L'archeologia delle pratiche cultuali. Periodo tardoantico e medievale e mondo bizantino
La definizione di una disciplina specifica, l'archeologia cristiana, attesta l'importanza della ricerca archeologica relativa alle pratiche cultuali inerenti tale religione, a partire dal periodo tardoantico. Il passaggio al cristianesimo avvenne in modo graduale e non omogeneo cronologicamente: infatti, mentre la prima cattedrale cristiana veniva istituita a Roma da Costantino già nella prima metà del IV secolo, il Nord Africa nel periodo iniziale dell'età paleocristiana presentava un'organizzazione ecclesiastica facente capo a personaggi di primaria importanza, a cominciare da s. Agostino, e contemporaneamente il monachesimo orientale si era strutturato sia a livello cultuale che topografico; ancora all'inizio del VII secolo Gregorio Magno si preoccupava di organizzare un piano di evangelizzazione delle Isole Britanniche ed esortava i vescovi sardi alla diffusione delle corrette pratiche cultuali cristiane nella Barbagia. In alcune zone, quindi, soprattutto dell'Europa settentrionale e nei territori marginali delle aree urbane, a lungo proseguirono pratiche religiose precristiane, secondo modalità e dinamiche tipiche dei periodi precedenti. Per quanto attiene all'analisi delle tracce materiali della religione cristiana, con il passare del tempo al desiderio di ricerca dei segni della vita terrena del Cristo e dei suoi apostoli, individuabile già nella raccolta delle reliquie della croce da parte di Elena, madre di Costantino, nella prima metà del IV secolo, si è andato applicando, in special modo nel corso del XX secolo, il metodo scientifico della ricerca archeologica. L'analisi storica priva di intenti apologetici ha consentito di cogliere con sempre maggiore chiarezza la portata dell'evento cristiano nella società tardoromana e le tracce materiali che ne sono conseguite a livello topografico, architettonico, decorativo, così che si è giunti alla definizione di uno "spazio cristiano" dotato di proprie percorrenze nell'ambito del circuito urbano e all'interno degli stessi edifici di culto. Parallelamente, le indagini archeologiche, finalizzate in prima istanza al recupero degli edifici di culto e delle sepolture martiriali, sono ormai volte alla riconnessione territoriale delle testimonianze materiali dei culti, alla comprensione delle aggregazioni di strutture funzionali alle pratiche rituali e di accoglienza, secondo modalità estremamente duttili e pertanto diversificate a seconda delle aree e dei riferimenti cronologici. Sono ormai abbastanza chiari gli schemi d'inserimento degli edifici cristiani nella topografia urbana, si vanno precisando le dinamiche, più varie e complesse, della cristianizzazione del territorio rurale, sono state definite le linee guida per l'analisi comparata dei complessi episcopali e dei centri martiriali, sia sul piano territoriale che su quello dell'organizzazione spaziale ed architettonica, così che l'analisi dei manufatti restituiti dalla ricerca archeologica o tràditi dal prosieguo della pratica religiosa può inserirsi in un contesto storico e topografico, già definito nell'analisi dell'architettura religiosa e funeraria. L'oggetto del culto cristiano più diffuso è la croce, segno della morte e soprattutto della sua sconfitta da parte di Cristo: per questo nei primi secoli del cristianesimo le rappresentazioni (per lo più su sarcofagi, in particolare su quelli detti "di passione") prediligono la crux invicta, inserita in un ambiente paradisiaco, segno di vittoria. Questo tema iconografico si ritrova nelle decorazioni musive dei catini absidali e solo successivamente si convertirà nel segno della passione, il Cristo crocifisso. Il suo sviluppo iconografico e quindi cultuale avvenne attorno al III secolo e venne incrementato dalla festa dell'exaltatio crucis, canonizzata nel 335. Oltre al suo significato simbolico, non è secondaria anche la scelta del materiale nel quale la croce è realizzata: il legno in primo luogo, allusivo all'albero della vita, seguito quindi da metallo e pietra, nella diffusione di un elemento cultuale che nell'Alto Medioevo finisce con il rappresentare il segno più espressivo del cristianesimo, tanto che proprio in quest'epoca si diffondono in modo massiccio i manufatti che ne riprendono la forma (reliquiari, croci votive, ecc.). La croce è stata ovviamente ben presente nella liturgia cristiana fin dalle origini, con impiego differenziato, che prevedeva sia un suo uso stabile, come segno di venerazione e insieme arredo della chiesa, sia un uso processionale. La forma della base consente di intuire che molte croci rinvenute nel corso di scavi archeologici o tesaurizzate nel tempo erano in realtà astili, prevedevano cioè un supporto per poter essere innalzate su un'asta. Poiché la diffusione di questo primo e più pregnante simbolo cristiano non ha avuto limiti di tempo, la datazione è ricavabile dal contesto di scavo, oppure da eventuali motivi decorativi, o ancora dalla forma stessa della croce. Secondo la dottrina cristiana, i personaggi venerati (quali santi e martiri) non sono in realtà oggetto di un culto proprio, ma svolgono il ruolo di advocati presso la corte celeste. La stessa Vergine ebbe un culto proprio solo a partire dal Concilio di Efeso (431), che dogmatizzò il suo ruolo di Madre di Dio; le sue rappresentazioni anteriori (a cominciare dalla più famosa, l'Adorazione dei Magi nella catacomba di Priscilla a Roma) vengono infatti considerate cristologiche e non mariane. Ciò non toglie che immagini di personaggi venerati, in primo luogo degli apostoli, fossero poi oggetto di devozione e di culto, soprattutto dal V secolo, benché nelle fonti patristiche si noti l'attenzione a che tali pratiche non sfociassero nell'idolatria e casi di iconoclastia siano noti anche prima che questo fenomeno assumesse le dimensioni volute da Leone III Isaurico (717-741). Rappresentazioni iconiche e simboliche (il cristogramma poteva essere utilizzato alternativamente alla figura di Cristo) ornavano manufatti, strutture architettoniche religiose e, soprattutto nell'Oriente bizantino, i monumenti pubblici, come anche le strutture private; persino gli eventi bellici erano sovente posti sotto le insegne cristologiche (a cominciare dalla vittoria di Costantino su Massenzio nel 313) o mariane (come nel caso dell'icona che nella prima metà del VII sec. l'imperatore Eraclio aveva fatto apporre sugli alberi delle navi), anche se non si conoscono al momento manufatti anteriori al VI secolo. Ancora in epoca tardoantica proseguì in alcune forme il culto dell'immagine imperiale, se nel VI secolo le fonti ricordano il lauraton di Costantino I che veniva portato in processione (Giovanni Malala, Chronographia). Di origine orientale, ma diffuse anche in Occidente, sono le immagini di Cristo e della Vergine dette acherotipe ("non fatte da mano umana"), oggetti di culto contrapposti agli idoli. Tali icone venivano portate in battaglia (come nel caso del mandilio di Kamuliana, recato come palladium imperiale contro i Persiani da Maurizio nel 586 e da Eraclio nel 622; ancora nel XVI sec. Ivan il Terribile occupò la città di Kashan protetto da un'icona), recate in processione (come fece il pontefice Stefano II alla metà dell'VIII sec. con un'icona del Cristo Pantocratore che si conservava nel Sancta Sanctorum del Laterano, per proteggere Roma dalla minaccia longobarda di Astolfo), simbolicamente utilizzate nella lotta iconoclasta (il patriarca Germano I all'inizio dell'VIII sec. affidò al mare un'immagine cristologica affinché si salvasse, icona che secondo la tradizione sarebbe approdata a Roma). Il simbolismo della luce nella liturgia cristiana, che trova la massima espressione nella celebrazione della Pasqua, comporta il fatto che siano considerati oggetti liturgici a tutti gli effetti anche gli apparati per l'illuminazione delle chiese, costituiti soprattutto da lampade e da lampadari metallici con lampade vitree. La loro stessa forma racchiude una spiccata simbologia, con allusioni all'immortalità dell'anima (pavoni), alla Chiesa (la nave guidata da Pietro e da Paolo; il piede, in riferimento al Salmo 119, 25), a temi genericamente salvifici (Mosè che batte la rupe), che ricorrono soprattutto nelle lucerne bronzee, create in analogia con la coeva produzione fittile, dalla quale si differenziano per ricchezza e complessità dei motivi decorativi e che paiono essere ben diffuse ancora nel VI secolo. La tipologia delle lampade è nota per la Tarda Antichità e l'Alto Medioevo grazie a fonti scritte, tra le quali spicca il Liber Pontificalis della Chiesa di Roma, che le riporta tra i donativi dei pontefici alle varie chiese. Notizie di confronto vengono anche da fonti iconografiche, oltre che da una serie di fortunati riscontri archeologici. La gerarchia di illuminazione delle aule di culto risponde al rilievo liturgico dato alla zona presbiteriale ed in particolar modo all'altare. Proprio in gremio basilicae, cioè nel presbiterio, erano poste le coronae di bronzo, argento o addirittura d'oro, di forma circolare, sospese in alto ed alimentate solitamente ad olio; alcune avevano fattura particolarmente elaborata, come ad esempio un lampadario a forma di basilica di provenienza africana, datato al V secolo (Ermitage, San Pietroburgo). Nella stessa area venivano collocati i candelabra, dapprima posti accanto all'altare, a terra su un supporto, successivamente sulla stessa mensa. Nella navata centrale trovavano posto i cereostata, ceri in metallo di ambito soprattutto romano e ravennate, mentre le navate laterali erano illuminate soprattutto dai phara canthara, generalmente bronzei e costituiti da lampade a olio o a cera raggruppate, di fattura più semplice. Diffusi in area bizantina sono i polykandela con base circolare, quadrangolare o cruciforme, decorazione traforata a giorno e talvolta con una coppa centrale, alimentati a fiale di olio, che andavano posti nella navata centrale, mentre nelle navate laterali si trovavano lampade singole e candelabri illuminavano angoli particolari, quali i cibori, le recinzioni presbiteriali, ecc. Esemplari di polykandela del VI secolo sono noti grazie al tesoro di Sion, che ne comprende 12 in argento: presentano motivi decorativi fitomorfi e zoomorfi (delfini), oltre ad un'iscrizione votiva del vescovo Eutichiano. A partire dal IX secolo, le fonti e i reperti archeologici attestano una predilezione per le lampade isolate, alimentate ad olio o con supporti per i ceri, costituite da una coppa di vetro, cristallo di rocca o metallo, sospesa mediante catenelle. Questo tipo di lampada, diffusa sin dall'epoca paleocristiana e soprattutto nel periodo altomedievale, poteva avere forma diversa e sovente era corredata da un piatto leggermente concavo, destinato a raccogliere le scorie di combustione. Esemplari di questo tipo, diffuso per la sua duttilità funzionale sia in Occidente che in Oriente, sono conservati in vari musei (Berlino, Edimburgo, Antalya, ecc.) e alla loro tipologia va probabilmente ricondotto anche il cosiddetto "calice di Antiochia", a testimonianza della diffusione di forme e di motivi decorativi, soprattutto nelle argenterie e più genericamente nei manufatti in metallo. Alle lampade isolate va con ogni probabilità ricondotta la gabatha, che talora riutilizzava piatti antichi, nota solo da fonti scritte e molto diffusa in Occidente. Un gruppo di lampade, realizzate anche nel prezioso cristallo di rocca e cronologicamente inquadrabili a partire dal IV secolo per quanto attiene alle ciotole e alle coppe che le compongono, poi montate in questa funzione tra X e XI secolo, è confluito nel cosiddetto Tesoro di S. Marco a Venezia. Ben più tarde, genericamente datate dal XV secolo, sono le attestazioni di lampade processionali (phanaria), destinate all'esterno, per l'illuminazione di ampi spazi, con una forma polilobata che si è voluta riconoscere nell'incensiere a cinque cupole del Tesoro di S. Marco. Conobbe evoluzioni successive anche il lampadario a corona, che sotto forma di cerchio di luci si diffuse a partire dall'epoca carolingia nell'Europa continentale e che appare ben attestato ancora nel XIV secolo. A questa tipologia va ricondotto il lampadario del duomo di Hildesheim, dono del vescovo Hezilo nella seconda metà dell'XI secolo e rappresentante presumibilmente la Gerusalemme celeste, una cinta muraria con 12 porte e 12 torri con apostoli e profeti, che recava supporti per 72 lampade; allo stesso tema iconografico si rifà il lampadario voluto da Federico I per il duomo di Aquisgrana nel 1165. Un'ulteriore evoluzione si ha a partire dal XIV secolo, con l'inserzione dei bracci portalampade, ma per la conoscenza di questi manufatti pienamente medievali la ricerca archeologica non ha apportato alcun contributo. Dovevano far parte dell'arredamento liturgico anche drappi di stoffa appesi tra le colonne delle chiese, ben noti ad esempio dai donativi papali riportati nel Liber Pontificalis romano. Anche a tale proposito, questa fonte testuale si rivela di fondamentale importanza nella ricerca archeologica, visto che talvolta la quantità di vela costituisce un elemento importante per stabilire il numero degli intercolumni e quindi le dimensioni della basilica oggetto della munificenza. Simili arredi erano comuni anche nelle abitazioni auliche coeve (come emerge nei mosaici di S. Vitale a Ravenna), per cui non è agevole stabilire la destinazione di resti di tessuti a carattere cristiano, i più famosi dei quali sono di fabbrica egiziana. Alcuni dovevano essere appesi nell'iconostasi (ad es., il velo del Museo di Berlino) oppure lungo le pareti, a foderarne le zoccolature (ad es. i tessuti dell'Ermitage e del Museo Sacro Vaticano), in analogia con i vela dipinti che restano ancora in alcune chiese (da S. Maria Antiqua a Roma, alle cappelle di Bawit, in Egitto, alla cripta della cattedrale di Anagni). Per quanto riguarda le strutture finalizzate ai riti, il punto focale è l'altare, ricordo dell'Ultima Cena e luogo della celebrazione del sacrificio di Cristo, santificato dalle reliquie che vengono poste immediatamente sotto di esso e, nel caso delle basiliche martiriali, costituite da una sepoltura venerata. Oltre all'altare principale, esistevano le mense per la deposizione delle offerte o per la preparazione del pane eucaristico; inoltre in Occidente la diffusione della regola monastica benedettina e la pratica delle messe private ne comportarono la moltiplicazione per uso liturgico. A ciò si aggiunge il fatto che mentre in Oriente la santificazione del supporto avveniva grazie ad un telo consacrato contenente le reliquie (antimesion), in Occidente era necessaria la presenza di un supporto rigido consacrato, generalmente di pietra, sul quale poggiare almeno il calice e la patena. Dal punto di vista formale, sin dall'età paleocristiana si diffusero altari di varie fogge, non dissimili dalle coeve mense profane, così che talvolta è l'apparato decorativo, o in alternativa il luogo di rinvenimento, a costituire il discrimine tra le due funzioni. In genere, erano invece litici il seggio vescovile ‒ anche se conosciamo esemplari di pregio, foderati di osso, come nel caso della celebre cattedra del vescovo Massimiano (546-556) a Ravenna ‒ ed il rivestimento dell'ambone, luogo deputato alla lettura delle Scritture. La tipologia più diffusa è costituita dall'altare "a mensa", una lastra sorretta da quattro supporti angolari o da uno centrale; il piano poteva essere rettangolare oppure, più di frequente in Oriente, a ferro di cavallo, in questo caso con un'adeguata moltiplicazione dei supporti. Le reliquie erano generalmente poste in una teca al di sotto del pavimento, in corrispondenza del centro della mensa. In qualche caso, la funzione eucaristica del manufatto è esplicitata dall'apparato decorativo, ad esempio in esemplari iberici che recano 12 incavi e la rappresentazione di pani, palese allusione al consesso apostolico. Un altro tipo di altare ben noto già in epoca paleocristiana è quello detto "a blocco", nel caso in cui il supporto contenente le reliquie, monolite o in muratura, sosteneva il piano. Meno diffusi e più tardi sono i tipi "a cofano" e "a sarcofago", costituiti cioè da contenitori di varia foggia che ospitavano le reliquie, oltre ad una serie di tipi di minore attestazione. La prassi della santificazione mediante reliquie, comune in Occidente, nell'Oriente bizantino presenta una diffusione meno omogenea, tanto che in Siria le reliquie trovano generalmente posto in uno dei pastofori, nella separazione quindi tra culto martiriale e liturgia eucaristica. L'altare poteva essere realizzato in vari materiali, dal legno nel caso dei manufatti mobili, alla muratura, alla pietra piena, per lo più pregiata, ai metalli preziosi, diffusi soprattutto nel pieno Medioevo. Nelle basiliche paleocristiane era posto in genere al centro del presbiterio e prevedeva che il celebrante fosse volto verso i fedeli, con qualche eccezione (in area siriaca è molto vicino all'abside ed il celebrante volge le spalle ai fedeli, in Illirico e Norico è spinto in avanti nella navata), mentre con il variare degli impianti religiosi muterà collocazione, pur costituendo sempre il punto focale dell'intero edificio religioso. Era spesso coperto da un ciborio, un baldacchino a pianta quadrata, sorretto da quattro colonne, che poteva essere realizzato in pietra o in metallo prezioso. Esemplari metallici, prevalentemente d'argento, sono conosciuti dalle fonti, in primo luogo dai donativi papali del Liber Pontificalis, e non ci sono pervenuti proprio in ragione del loro valore, mentre esistono esempi di cibori altomedievali in materiale litoide con decorazione scolpita noti da scavi archeologici, a cominciare da quello rinvenuto ‒ smontato ed accatastato ‒ nel corso delle indagini nella basilica di S. Ippolito all'Isola Sacra, presso Ostia. L'uso di un baldacchino, nato per enfatizzare la posizione dell'altare e per sostenere i veli che venivano tirati al momento della consacrazione, trovò fortuna nel pieno Medioevo, così che in alcune chiese ne sono conservati pregevoli esemplari (ad es., quello di Arnolfo di Cambio in S. Cecilia a Roma). Gli altari erano coperti da tovaglie, spesso in tessuti di pregio, con la tendenza, a partire dall'VIII secolo, a più teli sovrapposti. Le fonti ‒ a cominciare dal Liber Pontificalis romano e da quello di Ravenna ‒ riportano i donativi di tovaglie d'altare, paramenti sacri e rivestimenti parietali di tessuti preziosi, ornati di perle e gemme, intessuti con fili policromi e dorati, talvolta con temi iconografici cristologici. La presenza di vasellame liturgico nella celebrazione del rito cristiano, oltre ad essere nota dai ritrovamenti archeologici, trova identificazione in alcune rappresentazioni iconografiche: ad esempio, i mosaici di S. Vitale a Ravenna mostrano l'altare dei sacrifici di Abele e Melchisedek apparecchiato con una brocca e due patene metalliche. Dalla stessa raffigurazione è possibile cogliere la semplice mensa d'altare sostenuta da colonnine marmoree e ricoperta da drappi decorati. I vasi sacri fondamentali per la liturgia sono il calice e la patena, per la consacrazione delle due specie eucaristiche, cui erano annessi utensili funzionali alla preparazione (stampi, coltelli, colatoi, pinze, ecc.) e alla distribuzione (cucchiai, piattini, fistule per sorbire il vino, ecc.), visto che almeno fino al XIII secolo è prevista la comunione sotto le due specie per tutti i fedeli. Dalla Siria proviene una serie di vasi liturgici di metallo, soprattutto d'argento, con decorazione a sbalzo, costituita sia da forme chiuse, quali la celebre brocca di Homs (Museo del Louvre), sia da forme aperte, ad esempio patene eucaristiche con decorazioni fortemente allusive, come quelle da Stuma e da Riha rappresentanti la comunione degli apostoli ad opera di Cristo (Museo di Istanbul, Dumbarton Oaks Collection). Per quanto è noto, alcuni utensili potevano avere molteplicità di funzione, come la patena usata per contenere il pane non consacrato, per la consacrazione e per la distribuzione delle particole (patenae ministeriales). La genericità del termine ne determina anche il riferimento a riti diversi, quali il battesimo nel caso della patena chrismalis, destinata quindi a contenere il crisma. Si tratta di un recipiente variabile dal punto di vista formale, comunque circolare, più o meno concavo e decorato, conservatosi in molti esemplari e noto archeologicamente nel corredo di alcuni tesori (ad es., quello di Galognano). Accessorio della patena, di origine orientale e in Occidente praticamente limitato all'uso papale, era l'asterisco aureo, corona con dodici punte posta sulla patena per evitare il contatto del pane eucaristico con il sovrastante telo di copertura. Alla raccolta del pane erano comunque destinati specifici recipienti, detti offertoria, in uso almeno fino al XII secolo, quando si diffuse in modo ampio la consuetudine delle ostie azzime. Prima di tale data alla raccolta dei pani era legata la necessità di dividerli in piccole porzioni, ricorrendo ai coltelli eucaristici, sovente a forma di lancia, diffusi nella Chiesa orientale e trasposti in Occidente quasi esclusivamente nelle realtà monastiche o nelle zone di forte influsso bizantino. Si devono soprattutto a ricerche in area greco-bizantina (Corinto, Saraçhane ad Istanbul, Egina) i ritrovamenti di stampi liturgici, più sporadicamente noti in Occidente (in Italia soprattutto nell'area del Salento), finalizzati alla fattura di piccoli pani. Quelli del Salento sono cronologicamente inquadrabili tra IX e XI secolo e sono realizzati in terracotta, di forma circolare, con un incavo per il manico in altro materiale; la decorazione è realizzata ovviamente in negativo, spesso con motivi triangolari presumibilmente allusivi alla Trinità. Provengono dalla Siria esemplari di VI-VII secolo con decorazioni articolate e di pregnante significato salvifico, ad esempio i due cervi ai lati dell'albero della vita inseriti in un ambiente paradisiaco. A seguito della diffusione del pane azzimo per l'eucarestia, mutarono i tipi di stampi, fino ai tipi bivalvi del XIII secolo, con lunghi manici per la presa durante la cottura. In qualche caso, le indagini archeologiche hanno consentito di rinvenire alcuni oggetti liturgici in stretta connessione funzionale con le strutture dei riti. Ad esempio, nel corso dello scavo della chiesa bizantina (X-XI sec.) della località Quattro Macine (Lecce) sono stati rinvenuti nei pressi della mensa laterale (o tavola delle offerte), posta a sinistra dell'altare principale, una prophora (lancia di ferro per tagliare il pane eucaristico), un cucchiaio di ferro ed uno di peltro, presumibilmente per servire i bocconi di pane, in linea con la liturgia di s. Giovanni Crisostomo che prevedeva la preparazione del pane, dell'acqua e del vino su una mensa laterale, dalla quale poi venivano portati all'altare. Meno noti sono i manufatti destinati alla distribuzione dell'eucarestia, quali le pinze ‒ in uso nel pieno Medioevo prevalentemente nella liturgia pontificale ‒ e la scutella, un piatto usato per raccogliere eventuali frammenti di pane al momento della sua distribuzione, talora sostituito da un telo teso davanti ai fedeli. Il vasellame liturgico ed i libri sacri al termine delle celebrazioni erano riposti in un armadio o in una nicchia ricavata nel presbiterio o in uno dei pastofori, con modalità architettoniche note per le basiliche paleocristiane e altomedievali. Benché già dal VII secolo sia accertata la presenza di contenitori per l'eucarestia in occasioni particolari, ad esempio nel corso della Settimana Santa, solo a partire dalla fine dell'XI, e con più certezza nel corso del XII secolo, è attestato dalle fonti scritte l'uso di un luogo specifico in cui riporre la pisside contenente le particole consacrate. Un prototipo di tali tabernacoli si è voluto vedere nell'edicola collocata nell'abside del Tempietto del Clitunno, la cui cronologia è però discussa nell'ambito di un ampio arco di tempo, tra V e XII secolo. L'obbedienza alle prescrizioni del IV Concilio Lateranense (1215) comportò la definizione di un luogo inaccessibile, chiuso e custodito, presto individuato sopra il retro dell'altare. Solo a partire dal pieno Medioevo (XII-XIII sec.) si diffuse la consuetudine di esporre il SS. Sacramento, con la coeva diffusione di ostensori, per i quali la ricerca archeologica non fornisce alcun elemento utile. Per la conservazione delle ostie non consacrate si diffusero, a partire dal XII secolo, scatole di varia foggia, in genere di forma cilindrica, per ospitare le nuove ostie azzime. Per quanto riguarda il vino, questo veniva conservato in sacrestia in recipienti spesso vitrei e recato sull'altare in piccole ampolle, quindi filtrato mediante colatoi, sorta di cucchiai forati. Sin dalle origini invalse l'uso di aggiungervi prima della consacrazione acqua in piccole quantità ‒ di solito poche gocce ‒ che venivano mescolate con appositi cucchiai, di varie fogge e dimensioni, in argento talora dorato e solo eccezionalmente in oro, pervenutici in vari tesori (Isola Rizza, Canoscio, Desana) anche per la loro duplicità d'uso, ecclesiastica e profana. Il calice era generalmente in materiale prezioso: un esempio è costituito dal vaso Kushakji, rinvenuto in Siria ed oggi al Metropolitan Museum di New York, di modesto livello artistico ma noto anche perché in passato interpretato in vari modi, compreso il calice dell'Ultima Cena. Esemplari di calici in vetro sono sempre di produzione orientale: è palestinese un esemplare con scene del Santo Sepolcro, mentre è di provenienza tunisina un altro con s. Pietro e s. Giovanni rappresentati come pescatori. La prassi di non gettare in comuni discariche il vasellame di uso liturgico, ma di creare apposite fosse all'interno della chiesa (ad es., sotto la vasca battesimale nella chiesa dei Ss. Giovanni e Reparata a Lucca) o negli ambienti annessi (ad es., nel duomo di Colonia) ha consentito il rinvenimento di molti manufatti, soprattutto vitrei. I risultati delle indagini archeologiche sono a questo proposito particolarmente importanti perché, tranne che per le ampolline dichiaratamente liturgiche, gli oggetti utilizzati durante la celebrazione eucaristica non si differenziano molto, a livello formale, dai recipienti di uso quotidiano, domestico o cosmetico. Non conosciamo le dotazioni di vasellame vitreo ecclesiastico nel periodo paleocristiano e altomedievale, deducibili solo da fonti iconografiche che consentono di visualizzare le citazioni documentarie e che confermano ancora una volta l'equivalenza formale con i tipi profani. In realtà, a parte qualche accenno nell'XI secolo, solo a partire dalla fine del XII è attestato l'uso di recipienti separati ma analoghi per fattura per l'acqua e per il vino, in genere ampolline, che insieme agli altri vasi liturgici il sinodo di Würzburg (1298) disciplina quanto ai materiali: vetro, peltro, oro, argento, cristallo di rocca, nella predilezione quindi verso materie di pregio, sia per i recipienti consacrati che per quelli di sacrestia. Manufatti considerati liturgici solo per estensione di significato, in quanto utilizzati nel corso dei riti sacri, erano i flabelli, ventagli destinati ad allontanare gli insetti e a mitigare il caldo, per foggia e dimensioni analoghi a quelli destinati ad uso profano. Scarse informazioni si hanno infine riguardo ai recipienti utilizzati per il rito del battesimo, che oltre alla vasca battesimale prevedeva l'uso di coppe per l'aspersione e di contenitori di piccole dimensioni per gli oli crismali. La mancata normalizzazione ecclesiastica comportò il variare di modelli, poco standardizzati e quindi scarsamente caratterizzati. Tra le dotazioni di vasellame funzionale ai riti sono compresi manufatti diffusi sia in ambito domestico che liturgico, quali candelieri, versatoi, acquamanili, recipienti di varie fogge, così che il luogo di rinvenimento costituisce spesso un discrimine per la loro interpretazione funzionale. Allo stesso modo, alcuni tesori d'argento sono composti da vasellame decorato con simboli religiosi, così che talvolta sono stati interpretati come dotazioni liturgiche. È questo il caso, ad esempio, del tesoro di Canoscio, prodotto di oreficeria bizantina dell'inizio del VI secolo, che la presenza di cristogrammi e soprattutto di un'iscrizione mutila con dedica ad Agapito martire ha fatto ricondurre ad un tesoro ecclesiastico. La stretta connessione tra liturgia e culto martiriale appare evidente nella collocazione stessa degli edifici di culto, nella disposizione dell'altare e nelle modalità della sua santificazione, così che il ruolo delle reliquie emerge, già nella Chiesa delle origini, in primo piano. Nel mondo cristiano le reliquie potevano essere dirette, cioè consistere nelle spoglie dei personaggi venerati, oppure indirette, e quindi essere rappresentate da oggetti non degni di venerazione di per sé, ma in virtù del loro collegamento con luoghi o corpi santi. Ovviamente, questa seconda categoria rappresentava la maggior parte delle reliquie, ma il loro valore "secondario", la loro deperibilità ed il loro possesso generalmente in mano privata hanno fatto sì che ce ne siano pervenute in minor numero. Le spoglie dei martiri e dei santi invece, in possesso ecclesiastico, non sono state se non eccezionalmente oggetto di dispersione. La reliquia indiretta più importante è ovviamente lo stesso strumento del martirio di Cristo, la croce, parte della quale sarebbe stata portata in Occidente da Elena, madre di Costantino; per essa venne realizzata una chiesa nei locali del Sessorianum, a Roma, poi trasformata nell'attuale S. Croce in Gerusalemme. Costituivano reliquie anche la terra dei Luoghi Santi, gli oggetti legati al martirio (ad es., le catene di s. Pietro, portate a Roma dall'imperatrice Eudossia nel 411, nella chiesa di S. Pietro in Vincoli), gli oli che bruciavano presso le tombe venerate, i profumi recati presso le tombe, gli oggetti ex contactu, cioè posti a contatto con tali sepolture; i più noti tra essi sono i brandea (detti anche palliola, sanctuaria, nomina), strisce di tessuto che venivano calate tramite le fenestellae confessionis a contatto con i corpi santi o, genericamente, con tali sepolture. La ricerca di queste reliquie non riguardava solo i comuni fedeli, ma in primo luogo personaggi di rango elevato che sovente si rivolgevano agli stessi vescovi di Roma, i quali svilupparono l'uso delle reliquie ex contactu proprio per la salvaguardia dei corpi dei martiri: è il caso di Giustiniano, che nel 519 chiese ad Ormisda oggetti posti presso la tomba romana di s. Lorenzo. Questa scelta di non smembrare le spoglie venerate è propria dei pontefici romani e venne osservata almeno fino al termine del VI secolo, quando lo stesso Gregorio Magno ricorda che Romanis consuetudo non est, quando sanctorum reliquias dant, ut quicquam tangere presumant de corpore (Epist., IV, 30) in risposta a Costantina, moglie dell'imperatore Maurizio, che gli aveva richiesto la testa o un'altra parte del corpo di s. Paolo per la nuova cappella palatina. In Oriente, invece, la traslazione di corpi santi avvenne già nel corso del IV secolo, e la città di Costantinopoli, priva di un martire proprio, proliferò ben presto di santuari martiriali grazie all'importazione di reliquie. Ciò non toglie che anche nell'Oriente bizantino si siano diffuse le reliquie ex contactu. La fermezza dei vescovi romani comportò da una parte la salvaguardia dei martiri locali, dall'altra favorì l'importazione delle spoglie di quelli orientali e l'inventio di corpi santi, cui furono ben presto dedicate aule di culto (ad es., Ss. Vitale e Agricola a Bologna nel 393, Ss. Gervasio e Protasio a Milano nel 386) e che comportò la creazione di leggende miranti a ribadire la presunta origine autoctona del santo. Ben presto la fame di reliquie ne determinò un vero e proprio commercio, con abbondanti falsificazioni, nel contrastare le quali fu in primo piano la Chiesa ortodossa nordafricana contro l'eresia donatista. Tra i falsari, le fonti riportano il caso del diacono Deusdona, che presso le più importanti catacombe romane vendeva false reliquie debitamente "autenticate" mediante iscrizioni ad hoc. Le reliquie erano poi conservate in apposite lipsanoteche, scatole e cofanetti spesso di materiali preziosi, quali l'avorio (lipsanoteca rettangolare del Museo Archeologico di Brescia), o in reliquiari metallici, soprattutto d'argento, di produzione italiana o africana (alcuni sono conservati nei Musei Vaticani). Va notato, a proposito degli argenti, come non ci siano differenze tecniche rispetto alle coeve produzioni profane e come, d'altra parte, temi iconografici cristiani venissero utilizzati anche in manufatti non liturgici. Altra forma di reliquiari sono gli encolpi, piccoli contenitori metallici di forma rotonda (bullae), quadrata (techae), cruciforme, zoomorfa, che generalmente venivano portati al collo. Non di rado si tratta di oggetti preziosi, decorati con soggetti tratti dall'iconografia cristiana, talvolta accompagnati da iscrizioni che, soprattutto in ambiente siriaco, riprendono in senso cristiano l'augurio generico di forza e salute. Oggetti votivi particolarmente importanti per la conoscenza dell'agiografia paleocristiana sono le cosiddette "ampolle di Monza", giunte dalla Palestina tra la fine del VI e l'inizio del VII secolo e contenenti gli oli delle lampade che ardevano presso le tombe dei martiri di Terra Santa. Si tratta di esemplari (alcuni conservati a Monza e a Bobbio) d'argento, con decorazione a sbalzo, che raffigurano il Santo Sepolcro e scene neotestamentarie. Anche in Siria a partire dal V secolo, in concomitanza con il culto dei martiri, si sviluppò l'uso della "santificazione" dell'olio mediante il passaggio sulle reliquie in una cassetta di marmo. Nel mondo cristiano sono ben noti gli ex voto, che a seconda del livello sociale ed economico dell'offerente si concretizzano in manufatti diversi: alcuni oggetti nascono come ex voto, altri invece lo diventano. Alla prima categoria appartenevano le raffigurazioni di cera e di altri materiali deperibili e che le fonti ci informano essere deposte presso le tombe venerate. Altre volte si assiste al voto di strutture e manufatti che solo l'apparato epigrafico ci consente di interpretare come ex voto. A questa seconda categoria appartengono impianti architettonici e decorativi, aule di culto, apparati decorativi (ad es., i pavimenti musivi di molte chiese dell'Italia settentrionale, in Palestina e in altre regioni orientali). Permane comunque la difficoltà di stabilire con chiarezza quali oggetti siano veri e propri ex voto e quali invece, a noi noti come votivi, siano stati dedicati genericamente pro salvatione animae, non collegati quindi ad uno specifico evento. Significato votivo hanno anche le offerte in denaro finalizzate alla realizzazione di qualcosa o al mantenimento di una struttura o di un'istituzione, come nel caso di lasciti a monasteri e chiese, o destinati a specifiche funzioni, tra le quali spicca per il suo significato simbolico l'illuminazione delle chiese. In tal senso, differiscono dagli oggetti che attualmente consideriamo votivi. Possono essere considerati oggetti votivi anche i souvenirs che i pellegrini riportavano indietro dai luoghi santi. Nati con lo scopo di attestare l'avvenuto pellegrinaggio, soprattutto quando questo era stato prescritto a scopo penitenziale, si trattava soprattutto di oggetti tipici della regione (ad es., la palma da Gerusalemme, la conchiglia da Santiago de Compostela), presto affiancati da manufatti utili nel corso del viaggio, tra i quali spiccano le ampolle di ceramica, borracce utilizzate per contenere l'acqua, di produzione orientale ma rinvenute anche in vari siti occidentali. Sono in genere di forma circolare schiacciata, dotate di stretto collo e due anse per la sospensione; differiscono dalle coeve bottiglie utilizzate dai comuni viaggiatori per i motivi iconografici legati al santuario nel quale erano state acquistate o con generici temi della vita di Cristo, tratti anche dai Vangeli apocrifi. Ricordi dei luoghi santi erano anche le eulogie, medagliette di terracotta o di bronzo, il cui apparato decorativo prediligeva temi legati alla vita del santo venerato oppure la sua immagine, accanto a generiche immagini devozionali (Adorazione dei Magi, scene mariane, ecc.). Il contributo dell'archeologia per la ricostruzione della messe di materiali votivi che dovevano affollare le sepolture venerate e i santuari martiriali è purtroppo estremamente esiguo, a motivo della deperibilità della maggior parte dei manufatti, spesso in cera o dipinti su supporto, con limitato uso della terracotta diffusa nel mondo classico, dello scarso valore loro attribuito, dell'oggettiva difficoltà di distinguere un ex voto propriamente detto da un più generico dono di devozione. Ciò non toglie che le fonti letterarie possano in questo caso integrare le lacune documentarie, completando un quadro archeologico che analizza le forme di devozione mediante gli indizi materiali lasciati da fedeli e pellegrini.
Oltre alla bibl. citata in Architettura funeraria, periodo tardoantico e medievale si vedano, soprattutto in riferimento ai manufatti cultuali e liturgici: R. Lesage, Dizionario pratico di liturgia eucaristica, Roma 1956- 60; M.C. Ross - K. Weitzmann (edd.), Catalogue of the Byzantine and Early Medieval Antiquities in the Dumbarton Oaks Collection, Washington 1962; G. Galavaris, Bread and the Liturgy. The Symbolism of Early Christian and Byzantine Bread Stamps, Madison - Milwaukee - London 1970; H. Buschhausen, Die spätrömischen Metallscrinia und frühchristlichen Reliquiare, Wien 1971; Eucharistic Vessels of the Middle Ages, Cambridge (Mass.) 1975; Da Ebla a Damasco. Diecimila anni di archeologia in Siria (Catalogo della mostra), Milano 1985; B. Montevecchi - S. Vasco Rocca (edd.), Suppellettile ecclesiastica, I, Firenze 1988; E. Chalkia, Le mense paleocristiane, Città del Vaticano 1991; J. Lafontaine-Dodogne, s.v. Acherotipa, in EAM, I, 1991, pp. 88-92; U. Mende, s.v. Acquamanile, ibid., pp. 102-105; P. Arthur et al., "Masseria Quattro Macine". A Deserted Medieval Village and its Territory in Southern Apulia. An Interim Report on Field Survey, Excavations and Document Analysis, in BSR, 51 (1992), pp. 181-237; A.M. Giuntella, s.v. Lamp, in Encyclopaedia of Early Church, I, Cambridge 1992, pp. 471-72; A. Bonanni, s.v. Lampada e lampadario, in EAM, VII, 1996, pp. 558-69; P. Arthur, Uno stampo eucaristico bizantino da Soleto (LE), in AMediev, 24 (1997), pp. 525-30; A. Campus, s.v. Ex voto, in L'Universo del corpo, III, Roma 2000, pp. 474-76; M. Di Bernardo, s.v. Utensili liturgici, in EAM, XI, 2000, pp. 450-65; C. Pisoni, s.v. Tabernacolo, ibid., pp. 55-57.