L'archeologia delle pratiche cultuali. Mondo romano
Priva di dogmi, rivelazioni ed esplicite professioni di fede, la religione romana, nella molteplicità delle sue manifestazioni, era fondata sulla pratica del rituale, organizzato secondo precise regole cultuali che definivano gli spazi, l'arredo, il sacrificio, i doni alla divinità e la divinizzazione. Va comunque precisato che un quadro d'insieme della religione romana sarebbe quanto mai distorto se non venisse considerata la diversità del comportamento religioso dei vari gruppi sociali che componevano la popolazione, comprese le numerose comunità straniere, ma soprattutto deve essere fatta una distinzione per l'ambito, sia esso privato o pubblico, in cui veniva praticato il culto. Il culto pubblico è quello meglio conosciuto grazie ai numerosi riferimenti delle fonti e alle esplicite raffigurazioni dei monumenti. Il ruolo della religione nella vita pubblica era fondamentale fin dalla fondazione della città, quando, contestualmente alla definizione dei confini, gli àuguri provvedevano ad allontanare dal sito tutti i proprietari di origine divina che avrebbero potuto occupare il luogo prescelto per la città. Il territorio era rigidamente suddiviso tra spazi dedicati agli uomini e spazi dedicati alle divinità. Questi ultimi erano definiti con un rito solenne espletato esclusivamente da un magistrato o da un delegato dal popolo, che provvedeva a consacrare, ovvero a trasferire la proprietà di un terreno, di un edificio o di un altare alla divinità. Si trattava di un vero e proprio atto ufficiale, la validità del quale era garantita dalla corretta osservazione delle diverse fasi del rito; solo così il luogo diventava sacro (loca sacra). Altri spazi dedicati al culto, pur non essendo sacri né inviolabili, erano ugualmente posti sotto il diritto divino (loca sancta), venerati per tradizione o per religiosità individuale (loca religiosa), come i numerosi tempietti collocati in proprietà private, i sacelli e le tombe. Nell'interpretazione romana dell'architettura templare greca si preferisce adottare nella maggior parte dei casi la pianta prostila o pseudoperiptera, mantenendo il tempio elevato su un alto podio secondo la tradizione etrusco-italica, mentre solo in casi particolari è adottata la pianta circolare (come il richiamo rituale alla capanna primitiva nei templi di Vesta al Foro Romano e a Tivoli), talvolta modificata con l'apposizione di una facciata che la riavvicina al tipo prostilo (così per il Tempio B di Largo Argentina e per il Pantheon). Dinanzi al tempio era posto l'altare su cui si compiva il sacrificio, momento fondamentale della celebrazione del rito, sia nel culto pubblico che in quello privato. Le fonti antiche e le testimonianze archeologiche sono particolarmente ricche di informazioni sull'argomento. La forma più solenne prevedeva l'immolazione di vittime animali, considerate maggiori nel caso di bovini ed equini, minori nel caso di suini ed ovini. Altre forme di sacrificio prevedevano l'offerta di frutti della terra e liquidi, ma a prescindere dal tipo di offerta il rito non mutava, inteso sempre come un banchetto al quale partecipavano la divinità e i mortali. Solo nel caso di sacrifici a divinità degli inferi le offerte venivano completamente bruciate e il pasto non era condiviso con i mortali. Selezionata la vittima in base al sesso e al colore, i partecipanti avanzavano in corteo verso l'altare accompagnati dalla musica dei flautisti, quindi si procedeva alla praefatio, l'offerta di incenso e vino, una sorta di saluto e di invito alle divinità onorate. Questa prima fase era talmente importante e solenne che spesso nelle raffigurazioni dei rilievi riassume in sé tutta la cerimonia come espressione compiuta della pietas del sacrificante. Si proseguiva con la immolatio, la consacrazione dell'animale che veniva cosparso, come il coltello sacrificale, con la mola salsa, appositamente preparata dalle Vestali per il culto pubblico. Quindi il sacrificante cospargeva il capo della vittima di vino e passava il coltello sulla spina dorsale, dichiarando con tale gesto l'intenzione di offrire l'animale alla divinità. L'uccisione dell'animale era affidata ai victimarii che, sgozzata la vittima, la rovesciavano sul dorso per aprirne il ventre ed ispezionarne attentamente gli organi vitali (exta). Questa fase del rito (extispicium) era determinante per appurare il gradimento (litatio) della divinità; infatti, la presenza di anomalie nelle viscere determinava l'esito negativo del sacrificio e la ripetizione della cerimonia. Secondo la dottrina etrusca dell'aruspicina, dall'esame degli exta si potevano trarre gli auspici del sacrificante. Accertata la litatio, le parti destinate alla divinità erano bruciate sull'ara cosparsa del sangue della vittima (exta porricere o reddere). L'esplicita descrizione di questo rituale, oltre che nelle fonti, ricorre in numerosi rilievi pertinenti alla decorazione di monumenti pubblici, tra i quali si ricordano i due conservati al Louvre: quello con extispicium e quello con suovetaurilia, dalla Collezione Grimani; un altro celebre esempio è fornito dal rilievo con il sacrificio relativo alla lustratio del popolo romano sull'ara di Domizio Enobarbo. Talora il riferimento al culto è proposto sinteticamente negli strumenti sacrificali raffigurati su innumerevoli altari: l'urces e la patera sono sempre posti rispettivamente sul fianco sinistro e su quello destro, così come erano tenuti dal sacerdote durante la libagione. Oltre ad assolvere alla loro funzione di luoghi di culto, i santuari si presentano in molti casi come centri polifunzionali in cui l'articolazione architettonica del complesso prevedeva la presenza di spazi destinati ad attività connesse con la vita religiosa. Nelle officinae e nelle tabernae si producevano e si vendevano oggetti devozionali e arredi liturgici, ma anche carni, fiori e frutti per le offerte alla divinità; ampi spazi aperti e porticati accoglievano le folle dei devoti in occasione delle festività; nel teatro annesso agli edifici sacri venivano rappresentati i ludi scaenici. I santuari repubblicani del Lazio dimostrano in modo chiaro come la funzione religiosa del luogo sia strettamente vincolata ad altri aspetti della vita sociale, economica e politica e come molto spesso sia impossibile una rigida divisione di questi aspetti. Seppure in forme architettoniche differenti i santuari di Giunone a Gabi, di Fortuna a Preneste, di Ercole Vincitore a Tivoli ripropongono, sulla base di esperienze ellenistiche, l'associazione tempio-teatro e la presenza di ampi spazi destinati a mercato. L'esempio di Gabi è il più antico e probabilmente contemporaneo alla realizzazione del teatro costruito dal censore Cassio Longino nel 154 a.C. nell'area antistante il tempio di Cibele sul Palatino, dove, in occasione della festa della divinità, si svolgevano spettacoli teatrali (Ludi Megalenses). Del teatro, distrutto poco dopo la costruzione dal console P. Scipione Nasica, sono stati riconosciuti dei resti di muri radiali nella zona compresa tra il Lupercale e il Palatino. Anche la funzione del luogo sacro come contenitore di opere d'arte è ampiamente documentata dalle fonti. Quando nel 187 a.C. Fulvio Nobiliore celebra il suo trionfo, dedica il bottino nell'aedes Herculis Musarum, utilizzando originali greci come immagini di culto nel tempio. Dalle parole del retore Eumenio (Paneg., IX, 7, 3) emerge chiaramente il contenuto culturale di questa dedica che conciliava la virtus bellica con una nuova humanitas, quella dei circoli intellettuali neopitagorici del tempo. In età augustea i simulacri greci continuano ad essere adottati in funzione dei valori del nuovo assetto politico e religioso. Ancor prima dell'ascesa al trono, Tiberio dedicava il tempio della Concordia Augusta, votato nel 7 e consacrato nel 10 d.C. La cella del tempio ospitò una vera e propria collezione di opere d'arte, delle quali ci informa diffusamente Plinio in numerosi passi della Naturalis historia. La restaurazione di questo antico culto di tradizione repubblicana era funzionale all'intento di Augusto di mostrare un'immagine di unità e di concordia famigliare volta a creare una linea di discendenza dinastica al suo impero, gli stessi presupposti che avevano portato Livia a dedicare alla divinità un tempietto presso la Porticus Liviae. Il risanamento morale, posto da Augusto al centro della sua politica sociale, prevedeva un programma di restaurazione religiosa volto al recupero dei culti antichi caduti in oblio, che Varrone aveva provvidenzialmente raccolto nelle sue Antiquitates rerum divinarum. La pietas non fu solo una delle virtù di Augusto, ma divenne una delle principali linee guida del nuovo corso politico. L'attenzione del princeps si rivolse al restauro dei templi in un rinnovato splendore (R. Gest. div. Aug., 20, riferito al 28 a.C.), ma anche alla riorganizzazione delle cariche sacerdotali e delle confraternite religiose, al ripristino di festività e di antichi rituali. Un esempio della capillarità dell'intervento augusteo è rappresentato dall'organizzazione dei culti compitali che si svolgevano a Roma nei 265 vici, le circoscrizioni urbane create dal nuovo ordinamento della città (7 a.C.). Questi centri di culto rionali erano dedicati in origine ai Lari, divinità minori, spiriti protettori dell'antica religione agreste, raffigurati con l'attributo della cornucopia in concitati passi di danza, ma nella nuova organizzazione del culto ai Lares compitales erano sempre associati i Lares Augusti, rappresentati dalla figura del genius dell'imperatore, protettore e custode del luogo. Al culto erano preposti quatto magistri e quattro ministri eletti ogni anno nei singoli rioni e provenienti rispettivamente dal ceto equestre e da quello servile. Questi provvedevano alla dedica degli altari, sui quali erano spesso raffigurati in atto di sacrificare, come sull'ara del Vicus Aescletus (2 a.C.), ma realizzavano anche monumenti più impegnativi come quello del Compitum Acilii (5 a.C.), del quale si conserva la ricca decorazione architettonica con la dedica ad Augusto da parte dei vicomagistri. Nell'ambito privato, i Lares familiares erano venerati come custodi della casa e a loro era dedicato un sacello presso l'atrio. I Lari erano associati nel culto ai Penates, divinità protettrici del penus, la dispensa dei viveri, e al genio del padrone di casa; nelle vivaci decorazioni dei larari delle case pompeiane queste figure compaiono spesso ai lati di un altare sul quale sono poste le offerte che venivano dedicate in occasione dei lararia o in occasione del dies natalis del genio. Sempre a Pompei un edificio dalla complessa architettura era dedicato ai Lares publici, divinità protettrici della città, presso il quale si svolse una cerimonia di procuratio, un sacrificio compiuto dalla città in seguito ad una grande calamità per espiare colpe che avrebbero procurato l'ira degli dei. Questa cerimonia è stata riconosciuta nella raffigurazione di un rilievo che decorava il larario della casa di L. Caecilius Iucundus. L'attenzione del sentimento religioso popolare era rivolta, ancorché agli dei olimpici del Pantheon greco-romano, ad una miriade di altre figure divine che esercitavano la loro forza in specifici campi d'azione. Già per il Lazio primitivo sono attestate entità che si localizzano in un luogo o in un elemento naturale fino ad identificarsi con esso; questo accadde per le fonti Giuturna ed Egeria o per la grotta del Lupercale. Infine, personificazioni di virtù, quali Mens, Fides, Salus, Ops, erano concepite anch'esse come divinità vere e proprie ed erano venerate nei loro templi, talora posti accanto a quelli delle divinità maggiori. Così sul Campidoglio, l'area antistante il tempio di Giove era fittamente occupata da templi minori, sacelli, trofei e statue, al punto che i censori del 179 a.C., e successivamente anche Augusto, dovettero provvedere a trasportare altrove almeno i trofei e le statue. Il politeismo romano si dimostra aperto fin dalle epoche più remote ad accogliere culti "stranieri", tanto che appare assai arduo delineare i confini di una religione romana senza riconoscervi immediatamente l'interpretazione di culti etruschi e greci. Questo atteggiamento culturale, prima ancora che religioso, rimane immutato in epoche più recenti grazie al contatto diretto con le diverse realtà dei territori conquistati. Il culto di Cibele fu il primo ad essere introdotto ufficialmente a Roma dall'Asia Minore, ammesso senza remore dallo Stato in quanto collegato alle origini troiane della città, tanto che nel 191 a.C. il tempio della Magna Mater fu dedicato sul Palatino, luogo sacro alle memorie della fondazione di Roma. Il culto della divinità prevedeva riti orgiastici e cruenti estranei al costume religioso dei Romani, quindi era previsto che tali celebrazioni dovessero avvenire esclusivamente all'interno dell'area templare. Probabilmente per questi stessi motivi ad Ostia il culto di Cibele era praticato in uno spazio triangolare (cd. Campo della Magna Mater) situato in una zona periferica della città. Un'ampia documentazione epigrafica e numerose testimonianze archeologiche consentono di ricostruire lo svolgimento del rituale che, dal II sec. d.C., prevedeva anche il taurobolium, il sacrificio del toro, per il quale lo spazio del Campo della Magna Mater dinanzi al tempio veniva cosparso di sabbia. La fortuna di questo culto interessò indistintamente tutte le classi sociali. Uno dei più devoti fedeli ostiensi, Caio Cartilio Euplo, dedicò nel vicino sacello di Attis un cospicuo gruppo di statue tra le quali, oltre alla raffigurazione del dio, compare una statua di Venere Genitrice; la dea, infatti, in quanto protettrice dei Troiani era associata al culto della frigia Cibele. Questa connessione era ben vista a Roma dove Venere, madre di Enea, era l'antenata di tutta la gens Giulia e quindi di Augusto. Non tutti i culti di origine orientale furono accolti ufficialmente a Roma con la stessa precocità e con la stessa fortuna di quello di Cibele. Le divinità egizie, ad esempio, furono dapprima contrastate dalle autorità che volevano impedire il propagarsi dell'influenza culturale di Alessandria, poi, in età augustea, Iside e Serapide, in quanto divinità protettrici di Antonio e Cleopatra, furono vieppiù osteggiate. Tuttavia Caligola, preso atto della capillare diffusione dei culti egizi, pur in mancanza del consenso ufficiale, dedicò nel 38 d.C. il grande tempio di Iside nel Campo Marzio (probabilmente preceduto da un santuario più antico dedicato dai triumviri del 43 a.C. e distrutto da Augusto e Tiberio). Il culto di Mitra, divinità di origine persiana, fu l'ultimo in ordine di tempo ad essere introdotto nella religione romana, ma in compenso ebbe un'ampia diffusione tutt'oggi documentata dai numerosi mitrei. Il culto, in virtù delle sue caratteristiche guerriere, si diffuse in primo luogo tra i legionari romani che tra l'epoca flavia e quella traianea combatterono in Oriente contro i Parti. Ma fu nel III sec. d.C. che il culto di Mitra, assimilato al Sol Invictus, venne quasi innalzato a religione di stato. La tipologia architettonica del mitreo risponde alle esigenze liturgiche proprie di questa religione misterica e ai suoi rituali iniziatici; l'ingresso è di preferenza posto su strade secondarie, vicoli ciechi o comunque spazi appartati. Il santuario, quasi sempre sotterraneo, presenta uno sviluppo planimetrico di forma rettangolare allungata, imitando con la bassa volta a botte l'aspetto della grotta natale di Mitra. Un corridoio tra due podi ( praesepia), utilizzati per i banchetti rituali, conduce al fondo del sacello, dove dietro un piccolo altare trova posto in una nicchia l'immagine di Mitra. All'interno, in pittura o mosaico, sono riproposti i simboli dei sette gradi dell'iniziazione. Il simulacro raffigura costantemente Mitra in abito frigio mentre uccide il toro. L'iconografia è ripresa dalla Nike tauroctona raffigurata sul parapetto del tempio di Atena Nike sull'Acropoli di Atene. A questo schema si aggiungono un serpente e un cane che bevono il sangue che sgorga dalla ferita, mentre uno scorpione stringe tra le sue tenaglie i testicoli del toro per prenderne il seme. Nell'atto di uccidere l'animale Mitra rivolge lo sguardo al Sole, che insieme alla Luna rappresenta l'inquadramento cosmico della scena e quindi il riferimento alla ciclicità del tempo e della vita. Nonostante l'ampia diffusione dei culti stranieri a Roma, i luoghi di culto dedicati a queste divinità, in particolare a quelle di origine orientale, erano concentrati nel Trastevere, tradizionalmente caratterizzato da una frequentazione umile e cosmopolita. Oltre ai numerosi mitrei, si ricordano il piccolo sacrario presso S. Maria dell'Orto dedicato a Giove Dolicheno (il quale aveva i suoi templi maggiori sull'Esquilino e sull'Aventino) e, in Vaticano, il tempio di Cibele (Phrygianum), i resti del quale tornarono alla luce nel 1607 durante la costruzione della facciata della basilica di S. Pietro. Fin dall'epoca repubblicana la riva destra del Tevere aveva accolto le manifestazioni religiose caratterizzate da rituali violenti o comunque contrari al costume romano e all'ordine pubblico. Inoltre, dal racconto di Livio, agli inizi del II sec. a.C. il Trastevere appare al centro della lunga persecuzione contro i seguaci dei culti bacchici, conclusasi con il senatus consultum de Baccanalibus (186 a.C.). Un importante luogo di culto è rappresentato dal santuario siriaco del Gianicolo, dedicato alla triade eliopolitana: Hadad, Atargatis e Simios; l'edificio nella complessa articolazione degli spazi risponde alle esigenze di un culto misterico che prevedeva rituali iniziatici per i neofiti.
Le immagini di culto - Le espressioni più antiche della religione romana non prevedevano immagini di culto della divinità. Secondo Plutarco (Num., VIII, 7-8) Numa proibì ai Romani di venerare immagini in cui la divinità avesse l'aspetto umano o animale; l'originaria assenza di simulacri divini è confermata indirettamente da Servio (Aen., VIII, 3), il quale nota che i templi mutarono forma proprio per accogliere le statue degli dei. Una testimonianza di questa forma di devozione aniconica è costituita dalla pietra nera, simbolo della Magna Mater, che nel 204 a.C. venne portata a Roma da Pessinunte. Nel I sec. a.C. Varrone, oltre a concordare sulla mancanza di simulacri nelle epoche precedenti, osserva che la consuetudine di venerare gli dei senza far ricorso alle loro immagini antropomorfe era ancora in uso ai suoi tempi, quando, come è noto, era già ampiamente diffuso l'impiego di simulacri marmorei. Le statue di culto più antiche, note solo dalle fonti, erano realizzate in legno (xoana), come la Iuno Regina, giunta a Roma da Veio nel 391, o in terracotta, come il simulacro di Giove, collocato nel tempio capitolino da Tarquinio Prisco; in terracotta era anche la statua di Minerva rinvenuta nel deposito votivo del santuario di Lavinio, a lei dedicato, databile alla fine del V sec. a.C. Properzio (IV, 1, 5) dice che i "templi d'oro" della sua epoca erano stati costruiti "per degli dei fittili" e ricorda che la statua bronzea di Vertumnus era stata preceduta da un simulacro intagliato da un frettoloso falcetto in un tronco di acero (IV, 2, 59). Giovenale, infine, rimpiange i tempi in cui "Giove fittile e ancora non contaminato dall'oro soleva aver cura delle cose del Lazio" (Sat., XI, 100). Certamente l'uso di questi materiali fu conservato a lungo, dal momento che Ovidio (Fast., III, 437) e Plinio il Vecchio (Nat. hist., XVI, 216) ricordano un simulacro di legno di cipresso nel tempio di Veiove sul Campidoglio. Un radicale mutamento nella cultura artistica e quindi anche nella produzione delle immagini di culto si ebbe nel II sec. a.C., quando sulla scia di quel radicale processo di ellenizzazione che investì tutta la cultura romana, oltre ai capolavori dell'arte greca portati dai trionfatori delle campagne d'Oriente, giunsero a Roma artisti greci che operarono per la nuova committenza seguendo la propria tradizione artistica. Come ricorda Plinio (Nat. hist., XXXVI, 35), Dionysios e Polikles della famiglia di Timarchides scolpirono le statue di culto del tempio di Giove Statore e di quello di Giunone Regina, il simulacro della quale è stato riconosciuto nella testa femminile colossale conservata ai Musei Capitolini. La scultura, ispirata a modelli greci del IV sec. a.C. reinterpretati dalla sensibilità ellenistica, faceva parte di un acrolito; questa tecnica, utilizzata per statue di culto di grandi dimensioni, prevedeva le parti nude in marmo, mentre il resto della figura era realizzato in diverso materiale con particolari in metallo, pasta vitrea o pietre dure. Alla stessa tipologia è riconducibile l'acrolito in marmo pentelico dal Tempio B di Largo Argentina, l'aedes Fortunae huiusce diei votata da Q. Lutazio Catulo nel 102 a.C. Della statua si conservano anche il braccio e i piedi, verosimilmente fissati ad una struttura lignea; velo, diadema e ornamenti in metallo dovevano completare la testa che rispetto all'immagine di Giunone Regina, precedentemente citata, mostra una maggiore aderenza ai modelli classici. Questa tendenza classicistica persiste ancora nella tarda età repubblicana negli acroliti di Fides e Mens, simulacri dei rispettivi templi capitolini. Il proliferare di tali simulacri a Roma e nel Lazio, si ricorda in proposito la statua di culto del santuario di Diana a Nemi, non può prescindere dalla fervida attività di una o più botteghe in cui artisti greci di formazione attica operavano all'arredo scultoreo di templi e santuari costruiti ex novo o ristrutturati. I tratti stilistici che accomunano le opere appena citate sono il modellato nitido del volto, la resa lineare dei dettagli, l'intersezione rigida dei piani nella zona oculare, alla radice del naso, che determina la maniera di realizzare l'arcata sopraccigliare e il tipico rigonfiamento tra questa e la palpebra. Una testa femminile superiore al vero, proveniente dal santuario di Fortuna Primigenia a Preneste, pur rispondendo ai requisiti degli esemplari appena descritti, si distingue per una maggiore morbidezza dei tratti che, nonostante le dimensioni della scultura, infonde al volto un'espressione dolce che ben si adatta a raffigurare la divinità nel suo aspetto più tipicamente materno; la testa, infatti, appartiene alla statua ricordata da Cicerone (Div., II, 85) come raffigurante Fortuna in atto di allattare Giove e Giunone fanciulli. Gli elementi che allontanano questo esemplare dalla maniera più schiettamente attica riscontrabile negli acroliti rinvenuti a Roma impediscono di attribuire l'esemplare prenestino alla stessa manodopera. La testa, inoltre, è realizzata in marmo pario, non in pentelico come la maggior parte dei prodotti delle officine neoattiche operanti a Roma. Forse precedente agli acroliti di Roma, la scultura prenestina potrebbe essere stata importata o realizzata sul posto da un artista che, pur seguendo la tendenza classicistica del suo tempo, si distingue per la componente microasiatica della sua formazione dalla manodopera che lavorò ai simulacri neoattici di Roma. Anche l'Italia settentrionale ha restituito acroliti femminili di ispirazione classicistica, come quelli di Rimini, Alba, Trento, databili agli inizi del I sec. a.C. e ancora strettamente connessi agli esemplari neoattici urbani. L'attività di manodopera attica è documentata a Piacenza dalla statua superiore al vero raffigurante Apollo Caelispex firmata da Kleomenes Athenaios. Nonostante l'attività di scultori greci a Roma, in età augustea continuano ad essere impiegati originali greci come simulacri e ornamento dei luoghi di culto. Nel tempio consacrato ad Apollo sul Palatino nel 28 a.C. furono collocate le statue di Diana, Latona e Apollo, rispettivamente opera di Timoteo, Cefisodoto e Scopa (Plin., Nat. hist., XXXVI, 24-25, 32). Su una base votiva di Sorrento (Museo Correale), databile agli inizi dell'età imperiale, sono riprodotte le tre divinità così come erano celebrate nel programma decorativo augusteo. La statua di culto si dimostra nel contempo oggetto della pratica religiosa ed espressione del gusto artistico del tempo. La divinità, identificata con il suo simulacro, era riprodotta con le stesse forme e con gli stessi attributi in opere minori, ex voto e coni monetali, talora unica fonte superstite per risalire alle sembianze della statua di culto perduta. Il gruppo della Triade Capitolina, ad esempio, era finora noto solo da riproduzioni su monete, medaglioni, rilievi e da pochi frammenti di statue di culto provenienti dai capitolia delle province. Ma un rinvenimento in una villa romana presso Guidonia (Roma) ha restituito l'unica scultura a tutto tondo raffigurante Giove, Giunone e Minerva. In questa composizione le tre divinità sono raffigurate su un unico sedile, mentre in altri casi, come nella Triade Capitolina di bronzo da Pompei, esse compaiono sedute ciascuna su un trono oppure, secondo altre raffigurazioni, Giunone e Minerva, stanti, affiancano Giove in trono. Il gruppo scultoreo era probabilmente collocato nel larario della villa, a protezione della casa e dei suoi abitanti, testimoniando così la trasposizione del culto dall'ambito pubblico alla sfera privata. Con la diffusione del culto imperiale anche l'immagine dell'imperatore divenne oggetto di venerazione. Calchi e modelli dei ritratti erano emanati da Roma e diffusi in tutte le province dell'impero. La rapidità con la quale si diffuse il culto imperiale nelle province non fu sempre accompagnata da una eguale spontaneità. Nonostante Augusto professasse la natura umana dell'imperatore, in alcuni casi furono proprio i suoi collaboratori più prossimi a promuovere il culto. Nel 12 a.C. Druso dedicò un altare a Roma e Augusto a Lugdunum, ufficializzando così il culto al quale era preposto un sacerdote in rappresentanza dei popoli delle tre Gallie; la descrizione di Strabone (IV, 3, 2) compensa in parte la conoscenza di questo altare federale del quale rimangono solo pochi resti. Agli inizi del III sec. d.C. Cassio Dione (LI, 20, 6-9) ricorda come il culto imperiale, introdotto con Augusto, si fosse rapidamente propagato in tutto il mondo romano. Nel 30-29 a.C., poi, lo stesso Augusto aveva autorizzato il culto nelle province dell'Asia e della Bitinia, a condizione che i santuari fossero intitolati al padre adottivo, Divus Iulius, e alla dea Roma e che l'imperatore vivente non fosse esplicitamente qualificato come dio. Questo avvenne certamente a Roma e in Italia, dove nessun imperatore ebbe onori divini in vita o prima che ne fosse stata decretata l'apoteosi. Tuttavia fonti epigrafiche e testimonianze archeologiche dimostrano come in Grecia e in Asia Minore Augusto, ancora in vita, fosse considerato e onorato al pari di una divinità, secondo una radicata tradizione che aveva venerato in queste forme i sovrani dei regni ellenistici. Poco dopo il 27 d.C. sull'Acropoli di Atene fu edificato un tempietto ionico dedicato a Roma e Augusto; contemporaneamente un tempio veniva realizzato ad Efeso sull'asse maggiore dell'agorà. I luoghi del culto imperiale si attestarono fin dall'epoca augustea in posizioni urbanistiche di rilievo, centro della vita sociale e politica della città. Ad Ostia il tempio di Roma e Augusto fronteggiava il Capitolium, a Pola dominava il foro, a Roma il tempio di Vespasiano e Tito fu costruito da Domiziano alle pendici del Campidoglio e quello di Antonino e Faustina fu innalzato lungo la Via Sacra presso il tempio del divo Giulio. Oltre ai templi dedicati agli imperatori sono da ricordare le sedi delle associazioni degli addetti al culto imperiale, Augustales, seviri Augustales, magistri Augustales, anch'esse collocate in luoghi centrali. A questo proposito è esemplare il caso di Roselle, dove nel foro si trovano la sede del culto della famiglia giulio-claudia e del collegio dei flamines Augustales. Manifestazioni di una forma privata di apoteosi possono essere considerate quelle raffigurazioni di defunti assimilati nell'iconografia alla divinità (consecratio in formam deorum). Nel corso del II sec. d.C. sono particolarmente numerosi i personaggi femminili rappresentati nelle vesti di Fortuna, Cerere, Venere; per gli uomini, specie nel III sec. d.C., si preferisce l'immagine di Eracle. Tale fenomeno, nato come fatto urbano, si estese rapidamente in Italia e nelle province, mentre in Oriente si contano solo sporadiche attestazioni.
Le offerte votive - I depositi votivi di templi e santuari ( favissae) hanno restituito un'enorme quantità di oggetti che, offerti in dono alla divinità, ne diventavano di esclusiva proprietà e in quanto tali inalienabili. L'inviolabilità dei donaria e la loro amministrazione erano affidate al sacerdote del tempio, all'aeditus e a magistrati con il ruolo di pubblici sovraintendenti; sanzioni di carattere religioso e giuridico garantivano l'osservazione delle norme di tutela. Il personale preposto compilava un accurato elenco delle offerte, in base al quale, alla fine del mandato, veniva eseguito un riscontro sul numero e lo stato di conservazione dei beni. All'interno e all'esterno dell'edificio sacro i doni erano variamente distribuiti. Le offerte più preziose trovavano posto nella cella accanto al simulacro della divinità, ma la gran parte degli oggetti era appesa o accatastata in base alle dimensioni, al materiale e al peso in ogni angolo del tempio e sulle pareti di esso. Quando la quantità di offerte superava la capienza del luogo, gli oggetti che da più lunga data erano rimasti esposti venivano riposti in fosse o camere sotterranee ( favissae) appositamente scavate presso il tempio (Gell., II, 10). La tipologia dei reperti restituiti da questi depositi è molto varia, le più numerose sono le offerte in terracotta, comprendenti teste isolate, statuette di offerenti, divinità, bambini in fasce, animali, parti anatomiche, statue maschili e femminili a grandezza naturale o ridotta. A questi si aggiungono vasellame d'uso o miniaturizzato, ornamenti personali, oggetti in metallo e monete. Le offerte in terracotta testimoniano una grande devozione popolare che attraverso l'elevato numero di votivi anatomici sembrerebbe indicare soprattutto una richiesta di protezione per la salute e la fertilità. Questo tipo di dono è ampiamente diffuso in un arco cronologico molto vasto. Attestate fin dall'età arcaica, le offerte fittili hanno la massima diffusione a Roma e nell'Italia centrale tra la seconda metà del IV e il II-I sec. a.C. Nella maggior parte dei casi questi oggetti erano prodotti da officine attive presso il luogo di culto e specializzate nella lavorazione dell'argilla e nella tecnica dello stampo; più raramente, per offerte di particolare pregio o per richieste particolari, si ricorreva ad oggetti di importazione. Nella molteplicità dei tipi delle teste votive maschili e femminili, nonostante le specificità delle produzioni locali, è individuabile l'influenza di modelli greci classici ed ellenistici, spesso mediati dalle esperienze artistiche etrusca e magnogreca. In assenza di un'iscrizione che manifesti l'intenzione del dedicante, risulta impossibile determinare i casi in cui le offerte erano fatte per invocare l'intervento della divinità e quando, invece, il dono rappresentava la gratitudine per la guarigione ottenuta. Le iscrizioni, che nel caso di oggetti più preziosi accompagnavano il dono o costituivano esse stesse l'offerta, esprimono con formule stereotipate le richieste alla divinità (votum posuit, votum fecit, voto suscepto, votum dedicavit) o lo scioglimento del voto (votum laetus libens merito solvit o, più semplicemente, votum solvit, votum reddere, ex voto, pro voto); il dono, infine, poteva essere ispirato da un ordine preciso della divinità apparsa in sogno, in questo caso la circostanza era specificata nella formula dedicatoria (ex iusso numinis dei). Oltre che per motivi di salute il voto veniva contratto per tutelare la partenza e il rientro da un viaggio (pro itu et reditu), per il buon esito di una spedizione militare o per altre circostanze critiche della vita del devoto non necessariamente esplicitate dal tipo di dono; così accade per le diffusissime statuette raffiguranti offerenti, teste, mezze teste maschili e femminili, arule in terracotta. Anche nel caso di offerte più impegnative, come gli altari di marmo, l'iscrizione posta sulla fronte ricorda il nome della divinità, ma non necessariamente la motivazione della dedica. Inoltre, nonostante specifiche prerogative di alcune divinità, in primo luogo quelle tutelari della salute come Aesculapius, Salus, Igea, le stesse richieste potevano essere rivolte anche ad altre divinità. Tra le manifestazioni di devozione si ricordano le offerte di statue di immagini divine grandi al vero o in dimensioni ridotte, in marmo o in materiali più umili. Anche l'immagine stessa del devoto costituiva un tipo di dono. Accanto alle dediche di statuette in terracotta che rappresentavano in modo assolutamente generico figure di offerenti, diffuse nell'area medio- italica dall'avanzato IV sec. a.C., si ricorda la statua di Spurio Carvilio Massimo il quale, a seguito di una sconfitta sui Sanniti, dedicò sul Campidoglio un simulacro colossale di Giove, accanto al quale collocò la propria statua (Plin., Nat. hist., XXXIV, 43). Ancora nel corso dell'età repubblicana e in epoca imperiale sono documentati molti casi di dediche di statue onorarie in marmo consacrate alla divinità e poste nei santuari. Infine, una forma di offerta votiva deve essere considerata anche la dedica di edifici sacri fatta dai magistrati rite nuncupatio, ovvero ad alta voce dinanzi a testimoni. Così Livio ricorda i voti fatti da A. Claudius Caecus per il tempio di Bellona nel 296 a.C. (X, 19, 17) e da M. Atilius Regulus per il tempio di Giove Statore nel 294 a.C. (X, 36, 11). L'offerta alla divinità di una dimora (aedes publica) era certamente tra i doni più impegnativi, anche se frequentemente realizzati con il denaro ricavato dal bottino di guerra e con il tacito consenso del senato e del popolo.
In generale:
U.D. Scholz, Zur Erforschung der römischen Opfer, in Le sacrifice dans l'antiquité classique, Genève 1981, pp. 289-328; J. Scheid, La religione a Roma, Bari 1983; Id., Religione e società, in Storia di Roma, IV, Torino 1989, pp. 631-59; E. Simon, Die Götter der Römer, München 1990; O. Dräger, Religionem significare. Studien zu reich verzierten römischen Altären und Basen aus Marmor, Mainz a. Rh. 1994; H. Cancik - J. Rüppe, Römische Reichreligion und Provinzialreligion, Tübingen 1997.
Sul culto imperiale:
P. Herz, Bibliographie zur römischen Kaiserkult (1955-1975), in ANRW, II, 16, 2 (1978), pp. 833-910; H. v. Hesberg, Archäologische Denkmäler zur römischen Kaiserkult, ibid., pp. 911-95; S.R.F. Price, Rituals and Power. The Imperial Cult in Asia Minor, Cambridge 1984; H. Hänlein-Schäfer, Veneratio Augusti. Eine Studie zu den Tempeln des ersten römischen Kaisers, Rom 1985; D. Fishwick, The Imperial Cult in the Latin West. Studies in the Ruler Cult of the Western Provinces of the Roman Empire, I, 1-2, Leiden 1987; A. Fraschetti, Roma e il principe, Roma - Bari 1990; T. Mikocki, Sub specie deae. Les impératrices et princesses romaines assimilées à des déesses. Étude iconologique, Rome 1995.
Sui culti orientali:
M.J. Vermaseren, Corpus inscriptionum et monumentorum religionis Mithriacae, I-II, Hagae Comitis 1956; F. Coarelli, Topografia mitriaca di Roma, in U. Bianchi (ed.), Mysteria Mithrae. Atti del seminario internazionale su 'La specificità storico-religiosa dei misteri di Mitra, con particolare riferimento alle fonti documentarie di Roma e Ostia' (Roma e Ostia, 28-31 marzo 1978), Leida 1979, pp. 69-79; M.J. Vermaseren (ed.), Die orientalischen Religionen im römischen Reich, Leiden 1981.
Sulle immagini di culto:
H. Wrede, Consecratio in formam deorum, Vergöttliche Privatpersonen in der römischen Kaiserzeit, Mainz a. Rh. 1981; H. Günther Martin, Römische Tempelkultbilder, Rom 1987; C. Vermeule, The Cult Images of Imperial Rome, Rome 1987.
Sui materiali votivi:
P. Pensabene et al., Terracotte votive dal Tevere, Roma 1980; G. Bartoloni - G. Colonna - C. Grottanelli (edd.), Anathema. Regime delle offerte e vita dei santuari nel Mediterraneo antico. Atti del Convegno Internazionale (Roma, giugno 1989), Roma 1990; W. Spickermann, Mulieris ex voto. Untersuchungen zur Götterverehrung von Frauen im römischen Gallien und Rätien (1.-3. Jahrhundert n.Ch.), Bochum 1994.