani limitrofi, ma anche sul lungo raggio con l'India e il Sud-Est asiatico da una parte e la costa dell'Africa orientale dall'altra.
Molto fiorente fino a un devastante terremoto che colpì la regione nel 977, S. mantenne la sua funzione portuale almeno fino al XII secolo, quando le fonti raccontano che lì visse uno dei mercanti più ricchi del Medio Oriente. Ma già nel XIII secolo venne descritta come una piccola città di umili abitanti.
Una missione del British Institute of Persian Studies condusse a S. importanti scavi archeologici (1966-73) che riportarono alla luce gran parte dell'abitato e la Grande Moschea. Il sito si trova a ovest del villaggio di Tahiri e si estende lungo la costa, a partire da uno sperone sul mare all'estremità occidentale, per 2 km circa. La città doveva essere cinta da mura, di cui si sono identificati i resti nell'area più occidentale. Sotto i livelli del periodo protoislamico furono scoperti resti architettonici attribuibili a un precedente insediamento sasanide.
La Grande Moschea fu costruita (sito B) sulle rovine di un forte, subì vari rifacimenti: sono state individuate due fasi principali di cui la prima corrisponde alla costruzione originaria e la seconda al suo allargamento.
La prima moschea, leggermente rettangolare, era costruita su un basamento e aveva spesse mura con bastioni circolari; l'unica entrata, sul lato nord-est, era affiancata dal minareto di cui si è conservata solo la base quadrata. L'interno presentava un cortile quadrato circondato da un riwāq (porticato) e una sala di preghiera ipostila a tre navate parallele al muro qiblī. Il miḥrāb era a sezione quadrangolare, secondo la tradizione architettonica mesopotamica e iranica, aggettante all'esterno. Le mura della moschea erano a sacco con pietrisco grezzo legato da malta gessosa all'interno di paramenti murari in conci di pietra tagliata. Il pavimento della sala di preghiera era rivestito di malta, mentre il cortile era pavimentato con pietra. Grazie ai numerosi rinvenimenti numismatici nel riempimento del basamento gli archeologi hanno datato questa prima costruzione tra l'815 e l'825.
L'allargamento fu realizzato demolendo l'originario muro qiblī, spostato dopo aver ampliato la sala di preghiera di due navate verso sud; il cortile fu dotato di un secondo porticato. Il miḥrāb del nuovo muro qiblī era anch'esso a sezione quadrangolare e aggettante all'esterno. La copertura era sostenuta da arcate su colonne di pietra con basi quadrate. In assenza di frammenti attribuibili a volte o cupole è plausibile ipotizzare una copertura piatta: la scoperta di intonaco con impronte di foglie di palma ha fatto ritenere che il tetto fosse realizzato con un'intelaiatura di legno e fronde di palma rivestita d'intonaco. Un secondo ampliamento, probabilmente non molto tempo dopo la ricostruzione della moschea, previde l'estensione verso sud-ovest delle navate della sala di preghiera e l'aggiunta di altre navate parallele a queste, ma più corte, sul lato sud-ovest del cortile in modo da formare una zona rettangolare supplementare. Fu aggiunto verosimilmente in questo momento il bacino rettangolare nell'angolo occidentale formatosi con l'ulteriore allargamento. La moschea doveva essere coronata da merlature a gradini di cui sono stati rinvenuti interessanti frammenti di stucco con motivi vegetali in rilievo: un merlo, rinvenuto quasi intatto, presenta un tralcio di vite centrale da cui si dipartono girali foliati e che termina in una palmetta. Altri frammenti di stucco, probabilmente relativi al miḥrāb, presentano foglie polilobate forate. I rinvenimenti numismatici e ceramici relativi al periodo della ricostruzione sono sorprendentemente simili a quelli della seconda moschea e dunque la datazione non può essere che di qualche decennio successiva.
Le strutture architettoniche dell'abitato erano in pietre grezze legate da malte gessose con pavimentazione in malta o in lastre di pietra tagliata.
L'abitato A (15 × 5 m), 100 m a ovest della Grande Moschea, ha subito tre fasi di occupazione. Il periodo di maggiore prosperità è datato alla prima metà del IX secolo e proprio intorno a quest'epoca va attribuito l'edificio più significativo della zona (nel secondo livello). Questa datazione sarebbe confermata dal rinvenimento di alcune ceramiche di tipologie simili a quelle di Samarra. Gli scavi nel sito C, a 150 m a est della Grande Moschea, hanno rivelato un interessante aggregato costituito da un bazar, una moschea e un complesso termale. Il sito F, una collinetta a est del wādī che dalla Valle Shilau porta al mare, ha restituito un gruppo di importanti residenze separate le une dalle altre da stretti vicoli e da un'arteria principale. La casa più grande (27 × 18 m), con impianto simmetrico, presentava un cortile centrale su cui si affacciavano ambienti rettangolari. Le coperture dovevano essere piatte con intelaiatura in legno, importato principalmente dalle coste orientali dell'Africa. I muri esterni erano rinforzati da contrafforti semicircolari, come spesso avviene nell'architettura di S., e l'entrata principale verso nord era fiancheggiata da pilastri. Sul lato sud, verso il mare, si apriva una loggia su pilastri. I resti della decorazione architettonica in stucco mostrano motivi geometrici ed epigrafici. Il livello più tardo ha restituito abbondante ceramica cinese e ceramica locale dello stesso tipo rinvenuto nelle fornaci fornendo una datazione ante quem dell'XI secolo.
Le altre residenze della zona presentano impianto simile con cortile centrale sul quale affacciano stanze rettangolari; le entrate principali sono solitamente sulla strada più ampia. Accanto alla residenza maggiore è stata rinvenuta una piccola moschea con miḥrāb a sezione quadrangolare. Molte case hanno subito una ristrutturazione, forse coincisa con il periodo successivo al terremoto. L'impianto viario pare molto regolare ed è possibile ipotizzare una pianificazione, se non della città, dei singoli quartieri. Sul lato settentrionale del centro urbano di S. (sito K) si trovava un'elegante zona residenziale, abitata certamente da ricchi mercanti e ufficiali, dove palazzi di grandi dimensioni erano distribuiti su terrazze lungo le pendici delle colline. I palazzi erano quadrangolari, con mura bastionate e cortile centrale; le pareti erano rivestite di intonaco e la decorazione in stucco era molto diffusa. In una di queste residenze fu rinvenuto un interessante graffito raffigurante una grande nave. Ogni complesso possedeva infrastrutture come cisterne, pozzi e canali di scolo. In quest'area sono stati rinvenuti notevoli oggetti di lusso, tra cui porcellane cinesi.
Fra gli edifici pubblici furono riportati alla luce, nella punta più occidentale di S. (sito J), un complesso termale e un grande edificio rettangolare, ambedue databili prima della metà dell'XI secolo. Il grande edificio è suddiviso in due parti: quella orientale è costituita da stanze rettangolari affacciate su un cortile porticato; quella occidentale ha una configurazione particolare: priva di cortile, è una solida costruzione con massicci pilastri che dovevano sorreggere una struttura superiore. L'edificio potrebbe essere interpretato come un caravanserraglio o come la sede delle autorità portuali.
Il sito G, a ovest del Wadi Shilau, è occupato da un cimitero e da un santuario. I sondaggi hanno rivelato che il cimitero esisteva già nel XII secolo e che la moschea con gli annessi edifici fu costruita a fine XIII - inizi XIV secolo, sebbene sia stata poi ristrutturata nel XVIII. Non lontano è stato rinvenuto un cimitero monumentale (sito O) con tombe a base quadrata con contrafforti semicircolari o rettangolari, impiegate per sepolture singole o collettive.
Nella parte più occidentale di S., lontano dal centro urbano, furono rinvenute una trentina di fornaci (ca. IX-X sec.) che formavano un complesso industriale di produzione ceramica (sito D). Per la maggior parte erano fornaci di tipo verticale e di una di esse si conserva ancora il supporto a fori che separava gli ipocausti dall'ambiente di cottura. Alcuni degli edifici maggiori erano probabilmente utilizzati come officine. Molte erano le vasche e i contenitori per l'acqua. Superfici piatte circolari erano utilizzate per la lavorazione dell'argilla. Alcuni forni più piccoli con contenitori ovali venivano usati presumibilmente per produrre l'invetriatura. Presso le fornaci si trovavano buche riempite con scarti di produzione. I rinvenimenti annoverano per la maggior parte ceramica non invetriata e, sebbene non sia stato trovato alcuno scarto di ceramica invetriata, il ritrovamento di coppe con forme sinizzanti che prevedevano sicuramente l'invetriatura attesta la produzione di ceramica invetriata. Tra le tipologie più interessanti sono da annoverare ceramica protoislamica di tipo sasanide, ceramica con invetriatura opaca dipinta in blu o marrone su bianco, due tipologie di graffita dipinta "a macchie", non invetriata dipinta (impiegata soprattutto a partire dal declino della città) e non invetriata a impasto rosso o camoscio.
Il ritrovamento a S. di grandi quantità di vasellame cinese, tra cui porcellana e pre-céladon (ceramica Yueh), conferma il grande traffico internazionale con le aree del Sud-Est asiatico. Il gran numero di frammenti di vetro suggerisce una notevole produzione forse destinata anche all'esportazione. Il bronzo e il ferro, nonostante le materie prime venissero importate, erano lavorati localmente, come testimoniano gli scarti di produzione. Fu rinvenuto inoltre vasellame di steatite e, cosa rara, anidrite.
J. Aubin, Les ruines de Siraf et les routes du Golfe Persique au XIe et XIIIe siècles, in Cahiers de civilisation médiévale, 2 (1959), pp. 295-301; S.M. Stern, Ramisht of Siraf, a Merchant Millionaire of the Twelfth Century, in JRAS, 1967, pp. 10-14; D. Whitehouse, Excavations at Sīrāf. First Interim Report - Sixth Interim Report, in Iran, 6 (1968), pp. 1-22; 7 (1969), pp. 39-62; 8 (1970), pp. 1-18; 9 (1971), pp. 1-17; 10 (1972), pp. 63-87; 12 (1974), pp. 1-30; Id., Chinese Stoneware from Siraf: the Earliest Finds, in SAA [1971], pp. 241-55; Id., The Houses of Siraf, Iran, in Archaeology, 24 (1971), pp. 255-62; Id., Siraf III. The Congregational Mosque, London 1980; M. Tampoe, Maritime Trade between China and the West. An Archaeological Study of the Ceramics from Siraf (Persian Gulf), 8th to 15th centuries A.D., Oxford 1989; R.D. Mason, The Abbasid Glazed Wares of Siraf and the Basra Connection: Petrographic Analysis, in Iran, 29 (1991), pp. 51-66.
di A. David H. Bivar
Città nell'area centro-occidentale della provincia del Kirman, lungo la strada per il Fars. Dalla fine del III sec. d.C. sembra che S. abbia assolto alla funzione di centro amministrativo della provincia, sia sotto i Sasanidi sia in età protoislamica.
La città moderna, denominata Saidabad, è circa 15 km a ovest dell'insediamento medievale, la cui pianta presenta un perimetro rettangolare che si sviluppa intorno alla base di una massiccia altura rocciosa sormontata da una fortezza, nota come Qal῾a-i Sang (Castello di Pietra). La localizzazione dell'insediamento sasanide non è stata individuata, a meno che essa non corrisponda al sito medievale. Quando il vasto dominio dei Saffaridi (867-1495 ca.) si affermò nel Sistan le province del Fars e del Kirman vi furono incorporate e furono teatro di varie campagne militari e ribellioni. Il trasferimento finale della capitale della provincia del Kirman da S. a Kirman avvenne probabilmente durante il governo del generale samanide indipendente Muhammad ibn Ilyas che stabilì un controllo stabile sulla provincia per oltre trent'anni. Nel 970 questa fu conquistata dalla dinastia buyide del Fars. Il più dettagliato resoconto locale della storia successiva, fino a epoca recente, è quello di Waziri, con numerosi riferimenti a S. e al suo castello, il Qal῾a-i Sang, ritenuto inespugnabile.
Successivamente alla conquista, i Mongoli (Ghazan Khan, 1295-1304) mantennero S. separata da Kirman. Fu probabilmente già sotto il muzaffaride Shah Ahmad (1384-93) che vennero intrapresi interventi per la ristrutturazione del castello. Il nome di questo governante viene citato anche nel minbar (pulpito) di pietra commissionato dal suo ufficiale Qutb al-Sultani, datato al 789 a.E. / 1387 e ancora conservato sotto il lato meridionale del castello (Bivar 2000). Sebbene Timur (Tamerlano) avesse inviato un potente esercito, la grande fortezza resistette per tre anni. Non è a tutt'oggi chiaro fino a che punto la devastazione della città medievale e la demolizione del castello abbiano avuto luogo all'epoca di questo assedio, né per quanto tempo parte della popolazione vi abbia continuato a risiedere e quanto il castello sia stato sporadicamente utilizzato. Una ricognizione e saggi di scavo nel sito vennero intrapresi nel 1970 da A. Williamson, che pubblicò un breve resoconto (Williamson 1971); la prematura morte dello studioso impedì la pubblicazione di una relazione più approfondita.
Peraltro alcune lievi discrepanze tra la sua descrizione e quella più recentemente fornita da Bivar (2000) sollevano il dubbio che il sito descritto possa non essere lo stesso. La pianta topografica citata nella relazione di Williamson sembra non sia stata pubblicata e nella sua descrizione non è fatta menzione del più rilevante tratto presente nell'area indagata da Bivar. Williamson afferma che l'insediamento medievale si trova a sud-est della città odierna, mentre l'impressione di Bivar è che esso sia localizzato più a est. L'attenzione di Williamson fu rivolta principalmente all'individuazione di fornaci: furono scoperte aree con ceramica islamica preselgiuchide (950-1050) sia non invetriata (incisa, al pettine, intagliata, stampata) sia invetriata (Slip Painted ‒ con ingobbio bianco e con ingobbio rosso-bruno ‒, graffita monocroma verde o policroma, monocroma verde, dipinta sotto invetriatura, simile a quella dei depositi più tardi di Ghubayra). Sono stati individuati anche probabili resti di 17 fornaci per il vetro. Non è ancora possibile stabilire se alcune delle estese rovine di S. possano riferirsi ad aree insediamentali successive.
Bibliografia
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di Claire Hardy-Guilbert
La piana di S. è delimitata a est dal corso del Diz, affluente del Kerkha, a ovest dal fiume Shaur e a nord da un grande canale costruito nel XIII sec. a.C.
La millenaria eredità ha conferito alla città islamica uno statuto particolare tra i centri urbani del nuovo califfato musulmano. Fu conquistata nel 641/2. Il generale abbaside al-Muwaffaq, fratello del califfo al-Mutamid (870-892), vi soggiornò al tempo della guerra degli Zanǵ nel Khuzistan. Malgrado la scarsa rilevanza politica (si ignorano anche i nomi dei governatori) la città conobbe un'eccezionale prosperità fino al XIII secolo, quando fu abbandonata dai suoi abitanti a causa dell'invasione mongola. Tuttavia, come dimostra il suo nome (Shush-i Daniel, legato a quello del profeta Daniele, la cui tomba fu spostata più volte e infine collocata sulla riva sinistra dello Shaur), è stata a lungo meta di pellegrinaggio e nel XIX secolo, al momento dell'inizio dei lavori di scavo, era solo un villaggio lungo le due rive dello Shaur.
Quanto alla città medievale, dei primi tre ‒ a volte quattro ‒ livelli di occupazione islamica durata sei secoli, solo quello del X secolo consente un'interpretazione complessiva. La prima occupazione del VII secolo è attestata su tre tepe: l'Apadana, la Città Reale e la Città degli Artigiani. Abitazioni spaziose o modeste ed edifici pubblici furono costruiti sulle rovine del palazzo achemenide di Dario I, sul tepe dell'Apadana, sulle vestigia sasanidi del tepe della Città Reale e sul cimitero partico del tepe orientale della Città degli Artigiani. Il fossato tra il tepe dell'Apadana e quello della Città Reale era già stato riempito in precedenza. Verso il 639 fu costruita una moschea considerata Moschea del Venerdì, subito dopo ingrandita del 45%, a testimonianza di una sensibile crescita demografica. A questo fu aggiunto un secondo edificio a uso conventuale. Tra la fine del IX e gli inizi del X secolo i quartieri residenziali furono inglobati in un unico tessuto urbano di 40 ha senza una reale pianificazione, bensì secondo un orientamento comune fortemente influenzato da quello delle vestigia achemenidi, con uno spostamento di 10° a est rispetto al nord geografico. Alla fine del X secolo al-Muqqadasi visitò S. e ne fornì una descrizione a prima vista contraddittoria: "Si tratta di una città fiorente e amena; gli abitanti dimostrano uno spirito industrioso; vi si trovano magnifici bazar e del buon pane; corsi d'acqua corrente azionano i mulini della città, vi sono eccellenti bagni e uno zuccherificio; vi si trovano inoltre alcune tenute […] splendide colture circondano la città e cresce una canna da zucchero di eccellente qualità". Tuttavia, in un passo successivo, lo storico riporta che la città propriamente detta era già in rovina e che la popolazione viveva in un sobborgo. Queste ultime osservazioni coincidono con i dati archeologici che hanno messo in evidenza l'abbandono dell'Apadana e della Città Reale nel X secolo e la continuazione di un'occupazione a est, intorno alla Moschea della Città degli Artigiani, e a ovest, sulla riva destra dello Shaur, fino al XIII secolo.
Le abitazioni si distribuiscono su terrazze dalla sommità del tepe dell'Apadana orientale fino al fondo della depressione che separa questo tepe da quello della Città Reale. Spaziose dimore, provviste di portici con colonne intorno a un'ampia corte quadrata (144 m2) e ornate da decorazioni in stucco, occupano la parte superiore dell'Apadana. Sulla pendenza, in direzione del fossato, si trovano abitazioni di circa 110 m2, ugualmente provviste di corte con īwān su uno o più lati. Lo stesso tipo di casa si riscontra nel livello A1 della Città Reale, dove le abitazioni sono distribuite sui due lati di una strada. I muri delle residenze dei livelli I e II della Città Reale erano rivestiti con pannelli alti più di 1 m. L'inquadramento delle aperture, delle porte e delle finestre o nicchie di questi ambienti d'apparato era formato da semicolonne di stucco scolpito sormontate da un arco dello stesso materiale. Le abitazioni erano provviste di bagni, latrine e di un sistema di fognatura a canalizzazione unica; alcune forse erano dotate anche di bagno privato. L'evacuazione delle acque avveniva mediante un sistema di canalizzazioni in tubi di terracotta o anche per mezzo di canali coperti costruiti con mattoni cotti che conducevano a smaltitoi regolarmente controllati da chiuse. Alcune giare interrate fungevano da silos. Si cucinava su fornelli mobili in terracotta e i forni per il pane erano posti all'esterno.
Fra gli edifici, la Moschea del Venerdì (639) rappresenta il monumento più imponente. La sua costruzione necessitava di un ampio spazio libero sul tepe della Città degli Artigiani nel luogo in cui sorgeva un cimitero partico (i tepe dell'Apadana, dello Shaur e della Città Reale, disseminati di rovine preislamiche, venivano utilizzati per l'abitato). La prima moschea copre una superficie di 1810 m2; la sala di preghiera, con tre travate e otto navate, è preceduta da una vasta corte porticata su tre lati e provvista di un'edicola per le abluzioni. Il pavimento è in terra battuta, i muri sono in mattoni crudi e cotti. Gli angoli nord ed est del muro opposto a quello della qibla sono fiancheggiati da bastioni quadrangolari. Le fondazioni dei pilastri o delle basi di colonna attraversano gli strati partici del cimitero; l'intercolunnio sempre uguale del portico d'entrata e della sala di preghiera e l'assenza della nicchia del miḥrāb nel muro qiblī attestano la datazione dell'edificio a età protoislamica. Intorno al 700 la moschea subì un ampliamento con un'estensione omotetica a partire dal centro della corte originaria che fu riutilizzata, ingrandita e pavimentata con mattoni. Il muro di cinta, rinforzato esteriormente con pilastri, delimita una superficie di 2636 m2. Sembra che la nuova moschea possedesse un miḥrāb di 1 m di profondità. Il minareto a pianta rettangolare fu raddoppiato posteriormente con una pianta semicircolare. La nuova moschea era decorata con numerose inscrizioni in cufico, ornati geometrici in cotto tagliato e ornati floreali in stucco.
A 60 m a nord-est della moschea si trova un edificio inglobato nel tessuto urbano e ritenuto un convento o ḫānqāh. Si eleva al di sopra delle rovine di un'abitazione islamica: è un edificio pubblico collettivo con una superficie di 936 m2, formato da 18 ambienti intorno a una corte centrale rettangolare. La disposizione simmetrica della facciata d'ingresso non consente di risalire alla funzione dell'edificio; tuttavia la sua configurazione insolita lo differenzia da un'abitazione, con due strutture in aggetto ai lati della porta d'ingresso, la cui soglia è formata da due antiche soglie in calcare tagliato e reca inscrizioni in arabo. All'interno del vestibolo vi sono due ambienti di piccole dimensioni, aperti e comunicanti tra loro. L'ingresso troppo stretto non consente di identificare l'edificio come caravanserraglio; malgrado l'assenza di un oratorio e della camera funeraria del fondatore è molto più probabile che sia stato un convento piuttosto che un ospedale. Del resto a S. dovevano esistere molti conventi (al-Muqaddasi attesta di averli frequentati). L'edificio è stato rinvenuto in ottimo stato di conservazione ma privo di pavimento: forse fu abbandonato prima della fine dei lavori; fu poi riempito con un'insolita quantità di ceramica come se fosse divenuto una sorta di discarica. Il materiale più antico risale all'XI secolo e fornisce una datazione per il periodo dell'abbandono dell'edificio, spiegabile solo con un improvviso cambiamento di orientamento religioso: la costruzione, forse inizialmente concepita come fondazione religiosa sciita ordinata dai Buyidi (932-1055), fu interrotta dall'arrivo dei Selgiuchidi (1037-1194), difensori dell'ortodossia sunnita.
I bagni, sia pubblici sia privati, esistevano già nella S. abbaside e testimoniano l'alto livello di vita urbana. Nel ḥammām del tepe dell'Apadana (si tralascerà quello della Città degli Artigiani) la stufa a forma di abside è contigua alla sala calda a sua volta contigua a quella tiepida, entrambe provviste di ipocausto e delimitate da una lunga entrata seguita da uno spogliatoio. La pianta originaria comprendeva anche un complesso formato da una sala a ipocausto con vasca quadrata (di cui restano evidenze), sacrificato quando la superficie del bagno fu ridotta; tale complesso, che poggia direttamente sul livello achemenide scomparso, corrisponde al più antico livello islamico dell'area della sala delle udienze e di esso non restano più né il pavimento né i tre metri di livelli islamici che lo ricoprivano. Fu costruito tra il X e l'XI secolo e alcune pareti furono intonacate di bianco e dipinte con ornati geometrici in rosso scuro.
Contrariamente a quello che lascia supporre la denominazione di Città degli Artigiani questi non erano concentrati solo su questo tepe che deve il nome ai forni per la ceramica rintracciati da Ghirshman sull'estremità orientale, mai esplorati; tuttavia l'abbondante materiale ceramico e i numerosi scarti di fornace presenti in superficie consentono di supporre che S. sia stata un importante centro produttivo. Un'officina di vetro a ovest sulla Città Reale giustifica i numerosi vetri (bottiglie, flaconi e coppette) utilizzati nella vita quotidiana.
Uno zuccherificio di 225 m2, costruito sulle rovine del palazzo di Artaserse II sulla riva destra dello Shaur, mostra tre stadi di costruzione. Occupa l'angolo est e la zona oltre il corridoio meridionale della sala ipostila del palazzo achemenide, di cui riprende l'orientamento. Una sala con vasche per la sgocciolatura, due forni di calce ‒ di cui uno imbutiforme all'estremità di una delle quattro sale rettangolari dell'edificio ‒ e numerose macine coniche in terracotta hanno permesso di risalire a questa attività di raffinazione dello zucchero e di produzione in pani durante i secoli XII e XIII. Testimoniata da al-Muqaddasi sin dal X secolo, questa attività si è protratta per ben tre secoli. Ibn al-Faqih (m. 903) decantò l'abilità degli abitanti nella fabbricazione delle sete e notò che la seta (ḫazz) di S. suscitava la cupidigia dei re. Istakhri (m. 950) precisò che questa specialità era esportata in tutto il mondo. Secondo Masudi (m. 956) la lavorazione tessile risale a Shapur I (241-272) che deportò alcuni prigionieri capaci di fabbricare a Tustar il broccato tustarī e altre varietà di sete come quello tipico di S.
Bracieri tripodi in steatite incisi, oggetti da bagno, fiale e flaconi in vetro per il trucco e per il profumo, cucchiai per il trucco e bastoncini per il khol (unguento scuro per il trucco degli occhi) in bronzo gettano luce sulla qualità della vita quotidiana la cui prosperità si riflette soprattutto nella grande varietà di vasellame, anche di lusso. Alcuni oggetti comuni come le grandi giare in ceramica per l'acqua presentano una decorazione alla barbotina o incisa a tratti larghi. L'invetriata, simile per certi aspetti alle produzioni di Samarra e di Samarcanda, offre molte varietà. Oltre alle giare, ai bacini e alle coppe con invetriatura alcalina monocroma blu, eredità dei Sasanidi, troviamo vasellame con invetriatura bianca e decorazione sia pseudo-epigrafica in bruno di manganese, sia con melograni o palmette in blu cobalto, sia "a macchie" in giallo rosso e verde, sia policroma per le coppe con decorazione graffita e a lustro metallico. Brocchette sottili giallo chiaro, scanalate, incise al pettine o stampate sono di varie forme; piatti con cavetto decorato a rilievo ne testimoniano l'esclusivo scopo decorativo. I ceramisti di S. imitarono le porcellane bianche cinesi che arrivavano in città attraverso il porto di Siraf usando uno spesso strato di invetriatura bianca e riproducendone le pareti lobate. Vasi con ansa a orecchie sulla spalla, con invetriatura bianca dipinta in bruno, verde e giallo-arancio sono direttamente ispirati ai vasi Tang.
Le monete più antiche datano al 73-75 a.E. / 693-95 d.C. Fino all'inizio dell'VIII secolo gli esemplari, di bronzo e figurati, sono in arabo e pahlavi come le monete arabo-sasanidi e alcune arabo-bizantine. Sono stati rinvenuti due tesori ‒ 1130 monete d'argento nel 1925, e 90 dirham e 9 dīnār nel 1948 ‒ e numerosi esemplari isolati. Questi ritrovamenti attestano un'economia fiorente nel IX secolo con scambi intensi con l'Iraq, sede del califfato, e con le regioni del Nord dell'Iran fino all'Asia Centrale.
Fonti:
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di Stefano Carboni
In epoca islamica, nel 1260-1270 circa, T.-i S. venne scelta dai Mongoli (o Ilkhanidi, 1256-1353) per erigere un campo estivo e un complesso palatino sulle rovine zoroastriane; tale scelta fu molto probabilmente dovuta alla combinazione dell'originale significato mitico-religioso del sito (in origine buddhisti e affascinati dallo zoroastrismo, gli Ilkhanidi si convertirono all'Islam solo a fine XIII sec.) e delle caratteristiche morfologiche della località stessa: montagnosa, ampia, verde di pascoli, che senz'altro rammentava ai Mongoli la loro terra ancestrale.
T.-i S. fu anche un'ideale area di caccia, come conferma il nome datole dagli Ilkhanidi (Suġurluḫ) "il posto dove abbondano le marmotte" in dialetto turco. Fu in epoca safavide (1501-1722) che il nome T.-i S. apparve in documenti ufficiali, forse in relazione a uno degli epiteti di Ismail I (1501-1524) noto anche come Sulaymān-makān. Non è chiaro se in periodo safavide il complesso fosse già in rovina. Suġurluḫ è menzionato nelle coeve fonti ilkhanidi, quali Rashid al-Din e Mustawfi Qazwini. Il primo riporta che il palazzo di T.-i S. era probabilmente meno importante di altri campi permanenti estivi non essendo mai stato scelto come luogo di incoronazione. Mustawfi Qazwini offre precise informazioni: "[Suġurluḫ] sta in cima a una collina e fu originariamente fondato dal re Kay Khusraw il Kayanide. In questa cittadina c'è un grande palazzo nel cui cortile una fonte d'acqua si riversa in una grande piscina che sembra un piccolo lago la cui profondità nessuno conosce […]". Questo palazzo fu restaurato dal mongolo Abaqa Khan e vi sono eccellenti pascoli tutt'intorno; frutta circa 25.000 dinari [l'anno?]". Il ritrovamento di mattonelle parietali datate 670/1 a.E. / 1271-73 d.C. e 674 a.E. / 1275/6 d.C., conferma che il complesso ilkhanide fu eretto durante il periodo di regno di Abaqa Khan (1265-1282).
Gli scavi condotti dall'Istituto Archeologico Germanico tra il 1959 e il 1978 hanno portato alla pubblicazione di alcuni articoli, ma non di una relazione finale. La cinta muraria di T.S. ha una forma approssimativamente ovale (500 × 400 m ca.), con il laghetto descritto da Mustawfi Qazwini ancora riempito d'acqua, appena a sud del centro del complesso (l'immissario proviene da est e l'emissario fuoriesce dalla cinta est del portale meridionale). Il perimetro sasanide non fu modificato, tuttavia l'asse generale e l'uso delle porte d'entrata furono interpretati in modo diverso, adattandoli a un orientamento sud/sud-est (la direzione del Sole in relazione alla tenda mongola). Per questo motivo la porta settentrionale (l'entrata principale in epoca sasanide) fu ignorata allo scopo di creare un nuovo portale a sud, sull'asse dei due īwān meridionale e settentrionale. Questa predilezione per un orientamento sud-nord è confermata dalla presenza di un unico accesso meridionale anche in edifici di piccole dimensioni, come ad esempio un dodecagono sul lato occidentale usato forse per conservare il tesoro di Bulughan Khatun (moglie favorita di Abaqa). Secondo la ricostruzione degli archeologi tedeschi, il complesso palatino a quattro īwān di Abaqa aveva il suo punto focale nel laghetto: una piscina posta in un cortile quadrato porticato. L'īwān meridionale era collegato all'entrata principale a sud mentre la sala del trono era subito a nord dell'īwān settentrionale.
Contrariamente alle più comuni strutture iraniane, gli īwān ovest ed est non sono al centro dei lati, ma sullo stesso asse dell'īwān nord ai due angoli settentrionali della struttura. Rispetto agli altri lati del complesso la maggior parte delle costruzioni di minore entità si concentra sul lato ovest; queste comprendono: due strutture ottagonali collegate da una stanza quadrata, sempre sull'asse nord-sud e immediatamente a ovest dell'īwān occidentale; il dodecagono; infine ambienti a pianta quadrangolare adibiti a varie attività relative al funzionamento del palazzo come cucine e quartieri residenziali. All'interno del perimetro di T.-i S. sono sparse tutt'intorno le rovine di molte altre strutture, nelle quali sono state tentativamente identificate anche una piccola moschea e un'officina ceramica. Data la transitorietà della permanenza della corte nel sito estivo, lo spazio non occupato da edifici permanenti (sia all'interno della cinta muraria sia nell'immediato esterno) doveva essere destinato all'erezione di tende di feltro (ger) nei periodi in cui la corte risiedeva a Suġurluḫ. La pianta di T.-i S. è tipicamente iranica sebbene le strutture siano essenzialmente mongole o adattate a un ambiente loro familiare. Le fondazioni sono di muratura con pietre non squadrate tenute insieme da un miscuglio di malta, arenaria rossa e concio (ašlar) riutilizzato dall'epoca sasanide. I muri sono di mattoni cotti e legno mentre gli elementi architettonici, pavimenti inclusi, sono di arenaria, marmo e calcare.
Tratto distintivo degli edifici ilkhanidi di T.-i S., oltre all'essere l'unico complesso secolare sopravvissuto del periodo, sono la decorazione con mattonelle e stucco e le pitture murali. Poco o niente è rimasto dei dipinti e della varietà degli stucchi, inclusi esempi di muqarnas con motivi animali e vegetali in rilievo e dipinti. È stata ritrovata, invece, un'enorme varietà di mattonelle. Un centinaio di stampi diversi per forma, disegno e dimensioni possono essere ricostruiti in base al materiale recuperato. Vennero impiegate varie tecniche per decorare esemplari prodotti negli stessi stampi. È possibile ipotizzare una produzione locale durante la costruzione e che ceramisti di Kashan, il più rinomato centro nell'Iran centrale, siano stati trasferiti a T.-i S.; forni ceramici, però, non sono stati ancora individuati. La maggior parte degli edifici connessi al palazzo presentava rivestimenti sia interni sia esterni. Le mattonelle dell'esterno, esagonali o quadrate (queste ultime con un angolo sagomato per alloggiare una stella a otto punte nell'assemblaggio di quattro esemplari), sono parzialmente invetriate di blu e celeste mentre la griglia geometrica non invetriata spicca in colore chiaro. La maggior parte delle mattonelle faceva parte della decorazione interna di pavimenti e pareti fino a un'altezza di 2-2,5 m. Il motivo geometrico più comune per l'alto zoccolo è rappresentato da mattonelle cruciformi combinate con altre stellari a otto punte; disegni più complessi includono esagoni, stelle e mattonelle allungate a forma di doppio pentagono. Il motivo geometrico era coronato da un fregio continuo di grandi mattonelle quadrate o rettangolari. La parte superiore delle pareti era dipinta o decorata con rilievi in stucco dipinto.
La maggior parte delle mattonelle destinate agli interni era ricoperta da invetriature colorate, le tecniche pittoriche in uso erano il lustro e il laǧwardī (smalti bianchi e rossi e oro su vetrina blu scura). I soggetti rappresentati rivelano una combinazione di motivi autoctoni iranici e iconografie importate dall'Asia orientale con chiaro significato simbolico legato al potere imperiale: tra queste i motivi del drago (qui con quattro unghioni e non cinque come in quello del grande Khan in Cina) e della fenice, entrambi simboli imperiali e spesso accoppiati nell'iconografia di T.-i S. I due animali mitici, inizialmente copie di disegni importati, in seguito vennero iranizzati trasformandosi nei draghi descritti dal poeta Firdausi e nel sīmurġ persiano. Altri ornati importati sono la peonia, simbolo di nobiltà, il cervo o antilope, simbolo di ricchezza, e il leone addomesticato che gioca con una palla, simbolo di buon auspicio. Gli Ilkhanidi, che si sforzarono di adottare la storia iraniana come propria per giustificare il loro potere, incorporarono varie iconografie derivanti dallo Šāhnāma ("Libro dei re") di Firdausi, una sorta di "storia ufficiale" dell'Iran preislamico in versi persiani. Di conseguenza le mattonelle di T.-i S. includono anche scene ben note sin dalla tarda epoca selgiuchide (XII e XIII sec.) che illustrano, ad esempio, la storia di Bahram Gur e Azada, quella di Faridun e varie scene di caccia appropriate al luogo. Inoltre, fregi aniconici con motivi ad arco includono versi dello Šāhnāma.
Il palazzo di Suġurluḫ-T.-i S. va dunque interpretato come uno dei molti campi stagionali, con edifici permanenti e temporanei nonché tende, costruiti dai Mongoli in Asia sul modello della prima capitale estiva Shangdu. In Iran gli Ilkhanidi conducevano la maggior parte delle loro attività in tali campi, inclusi khuriltai (assemblee generali), incoronamenti e feste. Anche le nuove zone che fondarono nei sobborghi di città iraniane, quali Arghuniyya, Ghazaniyya e Rashidiyya a Tabriz e la stessa Sultaniyya, fondata ex novo nell'Iran centro-settentrionale, possono essere interpretate come campi piuttosto che città.
Fonti:
Mustawfī Qazwīnī, Nuzhat al-qulūb (ed. M. Dabīr-siyāqī), Tehrān 1958; Rashid al-Din, The Successors of Genghis Khan (trad. J.A. Boyle), New York 1971; Rašīd al-Dīn, Ǧāmi῾al-tawārīḫ (edd. M. Rawšan - M. Musawī), Tehrān 1994; Juvaini, History of the World Conqueror (trad. J.A. Boyle), Seattle 1997.
Letteratura:
R. Naumann, Eine keramische Werkstatt des 13. Jahrhunderts auf dem Takht-i Suleiman, in O. Aslanapa (ed.), Beiträge zur Kunstgeschichte Asiens. In Memoriam Ernst Diez, Istanbul 1963, pp. 301-307; E. Naumann - R. Naumann, Ein Köşk im Sommerpalast des Abaqa Chan auf dem Tacht-i Sulaiman und seine Dekoration, in O. Aslanapa - R. Naumann (edd.), Forschungen zur Kunst Asiens: In Memoriam Kurt Erdmann, Istanbul 1969, pp. 35-65; D.N. Wilber, The Architecture of Islamic Iran. The Il Khānid Period, New York 1969; J.W. Allan, Abū'l-Qāsim's Treatise on Ceramics, in Iran, 11 (1973), pp. 111-20; R. Naumann - E. Naumann, Takht-i Suleiman. Ausgrabung des Deutschen Archäologischen Instituts in Iran. Ausstellung München 1976, München 1976; R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman und Umgebung, Berlin 1977; Sh.S. Blair, Ilkhanid Architecture and Society. An Analysis of the Endowment Deed of the Rab῾-i Rashīdī, in Iran, 22 (1984), pp. 67-90; A.S. Melikian Chirvani, Le Shāh-Nāme, la gnose soufie et le pouvoir mongol, in JAs, 272 (1984), pp. 249-337; Ch. Melville, s.v. Boloöān Kātūn, in EIran, IV, 1990, pp. 338-39; Y. Crowe, Late Thirteenth-Century Persian Tilework and Chinese Textiles, in BAsInst, n.s., 5 (1991), pp. 153-61; A.S. Melikian Chirvani, Le Livre des Rois. Miroir du destin. II - Takht-e Soleymān et la symbolique du Shāh-Nāme, in StIranica, 20 (1991), pp. 33-148; Minobu Honda, Iruhan no toeichi, kaeichi [I campi invernali ed estivi degli Ilkhanidi], in Minobu Honda (ed.), Mongoru jidai-shi kenkyu, Tokyo 1991, pp. 357-81; Sh.S. Blair, The Ilkhanid Palace, in ArsOr, 23 (1993), pp. 239-48; Th.T. Allsen, Commodity and Exchange in the Mongol Empire. A Cultural History of Islamic Textiles, Cambridge - New York 1997; J.M. Smith Jr., Mongol Nomadism and Middle Eastern Geography: Qishlaqs and Tumens, in R. Amitai-Preiss - D.O. Morgan, The Mongol Empire and Its Legacy, Leiden 1999, pp. 39-56; Tomoko Masuya, Ilkhanid Courtly Life, in L. Komaroff - S. Carboni (edd.), The Legacy of Genghis Khan. Courtly Art and Culture in Western Asia, 1256-1353 (Catalogo della mostra), New York - New Haven - London 2002.
di Rémy Boucharlat
Collocato 17 km a nord-est dalla città di Gurgan, nell'omonima piana, il sito di T.T. in determinate epoche, in particolare durante l'età del Bronzo, raggiunse un'estensione di numerose decine di ettari.
In epoca islamica l'occupazione fu sempre molto ridotta e generalmente limitata alla sommità del grande tepe (alt. 40 m ca.). Nonostante l'invasione islamica dell'Iran nel 642, quest'area caspica, ben protetta sul confine meridionale da terreni montuosi, conservò l'indipendenza e gli abitanti mantennero la loro fede zoroastriana.
Nel VII secolo, all'interno del forte di epoca sasanide allora fuori uso ma non ancora caduto in rovina, fu costruito un piccolo tempio del fuoco zoroastriano, alto non oltre 10 m. Non è possibile datare la sua costruzione in rapporto alla conquista islamica dell'altopiano e di questa regione del Gurgan, ma la sua utilizzazione continuò sicuramente dopo la metà del VII secolo, forse fino all'VIII. Si tratta di uno dei rari templi di quest'epoca (come Takht-i Sulayman, Mele Hayram e Bandyan). A questo piccolo tempio sono associati una modesta abitazione, fossati di scarico e fossati per nascondigli contenenti giare, brocche e pentolame, ma nessuna ceramica invetriata.
Dopo un lungo periodo di interruzione, nel IX o forse X secolo, la sommità del tepe non reca più traccia di abitato. Più di venti fossati, generalmente cilindrici, ma anche campaniformi, furono accuratamente sistemati come deposito per un ricco corredo di ceramica. Oltre a ceramica comune, di tradizione locale, talvolta con decorazione al pettine o incisa, è stata recuperata invetriata assegnabile a tipologie ben note nei siti islamici dell'Iran (tra cui Nishapur), dell'Afghanistan e dell'Asia Centrale. Si tratta soprattutto di coppe con vetrina monocroma gialla, verde o "a macchie", con decorazione policroma (geometrica, vegetale stilizzata o, molto raramente, zoomorfa o pseudoepigrafica). All'interno di nove di questi fossati sono stati inoltre rinvenuti intatti, accanto a oggetti in ceramica, circa 50 ciotole e flaconi di vetro, talvolta decorati, un ritrovamento molto interessante che può essere messo a confronto con i 200 vasi provenienti dal vicino cimitero di Shah Tepe.
L'occupazione successivamente si limitò a due soli settori a sud del gran tepe allora deserto. La ceramica monocroma verde o blu, o verde-gialla incisa, o ancora dipinta in blu o nero su fondo bianco o bluastro si ascrive a due periodi, il primo premongolo (contrassegnato da una costruzione della quale resta solo una grande base di colonna in pietra), il secondo di epoca mongola ma senza nessuna costruzione associata. All'ultima fase di occupazione di T.T. risale un recinto di pianta ovale (diam. 50 m) che corona il tepe e delimita alcuni ambienti con corte centrale a esso addossati, databili a non prima del XVII secolo e la cui funzione non è stata ancora accertata: la tradizione li considera parte della residenza del governatore di Gurgan; la pianta li identificherebbe come rifugio per gli abitanti del villaggio costretti a difendersi dalla minaccia delle incursioni dei Turcomanni.
Bibliografia
J. Deshayes, Rapport préliminaire sur la neuvième campagne de fouille à Tureng Tepe (1971), in Iran, 11 (1973), pp. 141-52; R. Boucharlat, Fouilles de Tureng Tepe sous la direction de Jean Deshayes, I. Les périodes sassanides et islamiques, Paris 1987.