L'archeologia dell'Iran. Il mondo degli imperi iranici
di Bruno Genito
Il gruppo dei Persiani giunse in quella che doveva diventare la sua sede definitiva, il Fars, tra la fine dell'VIII e gli inizi del VII sec. a.C. Con Ciro il Grande, della stirpe degli Achemenidi, essi si sollevarono dal vassallaggio dei Medi, sostituendosi a loro nel comando. Con la stessa rapidità con la quale erano riuscite a costituirsi in una organizzazione statale solida e organica, queste tribù di cavalieri nomadi e seminomadi seppero crearsi un linguaggio culturale proprio, ben espresso nei loro centri più significativi, che sono anche i più noti: Pasargade e Persepoli. Gli Achemenidi costituirono l'élite politica che riuscì a portare a compimento quell'immenso processo di urbanizzazione delle tribù iraniche, cominciato qualche secolo prima, che aveva sconvolto e trasformato i vecchi assetti sociali, economici e politici dell'altopiano. Non è ancora chiaro, tuttavia, quanto a lungo la dinastia abbia conservato il suo originario carattere clanico-familiare di tipo tribale, senza trasformarlo completamente, al livello della identità sociale, in senso urbano.
Nell'Iran achemenide la maggior parte dei dati archeologici non è chiaramente collocabile in precise coordinate etnico-politiche. I caratteri "dinastici" sono visibili solo in pochi casi di particolari unità architettonico-territoriali (palazzi pubblici o privati) o di classi di materiali, come monete, sigilli e monumenti epigrafici. Inoltre, troppo spesso del periodo achemenide sono state poste in evidenza certe forme di sincretismo politico, culturale e artistico, difficilmente riconoscendone, invece, i caratteri di indubbia originalità. Certo la Mesopotamia, in primo luogo, ha ispirato numerose iconografie, come le lotte con esseri fantastici, i colossi custodi delle porte, nonché alcuni aspetti dell'architettura palaziale, l'adozione del mattone crudo, l'impiego dei paramenti di terracotta policroma; l'Egitto ha fornito, invece, il modello della cornice delle porte; l'Assiria quel simbolo alato nel quale comunemente si riconosce Ahura Mazda; la Ionia l'idea e i modelli di basi e di colonne per Pasargade, oltre che quello della colonna scanalata di Persepoli.
Al mondo anatolico, ionico e lidio sembra sia da riportare il gusto per i paramenti litici finemente lavorati e alla tecnologia greco-ionica l'introduzione dello scalpello dentato, così come anche l'impiego dell'anathyrosis, che permette di conseguire una perfetta connessione fra i blocchi di pietra. L'adozione dei terrazzamenti artificiali nella "cittadella" di Pasargade e a Persepoli si è voluta riportare a un'influenza mesopotamica da una parte e urartea dall'altra, come pure all'Urartu è stata riferita la bicromia impiegata a Pasargade e in altri monumenti attribuibili all'epoca di Ciro, mentre agli Sciti risalirebbero numerosi motivi decorativi. Decisamente originali sono, tuttavia, altri aspetti essenziali della cultura di periodo achemenide: in Asia mai era stato impiegato, infatti, come partito dominante nella grande architettura, l'elemento colonnare; analogamente, del tutto indipendenti dai modelli greci sono i moduli estremamente elevati della colonna, così come i rapporti spaziali delle sale colonnate (ipostile), che nulla hanno a che vedere con quelle pure in uso nell'antico Egitto. Originali sono altresì la concezione del capitello a mensole zoomorfe e il tipo del palazzo che, fatto fondamentale, è assolutamente nuovo nella sua organizzazione planimetrica.
Anche la produzione artistica è particolarmente nuova, perché portatrice di un messaggio e di una tendenza alla propaganda politica assolutamente inediti. I contenuti figurativi sono essenzialmente aulici, volti alla glorificazione del potere reale, ipostasi della stabilità e immutabilità della potenza del sovrano, che agisce in armonia col volere di Ahura Mazda. Si tratta perciò di un'arte simbolica e non narrativa, incentrata su pochi simboli essenziali, inequivocabili, come il re che combatte contro il mostro (il male) e lo uccide, il re in trono, il re che riceve l'omaggio dei popoli dell'impero, i servitori che riforniscono il banchetto e le file degli Immortali. La stessa iterazione dei simboli è dunque programmatica e sostanziale, ispirata a estrema chiarezza, quella stessa chiarezza ordinatrice che presiede alla distribuzione degli edifici nell'impianto planimetrico di Pasargade, di Persepoli o della capitale di una lontana satrapia, Dahan-i Ghulaman, nel Sistan.
In tutti questi centri troviamo l'identico, rigido schema palaziale, con le sue varianti e la precisione quasi maniacale negli allineamenti degli edifici, dove l'angolo retto è la norma costante, si tratti della costruzione di pietra come di quella di terra cruda. E questa chiarezza ordinatrice appare ben evidente anche quando si adotterà un modello palatino mesopotamico, che verrà, per così dire, riordinato e riplasmato, come nel caso del palazzo di Susa. La tipologia monumentale achemenide è basata su un'unità centrale a copertura ipostila, inserita entro portici, come a Pasargade, o entro portici e stanze, come a Persepoli, nei quali l'altissima colonna ‒ lignea o di pietra ‒ a supporto dei soffitti costituisce uno degli elementi caratteristici.
Fuori dei due centri principali, il panorama dei monumenti achemenidi nel Fars conta pochi altri siti: 50 km a nord di Persepoli il ponte di Dorudzan, un altro ponte 2 km a ovest di Persepoli e, 47 km a nord-ovest della stessa città, i resti di un edificio costruito su una terrazza e quelli di una diga sul fiume Kur, presso Abarj, attribuiti a un'epoca fra il VI e il IV sec. a.C. Nel corso di sondaggi a Tepe Saruwan, presso Fahlian, sono state rinvenute le tracce di un padiglione dal tipico impianto achemenide, probabilmente un luogo di sosta reale sulla strada che da Persepoli portava a Susa. Resti di un altro padiglione dalla pianta simile e frammenti di sculture sono stati individuati sulla collina di Hakawan, nei pressi della strada Firuzabad-Shiraz. Sulla via che da Kazerun conduce a Bushir sul Golfo Persico, presso la città di Burazjan, nel villaggio di Nazar Agha, nel sito di Sangh-i Siah, sono i resti di un padiglione forse attribuibile a Dario il Grande e, sempre nella stessa area, presso il villaggio di Charkhab, un palazzo non finito, probabilmente dell'epoca di Ciro il Grande. Più a nord, sul Kuh-i Unari, non lontano da Fahlian, è stata scoperta la tomba rupestre nota come Da u Dukhtar, che ha una fronte di tipo palaziale, somigliante ai monumenti funerari achemenidi di Naqsh-i Rustam e Persepoli, attribuita da alcuni agli inizi della dinastia, da altri al periodo tardo- o postachemenide. Un'altra tomba, detta Gur-i Dukhtar, del tipo di quella di Ciro a Pasargade, viene oggi datata al V sec. a.C. Sepolcri a camera, scavati nella roccia sul fianco del Kuh-i Rahmat a Persepoli, erano stati già segnalati e studiati da L. Vanden Berghe, che li ritenne tardoachemenidi, mentre da altri erano stati considerati immediatamente postachemenidi.
Controversa è anche la datazione delle tombe scavate nella roccia, trovate a varie riprese nel Kurdistan, nei territori dell'antica Media, e dai più considerate oggi postachemenidi. Si tratta della Dukkan-i Davud, presso Sar-i Pul; della tomba di Eshaqvand, 20 km a sud di Bisutun; di quella di Sakhmah, a sud di Kirmanshah; di quelle di Kur u Kij e di Qyzqapan, nel Kurdistan iracheno, e infine di quella di Fakhriqa nell'Azerbaigian iraniano, a sud del Lago di Urmia. A sud, nell'area dei campi petroliferi del Khuzistan, nei due siti di Masjid-i Sulaiman e Bard-i Nishanda, con i loro terrazzamenti, le testimonianze archeologiche emerse non arretrano oltre l'età ellenistica. A Susa si è potuto constatare che il palazzo di Dario era ispirato a modelli mesopotamici, mentre il tell dell'apadāna (sala delle udienze), quello della cosiddetta "città reale" e dell'acropoli erano cinti da un'unica, possente muraglia, dominata da una cittadella. Negli scavi intrapresi nella zona, poi chiamata "città degli artigiani", un villaggio datato al VII sec. a.C. fu attribuito a una tribù persiana e un edificio all'epoca di Artaserse II.
Fra i risultati più importanti conseguiti a Susa si annovera la precisazione della pianta del palazzo di Dario I che, sebbene rientri nello schema di quelli mesopotamici, mostra nella chiarezza della distribuzione un'innovazione da attribuire agli architetti achemenidi. Esso, a differenza di quanto finora conosciuto da altre fondazioni reali achemenidi, si compone di varie parti connesse fra loro: l'apadāna, la residenza vera e propria e la porta monumentale, il tutto realizzato secondo un piano unitario e originale. È da segnalare inoltre la scoperta, alla fine del 1972, di una grande statua di Dario I che, insieme a un'altra (perduta), fiancheggiava l'ingresso monumentale del palazzo. La statua, acefala, alta in origine almeno 3 m e scolpita in un solo blocco di arenaria cristallina di provenienza egiziana, rappresenta il primo grande esempio di scultura achemenide a tutto tondo. Databile al primo decennio del V sec. a.C., ritrae il re vestito alla persiana, ma in stile egiziano, e reca incise iscrizioni cuneiformi (in antico persiano, in elamico e in babilonese) e in geroglifici egiziani. Un complesso palaziale scoperto sulla riva destra dello Shawr, attribuito all'epoca di Artaserse II, si configura come un tipico palazzo achemenide, con una sala ipostila centrale circondata da tre porticati esterni, pur presentando sul quarto lato, a ovest, la particolarità di un vestibolo lungo quanto tutto il lato. A est e a nord sono state individuate altre costruzioni, la cui ricognizione è ancora in corso. Si è pensato che questo palazzo fosse stato costruito come residenza provvisoria, mentre Artaserse II provvedeva a restaurare quello maggiore e l'apadāna di Dario, oppure che dovesse servire da residenza secondaria.
Da questa ineguale rassegna risulta evidente che la maggior parte della documentazione archeologica di periodo achemenide proviene dall'antica "terra dei Persiani", l'odierno Fars, oppure dal Khuzistan (Susa) e dall'area degli Zagros, cioè dalla parte occidentale dell'altopiano iranico. Un vuoto completo, o quasi, troviamo a est, dove gli unici scavi nei quali è documentabile un orizzonte achemenide sono quelli a Nad-i Ali, nel Sistan afghano, e a Dahan-i Ghulaman, nel Sistan iraniano, dove nel 1960 fu scoperta una vera e propria città, fondata ex novo dagli Achemenidi, nella quale si è proposto di riconoscere Zarin, la capitale satrapale della Drangiana. Fuori dell'altopiano iranico sono pochi i ritrovamenti attribuibili con certezza agli Achemenidi: tra questi, un frammento di capitello e di una base di tipo achemenide a Sidone, in Fenicia, e una grande sala ipostila ad Arin Berd, in Armenia. Negli ultimi decenni l'approccio alla ricerca delle testimonianze archeologiche di periodo achemenide è leggermente cambiato e, pur non essendo documentate macroscopiche evidenze al di fuori dell'altopiano, non sono pochi i ritrovamenti che hanno spinto gli studiosi a riconsiderare le stratigrafie e i livelli archeologici relativi al periodo. Dalla Licia all'Anatolia, dalla Siria all'Iraq e alla Georgia, la documentazione oggi a disposizione sembra finalmente foriera di nuovi e più promettenti sviluppi interpretativi.
Dall'altro grande spazio abitato da popolazioni di ceppo iranico, il cosiddetto "Iran esterno", ovvero l'Asia Centrale, le testimonianze materiali relative al periodo achemenide si assommano quasi nell'unico, seppur ricco, Tesoro dell'Oxus, scoperto intorno al 1870 nel Tajikistan meridionale, sembra presso Kobadian (cd. Mikoyanabad), ora al British Museum. Recuperato purtroppo in circostanze non note, il tesoro è probabilmente composto di oggetti di provenienza diversa, in massima parte di epoca achemenide, ma anche di periodi posteriori. Recentemente, come già in passato, ne è stata messa in discussione l'autenticità. Si devono invece di certo a influssi culturali iranici l'adozione del partito architettonico della colonna (ad es., a Kyuzeli Gir, in Chorasmia) e la regolarità dell'impianto planimetrico delle città, come a Kobadian; elementi stilistici e iconografici achemenidi sono pure ben testimoniati su alcuni materiali lignei, aurei e tessili provenienti dagli scavi dei kurgan di Pazyryk nell'Altai. Ancora tutta da decifrare, inoltre, è la consistenza del periodo achemenide in Margiana (oasi di Merv) e Sogdiana (valle dello Zerafshan), dove è attestata, se si fa eccezione per Afrasiab, una documentazione archeologica prevalentemente postachemenide.
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di Peter Calmeyer
Nome moderno, di etimologia popolare ("senza colonne"), di una collina e di un villaggio a est di Kirmanshah, nella provincia omonima.
Il Bahestun/Behestun dei geografi arabi medievali deriva da ὄϱοϚ Βαγίστανον ("luogo alto del dio/degli dei") di Ctesia (in Diod. Sic., II, 13, 1), cui successivamente Alessandro diede il significato di "altamente degno degli dei": Βαγιστάνη θεοπϱεπεστάτη χώϱα (Diod. Sic., XVII, 110, 5). In effetti, la località si trova in una posizione molto favorevole, presso la confluenza del Dinavar Ab e del Gamasi Ab, appartenenti al sistema fluviale del Karkhe, in corrispondenza di una sorgente rigogliosa e soprattutto sull'unica comoda via che univa Babilonia all'altopiano iranico, la Grande Via del Khorasan. L'importanza del sito di B. sin da epoche remote è testimoniata dalla grotta con materiale paleolitico e da una fortezza preachemenide, probabilmente il Sikayauvaitiš citato nell'iscrizione, nel quale Gaumata fu messo a morte da Dario I e dai suoi uomini. Il rilievo rupestre al di sopra della fortezza descrive questo evento e le battaglie che ne conseguirono, sebbene delle sei guardie ne siano rappresentate soltanto due, probabilmente quelle che rivestivano le cariche più alte.
Gaumata giace ancora vivo sotto il piede di Dario I e protende le braccia implorante. Negli otto uomini abbigliati in diversi costumi regionali e incatenati dinanzi al Gran Re sono da riconoscere re avversari ribellatisi a Dario dopo l'usurpazione e sconfitti l'uno dopo l'altro dal sovrano achemenide. Il nono, un Saka, fu sconfitto soltanto l'anno successivo. In realtà l'evento non ebbe luogo così come è rappresentato; i prigionieri non ebbero mai modo di vedersi. Tale maniera rappresentativa, che non descrive l'evento in sé ma il suo risultato, è da considerarsi tipicamente antico-orientale ed è attestata in numerosi rilievi del periodo intorno al 2000 a.C. a Sarpul-i Zuhab, al capo occidentale della Grande Via del Khorasan. Al contrario, i testi, incisi successivamente sulla roccia intorno al rilievo, rendono conto dei singoli eventi che portarono all'esito celebrato dalla scena, in una sequenza in parte geografica, in parte cronologica. Nel caso dei testi, i modelli sono evidentemente più recenti: la formula "questo è quel che ho realizzato nel mio primo anno" è improntata a iscrizioni urartee dell'VIII sec. a.C. Le tre versioni del testo, rispettivamente elamica, babilonese e antico-persiana, hanno contribuito, e ancora contribuiranno, alla soluzione di innumerevoli problemi linguistici. Sia il rilievo sia il testo furono copiati anche nelle province dell'impero; ne sono note repliche in Babilonia come pure una traduzione aramaica rinvenuta in Egitto. Le conoscenze precise che Erodoto (III, 61-67) dimostra di avere riguardo agli eventi fanno supporre l'esistenza di una versione greca ufficiale.
Il rilievo raffigurante un Eracle disteso nell'atto di bere, scoperto da A. Hakemi nel corso di lavori di costruzione stradale, è datato al 148 a.C. da un'iscrizione greca; una vecchia ipotesi di E. Herzfeld, secondo cui in questo luogo era praticato un culto descritto da Tacito (Ann., XII, 13), viene riportata all'attenzione, se non confermata, da questo rinvenimento. Se il suddetto rilievo data all'epoca del dominio seleucide, il successivo periodo arsacide è testimoniato da tre rilievi, uno dei quali, con iscrizione di un Vologese (II o III sec. d.C.), mostra una scena di sacrificio; gli altri due sono forse, rispettivamente, di Mitridate II (123-87 a.C.) e di Gotarze II (50 d.C. ca.). Sembra che Diodoro Siculo (II, 13) indichi un aspetto parziale del sito quando lo definisce come "sacro a Zeus". Che questo sito conservasse una funzione religiosa ancora in epoca tardosasanide è dimostrato da tre capitelli di elevata qualità, oggi a Taq-i-Bustan, sui quali è rappresentata l'investitura di Khusraw II da parte di Anahita e di un'altra divinità.
A epoca tardosasanide sono sicuramente da datare anche un cospicuo sgrossamento della roccia, in preparazione forse di un rilievo rupestre (Tarash-i Farhad), un ponte rimasto incompiuto, un argine fluviale lungo circa 1 km, i resti di una strada e strutture architettoniche sparse, che attestano costruzioni di blocchi di pietra squadrata; tutti questi elementi rientravano probabilmente in un imponente progetto comprendente un paradeisos. Le costruzioni medievali testimoniano che B. continua ad assolvere la funzione di stazione carovaniera. Il villaggio è stato completamente abbandonato negli anni Settanta del XX secolo.
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di Bruno Genito
La scoperta di D.-i Gh., nel deserto del Sistan, da parte della Missione Archeologica Italiana dell'IsMEO, fu seguita da scavi nel 1962, che portarono alla luce macroscopici resti architettonici appartenenti a una vera e propria città, nella quale si propose di riconoscere l'antica Zarin delle fonti classiche, capitale della satrapia achemenide della Drangiana (Zrānka delle iscrizioni imperiali).
Datata da U. Scerrato tra la fine del VI e il IV sec. a.C., quando fu in parte riutilizzata, essa rappresenta la sola "città" di periodo achemenide sull'altopiano. Negli ultimi anni sono stati condotti nuovi saggi nell'area della città, a cura dell'Ente per il Patrimonio Culturale Iraniano; i primi risultati sembrano confermare la straordinaria importanza del sito, con l'aggiunta di alcuni significativi aspetti della cultura materiale.
La città si trova ai piedi di un terrazzamento desertico che circoscrive il Lago Hamun, per 1,5 km di lunghezza in senso est-ovest su una larghezza compresa tra i 300 e gli 800 m. I numerosi edifici esposti al violento vento di nord-ovest presentano tutti, con un'unica eccezione, l'ingresso sul lato meridionale. A sud si staglia il torrione naturale detto Ghabr-i Zardusht ("tomba di Zoroastro") e, ancora più a sud, il taglio naturale che incide il terrazzo desertico costituisce il passo che dà il nome al sito. Le planimetrie particolari degli edifici pubblici rinvenuti fanno ritenere che in un'area periferica rispetto al centro dell'impero fosse stato possibile, in qualche modo, adottare i principi architettonici che avevano già presieduto alla distribuzione degli edifici di Persepoli e Pasargade, ma in uno schema nuovo, propriamente urbano, in cui anche le costruzioni di terra cruda rispettano la massima precisione negli allineamenti degli edifici.
D.-i Gh. costituisce un esempio a sé nel panorama dei ritrovamenti archeologici di epoca achemenide sull'altopiano. Se il carattere urbano non ha precedenti per lo stesso periodo, si pongono invece nel solco della tradizione l'impiego del mattone crudo e la presenza di un rituale religioso nell'edificio n. 3, sin dall'inizio correlato al culto del fuoco. Le tracce di tale rituale rappresentano l'evidenza archeologica dello sviluppo e della diffusione di un'ideologia religiosa che, da un lato, si collega al crescente ruolo dello zoroastrismo, ma dall'altro tende ad assorbire e incanalare all'interno dei percorsi obbligati di un sistema planimetrico complesso le irregolarità e le frammentazioni proprie di un'esperienza rituale-religiosa non ancora codificata. L'esperienza urbana di D.-i Gh. è il risultato di una sintesi tra la nuova fase politica unitaria e il regionalismo culturale tipico dell'altopiano. L'analisi degli edifici consente, inoltre, di comprendere alcuni dei criteri fondamentali cui i suoi costruttori si ispirarono. Nonostante le due principali fasi costruttive archeologicamente riconosciute, risulta evidente un quadro unitario di programmazione urbana, i cui aspetti più significativi possono essere così sintetizzati: a) un tessuto urbano intorno al quale sono disposti i singoli gruppi di edifici; b) un uso esteso anche se non ancora ben documentato di canali, per attingere alle risorse idriche necessarie; c) la rigida distribuzione funzionale tra spazi pubblici e spazi privati.
L'esplorazione di superficie e gli scavi condotti durante le tre campagne degli anni Sessanta del Novecento hanno permesso di definire la pianta della città e di alcuni edifici: una tesoreria, individuata nell'edificio n. 2 sia sulla base della planimetria, tipica di un magazzino, sia grazie al ritrovamento di numerosi pani di stagno, metallo pregiato in Drangiana; un grandioso edificio sacro (l'edificio n. 3); una sala di grandi dimensioni, presumibilmente destinata alle udienze (l'edificio n. 1, non ancora scavato), in qualche modo confrontabile con l'apadāna di Persepoli; quartieri di abitazioni (edifici nn. 4, 6, 7); l'edificio n. 15, dove sono stati effettuati i nuovi saggi di scavo. Aree artigianali e commerciali furono scoperte a sud della città, nella depressione di Namaki, mentre, sempre a sud della città, con l'aiuto della fotografia aerea fu riconosciuto un enorme recinto in parte a doppio muro, di funzione ancora oscura (forse un presidio militare fortificato), sicuramente della stessa epoca del centro maggiore.
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di Rémy Boucharlat
Località scelta come residenza da Ciro, fondatore dell'impero achemenide, nel Fars, suo paese di origine, dopo la vittoria sui Medi verso il 550 a.C. Essa è posta a 1900 m di altitudine, nella piana del Murghab, a 2 km dal fiume Pulvar, un ramo del quale attraversa il sito. P. fu abitata durante tutto il periodo achemenide e rimase un importante centro dinastico, al punto che Alessandro Magno vi si recò per rendere omaggio alla memoria di Ciro.
I monumenti oggi visibili sono dispersi su più di 250 ha: alcuni palazzi nella piana, una piattaforma monumentale su un colle, un settore religioso appartato a nord-ovest e la tomba di Ciro, isolata, 1 km a sud; le tecniche costruttive di tutti questi edifici tradiscono influenze della Lidia e della Ionia, da dove Ciro fece venire degli artigiani dopo la sua conquista dell'Asia Minore nel 546 a.C. Menzionata dagli autori orientali come luogo di culto islamico, P. fu visitata dai viaggiatori occidentali a partire dal XV secolo. I monumenti furono scavati da E. Herzfeld nel 1928, poi da archeologi iraniani dopo la seconda guerra mondiale, infine dalla spedizione britannica di D. Stronach nel 1961-63. Dal 1999 è stato avviato un programma di ricerca franco-iraniano sul sito e sulla sua regione, mentre nel 2005 è partito un programma di collaborazione internazionale per documentare i siti della valle di Tang-i Bulaghi, destinati a essere sommersi dalla costruzione di una diga. A nord, la cima del colle è ampliata mediante una piattaforma alta 14,5 m, costruita in una bella muratura isodoma di blocchi di pietra bugnata, accuratamente accostati e tenuti da grappe di ferro, alla maniera lidia.
Le costruzioni di mattoni crudi erette al tempo di Ciro costituivano una tesoreria o un palazzo residenziale, ma né la pianta né i materiali ne chiariscono la funzione. A nord del colle, un muro di fortificazione di mattoni crudi, già da tempo individuato grazie alla fotografia aerea, racchiude una ventina di ettari, in gran parte occupati da costruzioni di grandi dimensioni rivelate dalla prospezione geomagnetica. Nella piana, due palazzi e due piccoli padiglioni di pietra racchiudono un giardino interno di 140 × 70 m, delimitato da canali rivestiti di pietra, con una vasca ogni 14 m; un altro canale divide il giardino in due parti uguali, probabilmente ancora divise in due da un asse perpendicolare: questa divisione in quattro parti costituirebbe l'antecedente del čahār bāgh ("quattro giardini") persiano. Una seconda rete di canali circonda la prima; l'insieme formava il centro di un parco che si estendeva non soltanto sulla riva occidentale del canale, con argini di pietra, che attraversava il centro del sito, ma anche sulla riva opposta. La prospezione geomagnetica va rivelando poco a poco un vasto spazio organizzato di diverse decine di ettari. Il centro di P. doveva essere dunque uno di quei paradeisoi persiani che tanta ammirazione avevano suscitato nei Greci, come quello menzionato da Senofonte nell'Economico.
Al quartiere reale si accedeva attraverso una porta monumentale, isolata, denominata Edificio R, una costruzione rettangolare a quattro colonne che prefigura le porte a pianta quadrata di Persepoli e Susa. I passaggi erano decorati da sculture di colossi di tipo assiro, rinvenute in frammenti, e da un bassorilievo raffigurante un personaggio barbato di tipo persiano, con doppio paio di ali, abbigliato con costume elamita e corona egizia. Esso era sormontato da un'iscrizione trilingue (in antico persiano, elamico e accadico): "Io, Ciro, il Re, l'Achemenide". Attraversato il fiume per mezzo di un ponte, si accede all'Edificio S, la cui sala centrale, a due file di quattro colonne, era circondata da quattro portici. I fusti lisci, di calcare bianco, poggiano su basi quadrate a due gradini di pietra nera. L'iscrizione con il nome di Ciro è ripetuta sulle ante. Gli stipiti delle porte sono decorati da bassorilievi, tra cui figura un uomo vestito da pesce seguito da un mostro con zampe taurine. L'Edificio P, a sala centrale con cinque file di sei colonne, è fiancheggiato sui lati lunghi da due portici più lunghi delle sale, con due file di colonne. I fusti lisci delle colonne si innalzano su un toro a scanalature orizzontali, che poggia su un plinto quadrato composto da un'assise di pietra nera e una di pietra bianca. Negli stipiti delle porte, i bassorilievi raffigurano il re seguito da un attendente. La veste doveva essere decorata con metallo e pietre semipreziose; su una delle pieghe è un'iscrizione con il nome di Ciro, ma si ritiene che questo testo, così come gli altri, sia stato aggiunto da Dario I.
A nord del giardino si trova una torre di pietra squadrata (alt. 14 m; lungh. alla base 7,5 m), simile a quella di Naqsh-i Rustam, presso Persepoli. Entrambe posseggono un piccolo ambiente alla sommità, cui si accede tramite una scala esterna di 30 gradini. A P., la prospezione geomagnetica indica che la torre non era isolata: una costruzione quadrangolare di pietra di 45 m di lato è addossata alla facciata posteriore, rinforzata da angoli aggettanti e divisa in lunghi compartimenti regolari. Diverse sono le interpretazioni proposte per questa torre: tempio, tomba, luogo di deposito delle insegne regali; essa era senza dubbio il luogo di investitura dei re, che, secondo Plutarco, si svolgeva a P. A ogni modo, tutte le ipotesi devono oramai essere riviste alla luce dei nuovi elementi. Il "recinto sacro" a nord del sito ospita due basamenti di pietra di 2,8 m di altezza, posti a 2 m di distanza l'uno dall'altro. Sulla base dell'iconografia dei rilievi delle tombe regali, si può supporre che uno dei due, provvisto di scalinata, fosse il podio sul quale il re officiava il rito, di fronte al fuoco sacro posto sull'altro basamento.
Il monumento più noto di P. corrisponde, per la forma e la posizione isolata, alla descrizione della tomba di Ciro tramandata dagli autori classici (Strabone, Arriano). Esso ha la forma di una piccola casa (3,4 × 3,5 m) coperta da un tetto a doppio spiovente e posta su un basamento a sei gradini (13,35 × 12,2 m), con un'unica camera interna, che misura poco più di 3 m di lunghezza. Le tecniche costruttive sono lidio-ioniche e anche la forma della camera ricorda le tombe di queste regioni, ma il basamento è tipico di questa tomba e di un'altra, contemporanea, a Sardi; la forma evocherebbe le ziqqurrat mesopotamiche. Nulla si conosce delle strutture che circondavano la tomba. Nei dintorni di P., strutture di epoca achemenide o più tarde sono particolarmente numerose nella gola all'imbocco dell'antica strada verso Persepoli (Tang-i Bulaghi). Le più notevoli sono dei canali, in parte rupestri e in parte costruiti, individuati per un tratto lungo da 4 a 6 km. Numerose sono, in questa gola come nella piana, le tombe del tipo noto come cairn ("a tumulo"). P. è ancora in vita dopo Ciro, come provano le attività edilizie condotte a termine da Dario I e la menzione del sito in numerose tavolette dell'archivio coevo di Persepoli. La piattaforma, ancora in uso in epoca seleucide (come testimoniano nuove costruzioni, tesori monetali e una pietra miliare con iscrizione in greco e in aramaico), sarà fortificata nuovamente all'inizio dell'epoca medievale.
Bibliografia
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di Pierfrancesco Callieri
Nome greco di uno dei principali complessi architettonici della dinastia achemenide, posto alle pendici della catena montuosa che limita a nord la piana di Marv Dasht, circa 60 km a nord dell'odierna Shiraz.
Il sito, noto agli antichi Persiani probabilmente come Parsa e alla tradizione locale come Takht-i Jamshid, non fu una delle capitali dell'impero achemenide, bensì il principale centro amministrativo del Fars, culla della civiltà persiana, e soprattutto il luogo più emblematico del potere dei "Re dei re", destinato alle cerimonie più rappresentative e alla custodia dei tesori di maggiore importanza per la dinastia. I primi scavi in estensione furono condotti negli anni Trenta del Novecento dall'Oriental Institute di Chicago (E. Herzfeld, E. Schmidt), altri scavi seguirono negli anni Cinquanta da parte del Servizio Archeologico Iraniano (A. Sami, A. Tadjvidi). La comprensione del lungo processo di sviluppo architettonico, dalla fondazione da parte di Dario I intorno al 518 a.C. alle strutture di Artaserse III della metà del IV sec. a.C., a quelle di epoca postachemenide che riutilizzano materiali di spoglio, si deve tuttavia alle attività di studio e conservazione condotte dall'Istituto Italiano per il Medio ed Estremo Oriente (IsMEO) tra il 1964 e il 1979 (G. e A.B. Tilia).
Il complesso sorge su una terrazza artificiale di 450 × 300 m, limitata sui lati nord, sud e ovest da un possente muro di sostruzione in blocchi di calcare, che un tempo sosteneva un alzato di mattoni crudi, mentre a est e nord-est le fortificazioni in crudo correvano lungo il pendio del monte. Sulla parete sud del muro di sostruzione, dove era l'ingresso originario, è incisa un'iscrizione trilingue in antico persiano, accadico ed elamico, databile intorno al 518 a.C., che celebra l'edificazione della terrazza da parte di Dario I. Questi costruì sulla terrazza un suo palazzo (tačara), una prima tesoreria, poi coperta dal cosiddetto "Harem" di Serse, e la grande sala delle udienze (apadāna), costituita da un'imponente sala centrale con 36 colonne scanalate alte quasi 20 m, circondata a est, nord e ovest da portici con 12 colonne ciascuno. Il successore di Dario I, Serse, ne completò gli edifici: costruì sul tratto settentrionale del lato ovest un nuovo accesso alla terrazza, caratterizzato da due coppie di rampe di scale con andamento prima divergente, poi convergente verso la piattaforma centrale, allineata con l'attiguo edificio ipostilo denominato Porta di Tutti i Paesi; edificò un nuovo palazzo (hadiš) a sud-ovest di quello di Dario e avviò la costruzione della monumentale Sala delle Cento Colonne, a est della sala delle udienze; egli decorò inoltre le due scalinate d'accesso nord ed est dell'apadāna con le raffigurazioni speculari delle schiere dei soldati persiani e medi, i cosiddetti Immortali, e del magnifico corteo delle delegazioni dei popoli dell'impero che portavano i loro doni al "Re dei re".
Ad Artaserse I risalgono il completamento della Sala delle Cento Colonne e il Tripylon, un edificio di passaggio al centro della terrazza; non è stato portato alla luce il suo palazzo, che occupava verosimilmente l'area del cosiddetto Palazzo H, dove nelle costruzioni di epoca postachemenide fu riutilizzata la scalinata che l'iscrizione monumentale gli attribuisce. L'attenta indagine sugli elementi rinvenuti ai piedi del muro della terrazza ha consentito ai restauratori italiani di ricostruire il parapetto che ne limitava l'angolo sud-ovest, coronato da elementi a corna. Oltre ai palazzi, la terrazza ospitava, a sud della Sala delle Cento Colonne, un grande complesso di tesoreria, che comprendeva tra l'altro due grandi sale (rispettivamente con 100 e 99 colonne), dove sono state rinvenute tavolette iscritte in elamico (una in accadico) relative al pagamento di artigiani, datate tra gli anni 492 e 458 a.C. Altre strutture di servizio e di residenza per militari della guardia (stimati intorno alle 3000 unità) occupavano la fascia tra la Sala delle Cento Colonne e il monte, mentre all'angolo nord-est delle fortificazioni erano la cancelleria reale e altri ambienti di carattere amministrativo in cui sono state rinvenute diverse migliaia di tavolette in elamico (700 in aramaico), relative agli anni 509-494 a.C. e concernenti provvigioni e distribuzione di razioni giornaliere o mensili a lavoratori di vario livello sociale e funzione.
Durante il regno di Artaserse II non è documentato a P. alcun nuovo monumento, mentre Artaserse III costruì probabilmente una residenza nell'area non scavata del cosiddetto Palazzo G, cui apparterrebbe la scalinata aggiunta in epoca postachemenide al palazzo di Dario I. Tuttavia già con Artaserse II P. era passata a ospitare le sepolture dei re, tagliate nella roccia del monte analogamente a quelle di Dario I e dei suoi primi tre successori nella vicina Naqsh-i Rustam: due sono le tombe complete, quella nord attribuita ad Artaserse II, quella sud ad Artaserse III; in una terza tomba più a sud, da alcuni riferita a Dario III, incompleta e contraddistinta da tratti stilistici apparentemente più antichi, si deve forse riconoscere un primo tentativo, abbandonato per problemi di coesione del banco di roccia. Le tombe hanno lo stesso tipo di facciata, tagliata nella roccia: cruciforme, con braccio inferiore liscio, braccio centrale con la raffigurazione di una facciata di palazzo in cui si apre la tomba vera e propria e braccio superiore con la raffigurazione a rilievo del re che, su una piattaforma sorretta dai popoli dell'impero, compie un'azione rituale davanti a un altare del fuoco e alla presenza di Ahura Mazda, ritratto entro un disco alato. All'interno, su un breve corridoio parallelo alla facciata, si aprono le piccole camere funerarie con letti scavati nella roccia, tre nella tomba sud e due in quella nord.
Già dall'epoca di Dario I le costruzioni sulla terrazza erano affiancate da altri palazzi (in parte indagati da scavi iraniani degli anni Cinquanta del Novecento) nell'area a sud di questa, come verosimilmente dalla città che i Macedoni saccheggiarono al loro arrivo, rispettando invece i palazzi achemenidi, che furono però parzialmente incendiati quattro mesi dopo. Quale che sia stata l'effettiva entità di questo incendio, la terrazza fu estesamente riutilizzata in epoca postachemenide, come hanno mostrato soprattutto le indagini dell'IsMEO: le affrettate metodologie di scavo, infatti, non hanno purtroppo documentato con dettaglio i livelli superficiali del sito. Alcuni graffiti attribuibili ai dinasti del Fars di epoca arsacide (II-III sec. d.C.?), incisi sui blocchi di calcare del cosiddetto Harem di Serse ‒ oggi sede del locale museo ‒ e del tačara, raffiguranti immagini di sovrano a piedi o in sella, testimoniano l'importante ruolo ideologico che il complesso svolse nel momento di formazione della nuova monarchia persiana dei Sasanidi, ruolo che appare ancora vivo in alcune iscrizioni mediopersiane del IV sec. d.C.
Al periodo seleucide è ormai attribuibile con una certa sicurezza una serie di strutture di mattoni scavata da Herzfeld negli anni Trenta del Novecento a nord-ovest della terrazza achemenide, da cui provengono cinque lastre di pietra con i nomi in greco di altrettante divinità olimpiche. Secondo l'archeologo tedesco le rovine erano un unico complesso dedicato a culti sincretistici irano-ellenistici dalla dinastia locale, nota con il nome di Fratadara (lettura poi emendata in Fratarakā, "governatori"), attestato sulle leggende di alcune serie numismatiche e a suo avviso rappresentata dai due personaggi di aspetto sacerdotale raffigurati sui due stipiti di una finestra. Si tratta in realtà di due complessi distinti, separati da una strada o corridoio, di cui solo uno, per la presenza di un ambiente quadrato con quattro basi di colonna e con la base modanata di una statua, di possibile funzione cultuale. Mancano purtroppo dati sul luogo esatto di rinvenimento delle iscrizioni greche, ancora inedite, e il legame con la dinastia del Fars è ancora da provare. Il riutilizzo di elementi architettonici di pietra provenienti dalla vicina terrazza di P. e la presenza di un tipo di basi lì sconosciuto rendono comunque assai probabile una datazione all'epoca postachemenide.
A nord del "tempio dei Frataraka", nei pressi di una sorgente, fu localizzata e scavata dalla Missione di Chicago una necropoli (Persepolis Spring Graveyard) con tombe a inumazione entro singolari sarcofagi di terracotta costituiti di due parti distinte, accostate in relazione alla lunghezza del cadavere e coperte da un unico coperchio. Pur nella difficoltà motivata dall'esiguità dei corredi ceramici, i pochi elementi datanti convergono verso il primo periodo postachemenide.
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Per comodità del lettore il testo su Naqsh-i Rustam segue la trattazione di Persepoli.
di Marco Loreti
Sito del Fars, a circa 8 km da Persepoli, ai piedi di un'ampia parete rocciosa pressoché verticale del monte Husain Kuh, principalmente noto per le tombe monumentali dei sovrani achemenidi. L'antica sacralità di questo luogo, testimoniata dalla presenza di un rilievo di epoca elamita, perdurò nei secoli successivi, come attestano le possenti fortificazioni in crudo di epoca sasanide.
Le tombe rupestri sono attribuite a Dario I (522-485 a.C.) e a tre dei suoi successori. L'ordine di successione delle tombe, da sud-ovest a nord-est, è il seguente: Dario II (425-405 a.C.), Artaserse I (465-425 a.C.), Dario I (la cui tomba è la sola identificata con certezza grazie alle iscrizioni presenti) e Serse I (485-465 a.C.). Le facciate delle tombe hanno uno schema a forma di croce greca e presentano tutte un analogo repertorio iconografico. Nel campo superiore il Gran Re è rappresentato stante su una predella sorretta dai 30 rappresentanti dei popoli dell'impero, davanti a un altare del fuoco, mentre Ahura Mazda sovrasta la scena. Nel registro intermedio è raffigurata la facciata di un palazzo achemenide, la cui porta costituisce l'accesso al sepolcro, che nelle diverse tombe è caratterizzato da un numero variabile di camere e letti funerari scavati nella roccia. Il campo inferiore, invece, è liscio. Di fronte alle tombe si eleva la Kaba-i Zardusht, un edificio a torre di blocchi di pietra squadrata, alto circa 12,6 m, attribuito al regno di Dario I. La costruzione ha un unico ambiente, privo di finestre, cui si accede attraverso una scalinata monumentale esterna. La funzione dell'edificio non è ancora stata accertata, ma è plausibile l'ipotesi che essa fosse collegata ai riti di investitura del sovrano. In epoca sasanide il sovrano Shapur I e il gran sacerdote Kirdir fecero incidere due importanti iscrizioni nella parte inferiore dei muri esterni.
La rinnovata attenzione per il sito da parte dei sovrani della dinastia sasanide è testimoniata anche dagli otto rilievi che essi fecero scolpire sulle pareti rocciose. Procedendo da sud-ovest verso nord-est, il primo rilievo raffigura l'investitura equestre di Ardashir I (224-240 d.C.). Il secondo rilievo, in cui Bahram II (276-293 d.C.) è ritratto con familiari e membri della corte, fu scolpito sopra una scena di culto di epoca elamita. Del rilievo originario (XVII sec. a.C.), raffigurante due divinità assise, è ancora visibile uno dei troni in forma di serpente; si conserva inoltre la figura maschile aggiunta a destra della scena (IX sec. a.C.). Il terzo e il quarto rilievo, rispettivamente uno scontro tra due combattenti e un monarca assiso, sono tuttora di datazione incerta. Nella quinta scena, analoga alla terza, il sovrano è stato identificato con Hormizd II (302-309 d.C.). Il sesto rilievo celebra la vittoria di Shapur I (241-272 d.C.) sui Romani: innanzi al suo cavallo sono l'imperatore Valeriano, stante e con un braccio alzato trattenuto dal Gran Re, e l'imperatore Filippo l'Arabo, inginocchiato in atto di supplica. Il settimo rilievo, attribuito a Bahram II, si articola in due scene sovrapposte di battaglie equestri. Nell'ottavo rilievo il sovrano Narseh (293-302 d.C.) riceve l'investitura dalla dea Anahita.
All'epoca sasanide risalgono, inoltre, due piccoli monumenti di pietra, a nord-ovest della tomba di Dario II, decorati con una rappresentazione a rilievo di architettura a quattro archi. Ritenuti in passato degli altari del fuoco, oggi sono interpretati come monumenti funerari, entrambi caratterizzati da una profonda cavità rettangolare sulla sommità. Più a nord sono presenti alcuni astodān, nicchie per le ossa dei defunti di fede zoroastriana, datati alla tarda epoca sasanide o al primo periodo islamico. Sulla sommità del versante con le tombe achemenidi si trova una struttura di epoca sasanide, a forma di piccola colonna, ritenuta un altare del fuoco o, più plausibilmente, un pilastro-astodān. Gli scavi effettuati negli anni Trenta del Novecento dall'Oriental Institute di Chicago sotto la direzione di E.F. Schmidt, oltre alle due iscrizioni sasanidi, hanno portato alla luce alcune strutture, identificate come edifici 1 e 2, poste a sud-ovest della Kaba e attribuite al periodo achemenide. Un altro sondaggio, effettuato nell'area antistante la tomba di Dario I, permise di individuare alcuni ambienti dalle pareti di mattoni crudi, datati al primo periodo islamico (VIII sec. d.C. ca.), e vestigia di epoca sasanide. Alla base della stratificazione furono rinvenute strutture risalenti al periodo achemenide, di mattoni crudi delle medesime dimensioni di quelli rinvenuti negli edifici di Persepoli.
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v. SUSA in L'archeologia del Vicino Oriente antico. Iran sud-occidentale e area del Golfo
di Pierfrancesco Callieri
I regni di Seleuco I Nicatore (312-281 a.C.), principale erede di Alessandro in Asia, e di suo figlio Antioco I Sotèr (281-261 a.C.) si caratterizzarono per un costante interesse della dinastia verso l'altopiano iranico e la regione centroasiatica, dove le numerose fondazioni di città manifestano una programmatica continuità con la politica di Alessandro. Durante il regno di Antioco II Theos (261-246 a.C.), la secessione della Battriana sotto il re greco Diodoto, e della Partia, che il satrapo ribelle Andragora fu ben presto costretto a cedere agli Arsacidi, privarono il regno seleucide delle sue province nord-orientali, che la campagna di Antioco III (223-187 a.C.) riuscì a riprendere solo nominalmente. La sconfitta di Antioco III a Magnesia da parte dei Romani e la umiliante Pace di Apamea (188 a.C.) indebolirono nuovamente la presenza seleucide sull'altopiano iranico, a vantaggio degli Arsacidi, che avanzarono nell'Iran centro-settentrionale. È in questo quadro, tra il 200 e il 180 a.C., che gli studiosi collocano oggi la fine del controllo seleucide sulla Perside, regione dell'Iran meridionale, attestata dall'inizio della monetazione di dinasti locali (protrattasi per tutto il periodo seleucide e arsacide), che si fregiano dapprima del titolo di Fratarakā ("governatore"?), poi di "re".
Dopo Antioco III, anche Antioco IV Epifane tentò di riconquistare i territori perduti, ma la sua morte nel 164 a.C. rappresentò per gli Arsacidi una nuova occasione di espansione, sapientemente sfruttata da Mitridate I, salito al trono nel 171 a.C. Acquisito il controllo di tutto l'Ovest dell'altopiano iranico con l'annessione della Media intorno al 155 a.C., questi penetrò in Mesopotamia, giungendo nel 141 a.C. a Seleucia sul Tigri, contrastato invano dal seleucide Demetrio II Nicatore, che finì catturato nel 139 a.C. Approfittò del conflitto l'Elimaide (Iran sud-occidentale), la cui autonomia politica è testimoniata da una coniazione locale, inaugurata nel 147 a.C. dal re Kamnaskires I Sotèr della dinastia dei Kamnaskiridi e protrattasi fino alla seconda metà del II sec. d.C. L'ultimo tentativo seleucide di riconquistare l'Iran si ebbe con Antioco VII Sidete, che invase la Mesopotamia e rioccupò la Media per breve periodo (130-129/8 a.C.), per essere però sconfitto e ucciso da Fraate (figlio e successore di Mitridate I), che affermò in modo definitivo la conquista arsacide dell'Iran.
Se diversi siti archeologici legati alla presenza seleucide in Asia sono stati portati alla luce in Asia Centrale, in Mesopotamia e nella regione del Golfo Persico, le testimonianze archeologiche di quest'epoca in Iran sono molto più frammentarie e sfuggenti, sia per lo scarso interesse mostrato dalla ricerca europea degli anni Sessanta e Settanta del Novecento per il periodo storico in genere, sia per una vera e propria pregiudiziale ideologica antiellenistica mostrata dall'Iran, che, nonostante l'intenso fiorire di attività sul campo nell'ultimo ventennio, ha ignorato quei siti in cui questo periodo storico si può ritenere ben rappresentato. La ricostruzione che proporremo si basa dunque su testimonianze archeologiche frammentarie, che rimandano a una realtà ricca e complessa, nella quale le tracce coesistenti della presenza greca e della tradizione locale (che proponiamo di definire come "postachemenidi" per indicarne la prevalente matrice persiana) non sono sufficientemente eloquenti per definire con chiarezza il segno del rapporto tra le due culture: concordia o discordia.
La presenza greca sull'altopiano iranico non sembra omogeneamente distribuita su tutto il territorio, ma concentrata nelle aree di maggiore interesse strategico ed economico: tra queste, la Media, regione chiave per il controllo della strada che collegava la Mesopotamia alle Satrapie Superiori (dalla Perside alla Sogdiana), e la Susiana, la vasta e fertile pianura dell'antico Elam. Anche la Perside, tradizionalmente considerata secondaria per i Seleucidi, sembra in realtà aver attirato la loro attenzione, non solo nella fascia costiera sul Golfo Persico, in cui viene oggi collocata Antiochia di Perside, ma anche nella regione interna.
I recenti scavi iraniani a Hamadan (l'antica Ecbatana, capitale della Media) hanno portato alla luce parti di un imponente complesso architettonico che tuttavia, per la mancanza di informazioni sui rinvenimenti, non è stato ancora possibile datare, anche se la regolarità dell'impianto rimanda in via ipotetica al periodo seleucide. Ugualmente ipotetica è l'identificazione del cosiddetto Leone di Hamadan con un elemento appartenente al cenotafio di Efestione voluto dallo stesso Alessandro.
A Bisutun, sulla via maestra tra Ecbatana e Seleucia, al di sotto del rilievo rupestre di Dario I, è un rilievo raffigurante Eracle Kallinikos recumbente su una pelle di leone (appartenente forse a un rilievo più antico), accompagnato da un'iscrizione greca del 148 a.C. in cui un personaggio, il cui padre porta un nome macedone, formula una sorta di ex voto in augurio della vittoria da parte di Kleomenes, governatore seleucide delle Satrapie Superiori. L'immagine si avvicina, per il forte aggetto, a una statua a tutto tondo; il rendimento dei tratti fisiognomici, tuttavia, e soprattutto del corpo, tradisce una matrice locale, in cui l'impostazione naturalistica è quasi scomparsa. Proprio con Bisutun viene oggi identificato il monte Sambulos su cui Tacito (Ann., XII, 13) colloca un culto di Eracle. Ancora una dedica a Eracle, in un'iscrizione greca datata tra il IV e il III sec. a.C., incisa sull'ingresso di un complesso di ambienti scavati nella roccia a Karafto (Kurdistan settentrionale), ha dato origine a contrastanti interpretazioni sulla funzione del complesso stesso, visto in passato come un santuario dedicato al culto di Eracle, oggi come un complesso abitativo civile.
Da Dinavar, presso Kirmanshah, provengono diversi frammenti (solo tre dei quali oggi al Museo Nazionale dell'Iran) di un grande bacino di calcare locale, decorato con teste di Sileni e Satiri emergenti da quella che è stata interpretata come la nebris di Dioniso, che lo stile naturalistico fa attribuire al III - inizi del II sec. a.C.: la varietà di pietra e le grandi dimensioni del manufatto attestano una produzione locale e di conseguenza l'esistenza di botteghe di scultura di tradizione ellenistica. La stessa regione restituì agli inizi del secolo anche un epitaffio frammentario in greco, che precedeva probabilmente un epigramma.
Rinvenimenti frammentari, che confermano peraltro l'urgenza di indagini archeologiche, dimostrano che uno dei più importanti insediamenti dell'Iran di epoca seleucide è Nihavand, il sito dell'antica Laodicea di Media, a sud-est di Bisutun, dove fu rinvenuta una stele con coronamento a timpano su colonnette (oggi al Museo di Teheran), che riporta due iscrizioni greche di fondamentale importanza, datate al 193 a.C.: una versione dell'editto di Antioco III relativo all'istituzione del culto in onore di Laodice, sua sposa (noto anche da un'altra versione, frammentaria, rinvenuta presso Kirmanshah, e da una terza rinvenuta in Frigia), e il testo della lettera dei funzionari cui il re invia l'editto alle autorità civiche, con le istruzioni relative alla materia. Se l'editto testimonia della diffusione anche in Iran di un culto reale seleucide, che trovava luogo di espressione nei "templi" menzionati nell'iscrizione (agli inizi del Novecento erano ancora visibili a Nihavand sei colonne, forse pertinenti a essi), la lettera fornisce un quadro preciso della struttura amministrativa di Laodicea, che risulta essere una vera e propria colonia greco-macedone. Sempre a Nihavand furono rinvenuti fortuitamente anche un piccolo altare circolare di pietra, ornato da un festone in rilievo, e cinque statuette di bronzo di divinità ellenistiche, considerate ora opere tardoellenistiche del I sec. a.C., ora prodotti di età romana. Ricordiamo infine un'altra iscrizione greca del 183/2 a.C. in onore di un governatore delle Satrapie Superiori.
In Media non mancano testimonianze "postachemenidi": le tombe rupestri di diverse località (Qyzqapan, Dukkan-i Daud, Fakhriqa) presentano uno schema iconografico legato a quello delle tombe achemenidi, ma la presenza di capitelli di ordine ionico suggerisce una datazione al periodo ellenistico. Più a est, nell'Iran centrale, il complesso architettonico di Khurha, a sud-ovest di Qum, che E. Herzfeld aveva interpretato come un tempio periptero di epoca seleucide per la presenza di due esili colonne con capitello di tipo ionico, viene oggi ritenuto un palazzo di epoca arsacide.
Per l'Elimaide le testimonianze archeologiche relative al periodo seleucide sono costituite principalmente dal piccolo santuario di Shami e dai due estesi complessi di Masjid-i Sulaiman e Bard-i Nishanda, che attestano un particolare tipo di luogo di culto noto in letteratura come "terrazza sacra", ovvero la sommità di un colle limitata da muri di sostruzione, sulla quale vengono costruiti in momenti successivi podi, altari, basamenti per statue e veri e propri templi. Se R. Ghirshman, autore degli scavi a Masjid-i Sulaiman e Bard-i Nishanda, faceva risalire la fondazione di questi due luoghi di culto al periodo achemenide e collocava nel periodo seleucide la costruzione di uno dei templi di Masjid-i Sulaiman, un riesame della documentazione archeologica offre valide ragioni per collocare nel periodo seleucide la prima fase delle due terrazze, ma nessuna delle strutture su queste edificate.
A Shami, entro un recinto rettangolare in crudo su fondazioni di pietra, erano un altare parallelepipedo di mattoni cotti e due aree pavimentate anch'esse di mattoni cotti, con sette basi di pietra, trovate non in situ, per 11 o 12 statue di bronzo di varie dimensioni: resti di queste sono stati rinvenuti nell'area, intenzionalmente ridotte in pezzi. La grande quantità di carbone e cenere fa ritenere che esistesse una copertura lignea, forse solo parziale sulle statue. Tra la statuaria di bronzo, oltre ad alcune opere di sicura epoca arsacide (tra cui la famosa statua del principe "partico") e a frammenti forse pertinenti a immagini di divinità greche (Zeus? Dioniso?), sono anche frammenti di una testa di probabile sovrano ellenistico, che proverebbero l'esistenza del santuario in epoca seleucide. Dalla regione montuosa di Shami, sede della popolazione nomade dei Bakhtiyari, proviene inoltre un torso di statuetta femminile di marmo in stile naturalistico, ma con un'iconografia di carattere orientale.
Nella Perside, l'eredità achemenide viene avvertita a lungo e l'utilizzazione di complessi architettonici del periodo precedente è diffusa, anche se da Istakhr, la città che secondo alcuni studiosi avrebbe sostituito Persepoli come capoluogo della regione in epoca ellenistica, non provengono elementi archeologici di età presasanide. A Persepoli, dove la reale portata dell'incendio alessandrino è ancora fonte di dibattito, la frequentazione postachemenide della terrazza e delle aree adiacenti non è ben documentata a causa della natura affrettata degli scavi del XX secolo e solo il cosiddetto Tempio dei Frataraka conserva due estesi complessi oggi datati con sicurezza a quest'epoca. La continuità insediativa tra periodo achemenide e periodo seleucide trova invece conferma archeologica a Pasargade, dove l'imponente struttura difensiva sul Tall-i Takht non reca segni di distruzione almeno fino agli inizi del II sec. a.C., data cui oggi si riferisce l'evento che segna la fine del secondo periodo strutturale.
Anche i resti architettonici recentemente scoperti a Tumb-i But presso Lamerd, nel Fars meridionale, caratterizzati da un apparato decorativo di pietra tipologicamente vicino a quello dei palazzi persepolitani, attesterebbero una persistenza della tradizione achemenide in epoca seleucide, sempre che la loro datazione all'epoca postachemenide sulla base di una tecnica di lavorazione della pietra di livello meno raffinato venga confermata da altri e più fondati elementi. Nel Fars orientale, il sito di Tall-i Zahak, presso Fasa, ha restituito una testa di marmo greco raffigurante una divinità femminile (?), datata tra la metà del III e la metà del II sec. a.C. e attribuita a bottega microasiatica, e ceramica di epoca ellenistica, evidenziata da una ricognizione di superficie. Dalle vicinanze di Borazjan (provincia di Bushir) proviene il frammento di una statua marmorea interpretata come Marsia e considerata un'importazione dal Mediterraneo ellenistico.
Nel Nord del paese, dalla Media Atropatene a ovest alla Partia a est, la documentazione archeologica per il periodo seleucide è estremamente esigua. Un'iscrizione greca relativa all'atto di affrancazione di uno schiavo mediante consacrazione a Serapide, dell'epoca di Antioco I, proveniente dalla regione di Gurgan, ricorda una presenza greca che invece nella piana di Damghan l'esplorazione di superficie non ha registrato e che ha una scarsa consistenza anche negli scavi del sito di Shahr-i Qumis, identificato con la Hekatompylos fondata da Seleuco I e poi divenuta seconda capitale degli Arsacidi. Gli scavi francesi a Turang Tepe, nella piana di Gurgan, testimoniano invece un orizzonte ceramico corrispondente al periodo seleucide, con frammenti di ceramica nera affine a quella a vernice nera ellenistica, ma di difficile interpretazione a causa della presenza nella regione di una tradizione protostorica di ceramica nera.
Nel Sud-Est dell'Iran il periodo seleucide è attestato nel sito di Qala-i Sam, nel Sistan iraniano (antica Drangiana), dove una missione dell'IsMEO portò alla luce, al fondo della sequenza stratigrafica, un ostrakon scritto con inchiostro nero in greco e datato su base paleografica al III-II sec. a.C.
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di Antonio Invernizzi
Alla guida di tribù iraniche originarie delle steppe asiatiche, gli A. si impadronirono del potere nella Partia seleucide poco dopo la metà del III sec. a.C. e, definiti i confini rispetto ai vicini greco-battriani, ingrandirono i loro domini verso sud-ovest. Mitridate II (123-88 a.C.) consolidò le conquiste di Mitridate I (171-138 a.C.) in Iran e Mesopotamia e i successori arrestarono sull'Eufrate e in Armenia l'espansione di Roma in Oriente. L'impero comprendeva popoli di stirpe e cultura diverse, iranici e semitici, e si componeva di terre soggette direttamente al re, di province governate dai grandi del regno, di stati vassalli ma autonomi e di città greche al cui peso economico si accompagnavano privilegi di varia autonomia. Il conflitto degli interessi interni e la frequenza delle lotte dinastiche indebolirono quindi vieppiù il potere reale, che nel 224 d.C. finì per soccombere alla rivolta del principe di Perside Ardashir, primo dei Sasanidi.
I soli documenti che accompagnano con continuità le vicende dell'impero arsacide sono le monete. Benché iconografia e stile vi abbiano motivazioni particolari, le monete riflettono tuttavia lo sviluppo della cultura e dell'arte della corte e rivelano una ideologia della regalità il cui linguaggio si muove tra il polo iranico e quello seleucide. Sulle prime emissioni i sovrani portano la tiara dei governatori achemenidi e al loro stato di principi locali si addice lo stile del ritratto imberbe; dopo la conquista dell'Iran e della Mesopotamia, Mitridate I si presenta invece al modo ellenistico, con il diadema che Alessandro e i Seleucidi avevano scelto tra le insegne regali achemenidi. Il flusso di stilemi greci si stempera poi con Mitridate II in una presentazione di gusto iranico più marcato. La foggia della barba, la nuova tiara imperiale aggiunta al diadema, la casacca incrociata sul petto, il torques al collo, il profilo a sinistra sul recto e sul verso l'arciere seduto in veste iranica o il re in trono incoronato da Tyche o Nike sono ora i motivi più tipici e i primi secoli della nostra era aggiungono l'acconciatura a tre grandi masse di capelli. Anche lo stile di esecuzione si muove tra i due poli, privilegiando dapprima un fresco naturalismo di stampo ellenistico e più tardi i tratti disegnativi di una visione schematica.
Malgrado la distribuzione cronologica e geografica diseguale e le ampie lacune documentarie, è chiaro che la cultura dell'impero da un lato trova nella corte un modello di riferimento, dall'altro mostra caratteri regionali che riflettono i diversi substrati culturali locali. La classe dominante poi non taglia i legami con le tradizioni delle steppe e non solo nell'abbigliamento: la decorazione delle falere delle cavalcature di questi formidabili cavalieri continua ad attingere al repertorio dell'arte animalistica delle steppe e dell'antico Oriente.
Accanto alle tradizioni iraniche orientali sono fondamentali per la corte quelle ellenistiche. Le prime sono evidenti negli impianti architettonici. Gli edifici quadrati e le sale quadrate a quattro supporti centrali del sacrario dinastico di Nisa (II-I sec. a.C.) stanno nel solco di una lunga tradizione centroasiatica e achemenide, ma possono arricchirsi senza sforzo di motivi ellenistici, come i portici del cortile della Casa Quadrata. Impianti iranico-orientali sono adottati per residenze nobiliari in Iran (Khurha) e in Mesopotamia (Abu Qubur), o per singole sale come l'īwān, l'ambiente monumentale con un lato breve dischiuso su uno spazio aperto, esterno o interno all'edificio, che nelle case si presta facilmente a essere inserito in schemi di tradizione locale. L'īwān, novità destinata a un grande avvenire, è presente a est (Mansur Depe) e poi anche a ovest, sia nell'architettura civile ufficiale o domestica (Assur, Seleucia sul Tigri) sia in quella religiosa (Hatra). Con questa tipologia architettonica si accompagna anche la nuova copertura a volta. Benché rari, i documenti dell'elevato illustrano non solo l'uso di volte a botte in pietra (i grandi īwān di Hatra, aperti in facciata con enormi arconi) o mattoni, ma nuove ardite sperimentazioni, cupole in crudo gettate su vasti spazi (Sala Rotonda a Nisa).
Le esigenze della pietas di una società diversificata vengono però soddisfatte anche in altri modi: alle frontiere occidentali la cultura della Siria romana fornisce talvolta i modelli per planimetria ed elevato (Tempio Ellenistico di Hatra), mentre per la maggioranza etnica semitica la liturgia di origine locale richiede celle larghe di tipo babilonese (Hatra, Dura-Europos). Le pratiche religiose e funerarie, soprattutto, si compiono nella massima libertà. Se la raccolta dei testi dell'Avesta che la tradizione attribuisce agli Arsacidi e l'osservanza dello zoroastrismo da parte dei sovrani implicita in questa notizia non trovano ancora riscontri archeologici precisi per difetto di documentazione, in Elimaide e in Mesopotamia gli abitanti continuano a venerare le antiche divinità, rinnovandone la personalità per via di vasti fenomeni sincretistici, e a seguire le pratiche millenarie di sepoltura intra muros, pur accogliendo nuove influenze occidentali nelle necropoli esterne (Seleucia) e nei mausolei (Hatra).
Benché nel complesso gli impianti edilizi seguano dettami iranici o mesopotamici, il lessico decorativo architettonico è in gran parte improntato all'Ellenismo, sia nella tecnica edilizia più comune in mattoni crudi (arricchita in Partia da una articolazione della muratura con travi lignee) sia in quella lapidea a blocchi tagliati (Hatra). Colonne e pilastri circolari o lobati composti di mattoni cotti presagomati si ergono liberi o si addossano e si immorsano nelle pareti in crudo (Nisa). Da Nisa a Seleucia, per essi si fabbricano capitelli con foglie di acanto e caulicoli di terracotta dipinta tenuti insieme da malta e chiodi, o lastre di rivestimento della muratura sulle quali si delineano a rilievo le volute ioniche o l'acanto corinzio. Anche se a tutto tondo, le modanature trascurano i raccordi organici delle forme e la ricca strutturazione delle facciate segue una logica ornamentale svincolata dall'evidenza delle funzioni portanti (Assur).
Accanto ai motivi più comuni di derivazione occidentale (palmette, rosette, ovoli, astragalo), gli elementi delle nuove cornici di terracotta introdotte a Nisa ("metope") si ispirano ai fregi greci, ma in forme, ritmi e collocazioni spesso totalmente estranei a quelli d'origine. A tradizioni orientali si rifanno invece altri motivi (merli, cornici dentate) e la tecnica dell'invetriatura per i capitelli assemblati (Seleucia). A Seleucia, Uruk, Assur, Qala-i Yazdgird le composizioni ornamentali più ricche ricorrono allo stucco, materia ideale per rivestire in continuità vaste superfici, in campiture alternate o con serie di pannelli. Soprattutto in età avanzata, le composizioni sono spesso strutturate sui principi dell'arte tessile e gli schemi a intreccio a sviluppo indefinito sono particolarmente frequenti. Per le singole figure incorniciate in pannelli, eventualmente allineati in serie, si attinge spesso ancora al repertorio ellenistico, ma con significativi adattamenti iconografici a letture semantiche orientali e con interpretazioni stilistiche di chiaro orientamento iranico.
I documenti artistici superstiti, se confermano grosso modo l'evoluzione generale del gusto documentata dalle monete e l'importanza dell'arte ellenistica come primo modello formale, soffrono però di una distribuzione cronologica e geografica diseguale e di estese lacune documentarie. La gamma di varianti, relativamente ampia, può essere in parte spiegata dallo sviluppo cronologico, ma è certo collegata anche con i caratteri dello sfondo culturale specifico. Le tradizioni delle antichissime civiltà un tempo fiorite nei territori dell'impero partico condizionano ancora lo spirito, se non le forme, di parte della produzione e soprattutto in Mesopotamia lasciano un'impronta significativa in prodotti artistici che riflettono un atteggiamento di pensiero religioso ancestrale.
L'orientamento filellenico della prima arte arsacide è evidente soprattutto a Mithradatkert (Nisa Vecchia), la cittadella di Mitridate presso il principale centro urbano della Partia (Nisa Nuova). Artisti greci o di formazione greca partecipano qui all'allestimento delle fabbriche monumentali, accanto ad architetti locali e a decoratori di formazione ellenistica. Le statue scolpite nel marmo importato dall'Egeo raffigurano divinità greche verosimilmente assimilate a dei iranici e sono prodotti squisiti dell'arte del medio Ellenismo, di diverse correnti stilistiche della quale arte essi sono partecipi, ma anche le statue monumentali modellate in argilla cruda (II-I sec. a.C.), secondo tecniche partico-battriane destinate a un grande sviluppo in Asia Centrale, sono opera di artisti greci verosimilmente di formazione centroasiatica. Botteghe di bronzisti, scultori e modellatori greci sono attive nelle città greche fino a età avanzata, ma le loro opere (teste di argilla della Sala Quadrata di Nisa, Eracle bronzeo di Seleucia, testa litica di Tyche dello scultore Antioco di Susa) propongono in vario modo intonazioni espressive di sapore orientale.
Nelle città greche (Seleucia, Susa) fiorisce soprattutto la coroplastica, dominata dalla diffusione capillare di temi iconografici greci, ma con creazioni originali e tipi nuovi rispetto alla cultura del Mediterraneo e non solo per sollecitazioni degli ambienti locali. I modellatori di figurine di terracotta, arte per eccellenza popolare, non potevano mancare di soddisfare le esigenze di tutte le cerchie sociali. Non solo la nuova tecnica a due stampi non fa dimenticare l'antica a una matrice o l'abbozzo a mano, ma permette di dare nuova vita a figure amate da millenni (quelle femminili nude "sull'attenti"), dandone raffinate versioni stilistiche in stile ellenistico o esaltandone la presentazione frontale, mentre nell'artigianato l'invetriatura, sposandosi all'anfora, crea uno degli oggetti simbolo di questa età.
All'opposto, già in periodo tardoellenistico, il monumentale principe bronzeo di Shami realizza una nuova, armoniosa visione artistica. La presentazione del personaggio, dall'iconografia, statica e struttura anatomica puramente orientali, riceve forza nuova da un naturalismo ellenistico che agisce solo in superficie: la ricchezza dell'osservazione e il gusto del panneggiare stemperano nel modo più efficace quel rigore lineare e disegnativo (più ricco e vario che nelle opere più tarde) e quella espressione distaccata dalla realtà naturale che stanno alla base del successivo sviluppo stilistico nei primi secoli dell'era cristana.
Le vie e i modi iniziali di questo sviluppo possono essere appena abbozzate, ma i punti d'arrivo sono ben visibili nelle regioni occidentali (Elimaide, Mesopotamia), dove da un lato si continuano le tradizioni iraniche del rilievo rupestre e dall'altro si seguono pratiche votive di discendenza antico-orientale. La celebrazione della regalità è come in passato affidata a rilievi sulla roccia e la nascita precoce di un nuovo soggetto, il duello equestre (Bisutun), che avrà tanto avvenire, è forse in rapporto con uno sviluppo narrativo dell'epos. Le figure nel santuario ipetrale di Tang-i Sarvak insistono su un'aura di sacralità felicemente resa dall'impostazione frontale delle scene.
Sono queste regioni e questo tempo tardivo che illustrano quella frontalità nella presentazione delle immagini in rilievo e pittura (Dura-Europos) che è stata considerata il carattere più tipico dell'arte partica (Rostovtzev). Questo carattere, che anticipa la visuale tardoantica dell'Occidente, determina la composizione di scene in cui l'azione rappresentata sembra negata dall'allineamento frontale di attori che rivolgono lo sguardo verso lo spettatore, sottraendosi ai vincoli reciproci che nella realtà naturale dell'azione li collegano. Esso affonda le sue radici più profonde in un atteggiamento spirituale antinarrativo e in una concezione sintetica di valore trascendente dell'opera figurativa, per la quale le tradizioni antico-orientali di Mesopotamia ed Elam avevano elaborato diverse soluzioni. Alla rigidità della presentazione delle figure in uno spazio astratto corrisponde quella della loro struttura anatomica, esaltata da un trattamento disegnativo che trascura le relazioni organiche e da una impostazione ornamentale del panneggio.
Nelle regioni occidentali questa nuova impostazione fiorisce in stretto rapporto con la cultura delle province romane vicine, conservando elementi iconografici e tematici di varia origine, ma è tutt'altro che estranea all'arte di corte ed è particolarmente adatta alla presentazione della maestà regale (avori di Olbia). L'artigianato di lusso, d'altronde, e la toreutica in particolare, restano lontani dal negare rapporti con il naturalismo e il senso di movimento apparente dell'arte ellenistica, che continua a essere apprezzata fonte di ispirazione per motivi iconografici e soluzioni stilistiche originali. Sarà grazie alla loro definitiva trasformazione tardopartica che gli elementi di origine ellenistica, ormai perfettamente amalgamati in uno stile dominato da una nuova coerenza, daranno ancora un contributo vitale all'espressione figurativa iranica in età sasanide, che si sviluppa senza soluzione di continuità da quella intima fusione di elementi iranici e allogeni realizzata in età arsacide.
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di Gennadij A. Košelenko
Sito archeologico nella parte nord-occidentale dell'oasi di Merv (od. Mary, Turkmenistan), individuato agli inizi del Novecento nel corso della spedizione di R. Pumpelly e all'epoca classificato come kurgan (tumulo funerario).
Il sito fu poi più volte visitato dalla Spedizione Archeologica della Turkmenia Meridionale (JuTAKE), in particolare da M.E. Masson e da G.A. Pugačenkova, che vi riconobbero le rovine di un piccolo centro urbano; tra il 1981 e il 2001 vi hanno avuto luogo gli scavi della missione congiunta dell'Istituto di Archeologia di Mosca e dell'Università Statale del Turkmenistan (Ashkhabad) e dal 1990 le ricerche sono inserite in un progetto internazionale mirato alla realizzazione di una carta archeologica del delta del Murghab.
Nella prima età del Ferro (Yaz III, forse già in Yaz II) nel sito (non lontano dal principale centro dell'oasi, Yaz Depe) sorgeva un piccolo insediamento fortificato, che fu abbandonato, come la maggior parte degli abitati di quest'area, alla fine del IV sec. a.C. Un ripopolamento si verificò nel I sec. d.C., quando nel settore settentrionale del delta del Murghab sorse un numero cospicuo di piccoli insediamenti fortificati, certamente espressione di un progetto politico unitario, caratterizzati da un impianto di tipo geometrico. A quest'epoca data la costruzione di una piccola fortezza di pianta quadrata (100 m di lato), con torri angolari e una stretta porta d'accesso al centro del lato meridionale, protetta da un bastione. La tecnica muraria impiegata consiste in una alternanza di file di mattoni crudi e di blocchi di argilla compattata (pakhsā). Al centro della fortezza, sulle rovine di un insediamento rurale dell'età del Ferro, era la residenza del signore, interamente in mattoni crudi, con coperture a volta; il nucleo centrale dell'edificio costituiva il settore abitativo propriamente detto (due dei suoi ambienti erano dotati di camini); circondato su tre lati da un corridoio, sul lato meridionale esso si affacciava su una corte utilizzata dalla servitù. È, questo, l'unico edificio d'epoca partica interamente scavato in Margiana.
In epoca sasanide, dopo un breve periodo di abbandono, la fortezza venne ristrutturata e utilizzata fino alla fine del IV sec. d.C. Sulle rovine della cinta di epoca partica furono erette nuove mura, che in un breve arco di tempo subirono quattro rifacimenti, i quali tuttavia non modificarono sostanzialmente l'impianto difensivo originario. Nell'ultima fase di vita della fortezza i corridoi interni furono adibiti ad ambienti abitativi. L'edificio centrale di epoca partica fu murato e, al di sopra di esso, fu eretto un nuovo edificio di pianta inconsueta: piattaforma centrale monolitica esagonale circondata da uno stretto corridoio, riempito di ceneri. Dopo l'abbandono del sito le rovine furono utilizzate per sepolture di tipo zoroastriano.
Tra i numerosissimi reperti portati alla luce, oltre a ceramica, manufatti di osso intagliato, incensieri di bronzo, ecc., notevole è la quantità di monete, soprattutto di bronzo: partiche coniate in Margiana (I sec. d.C. - inizi del III sec. d.C.); con effigie del "cavaliere margiano" (conio locale di Merv dell'epoca del sovrano Ardashir I); sasanidi coniate nella zecca di Merv (nessuna successiva a Shapur II); consistente è anche la quantità di statuette di terracotta, soprattutto femminili (in genere del tipo della dea con specchio portato al petto). In epoca partica G.D. doveva essere un attivo centro di contatti commerciali con i nomadi; qui affluiva una gran quantità di merci, contrassegnate da sigilli. In diversi ambienti periferici dell'edificio centrale sono state rinvenute oltre 3000 cretule d'argilla, per la maggior parte ovali, ma anche circolari, rettangolari e quadrate. Mentre assai rare sono le iscrizioni, grande è la varietà dei soggetti figurati: oltre a quelli legati alla tradizione dei sigilli dell'età del Bronzo della Margiana (croce, simbolo solare, ecc.), vi compare la dea in trono con un ramo di palma (?) nella mano, il re a cavallo davanti a un altare oppure seguito da una Nike in volo (o da un'aquila), raffigurazioni di animali, reali e fantastici (cavalli, a volte davanti a un altare, bue, leone, lepre, aquila con ali spiegate, pegaso, sfinge). Per l'epoca sasanide, si segnalano soprattutto gli oltre 20 ostraka con iscrizioni in lingua partica.
V. Gaibov, Bullae from Göbekly-depe (Margiana). Bronze Age Traditions in Parthian Sphragistics, in M.-F. Boussac - A. Invernizzi (edd.), Archives et sceaux du monde hellénistique, Paris 1988, pp. 385-94; G. Košelenko, Bullae from Göbekly-depe. General Problems and Main Subjects, ibid., pp. 377-83; A. Bader - V. Gaibov - G. Koshelenko, Monarchic Ideas in Parthian Margiana as Shown on Seals, in V.S. Curtis - R. Hillenbrand - J.M. Rogers (edd.), The Art and Archaeology of Ancient Persia. New Light on the Parthian and Sasanian Empires, London - New York 1998, pp. 24-37; V.A. Gajbov - G.A. Košelenko, Bully iz raskopok Gebekly-depe [Bullae dagli scavi di Göbekly Depe], in VestDrevIstor, 2001-2002, pp. 71-78.
v. HATRA in L'archeologia del Vicino Oriente. La Mesopotamia seleucide, partica e sasanide
di Domenico Faccenna
Vasta montagna basaltica che sorge isolata nel bacino del Lago Hamun, presso la frontiera afghano-iraniana. Sulle ripide pendici meridionali si stende l'abitato fortificato di Ghagha Shahr, cui è legato il nome di Gundophar/Gondophares (il Gaspare dei tre Re Magi), il re indo-partico alla cui corte, secondo la tradizione, fu s. Tommaso.
Di pianta approssimativamente triangolare, circondato da mura con torri quadrate, con ampio ingresso a sud, esso racchiude nella parte inferiore uno spazio rettangolare occupato da numerose costruzioni e in quella superiore, la più ampia, il cosiddetto "complesso palaziale-templare". Documentato nei primi anni del XX secolo da P.M. Sykes e G.P. Tate, K.-i Kh. fu studiato per primo da sir Aurel Stein (1916) e quindi da E. Herzfeld (1925 e 1929), che vi eseguì sondaggi e rilievi; Stein e Herzfeld operarono distacchi di alcune pitture, conservate rispettivamente al Museo Nazionale di New Delhi e al Metropolitan Museum di New York. Nel 1961 G. Gullini (Missione Archeologica Italiana dell'IsMEO, ora IsIAO) eseguì in diversi punti del palazzo saggi stratigrafici. Nel 1990-92 l'Ente Iraniano del Patrimonio eseguì sondaggi diretti da M. Mousavi, volti, anche nella zona inferiore del complesso, alla conservazione e al restauro.
Il complesso, eretto su una terrazza colonnata sostruita da un alto muro, presenta nel suo aspetto finale: un vestibolo di ingresso a sud con due successivi ambienti, di cui l'interno coperto al centro da cupola; un'ampia corte (20-30 m), circondata da ambienti allineati, con due grandi īwān ai lati est e ovest; sul lato nord, il tempio rialzato su una terrazza (alt. 7 m ca.) che racchiude la galleria dipinta (lungh. 40 m, largh. 2,5 m ca.), raggiunto da scale (a una rampa assiale o a due rampe convergenti). La terrazza ha la facciata articolata con semicolonne "doriche" architravate e finestre voltate negli intercolumni. Il tempio racchiude un ambiente quadrato (3 m di lato), circondato da un corridoio, con cupola poggiata su quattro pilastri (čahār tāq) e altare al centro; a nord è un vano rettangolare. All'estremità nord-est del complesso è la porta nord con torre. Considerato da Herzfeld un complesso palaziale-templare, viene oggi assegnato alla sola funzione templare.
Tutte queste parti hanno subito nel tempo trasformazioni, aggiunte, rafforzamenti, che possono essere racchiusi in due fasi principali, oggi datate rispettivamente all'inizio e alla fine dell'età sasanide, precedute da un primo insediamento con natura di santuario all'aperto, verosimilmente di età tardopartica. Le trasformazioni nella seconda fase si concentrano: nel vestibolo, sia nel primo ambiente sia nella sala con cupola centrale, dai raccordi a squinci e con parete a nicchie fiancheggiate da semicolonne nella parte superiore; nella corte, con l'inserimento significativo dei due īwān forniti di stanza retrostante a cupola; nella fronte nord della terrazza, con nuova scala assiale e con una struttura addossata di due file sovrapposte di arcate, collegate tra loro e con cornice divisoria, che chiude in tal modo le finestre della galleria dipinta e insieme copre con un nuovo muro le pitture interne; nel tempio, trasformato in čahār tāq, e negli ambienti adiacenti.
Il palazzo doveva essere largamente decorato sia con rilievi di stucco e statue di argilla sia con pitture. Ricordiamo per il primo gruppo le due figure maschili, probabilmente regali, a grandezza naturale, modellate in stucco ad altissimo rilievo, poste ai lati dell'ingresso della parete nord della corte; il rilievo con scena di cavaliere e felino nella parete ovest della facciata del tempio e un altro rilievo con tre cavalieri. La pittura è più ampiamente presente; resti sono stati visti nel vestibolo, nella galleria dipinta, nella torre nord. Tra i resti nel vestibolo ricordiamo un frammento, recuperato dalla Missione Archeologica Italiana dell'IsMEO, con quattro teste maschili volte a destra e tracce di altre avanti, sullo sfondo di mura merlate con torri da cui sporgono teste elmate volte a sinistra.
Nella galleria dipinta ricordiamo tra gli altri la grande rappresentazione che si svolge sulle pareti meridionale e settentrionale, con figure in gruppi di due o tre, frontali o di tre quarti (di difficile identificazione: divinità, antenati eroizzati?). La decorazione si estendeva anche nelle volte e sulle pareti delle finestre; in una di queste si deve collocare una scena con teoria di cinque persone, tunicate, frontali, con teste di profilo a destra. Nella parete settentrionale sono rimaste tre figure stanti, tra cui spicca una coppia (definita da Herzfeld "re e regina"), di tre quarti a destra, con ricche vesti, gioielli e corona. I colori impiegati sono blu, verde, giallo, nero e bianco. Tracce di pittura murale con scena di banchetto si conservano anche nella stanza superiore della torre della porta settentrionale.
La decorazione, che non trova confronti in aree vicine, mostra diversità iconografiche, di stile e di contenuto e compone con la sua ricchezza il più ampio complesso pittorico dell'Iran antico. Essa si accompagna alle vicende, trasformazioni e modifiche che il palazzo subì pur mantenendo l'originale impianto assiale (porta-corte-tempio).
A. Stein, Innermost Asia. Detailed Report of Exploration in Central Asia, Kan-su and Eastern Iran, Carried out and Described under the Order of H.M. Indian Government, Oxford 1928; E.E. Herzfeld, Sakastan. Geschichtliche Untersuchungen zu den Ausgrabungen am Kūh i Khwādja, in AMI, 4 (1932), pp. 1-116; F.H. Andrews, Catalogue of Wall-Paintings from Ancient Shrines in Central Asia and Sīstān, Delhi 1933, pp. 57-59; E.E. Herzfeld, Archaeological History of Iran, London 1935, pp. 58-75; Id., Iran in the Ancient East, London - New York 1941, p. 291 ss.; G. Gullini, Architettura iranica dagli Achemenidi ai Sasanidi: il Palazzo di Kuh-i Kḫwagia (Seistan), Torino 1964; G. Gnoli, Ricerche storiche sul Sīstān Antico, Roma 1967; K. Schippmann, Die Iranische Feuerheiligtümer, Berlin - New York 1971, pp. 57-70; M.C. Root, The Herzfeld Archive of the Metropolitan Museum of Art, in MetrMusJ, 11 (1976), pp. 119-24; D. Faccenna, A New Fragment of Wall Painting from Ghāga Šāhr (Kūh-i Ḫvāǧa - Sīstān, Iran), in EastWest, 31 (1981), pp. 83-97 (con bibl. prec. allo Stein); J. Kröger, Sasanidischer Stuckdekor, Mainz a.Rh. 1982; T.S. Kawami, Kuh-i Khwaja, Iran, and its Wall Paintings: the Records of Ernst Herzfeld, in MetrMusJ, 22 (1987), pp. 13-52; Ead., Monumental Art of the Parthian Period in Iran, Leiden 1987, II, pp. 153-54; M. Musavi, Kuh-e Khadjeh, un complexe religieux de l'est iranien, in R. Boucharlat (ed.), Empires perses d'Alexandre aux Sassanides, Paris 1999, pp. 81-84; S. Ghanimati, New Perspectives on the Chronological and Functional Horizon of Kuh-i Khwaja in Sistan, in Iran, 38 (2000), pp. 137-50; A. Invernizzi, Processione in una città, in Antica Persia. I Tesori del Museo Nazionale di Tehran e la ricerca italiana in Iran (Catalogo della mostra), Roma 2001, p. 124.
di Pierfrancesco Callieri
Imponente complesso sacro 140 km a nord-est di Ahvaz (Khuzistan), sui primi contrafforti dei monti Zagros, nella regione dell'antica Elimaide. Il santuario, appartenente alla tipologia architettonica nota come "terrazza sacra", fu individuato già alla fine del XIX secolo dagli ingegneri attivi nei campi petroliferi dell'area e scavato tra il 1964 e il 1972 dalla Délégation Archéologique Française en Iran sotto la direzione di R. Ghirshman.
Un imponente muro di sostruzione in blocchi di pietra di forma e dimensioni irregolari, caratterizzato da aggetti di pianta rettangolare a distanza uniforme tra loro, sostiene un'ampia terrazza artificiale (91,4 × 54 m), accessibile da una scalinata principale a nord-est e da altre minori a sud-est e a sud. Nel settore sud della terrazza, secondo lo scavatore, doveva trovarsi un podio per culto all'aperto, mentre una camera di pianta rettangolare, con copertura piana di lastroni, era ricavata all'interno del tratto nord del muro di sostruzione. Un basso e lungo muro nord-sud lungo il limite ovest della terrazza separa questa da un'estensione a quota superiore, assegnata a una seconda fase strutturale, sulla quale sorgono due edifici templari con muratura di blocchi irregolari di pietra e terra. Il tempio principale (Grand Temple) presenta una pianta di tipo mesopotamico: orientato a sud-est, ha cella e antecella, con asse maggiore perpendicolare all'ingresso, aperte con due porte sulla grande corte quadrata su cui affacciano altri ambienti; questo blocco centrale è circondato, e isolato, da un corridoio con ingresso principale a nord-est, dove è un portico con tre gradini che corrono lungo la larghezza della facciata. Nell'edificio sono state riconosciute, dopo l'impianto originario, quattro successive fasi strutturali.
Anche il secondo tempio, a ovest del primo, mostra una pianta di ispirazione mesopotamica, orientata a sud-est, con una cella larga (17,05 × 2,5 m) preceduta da un'antecella e da una piccola sacrestia, con altri ambienti a nord-est e sud-ovest; tre gradini corrono lungo la facciata esterna dell'antecella. A differenza del tempio principale, questo avrebbe mantenuto nel tempo la sua pianta senza modifiche rilevanti, ma sarebbe stato distrutto prima e la sua ultima ricostruzione consisterebbe nel più modesto Santuario Ovest, caratterizzato da una innovativa copertura a volta. La distruzione finale verrebbe collocata dai rinvenimenti monetali durante il regno di Shapur II, preceduta, agli inizi del periodo sasanide, da una distruzione intenzionale delle immagini presenti nel complesso, in particolare dei numerosi rilievi di pietra raffiguranti scene di culto o immagini divine, caratterizzati tutti da una rigida visione frontale.
Ghirshman, sulla base di alcuni rinvenimenti, attribuì la fondazione della terrazza al periodo preachemenide e achemenide, l'estensione della terrazza con la fase più antica dei due templi al periodo seleucide. All'epoca partica risalirebbe la gran parte delle strutture visibili, mentre l'ultima fase del tempio principale e il Santuario Ovest risalirebbero al periodo protosasanide. Un più attento esame dei dati, tuttavia, mostra che tali datazioni non sono affatto attendibili. Se alcuni dei rinvenimenti possono riportare la fondazione della terrazza all'aperto al periodo ellenistico, i templi messi in luce sono databili alla fase finale dell'epoca arsacide e la loro distruzione all'inizio del periodo sasanide.
Anche l'attribuzione religiosa dei diversi edifici proposta da Ghirshman va rivista. Nella sua fase originaria, peraltro nota solo da alcuni limitati sondaggi, il tempio principale sarebbe stato dedicato ad Atena Ippia, come suggerito della presenza di due immagini bronzee di Atena e di numerose figurine di terracotta raffiguranti cavalieri macedoni; in seguito il tempio sarebbe stato dedicato, sino alla fase sasanide, ad Anahita e Mithra, dotati ciascuno di un proprio ingresso alla cella. Il secondo tempio, per il rinvenimento nelle diverse fasi di frammenti di immagini di Eracle, sarebbe stato dedicato a questo eroe, assimilato sincretisticamente, a partire dalla fase partica, all'iranico Verethragna. In realtà, l'universo religioso dell'Elimaide non appartiene al mondo iranico, bensì presenta caratteristiche indipendenti: l'interpretazione iconografica dei numerosi rilievi di M.-i S. e degli altri santuari della regione non può prescindere dall'esame complessivo di tutte le testimonianze figurative, in particolare dei numerosi rilievi rupestri della regione, che suggeriscono un Pantheon locale in cui prevalgono i legami con il mondo semitico della Mesopotamia.
K. Schippmann, Masǧid-i Sulaiman, in Die iranischen Feuerheiligtümer, Berlin - New York 1971, pp. 233-51; R. Ghirshman, Terrasses sacrées de Bard-è Néchandeh et Masjid-i Solaiman. L'Iran du Sud-Ouest du VIIIe s. av. n. ère au Ve s. de n. ère, Paris 1976; J. Hansman, The Great Gods of Elymais, in Papers in Honour of Professor Mary Boyce, II, Leiden 1985, pp. 605-27; S.B. Downey, Mesopotamian Religious Architecture. Alexander through the Parthians, Princeton 1988, pp. 131-34.
di Carlo Lippolis
Il distretto di N., presso l'odierna Ashkhabad (Turkmenistan), include due siti di età arsacide. Nisa Nuova era il principale centro urbano dell'area frequentato fino al XV sec. a.C.: le missioni sovietiche hanno investigato sistematicamente solo alcuni tratti delle mura e il cosiddetto "tempio della nobiltà partica", addossato alla cortina e circondato da un portico. Nisa Vecchia è invece nota come cittadella reale fortificata e centro cerimoniale.
L'identificazione della Parthaunisa di Isidoro di Charax con uno dei due centri non è certa. Conosciamo invece l'antico nome di Nisa Vecchia, tramandato su ostraka rinvenuti nei magazzini: Mithradatkert, "la fortezza di Mitridate". All'interno delle sue mura si riconoscono due grandi aree edificate: il complesso settentrionale, con la Casa Quadrata e i magazzini, e il complesso centrale, dove edifici monumentali si affacciano su di un grande cortile cerimoniale. I primi sondaggi (Istituto delle Scienze del Turkmenistan, 1930-36) attestarono la presenza di un'architettura monumentale di età arsacide, in mattoni crudi. Nel complesso settentrionale la spedizione sovietica JuTAKE (1946-67) completò lo scavo della Casa Quadrata (II sec. a.C.), l'edificio più grande di Nisa Vecchia. Lungo ciascun lato del muro perimetrale si dispongono tre ambienti di pianta rettangolare allungata, attorno al cortile centrale porticato, in una struttura modulare. Sui banconi che corrono lungo i muri degli ambienti vennero deposte, quando l'edificio divenne magazzino reale (I sec. a.C. - I sec. d.C.), le preziose suppellettili che poi furono rinvenute durante gli scavi sovietici. Gli oggetti qui immagazzinati tramandano un'immagine diretta della vita e dei gusti della corte arsacide, evidenziando l'incontro della cultura ellenistica con il mondo iranico e le tradizioni nomadiche centroasiatiche. Resta problematica l'interpretazione dell'originaria destinazione dell'edificio: alle ipotesi di tempio funerario o di tesoreria, avanzate dagli studiosi sovietici, un recente studio ha preferito quella di edificio per banchetti cerimoniali.
Tra il 1979 e il 1993 le missioni dell'Istituto di Archeologia dell'Accademia delle Scienze dell'URSS, del Turkmenistan e dell'Istituto di Archeologia di Leningrado ripresero le indagini nel complesso centrale. Qui, il completamento dello scavo della Sala Quadrata, inizialmente ritenuta la sala di udienza (ma anche mausoleo o tempio del fuoco) di un complesso residenziale più ampio, ne ha svelato il carattere indipendente. Esso consta di un'aula quadrata centrale con annessi sui lati nord ed est: durante il I sec. a.C. vi furono massicci interventi edilizi. Dallo scavo provengono vivi squarci di un'elevatissima produzione artistica: sculture di argilla cruda, più grandi del naturale, decoravano l'ordine superiore dei muri interni della sala. Se le statue, in vesti greche o iraniche, ritraevano personaggi divinizzati della famiglia arsacide, così come ipotizzato dagli archeologi sovietici, questo ciclo decorativo potrebbe essere interpretato come galleria di antenati. Un carattere celebrativo e cerimoniale sembra ricorrere anche negli altri edifici limitrofi, evidenziando per N. un progetto unitario nella concezione, ma differenziato nella sua realizzazione architettonica e nella forma. Immediatamente a sud della Sala Quadrata, l'Edificio a Torre, l'unico a due piani, presentava un nucleo centrale di muratura circondato da un doppio anello di corridoi e da aggetti angolari con stanze e corpi scalari. La facciata sul grande cortile, il cui scavo è stato ripreso di recente, era articolata in un doppio portico di ingresso. Non è ancora certo da quale settore dell'edificio provengano i resti frammentari di un ciclo pittorico con scene di battaglia: i caratteri delle pitture riportano alle origini nomadiche della dinastia, secondo un programma decorativo finalizzato alla celebrazione di un episodio cruciale per la storia della famiglia arsacide. Ad ambito sacrale riconducono anche i resti della Sala Rotonda: un grande ambiente centrale circolare inscritto in un perimetro quadrato, circondato da corridoi. La ricostruzione della sala con cupola emisferica su tamburo cilindrico di tipo classico è stata rivista dopo gli scavi italiani (1990-99): si è infatti appurato che la copertura era a volta a sezione ovale, impostata direttamente sul piano di spiccato delle murature. Dal 2000 la Missione Archeologica Italiana sta riportando alla luce un complesso adiacente al lato nord della Sala Rotonda, probabilmente più antico di questa. La costruzione si articola in una grande aula centrale a quattro colonne, circondata da ambienti e corridoi perimetrali. La facciata, preceduta da un portico sopraelevato, era ornata da un basso fregio di lastre di pietra a ovoli e scanalature. I caratteri architettonici, l'apparato decorativo e la posizione centrale sul grande cortile sembrano di nuovo ricondurre a un ambito cerimoniale o sacrale.
N., preziosa fonte di informazioni sull'arte e l'architettura di corte del primo periodo arsacide, ci illustra la sintesi di elementi culturali greci, iranici, centroasiatici operata in quelle regioni che furono la patria della dinastia. La datazione assoluta dei singoli complessi, che tra II e I sec. a.C. conobbero ripetuti interventi edilizi, e la loro specifica destinazione sono aspetti ancora dibattuti. L'antico nome della cittadella può far pensare a una sua fondazione a opera di Mitridate I (171-138 a.C.), con il quale N. sarebbe divenuta centro rappresentativo del nuovo status imperiale. I materiali provenienti dagli scavi non sembrano andare oltre la metà del I sec. d.C., ma non esistono dati oggettivi sulla data di abbandono della cittadella.
G.A. Pugačenkova, Puti razvitija arhitektury Južnogo Turkmenistana pory rabovladenija i feodalizma [Percorsi di sviluppo dell'architettura del Turkmenistan meridionale dell'età schiavistica e feudale], Moskva 1958; M.E. Masson - G.A. Pugačenkova, The Parthian Rhytons of Nisa, Firenze 1982; A. Invernizzi, Arsacid Dynastic Art, in Parthica, 3 (2001), pp. 133-57; Id., Arsacid Palaces, in I. Nielsen (ed.), The Royal Palace Institution in the 1st Millennium BC, Athens 2001, pp. 295-312; V.N. Pilipko, Staraja Nisa. Osnovnye itogi arheologičeskogo izučenija v sovetskij period [Nisa Vecchia. Le tappe fondamentali dell'esplorazione archeologica nel periodo sovietico], Moskva 2001; C. Lippolis, Nisa-Mithradatkert: l'edificio a nord della Sala Rotonda. Rapporto preliminare delle campagne di scavo 2002-2003, in A. Invernizzi (ed.), Parthia and beyond. Cultural Interconnections in the Classical Period. Papers in Honour of Gennadij A. Košelenko (Parthica, 6), Pisa - Roma 2004.
di Edward J. Keall
Sito archeologico segnalato per la prima volta da H.E. Rawlinson nel 1839. La sua leggendaria associazione con il sovrano sasanide Yazdgird III è legata al fatto che questi si sarebbe ritirato di fronte all'avanzata degli eserciti islamici attraverso Hulwan (od. Sar-i Pul-i Zohab), immediatamente al di sotto di Q.-i Y. In realtà, i Sasanidi non avrebbero potuto erigere un sistema difensivo di tale portata a protezione delle Porte degli Zagros in così poco tempo. A rigor di termini, Q.-i Y. dovrebbe indicare soltanto il complesso qui descritto come Castello Superiore, anche se, sin dall'inizio delle indagini nel 1965, il nome ha finito per designare tutto il sito in generale, costituito da un'area fortificata di 25 km2, comprendente numerosi siti minori.
I dati di tre campagne di scavo mostrano chiaramente che Q.-i Y. non appartiene a un singolo periodo, anche se l'apparato difensivo, in un sito già peraltro protetto da barriere naturali, sembra essere il risultato di un progetto unitario. Lo stile delle decorazioni di stucco messe in luce in un complesso palaziale nel cuore del sito ha indotto E.J. Keall a collocare l'esordio della fioritura di Q.-i Y. verso la metà del II sec. d.C. Le difese naturali e la prossimità alle Porte degli Zagros facevano di quest'area il luogo adatto per la roccaforte di un "signore della guerra", che prosperava grazie ai dazi imposti alle carovane mercantili e che potrebbe essere identificato con l'omonimo dinasta semi-indipendente cui sono attribuite alcune serie di monete tardopartiche. La datazione di fine II - inizio III sec. d.C. preferita da J. Kröger e H.E. Mathiesen può ugualmente accordarsi con le caratteristiche di questo signorotto.
Il sito è costituito da un pianoro circondato da una scarpata che si innalza ripida fino a incontrare le più alte vette degli Zagros. Su di esso, fiancheggiato da due posti di guardia (torri di avvistamento?), sorge il Castello Superiore; benché in uso per un lungo periodo, con integrazioni che scendono fino a epoca omayyade, la struttura originale costituisce una parte integrante dell'opera difensiva, collegata com'è a un lungo muro con contrafforti che corre lungo il solo tratto relativamente sguarnito, sul lato orientale del pianoro. Oltre al ruolo di avvistamento sulla strada principale verso il passo, il castello svolgeva una funzione difensiva. Tutte le opere difensive erano realizzate in muratura di pietra grezza con malta; il più vasto di tali complessi, Ja-i Dar, presso il moderno villaggio di Zardeh, non è databile con certezza.
In epoca partica, al centro dell'area protetta, al fondo di un giardino recintato, sorgeva un complesso palatino (Gach Gumbad). I muri del palazzo, di mattoni cotti, erano rivestiti con decorazioni, eseguite a mano o a stampo sull'intonaco, originariamente dipinte. I motivi decorativi includono fregi continui, semicolonne scompartite in registri con teorie di figure mitiche o animali oppure motivi astratti, capitelli di colonne entro riquadri, decorazioni geometriche, busti di carattere ritrattistico. Una delle sale aveva pareti scandite da false nicchie. Il giardino era dominato da una torre massiccia, la cui superficie esterna aveva in origine una decorazione simile a quella del monumento di Paikuli. Un episodio di distruzione estesa, non databile, probabilmente legato a eventi naturali, rese necessari grossi interventi di restauro. Le parti danneggiate della decorazione di stucco furono asportate e ammassate in un recinto al limite del giardino; anche questi materiali recano a loro volta tracce di precedenti restauri.
Un tipico čahār tāq (Kala Dawar) offre la testimonianza tangibile di una presenza sasanide, probabile segno dell'imposizione di un controllo sul signore del luogo. Una riutilizzazione della struttura religiosa come laboratorio artigianale all'inizio dell'epoca islamica prova la continuità dell'insediamento nell'area, ma con una funzione diversa da quella originaria, in modo analogo a quanto probabilmente verificatosi nel Castello Superiore.
H.E. Rawlinson, Notes on a March from Zohab, at the Foot of the Zagros, along the Mountains to Khuzistan (Susiana), and thence through the Province of Luristan to Kermanshah, in the Year 1836, in JRGS, 9 (1839), pp. 26-116; E.J. Keall, Qal῾eh-i Yazdigird. A Sasanian Palace Stronghold in Persian Kurdistan, in Iran, 5 (1967), pp. 99-121; Id., Qal῾eh-i Yazdigird, in Survey of Excavations in Iran - 1974-75, ibid., 14 (1976), pp. 161-64; Id., Qal῾eh-i Yazdigird. The Question of its Date, ibid., 15 (1977), pp. 1-9; Id., Qal῾eh-i Yazdigird, in Survey of Excavations in Iran - 1978, ibid., 17 (1979), pp. 158-59; E.J. Keall - M.A. Leveque - N. Willson, Qal'eh-i Yazdigird. Its Architectural Decorations, ibid., 18 (1980), pp. 1-41; E.J. Keall - M.J. Keall, The Qal῾eh-i Yazdigird Pottery. A Statistical Approach, ibid., 19 (1981), pp. 33-80; E.J. Keall, Qal῾eh-i Yazdigird. An Overview of the Monumental Architecture, ibid., 20 (1982), pp. 51-72; J. Kröger, Sasanidischer Stuckdekor, Mainz a.Rh. 1982; J.E. Vollmer - E.J. Keall - E. Nagai-Berthrong, Silk Roads: China Ships. An Exhibition of East-West Trade (Catalogo della mostra), Toronto 1983; E.J. Keall, Islam's Debt to Parthian Art, in L. de Meyer - E. Haerinck (edd.), Archaeologia Iranica et Orientalis. Miscellanea in honorem Louis vanden Berghe, Gent 1989, pp. 977-99; H.E. Mathiesen, Sculpture in the Parthian Empire. A Study in Chronology, I-II, Aarhus 1992; E.J. Keall, Qal῾eh- Yazdigird, in DossAParis, 271 (2002), pp. 64-71.
di Pierfrancesco Callieri
Negli ultimi decenni del Novecento l'archeologia ha portato un contributo decisivo alla conoscenza della cultura architettonica e figurativa dell'impero sasanide, che dal 224 al 642 d.C. ha costituito la principale forza politica sul vasto territorio dalla Mesopotamia all'Iran esterno. Tre momenti distinti scandiscono questo lungo dominio: il periodo protosasanide, che vede l'ascesa di Ardashir I (224-239/40 d.C.) e i regni dei suoi primi successori del III e IV sec. d.C., tra cui ricordiamo Shapur I (239/40-270/72) e Shapur II (309-379 d.C.), segnato dalla creazione di strutture politiche e amministrative fortemente centralizzate e dal conflitto con Roma per il controllo della regione siro-mesopotamica; il periodo mediosasanide, tra V e inizio del VI secolo, caratterizzato da pesanti sconfitte da parte degli Eftaliti, popolazione centroasiatica nomade che riuscì a imporre la sua supremazia politica sull'Iran, e insieme dalle drammatiche rivolte sociali del movimento dei Mazdakiti; infine il periodo tardosasanide, dalla metà del VI secolo alla conquista araba, caratterizzato dalle profonde riforme amministrative e sociali operate da Khusraw I (531-579 d.C.) e dalle conquiste territoriali di Khusraw II (590-628 d.C.) a spese di Bisanzio, che portarono la dominazione sasanide sino all'Egitto, pochi anni prima del repentino crollo dell'impero (vittorie degli Arabi a Qadisiyya, 636 d.C., e Nihavand, 642 d.C.).
Le scoperte più recenti hanno modificato sensibilmente il quadro che la documentazione acquisita soprattutto a partire dagli anni Venti del Novecento aveva suggerito, cioè di un mondo dove l'immaginario figurativo era stato compresso da un lato dal potere politico della dinastia, dall'altro da quello religioso del clero zoroastriano, oramai divenuto una vera e propria Chiesa. Se rispetto ad altre regioni del mondo antico l'Iran sasanide continua a essere ancora relativamente povero sotto l'aspetto figurativo, l'archeologia ha permesso di chiarire che la ragione di tale povertà risiede soprattutto nella carenza della nostra documentazione piuttosto che non nella effettiva situazione originaria. La graduale ma pressoché completa islamizzazione del mondo iranico, verificatasi nei primi secoli dell'Egira, è senza dubbio una delle principali ragioni di questa riduzione, che ha visto in campo architettonico un accoglimento delle fiorenti tradizioni del periodo sasanide, reinterpretate per le esigenze della nuova società islamizzata, mentre in campo figurativo ha portato a una drammatica selezione dei temi figurativi del periodo sasanide.
La dinastia sasanide si presenta nella documentazione epigrafica e letteraria come la legittima erede della grande tradizione dei re dell'Iran, richiamandosi in una prospettiva mitizzata alla dinastia achemenide. Anche la documentazione archeologica conferma questa lettura, mediante una serie limitata ma significativa di espliciti richiami al mondo achemenide, che vanno dall'adozione del motivo della gola egizia nella decorazione del palazzo di Firuzabad del primo re sasanide, Ardashir I, al coronamento di merli a gradoni degli edifici di Paikuli e Taq-i Girra e a un ritorno a un linguaggio figurativo che si colloca nella tradizione dell'Oriente pre-ellenistico. Nello stesso tempo, la demonizzazione della dinastia arsacide appare oggi come uno strumento di propaganda politica, che tuttavia non si accompagna a un rifiuto della tradizione artistica e culturale precedente, in cui già si era avviata una reazione all'Ellenismo. L'uso del greco nelle iscrizioni dei primi due sovrani sasanidi mostra quanto forti fossero ancora i contatti culturali con l'Oriente mediterraneo.
È altrettanto vero che le profonde riforme politiche e sociali volute da Ardashir I ebbero senz'altro un riscontro visibile sul piano architettonico e artistico, gettando le basi per quelle che diverranno negli anni successivi le forme di espressione più tipiche della nuova dinastia. Nel settore del controllo del territorio, la fondazione di città ha visto l'impegno di numerosi sovrani della dinastia sasanide. Purtroppo la ricerca archeologica sugli abitati di questo periodo è ancora carente e soltanto poche aree, tra cui il Khuzistan e alcune zone del Fars, sono state oggetto di ricognizioni sistematiche. La prima delle città fondate da Ardashir I, Ardašīr-Xwarrah (la "gloria di Ardashir", ribattezzata in età islamica Firuzabad), rivela importanti aspetti ideologici e simbolici, con una pianta circolare avente una suddivisione radiale e per settori concentrici. Un tempo considerata una riproduzione della città di Darabgird, nel Fars orientale, già ritenuta di epoca arsacide, oggi invece appare come il modello in seguito imitato dalle altre città circolari, tra cui anche Darabgird, il cui impianto circolare risale all'epoca protoislamica. Ma già dalla successiva fondazione di Ardashir I, Weh Ardašīr, la "bella di Ardashir" nei pressi della Ctesifonte arsacide, l'impianto radiale viene abbandonato in favore di un più razionale impianto ortogonale, pur se all'interno di una pianta circolare. Un'intensa attività urbanistica prosegue nei secoli III e IV d.C., con la fondazione delle città di Shapur I e II (Bishapur nel Fars, Jund-i Shapur e Iwan-i Karkha nel Khuzistan), che segnano l'accoglimento di impianti ortogonali di tradizione ellenistico-romana. Già dal regno di Ardashir I, nonostante il profondo legame con la propria regione d'origine, il Fars, la dinastia rivolge il proprio interesse ad aree esterne all'altopiano, in modo particolare la Mesopotamia e l'Iran esterno.
Nel periodo sasanide è attestato un considerevole impegno nella difesa dei confini più esposti alle temibili incursioni da parte dei nomadi centroasiatici. A nord-est, già dalla conquista della regione di Gurgan e della Margiana viene costruita una serie di fortini per il controllo del territorio, a cui in epoca tardosasanide si associa il restauro del "muro di Alessandro" e la costruzione di analoghe strutture (muro di Tammisha). A nord-ovest, lo stretto corridoio tra il Mar Caspio e il Caucaso viene bloccato dalla città fortificata di Derbent, porto sul Mar Caspio, e da un muro di pietra che da essa si diparte verso i monti: opere nelle quali la tecnica muraria mostra il contributo di Bisanzio all'opera di comune interesse. Anche la costruzione di dighe e opere di canalizzazione, così come di ponti, vede nel periodo sasanide un impegno considerevole da parte dell'amministrazione pubblica, che utilizza le particolari competenze di tradizione romana, anche grazie all'opera di tecnici catturati nel corso delle campagne contro l'Impero romano.
Le tappe dell'ascesa al trono di Ardashir I sembrano rispecchiarsi nella sua attività edilizia, dall'ardito palazzo di Qala-i Dukhtar, costruito su un alto sperone roccioso in qualità di signore del Fars, a quello più solido e regolare del suo periodo regale nella piana di Firuzabad. In entrambi i complessi compare per la prima volta lo schema planimetrico della sala quadrata coperta con cupola su trombe d'angolo, preceduta da īwān: schema che nel mondo iranico godrà nei secoli successivi di duratura fortuna, accolto nella tipologia della moschea. In entrambi i complessi troviamo ambienti, pur se di dimensioni minori, ai piani superiori, che D. Huff interpreta come i veri ambienti di funzione residenziale del re: gli stessi ambienti che troviamo anche in altri complessi quali il Taq-i Kisra a Ctesifonte e lo Imarat-i Khusraw a Qasr-i Shirin. Secondo lo studioso tedesco, sarebbe proprio la complessità degli alzati, abbinata a una estrema regolarità e simmetria della pianta, a caratterizzare i complessi palaziali, distinguendoli da quelli con funzione religiosa, privi invece di piani superiori ma caratterizzati da planimetrie articolate e asimmetriche.
Luogo chiave per questa nuova teoria è il grande complesso architettonico di Bishapur, tradizionalmente considerato il palazzo di Shapur I. La nuova interpretazione della sua grande sala cruciforme non come sala del trono ma come čahār tāq, cioè come la parte del tempio del fuoco zoroastriano in cui il fuoco veniva custodito e venerato (avanzata da M. Azarnoush), permette non solo di inquadrare con maggiore coerenza l'edificio semisotterraneo adiacente, che già in precedenza era stato interpretato come un tempio di Anahita per la possibilità di farvi giungere acqua mediante canalizzazioni sotterranee, ma anche di riportare indietro nel tempo l'affermazione della planimetria del tempio del fuoco incentrato su un čahār tāq circondato da corridoi o ambienti e non già isolato come un baldacchino. Gli edifici a baldacchino, pur abbastanza comuni in alcune regioni dell'Iran, sarebbero piuttosto dei santuari di età islamica.
Il più antico čahār tāq costruito dai Sasanidi sarebbe il monumento di Firuzabad noto come Takht-i Nishin, costruito con blocchi parallelepipedi di pietra al centro della città di Ardashir I, mentre il grande complesso di Takht-i Sulaiman, nell'Azerbaigian iraniano, identificato con uno dei tre fuochi dell'Iran sasanide, l'Ādur Gušnasp, fuoco dei re e della nobiltà, costruito sotto i due grandi sovrani del periodo tardosasanide, Khusraw I e II, si colloca all'altro estremo cronologico. Di pari importanza si possono considerare le osservazioni di J. Kröger sul tempio del fuoco visto non più come incentrato sul solo culto del fuoco (praticato nel čahār tāq), bensì come un vasto complesso con ambienti di piante e dimensioni differenti in relazione alle numerose funzioni legate a esso, da quelle del culto a quelle della celebrazione delle feste, per finire a quelle amministrative.
Le indagini relative al costume funerario hanno mostrato che l'esposizione dei cadaveri e la raccolta delle ossa negli ossari (astodān), suggerite come norma dai testi zoroastriani, non avevano ancora sostituito del tutto in epoca sasanide i costumi delle tradizioni locali, ma si andavano comunque affermando. Così nel Khuzistan, dove in epoca seleucide e partica i defunti erano sepolti in camere voltate, mancano sepolture posteriori al III sec. d.C. Nel Sud-Est e nel Fars orientale le sepolture a tumulo di pietre (cairn) continuano anche in epoca sasanide a essere frequenti, mentre nel Fars centrale e occidentale la funzione delle camere scavate nelle pareti rocciose e delle fosse orizzontali scavate nella roccia, spesso diverse nelle dimensioni, definite come dakhma nelle rare e tarde iscrizioni associate, potrebbe essere sia la sepoltura sia la conservazione di ossa. Gli unici monumenti qualificabili con certezza come astodān sono gli ossari con forma monumentale, quali i due a forma di altare a Naqsh-i Rustam, un tempo ritenuti veri altari, o quelli in giara di ceramica collocata su alto pilastro di pietra. Resta ancora aperta, tuttavia, la questione del costume funerario dei sovrani sasanidi; la teoria di L. Trümpelmann di un riutilizzo da parte dei primi Sasanidi delle tombe rupestri achemenidi di Naqsh-i Rustam non è dimostrabile, così come la interpretazione della grotta di Mudan presso Bishapur, con la colossale statua di Shapur I, come la tomba di questo re.
L'architettura sasanide utilizza materiali e tecniche disparati, in relazione alla disponibilità dei diversi luoghi: alla muratura in pietre non lavorate messe in opera con malta gessosa, tipica dei monumenti del Fars di questo periodo, corrisponde un uso esteso del mattone crudo nelle regioni del Nord-Est e dell'Est. Sono numerosi gli edifici di carattere monumentale costruiti con paramento di blocchi di pietra squadrati, dal Takht-i Nishin di Firuzabad attribuito ad Ardashir I al tempio semisotterraneo di Bishapur costruito sotto Shapur I, dai monumenti onorari di Paikuli (del re Narseh) e Taq-i Girra (IV sec.?) al grandioso progetto palaziale di Bisutun relativo al regno di Khusraw II. Anche l'uso delle colonne non è raro, come mostrano sia le ricostruzioni proposte per il palazzo tardosasanide di Kangavar e le sale a colonne e pilastri di Takht-i Sulaiman, sia le importanti attestazioni di capitelli di influenza bizantina custodite a Taq-i Bustan.
L'apparato di decorazione architettonica del periodo sasanide utilizza la pittura e lo stucco nella decorazione parietale, mentre i mosaici pavimentali di Bishapur costituiscono a tutt'oggi un unicum legato all'attività di maestranze antiochene deportate da Shapur I. Le attestazioni di pittura, oltre che a scarsi lacerti dal complesso di Hajiabad, sono costituite in primo luogo dalle rilevanti pitture del complesso di Kuh-i Khwaja nel Sistan, che nuovi studi assegnano al periodo sasanide, e dalla pittura rupestre nella grotta di Ghulbiyan, nel Khorasan afghano. L'uso dello stucco (inciso, modellato e lavorato a stampo), attestato già nel grande čahār tāq di Bishapur in motivi di derivazione ellenistica, trova la sua testimonianza più ricca nei due complessi di Hajiabad (Fars orientale) e Bandiyan (Khorasan nord-orientale), entrambi datati tra il IV e il V sec. d.C., anche se le caratteristiche stilistiche del secondo sono più tipiche del periodo tardosasanide. Le scene figurate di Bandiyan e i frammenti di raffigurazioni antropomorfe, animali e fitomorfe di Hajiabad lasciano trasparire un universo figurativo molto più vivace di quanto sinora creduto sulla base dei frammenti delle decorazioni di palazzi, dimore aristocratiche e complessi religiosi sia nella Mesopotamia (Ctesifonte, Kish), sia nell'Iran vero e proprio (Chal Tarkhan, Tepe Mil, Damghan e Takht-i Sulaiman).
A Bishapur e Istakhr sono attestati rilievi scultorei su blocchi di pietra provenienti da edifici, ma l'unica forma di scultura di pietra di ampia diffusione nel periodo sasanide è il rilievo rupestre, che sin dalle prime manifestazioni mostra da un lato il legame con la precedente tradizione iranica (e già elamita), dall'altro il monopolio da parte della dinastia, con l'eccezione dei rilievi del grande sacerdote Kirdir. È Ardashir I a segnare la nascita di questa classe di monumenti figurativi, celebrando la sua vittoria sull'ultimo re arsacide in un grande rilievo rupestre presso Firuzabad. Allo stesso sovrano si deve ancora la creazione della scena di maggiore portata ideologica, l'investitura del re da parte di una divinità, utilizzando singoli motivi iconografici già attestati per il periodo presasanide da interessanti graffiti incisi sulle pareti di alcuni edifici di Persepoli: proprio questa testimonianza, intermedia tra la pittura e il rilievo scultoreo, permette tra l'altro di ipotizzare che i rilievi fossero dipinti e in alcuni casi stuccati. Si è giustamente sottolineato il carattere simbolico e magico dei rilievi sasanidi, in tutto 38, datati al periodo protosasanide e poi a quello tardosasanide: spesso collocati su pareti di difficile accesso e di fronte a sorgenti, a motivo del forte legame tra l'acqua e lo xwarrah, cioè la "fortuna regale", essi conservano questo carattere simbolico non solo nelle scene di investitura, ma anche nelle raffigurazioni del tema della vittoria sul nemico, che non è mai reso in modo storico.
Tra le produzioni artistiche di maggiore rilevanza del periodo sasanide troviamo il vasellame di argento figurato, in cui tra le varie forme sono i piatti a occupare il ruolo di maggiore significato per l'orizzonte dinastico, attraverso i temi della caccia reale e del sovrano in trono. Le indagini di tipo archeometrico confermano una produzione sotto diretto controllo della dinastia per il vasellame caratterizzato da immagini di sovrano con corone corrispondenti a quelle note dalla monetazione, che utilizza metallo proveniente da un'unica miniera; il resto della produzione vasta e complessa, differenziata non solo sotto l'aspetto formale e iconografico ma anche sul piano della qualità del metallo, è più difficilmente inquadrabile nell'ambito di fabbricazione, che pur appare comunque condizionato in qualche modo dalla dinastia.
L'esistenza di limitate emissioni di monete d'oro (dīnār), probabilmente di valore celebrativo piuttosto che monetale, non influisce sul monometallismo argenteo che caratterizza la produzione di monete sasanidi, che hanno come unità il drahm di 4 g, mantenuto sino alle ultime coniazioni pressoché invariato nel peso e nel titolo. L'affermazione della rottura con la tradizione ellenistica della monetazione arsacide viene sancita da Ardashir I con l'adozione del profilo a destra del busto regale sul dritto e con l'introduzione dell'altare del fuoco, che assumerà forme diverse nel tempo, come unico motivo sul rovescio. La complessa titolatura del re nelle leggende del periodo protosasanide lascerà via via spazio ad altre informazioni, quali la zecca e l'anno di regno, che divengono comuni nel periodo tardosasanide. La pubblicazione, da poco iniziata, di una Silloge Nummorum Sasanidarum permetterà senza dubbio una comprensione degli aspetti del sistema di produzione monetale ancora oscuri soprattutto per il periodo protosasanide.
La glittica del periodo sasanide, che attesta un uso davvero ampio dei sigilli, tutti a stampo, comprende sia sigilli amministrativi, di grande importanza per la ricostruzione delle strutture dello Stato e della società, sia sigilli appartenenti a singoli individui di ceto più o meno elevato, da quelli di alcuni re, di alto livello artistico, a quelli di cittadini comuni, dalla lavorazione più rapida ed economica. L'influsso della tradizione ellenistico-romana si avverte solo in alcuni dei sigilli di maggior pregio; nella grande maggioranza dei sigilli, al contrario, prevale quell'impostazione più convenzionale che pervade gran parte della produzione artistica di questo periodo. L'archeologia ha contribuito grandemente, grazie ai rilevanti archivi di sigillature portati alla luce dagli scavi, alla conoscenza di questa classe importante di materiali, in cui l'immaginario figurativo della società sasanide trova libera espressione al di fuori dei possibili condizionamenti del potere politico e di quello religioso.
Nel periodo sasanide la produzione ceramica vede progressivamente ridurre le differenze regionali che dall'età del Ferro erano arrivate sino all'epoca arsacide; le classi ceramiche e le tipologie formali tendono a una maggiore uniformità, che suggerisce una produzione più standardizzata. Interessanti sono i fenomeni di imitazione ceramica delle tipologie della metallistica. Grande sviluppo mostra anche la produzione di vasellame di lusso in vetro, particolarmente comune nella regione mesopotamica. Un'altra produzione artigianale di lusso è quella dei tessuti, in particolare la seta, che vede nell'impero sasanide una delle prime aree di fabbricazione esterne alla Cina: le testimonianze figurative trovano riscontro in alcuni rinvenimenti di stoffe sasanidi dall'Asia Centrale e dall'Egitto, in particolare da Antinoe. Oltre che per l'interesse intrinseco, le stoffe sasanidi sono di grande importanza come veicolo di irradiazione di motivi iconografici sasanidi nel Medioevo mediterraneo ed europeo.
Introduzione alla storia e alla cultura dell'impero sasanide:
A. Christensen, L'Iran sous les Sassanides, Copenhague 19442; J. Wiesehöfer, Ancient Persia, London - New York 1996, pp. 151-221; Id., La Persia antica, Bologna 2003.
Ideologia del potere:
G. Gnoli, The Idea of Iran, Rome 1989.
Archeologia e arte del periodo sasanide:
Splendeur des Sassanides. L'empire perse entre Rome et la Chine (224-642) (Catalogo della mostra), Bruxelles 1993.
Temi specifici:
K. Erdmann, Die Kunst Irans zur Zeit der Sasaniden, Berlin 1943; R. Ghirshman, Fouilles de Châpour. Bîchâpour, I-II, Paris 1956-71; Id., Perse. Parthes et Sassanides, Paris 1962; R. Göbl, Sasanidische Numismatik, Braunschweig 1968; A.D.H. Bivar, Catalogue of the Western Asiatic Seals in The British Museum. Stamp Seals, II. The Sassanian Dynasty, London 1969; Sh. Fukai et al., Taq-i Bustan, I-IV, Tokyo 1969-84; R.N. Frye, Sasanian Seals in the Collection of Mohsen Foroughi, London 1971; M.I. Mochiri, Étude de numismatique iranienne sous les Sassanides et Arabe-Sassanides, I-II, Téhéran 1972-77; R.N. Frye (ed.), Sasanian Remains from Qasr-i Abu Nasr. Seals, Sealings and Coins, Cambridge (Mass.) 1973; R. Göbl, Der sasanidische Siegelkanon, Braunschweig 1973; L. Trümpelmann et al., Iranische Felsreliefs, Berlin 1975; R. Göbl, Die Tonbullen vom Tacht-e Suleiman. Ein Beitrag zur spätsasanidischen Sphragistik, Berlin 1976; V.G. Lukonin, Iran, II, Ginevra 1976; D. Thompson, Stucco from Chal Tarkhan-Eshqabad near Rayy, Warminster 1976; Sh. Fukai, Persian Glass, New York - Tokyo - Kyoto 1977; G. Herrmann, The Iranian Revival, Oxford 1977, pp. 73-136; R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Suleiman und Zendan-e Suleiman und Umgebung, Berlin 1977; G. Herrmann et al., Iranische Felsreliefs, Berlin 1977-89; Ch.J. Brunner, Sasanian Stamp Seals in the Metropolitan Museum of Art, New York 1978; Ph. Gignoux, Catalogue des sceaux, camées et bulles sassanides de la Bibliothèque Nationale et du Musée du Louvre, II. Les sceaux et bulles inscrits, Paris 1978; P.O. Harper (ed.), The Royal Hunter. Art of the Sasanian Empire, New York 1978; V.G. Lukonin, Iran v III veke [L'Iran nel III sec.], Moskva 1979; P.O. Harper, Silver Vessels of the Sasanian Period. I. Royal Imagery, New York 1981; Ph. Gignoux - R. Gyselen, Sceaux sassanides de diverses collections privées, Leuven 1982; J. Kröger, Sasanidischer Stuckdekor, Mainz a.Rh. 1982; D. Shepherd, Sasanian Art, in E. Yarshater (ed.), The Cambridge History of Iran, III. 2, The Seleucid, Parthian and Sasanian Periods, Cambridge 1983, pp. 1055-1012; L. Vanden Berghe, Reliefs rupestres de l'Iran ancien, Bruxelles 1984, pp. 55-99, 125-64; D. Sellwood et al., An Introduction to Sasanian Coins, London 1985; D. Whitcomb, Before the Roses and the Nightingales. Excavations at Qasr-i Abu Nasr, Old Shiraz, New York 1985; L. Bier, Sarvistan. A Study in Early Iranian Architecture, London 1986; P.O. Harper, s.v. Art in Iran. V. Sasanian, in EIran, II, 1986, pp. 585-94; D. Huff, s.v. Archaeology. IV. Sasanian, ibid., pp. 302-308; Id., s.v. Architecture. III. Sasanian, ibid., pp. 329-34; B. Marshak, Silberschätze des Orients, Leipzig 1986; R. Boucharlat, Fouilles de Tureng Tepe, I. Les périodes sassanides et islamiques, Paris 1987; Ph. Gignoux - R. Gyselen, Bulles et sceaux sassanides de diverses collections, Paris 1987; K. Trever - V.G. Lukonin, Sasanidskoe serebro [Argenti sasanidi], Moskva 1987; R. Gyselen, La géographie administrative de l'empire sassanide. Les témoignages sigillographiques, Paris 1989; L. Trümpelmann, Zwischen Persepolis und Firuzabad, Mainz a.Rh. 1992; R. Gyselen, Catalogue des sceaux, camées et bulles sassanides de la Bibliothèque Nationale et du Musée du Louvre, I. Collection générale, Paris 1993; M. Azarnoush, The Sasanian Manor House at Hājīabād, Iran, Firenze 1994; R. Gyselen, Sceaux magiques en Iran sassanide, Paris 1995; S. Kambakhsh Fard, Ma῾bad-e Ānāhitā, Kangavār [Il tempio di Anahita, Kangavar], Tehran 1997; M. Martiniani-Reber, Textiles et modes sassanides. Les tissus orientaux conservés au Département des Antiquités Egyptiennes, Paris 1997; A.B. Nikitin, s.v. Sasanide, arte, in EAA, II Suppl. 1971-1994, V, 1997, pp. 168-74; V.S. Curtis et al. (edd.), The Art and Archaeology of Ancient Persia. New Light on the Parthian and Sasanian Empires, London 1998; S.A. Matheson, Persia. An Archaeological Guide, Tehran 20013; M. Abram - R. Gyselen, Sylloge Nummorum Sasanidarum, I. Ardashir I. -Shapur I., Wien 2003; N. Schindel, Sylloge Nummorum Sasanidarum, III. 1-2, Shapur II. - Kawad I., Wien 2004.
di Marco Loreti
Il sito di B., composto da tre tepe, si trova in una zona agricola del Khorasan settentrionale, a 2 km da Dargaz.
Gli scavi, condotti dall'Ente per la Conservazione dei Beni Culturali dell'Iran sotto la direzione di M. Rahbar, sono iniziati nel 1994 dal tepe centrale, luogo di rinvenimento fortuito di alcuni rilievi di stucco sasanidi. Dal tepe meridionale, in corso di scavo dal 2002, è emersa una struttura circolare ritenuta una "torre del silenzio" di epoca sasanide. Alla seconda fase di occupazione del tepe centrale, la principale, è ascrivibile un edificio avente un orientamento tipico delle costruzioni partiche e sasanidi. L'accesso all'edificio, interpretato come tempio, avviene attraverso una sala rettangolare (10,25 × 8,45 m), aperta sul lato est. Al centro della sala (A) sono presenti quattro colonne con basi a tre gradini; in rapporto allo spessore dei fusti, per le colonne è stata ipotizzata un'altezza di 4 m. Le pareti della sala sono decorate da rilievi di stucco, in origine alti 1 m circa, conservatisi per un'altezza di 70-80 cm. I rilievi rappresentano, procedendo da sinistra verso destra, scene di caccia, di battaglia, una cerimonia rituale, una cerimonia di investitura e una scena di banchetto. Nell'angolo nord-ovest è presente una nicchia (2,8 × 1,7 m), con le pareti decorate con stucco a rilievo e recanti cinque iscrizioni in mediopersiano.
Sul lato ovest della sala ci sono due passaggi: il primo permette di accedere a una stanza (B) in cui sono state rinvenute delle cretule di argilla recanti impronte di sigilli; il secondo immette in un corridoio (C). Da quest'ultimo si accede a un ambiente di pianta quadrata (D), ritenuto una sala del fuoco: al centro di esso è stato rinvenuto un altare di gesso, con basamento a tre gradini, fusto e sommità a tre gradini capovolti, ribassata per ospitare il fuoco, che bruciava presumibilmente in un bacino metallico. Dalla sala del fuoco si accede a un ambiente (E) caratterizzato dalla presenza, su tre lati, di casse di forma simile ai sarcofagi di epoca partica, con pareti di mattoni crudi e suddivise ciascuna in tre compartimenti: per esse è stata ipotizzata la funzione di ossuari, sebbene all'interno non siano state trovate ossa. Il corridoio C permette l'accesso a un ambiente aperto sul lato sud, in cui è stato riconosciuto un īwān (F). Un passaggio sul suo lato ovest consente l'accesso a un ambiente circolare (G), che si ritiene adibito ai riti di purificazione. A est dell'īwān è stato rinvenuto un altro ambiente (H), accessibile da sud-est, dalla funzione non ancora identificata.
Sulla base delle iscrizioni e del repertorio iconografico, Rahbar ritiene che l'edificio di B., costruito non lontano dal luogo dove attorno al 425 d.C. il re persiano Bahram V (421-439 d.C.) riportò un'importante vittoria sui nomadi eftaliti, celebri appunto questo evento. Il monumento sembra essere stato distrutto poco tempo dopo la sua costruzione, forse nell'ambito della nuova avanzata degli stessi Eftaliti durante il regno di Peroz (458-484 d.C.), che culminò con la morte del sovrano e il loro dominio sul Khorasan. L'interpretazione proposta sulla base del dato archeologico si trova in disaccordo con le fonti religiose zoroastriane, che sembrano escludere l'immediata vicinanza di ossuari a una sala del fuoco.
G. Azarpay, The Sassanian Complex at Bandian: Palace or Dynastic Shrine. Shorter Notices, in BAsIns, 11 (1997), pp. 193-96; P. Gignoux, Les inscriptions en moyen-perse de Bandian, in StIranica, 27, 2 (1998), pp. 251-58; M. Rahbar, Découverte d'un monument d'époque sassanide à Bandian, Dargaz (Nord Khorassan). Fouilles 1994 et 1995, ibid., pp. 213-50; Id., Le monument sassanide de Bandian, Dargaz: un temple du feu d'après les dernières découvertes 1996-98, ibid., 33 (2004), pp. 7-30; Id., The Discovery of a Tower of Silence of the Sasanian Period at Bandiyan. Some Observations on Dakhma Burials in the Zoroastrian Doctrine, in After Alexander: Central Asia before Islam. Themes in the History and Archaeology of Western Central Asia, Symposium (London, 23-25 June 2004), in c.s.
di Dietrich Huff
Antica capitale distrettuale, situata 20 km a nord-ovest di Kazerun, nella provincia del Fars, in Iran. Secondo la tradizione fu fondata da Shapur I (241-272 d.C.) con il nome di Weh-Shapur, "la buona di Shapur", o Bay-Shapur, "sua maestà Shapur", abbreviato in Shapur nel Medioevo.
Una fortezza presasanide con scala verso il fiume e i ritrovamenti archeologici indicano tuttavia l'esistenza di un'occupazione precedente, nel punto in cui il fiume Shapur, dalla gola rocciosa del Tang-i Chogan, entra nella pianura. Fino a età abbaside fu luogo di coniazione di monete. Istakhri (X sec. d.C.) menziona due importanti templi del fuoco. Ancora descritta da Hamd-Allah Mustawfi come città abitata intorno al 1340 d.C., B. sembra essere stata definitivamente abbandonata poco più tardi. Il sito è stato oggetto di scavi francesi dal 1936 al 1941 e del Servizio Archeologico dell'Iran dal 1968.
La città fortificata si estendeva dalla riva del fiume Shapur per una lunghezza di circa 1,5 km e una larghezza di 800 m. Le rive irregolari del fiume, a ovest, non lasciano vedere alcuna fortificazione; i lati sud-ovest e sud-est sono cinti da un muro rettangolare in crudo, preceduto da un largo fossato. Il lato nord-est confina con le pendici della montagna e con la cittadella. Qui è stato portato alla luce un muro di pietra con bastioni semicircolari distanti tra loro 40 m. La città ha impianto ortogonale; nel punto d'incrocio degli assi principali si trova un monumento con due colonne corinzie, che fu eretto, secondo l'iscrizione incisa su una di esse, nel 266 d.C. in onore di Shapur I dal funzionario Apasay e al quale apparteneva anche una statua del Gran Re. Abitazioni, molto vicine l'una all'altra, soprattutto di età medievale, si trovano al centro della città. Un ampio edificio rettangolare di età medievale, con rocchi di colonne che sembrano più antichi, situato vicino al tratto sud-ovest delle mura, è forse la moschea principale, che, secondo la tradizione, era all'esterno delle mura. Il complesso monumentale di epoca sasanide nell'area nord-ovest della città, che gli scavatori hanno interpretato come palazzo con annesso un tempio del fuoco, è invece da considerare verosimilmente nella sua totalità come uno dei templi del fuoco menzionati da Istakhri.
Un vestibolo rettangolare dinanzi a un īwān costituisce l'ingresso. L'ambiente principale era una sala quadrata di 22 m, coperta da una cupola sorretta da quattro archi e circondata da corridoi, che costituisce il più grande čahār tāq sasanide fino a ora conosciuto. Tra gli ambienti collegati lateralmente, la cosiddetta Cour à Mosaïques e l'Iwan des Mosaïques, rifatto in età medievale, erano ornati da pavimenti musivi in parte figurati. Dall'area della sala a cupola si scendeva, tramite una scala, al cosiddetto "tempio del fuoco di Anahita", una sala a pianta quadrata, circondata da corridoi coperti a volta, con mensole a protome taurina di tipo achemenide, destinate a una copertura di cui non si conosce ancora la natura. Il suo pavimento è situato circa 6 m sotto il livello del piano di campagna, di modo che potesse essere inondato, tramite un canale sotterraneo, con l'acqua del fiume. Presso le mura settentrionali della città è stato isolato e solo in parte messo in luce il cosiddetto Palazzo B o Carcere di Valeriano, con mura di blocchi di pietra squadrata e rilievi figurati.
La tecnica romana impiegata nei rivestimenti murari di alcuni edifici, il monumento a colonne e i mosaici pavimentali confermano le notizie riguardo l'impiego nel Fars di Romani fatti prigionieri da Shapur I. Sul colle roccioso settentrionale, collegato con la città, si trovava la cittadella, sulla cui sommità era verosimilmente un palazzo. I vicini pendii mostrano tracce di cave di pietra e necropoli zoroastriane. All'interno di una grotta di stalattiti, alta nella valle del Tang-i Chogan, è una statua a tutto tondo di Shapur I, alta 8 m circa, scolpita su una colonna naturale di roccia; si tratta forse della grotta che fu preparata come astodān, cioè come ossario del re, morto a B. nel 272 d.C.
Sempre nella valle del Tang-i Chogan si trovano, scolpiti nella roccia, sei rilievi di età sasanide: a sud del fiume una scena di investitura a cavallo di Shapur I, con trionfo su un imperatore romano (rilievo I) e il trionfo di Shapur I sui Romani (rilievo II); a nord del fiume un'altra versione, su cinque registri, del trionfo di Shapur I sui Romani (rilievo III), una scena raffigurante Bahram II che riceve una delegazione di Arabi (rilievo IV), l'investitura a cavallo di Bahram I, poi rilavorata da Narseh (rilievo V), e infine il rilievo, non rifinito e forse in origine rivestito di stucco, raffigurante il trionfo di Shapur II sui cristiani o sui Kushana (rilievo VI).
Bibliografia
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v. CTESIFONTE in L'archeologia del Vicino Oriente. La Mesopotamia seleucide, partica e sasanide
di Jens Kröger
Città situata 342 km a est di Teheran, sulla strada da Teheran a Mashhad, in una regione pianeggiante a sud dei monti Elburz, particolarmente favorevole all'insediamento umano grazie all'abbondanza di corsi d'acqua e canali.
Le tracce più antiche di occupazione sono state localizzate a sud-est della città moderna, nel sito di Tepe Hissar. La D. propriamente detta fu un importante insediamento durante i periodi partico e sasanide. A 200 m circa da Tepe Hissar, in direzione sud-ovest, tra il 1931 e il 1932 E.F. Schmidt mise in luce resti di epoca sasanide; furono rinvenuti un edificio principale e uno secondario, ma le loro reciproche relazioni non furono chiarite, dal momento che gli scavi in quest'area non vennero completati; solo l'edificio principale, per le sue decorazioni in stucco, fu oggetto di indagini più approfondite.
L'edificio principale consiste di una sala a tre navate cui si accedeva da una corte, con adiacente un ambiente quadrato coperto da una cupola. Costruito con mattoni sia crudi sia cotti, l'edificio aveva mura massicce e pavimenti di malta gessosa. La sala a tre navate aveva due file di tre pilastri circolari e due semicolonne; la navata centrale era larga 6 m, le laterali 1,8 m. L'altezza dei pilastri e il profilo delle volte non poterono essere definiti con certezza dagli scavatori. Poco attendibile risulta la ricostruzione proposta dall'architetto F. Kimball, che prende a modello l'edificio di Sarvistan, attribuito da studi più recenti al periodo islamico. Sul lato sud-occidentale della sala era un ambiente longitudinale, che ha restituito frammenti di pittura murale, probabilmente da una scena di caccia. Altri ambienti a nord-est non poterono essere scavati completamente; si è supposto che uno di essi fosse una cucina.
Mentre Schmidt interpretava l'edificio come una struttura palaziale, datata da una moneta di Kavad I (488-531), altri, come K. Schippmann, hanno avanzato l'ipotesi che esso potesse essere un tempio del fuoco. Di grande importanza sono i ritrovamenti relativi alla decorazione originale di stucco, concentrata nella sala a tre navate. Il rivestimento dei pilastri circolari sembra fosse costituito da motivi simmetrici di mezze palmette entro archi o palmette entro triangoli. Gli archivolti e le volte avevano una decorazione continua. Notevole è una serie di pannelli quadrati con decorazione a stampo, con tre diversi motivi: busto femminile entro cornice quadrata; testa di cinghiale entro cerchio perlato; monogramma pahlavi (nišān) entro cerchio. Pannelli rettangolari di dimensioni maggiori raffigurano cervi che si abbeverano. Tali stucchi, di raffinatissima esecuzione, si direbbero meglio inquadrabili nel VI sec. d.C., come suggeriscono i confronti con gli esemplari di Ctesifonte (VI - inizio del VII sec.) e con quelli dalla regione di Rayy-Varamin (VII-VIII sec.). Tuttavia, la decorazione architettonica di D. non subì alcun rinnovamento in periodo omayyade, come accadde invece in alcuni degli edifici della regione di Rayy-Varamin.
L'ipotesi che l'edificio di D. fosse un tempio del fuoco ha trovato poco credito, dal momento che in nessuno degli ambienti è stato rinvenuto un altare del fuoco. Tuttavia, altrettanto poco plausibile è che questo edificio avesse solo una funzione residenziale, per via delle altre numerose costruzioni a esso correlate. Databile al periodo tardosasanide, esso trova corrispondenze formali con altri edifici, quali il complesso adibito al culto del fuoco a Bandiyan, il secondo tempio del fuoco con due sale annesse a Takht-i Sulaiman ed edifici più tardi, come a Chal Tarkhan-Eshqabad e, forse, Tepe Mil. Anche se strutture analoghe furono certamente in uso nel primo periodo islamico con funzione di palazzo, l'esatta destinazione di queste sale con decorazione di stucco di epoca sasanide non è stata ancora pienamente acclarata. Esse potrebbero essere state tanto residenze di grandi proprietari terrieri quanto centri locali per la comunità zoroastriana.
Bibliografia
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di Dietrich Huff
Città e distretto nel Fars, 110 km a sud di Shiraz, il cui nome significa "luogo della vittoria", fondata agli inizi del III sec. d.C. dal primo imperatore sasanide, Ardashir Papakan; questi vi immortalò anche, in due rilievi rupestri nella vicina gola di Tang-i Ab, la sua vittoria sul re partico Artabano V (224-226 d.C.), che gli aveva assicurato il dominio sull'Iran, e la sua presunta investitura da parte del dio Ahura Mazda.
Il nome originario, Ardašīr-Xwarrah, cioè "la gloria di Ardashir", fu abbreviato nell'Alto Medioevo in Gur (ar. Jur), che, avendo anche il significato di "tomba", fu cambiato in F. dal buyide Adud ad-Dawlah (949-983 d.C.). La piana di F., circondata da montagne e attraversata da un fiume ricco di acque (noto nel Medioevo con il nome di Khunayfghan), era originariamente coperta da una palude, prosciugata, come risulta dalle cronache medievali e dalle indagini archeologiche, dallo stesso Ardashir, mediante un sistema di drenaggio che consentiva di utilizzare l'acqua per irrigare una valle vicina.
Con la sua pianta circolare dalla perfetta geometria, descritta soprattutto dai cronisti medievali, F. fornì probabilmente il modello di un impianto urbanistico destinato a incontrare particolare fortuna agli inizi dell'epoca islamica, come testimoniano, ad esempio, la vicina città di Darabgird (inizi VIII sec.), originariamente di pianta triangolare, la Baghdad del califfo Mansur e la fatimide Sabra, presso Kairouan. Essa ha un diametro di quasi 2 km; 4 raggi principali, perfettamente ortogonali, e 16 secondari ne ripartiscono il territorio in 20 settori, a loro volta suddivisi da vie circolari concentriche. L'impianto difensivo consiste in un muro di terra cruda con quattro porte, circondato da un fossato e da un vallo più esterno. Gli edifici monumentali, in muratura di pietra, erano raggruppati nella cerchia più interna, tutte le altre costruzioni erano in crudo.
Esattamente nel centro della città si trova il nucleo diruto di una imponente torre quadrata di pietra (9 × 9 m alla base, 30 m ca. di alt.), in cui sono ancora riconoscibili tracce della volta della scala, andata perduta insieme alle pareti esterne. Chiamata Tirbal e già erroneamente interpretata come ziqqurrat, la costruzione è essenzialmente un edificio con significato cosmologico, ma non si esclude una funzione anche militare e di stazione per misurazioni tecniche. A nord-est della torre si trovano le rovine, in muratura di pietra tagliata, del cosiddetto Takht-i Nishin, con ambiente centrale a pianta quadrata con quattro archi laterali che sorreggevano una cupola di mattoni del diametro di 14,5 m. Questa costruzione rappresenta forse l'esempio più antico di čahār tāq sasanide. In ogni caso essa non era, come ipotizzato da K. Erdmann e da altri studiosi, un padiglione aperto, ma una struttura cubica dotata di quattro porte chiudibili, precedute da altrettanti atri o anticamere sporgenti dal blocco dell'edificio.
L'impianto concentrico-radiale si sviluppava anche oltre le mura della città, come testimoniano i confini di campi, vie, canali e resti di mura. A una distanza di 4 km circa dal centro cittadino, un muro dal tracciato poligonale (20 angoli) circondava il territorio municipale. Inoltre, raggi principali e secondari giungevano fino ai piedi delle montagne. Lungo l'asse nord-sud passava il principale canale di drenaggio; su quello orientale, in corrispondenza del punto di accesso orientale della piana, si trovava una fortificazione circolare in crudo; all'estremità di quello occidentale era un impianto a terrazza con vasca circolare e scala esterna.
Il primo palazzo di Ardashir, denominato Qala-i Dukhtar, sorge su uno sperone roccioso difficilmente accessibile, sovrastante la gola di Tang-i Ab, attraversata dal fiume Khunayfghan, principale via d'accesso alla pianura. Difeso da diverse cerchie di mura, il complesso si articola su tre terrazze, collegate fra loro da una torre quadrata con scalinate, simile a quella che sorge nel centro della città. Dalla corte inferiore, una scala conduce alla corte intermedia, di rappresentanza, circondata da sale e dotata di un podio, e da qui alla terrazza superiore che ospita il palazzo propriamente detto. Questo si compone di un īwān con sale laterali che precedono una grande torre a pianta circolare, comprendente la sala del trono, a pianta quadrata, vani laterali e ambienti residenziali al piano superiore. Il palazzo, realizzato con tecnica costruttiva di straordinaria audacia (se ne conserva ancora la cupola ampia 14 m), ebbe ben presto dei cedimenti, solo in parte risanati, che causarono l'abbandono di intere parti del complesso. In conseguenza di ciò, ma anche per celebrare la vittoria sugli Arsacidi, Ardashir costruì un secondo e più vasto palazzo, identificabile con il complesso di edifici situato allo sbocco della gola di Tang-i Ab, erroneamente denominato ātešgāh, "tempio del fuoco". L'atrio, che si affaccia su un lago di acqua sorgiva circondato da un muro, è cinto a sua volta da un muro e precede immediatamente il gruppo costituito dal grande īwān con quattro īwān laterali e da tre ambienti a cupola. Il trono si trovava in un ambiente al secondo piano, con finestre per le apparizioni del sovrano sia sull'īwān sia sulla sala centrale a cupola. Gli ambienti residenziali erano situati al terzo piano. I due palazzi, soprattutto il secondo per il migliore stato di conservazione, costituiscono una preziosa testimonianza dell'architettura di rappresentanza di epoca sasanide.
I due rilievi rupestri di Ardashir sono scolpiti nella parete rocciosa occidentale della gola di Tang-i Ab, tra il grande palazzo e Qala-i Dukhtar. Nel rilievo di maggiori dimensioni, il meridionale, è rappresentato, in tre scene di combattimento tra cavalieri, il trionfo dei Sasanidi sugli Arsacidi. L'identificazione dei personaggi è possibile grazie alla presenza di stemmi del tipo tamgha sugli armamenti. Il rilievo settentrionale, di dimensioni più contenute, mostra l'investitura di Ardashir da parte di Ahura Mazda. Le parti marginali di entrambi i rilievi sono rimaste incompiute. Nel letto del fiume, in prossimità del rilievo minore, si trovano i resti di un ponte in muratura di tipo romano, di pietra squadrata, che, come indicato da un'iscrizione in pahlavi incisa nella parete rocciosa, non fu costruito da Ardashir, ma da Mihr-Narseh, il gran visir degli imperatori Yazdgird I, Bahram Gur e Yazdgird II, nella prima metà del V secolo. Altri due ponti attraversavano il fiume, a metà strada tra il palazzo maggiore e la città circolare e davanti alla porta occidentale di quest'ultima.
Con l'affermazione definitiva della dinastia sasanide, Ardašīr-Xwarrah retrocesse in secondo piano, ma, con le sue fortificazioni possenti, la città svolse un ruolo importante durante la conquista araba, continuando a designare il distretto amministrativo medievale; essa fu abbandonata probabilmente soltanto dopo il XIV secolo.
R. Ghirshman, Firouzabad, in BIFAO, 46 (1947), pp. 1-28; D. Huff, Zur Rekonstruktion des Turmes von Firuzabad, in IstMitt, 19-20 (1969-70), pp. 319-38; Id., Qal῾a-ye Dukhtar bei Firuzabad, in AMI, 4 (1971), pp. 127-71; Id., Der Takht-i Nishin in Firuzabad, in AA, 1972, pp. 517-40; D. Huff - Ph. Gignoux, Ausgrabungen auf Qal῾a-ye Dukhtar bei Firuzabad 1976, in AMI, 11 (1978), pp. 117-50; D. Huff, s.v. Fīrūzābād, in EIran, IX, 1999, pp. 633-36.
di Fabrizio Sinisi
Sito ubicato all'interno di una valle chiusa tra le montagne, circa 60 km a sud di Darab, nel Fars sud-orientale.
Nella prima campagna di scavo, diretta da M. Azarnoush nell'inverno 1978, la ricognizione della zona circostante ha messo in luce un abitato e il complesso delle sue mura difensive, che domina il passaggio tra le due alture di Siyah Kuh A e B, pochi chilometri a nord-ovest di H. Questo insediamento ha restituito diversi čahār tāq in corso di scavo ‒ in uno dei quali è stato anche rinvenuto un interessante oggetto rituale che attesterebbe pratiche relative al culto di Anahita ‒ e i resti del sistema di irrigazione e approvvigionamento idrico.
Il principale edificio sinora scavato, tuttavia, è un maniero rurale (80 × 70 m ca.), la cui pianta è stata ricostruita nel suo insieme, nonostante la parziale distruzione in seguito ai lavori di livellamento che hanno portato al rinvenimento del complesso nell'estate del 1977. L'impianto generale trova paralleli in altri "palazzi" di epoca sasanide e si articola grosso modo in tre sezioni, interpretate rispettivamente come destinate agli usi ufficiali, agli alloggi privati e alla pratica cultuale. Alla prima, divisibile in due sottosezioni e disposta assialmente lungo l'intero lato nord dell'edificio, si accede da est direttamente attraverso l'entrata principale, consistente in cinque aperture, quella centrale più grande. Queste immettono in un'ampia corte con nicchie sui muri laterali, mentre sul lato opposto all'entrata un portico con due colonne funge da ingresso a un īwān. Tanto l'īwān quanto la corte che lo precede sono circondati da corridoi, che allo stesso tempo separano e mettono in comunicazione questa sezione del palazzo con le altre. Lo schema corte aperta-īwān è ripetuto nella seconda sottosezione di questo lato dell'edificio, che un corridoio separa dalla prima e alla quale si accede solo lateralmente. Sembra quindi accettabile la proposta interpretativa secondo la quale si tratterebbe rispettivamente delle sale di udienza pubblica e privata del signore del luogo. Sempre sul lato nord si trova una sala per i banchetti, della quale però l'interruzione dei lavori non ha permesso di rintracciare la connessione con il corpo dell'edificio.
I locali immediatamente a sud della corte principale, che comprendono anche piccole corti interne, formano una zona destinata ad alloggiamenti. Allo stato delle indagini, alcuni di essi appaiono sprovvisti di ingresso indipendente e comunque connessi alla sezione delle udienze pubbliche, il che fa pensare che fossero principalmente riservati agli ospiti di rango o tutt'al più al personale. Sul lato ovest invece, tra la sezione delle udienze private e alcuni locali che con ogni probabilità rappresentano la vera e propria area residenziale del palazzo (non ancora completamente scavata), si trovano varie unità interconnesse, che alcune caratteristiche fanno ipotizzare destinate a pratiche cultuali. In una di esse, all'interno delle nicchie che decorano le pareti, sono stati rinvenuti i resti di piccole figure a rilievo di ispirazione dionisiaca e di statue femminili a tutto tondo di stucco, tutte identiche; sono inoltre presenti alcune statuette femminili la cui iconografia sarebbe riconducibile, secondo Azarnoush, alla dea della fertilità, Anahita. Una stanza adiacente a quest'ultima presenta una pianta cruciforme, che l'avvicina a esempi di architettura religiosa iranica relativa al culto del fuoco, mentre in un ristretto spazio limitrofo è stata rinvenuta, protetta da un piccolo bordo di pietre, un'apertura circolare (diam. 48 cm) praticata nel pavimento, che anche qui, come nella sala con nicchie, è ricoperto da uno strato di intonaco. Tali caratteristiche, che sembrerebbero da una parte indicare la possibilità del contatto di queste superfici con le acque dei rituali sacri ad Anahita e dall'altra si legano al culto del fuoco, sono alla base dell'attribuzione di questa parte del complesso alle pratiche religiose private del signore e della sua famiglia.
Assai significativi sono anche i resti scultorei e pittorici rinvenuti in vari locali dell'edificio. Mentre i secondi, provenienti dalle pitture parietali dell'īwān principale (ma raffigurazioni pittoriche decoravano anche le pareti dell'altro īwān, esplorato solo in parte) ci restituiscono parte di una scena di caccia e due busti maschili entro tondi, tra i primi ‒ tutti di stucco ‒ spiccano, in aggiunta alle già citate figure femminili, i busti maschili forse collocati sulla sommità di alcune semicolonne. Oltre a due personaggi, posti all'entrata dell'īwān principale, che Azarnoush propone di identificare con il signore locale e il suo erede, particolarmente importanti sono due busti più piccoli rinvenuti nella sala con nicchie, in cui si possono riconoscere dalla corona due raffigurazioni di Shapur II (309-379 d.C.), mentre un terzo busto, dall'identificazione più problematica, potrebbe ritrarre Bahram II Kushanshah.
Nell'interpretazione di Azarnoush questi elementi forniscono un quadro cronologico ben preciso, rivelandosi tanto più degni di rilievo poiché la fase di occupazione del palazzo appare di durata assai breve: così sembra decisamente implicare il ritrovamento, nell'area residenziale nell'angolo sud-ovest del complesso, di alcuni focolari, dei resti di una fornace di terra con frammenti di metallo all'interno, nonché di tracce di pigmento preparato per l'uso, lasciati rispettivamente da un fabbro e da un pittore incaricato probabilmente della decorazione degli interni. Ciò, combinato con altri fattori, in particolare l'assenza totale di oggetti relativi alla vita quotidiana, indicherebbe un abbandono repentino prima del completamento dei lavori, che troverebbe tra l'altro conferma in indicazioni analoghe tratte dall'esame dell'insediamento urbano poco lontano. Gli indizi forniti dai busti regali sembrerebbero quindi inserire costruzione e abbandono del complesso in un contesto cronologico di IV sec. d.C., coincidente grosso modo con il regno di Shapur II; va considerata però la possibilità che i busti non ritraggano il sovrano regnante al momento dell'edificazione del palazzo ma uno dei suoi predecessori, il che implicherebbe un abbassamento della datazione del sito nel suo insieme.
Bibliografia
M. Azarnoush, The Sasanian Manor House at Hājīabād, Iran, Firenze 1994; rec. di R. Boucharlat, in ΤοπΟΙ, 5, 2 (1995), pp. 659-62; Ph. Gignoux, in StIranica, 24, 1 (1995), pp. 445-49; D. Huff, in Mesopotamia, 30 (1995), pp. 352-63; P. Callieri, in EastWest, 46, 3-4 (1996), pp. 504-507.
di Fabrizio Sinisi
Sull'oasi di M., formatasi intorno al delta interno del fiume Murghab, è incentrata la regione dell'antica Margiana (Marguš nell'iscrizione di Dario I a Bisutun). Le tracce più antiche di presenza umana risalgono alla fine del primo quarto del II millennio a.C.; la regione fu poi satrapia achemenide e successivamente fu inclusa negli imperi seleucide, partico e sasanide avvicendatisi in Iran.
Le esplorazioni archeologiche presero avvio già agli inizi del XX secolo, ma solo dal 1946, con i lavori della Missione Archeologica Multidisciplinare del Turkmenistan Meridionale (JuTAKE), diretta da M.E. Masson, assunsero carattere sistematico. Dopo un'interruzione di vari anni la JuTAKE ha ripreso le sue attività nel 1986, mentre una missione congiunta anglo-russo-turkmena lavora a M. dal 1992. Una missione congiunta italo-russo-turkmena ha inoltre elaborato, negli anni Novanta del Novecento, una mappa archeologica dell'oasi di M.
Di notevole importanza, per l'alto livello dell'architettura e della cultura materiale da esse testimoniato, sono le evidenze relative all'età del Bronzo, rinvenute in antiche, piccole oasi a nord di quella attuale; in ciascuna di esse una costellazione di siti minori si dispone attorno a un insediamento principale, il più noto dei quali è Togolok. Intorno al 900 a.C. gli insediamenti, con espressioni assai più modeste di architettura e cultura materiale, si spostano verso sud, per motivi legati probabilmente a trasformazioni ambientali e del tessuto etnico. Il maggiore insediamento dell'oasi nella prima età del Ferro è Yaz Depe. Un nuovo spostamento verso sud si verifica con l'arrivo dei Greco-Macedoni; da questo momento e per molti secoli il centro dell'oasi diviene M., odierna Mary. La zona più antica del sito, circa 30 km a est della città moderna, è Erk Kala, fondata in epoca achemenide; da essa si sviluppò Gjaur Kala, l'Antiochia Margiana, la cui fondazione è attribuita al sovrano seleucide Antioco I. Immediatamente a ovest di Gjaur Kala si trova Sultan Kala, insediamento di periodo selgiuchide come anche Shaim Kala, circa 1 km a est, mentre Abdullah Khan Kala, poco più a sud, è di epoca timuride.
Erk Kala copre una superficie di circa 20 ha; la cinta muraria (alt. mass. conservata 20 m ca.), con tracciato circolare, era originariamente circondata da un fossato. All'interno si distinguono chiaramente un'acropoli nella parte meridionale e una zona bassa a nord. Con la costruzione di Gjaur Kala, che si estende per circa 340 ha a sud di Erk Kala, la vecchia città divenne di fatto la cittadella della nuova. La porzione settentrionale delle mura preesistenti venne inclusa in una nuova, imponente cinta quadrangolare, con ingressi al centro di ciascuno dei quattro lati, in corrispondenza dei principali assi di comunicazione interni. Di mura difensive furono circondate, secondo le fonti, l'intera oasi e l'area agricola della città. Il complesso formato da Erk Kala e Gjaur Kala presenta livelli di occupazione ininterrotta fino alla prima epoca islamica, con una ricca messe di testimonianze riconducibili ad ambiti diversi: zoroastriano, buddhista, ebraico, cristiano e infine musulmano. Il quadro complessivo è quello della vita di un grande centro urbano; vi sono attestati, fra l'altro, statuette di culto di varia tipologia (tra le quali spicca la cd. Grande Dea della Margiana), ostraka iscritti in varie lingue medio-iraniche, il celebre Vaso di Merv, ma anche matrici per lo stampo di gioielli e frammenti di tessuto, nonché un'ingente quantità di monete, principalmente bronzi coniati nella locale zecca, che hanno permesso di tracciare una sequenza cronologica precisa.
Fra le strutture architettoniche indagate vanno menzionati, nella parte meridionale di Erk Kala, un edificio monumentale con sala quadrata centrale e corridoi sui lati e, nell'angolo sud-orientale di Gjaur Kala, un complesso buddhista del V-VI sec. d.C. con stūpa e vihāra, all'interno del quale è stato rinvenuto il suddetto Vaso di Merv. Un secondo e pressoché coevo stūpa si trova a est, al di fuori delle mura. Altra struttura di natura presumibilmente religiosa è un edificio ovale di tarda epoca sasanide, sito nel settore nord-orientale di Gjaur Kala, di cui è stata suggerita una lettura (assai dubbia) come monastero cristiano. Nella stessa zona alcuni resti di epoca sasanide testimonierebbero la presenza di un distretto artigianale, mentre all'esterno della città è stata esplorata una necropoli che ha restituito, tra l'altro, diverse tombe ascrivibili con sicurezza ad ambito cristiano. I livelli di epoca islamica nella zona centrale e occidentale di Gjaur Kala comprendono una moschea e, a essa adiacente, un'area con alcune sepolture, entrambe datate tra IX/X e XII secolo.
Gli scavi più recenti hanno invece portato alla luce, sempre nel quadrante nord-orientale di Gjaur Kala, aree abitative di periodo sasanide, costituite da piccole unità inserite in un fitto reticolo di strade interne: lo schema di fondo di queste strutture, datate al IV-V sec. d.C., è di norma articolato in due settori separati, uno residenziale, in certi casi provvisto di corte interna, l'altro adibito allo stoccaggio di derrate in grandi giare. Un altro grande complesso abitativo di tarda epoca sasanide (VI-VII sec.) è stato individuato nella parte orientale di Erk Kala in corrispondenza delle mura: l'impianto differisce per la mancanza di locali di deposito, mentre gli ambienti interni appaiono tutti in qualche modo comunicanti. Al centro di Gjaur Kala è stata invece rinvenuta una struttura industriale del IX-X secolo per la produzione dell'acciaio.
Obiettivo di indagine specifica sono state le fortificazioni, in parte già esaminate dalle missioni sovietiche. I lavori nei pressi del bastione dell'angolo sud-ovest della cinta di Gjaur Kala hanno evidenziato diverse fasi, che si succedono dal periodo ellenistico a quello sasanide: sotto Antioco I il muro (alt. 10 m ca.; largh. alla base 6 m, alla sommità 1,5 m) include due ordini di spalti sovrapposti, quello inferiore parallelo a una successione di ambienti inseriti nella struttura, che si aprono con delle arcate verso il lato interno della cinta. Ai primi rimaneggiamenti di epoca seleucide (riempimento dei locali e abbandono del camminamento inferiore) segue un intervento nel primo periodo partico, che vede l'allargamento del muro fino a uno spessore di circa 10 m; alla sommità ‒ ad almeno 12 m di altezza ‒ si trova un solo camminamento. Un nuovo muro viene poi costruito davanti al precedente, probabilmente nel I-II sec. d.C., con due gallerie interne sovrapposte, riempite in due fasi successive in epoca sasanide. Anche i bastioni, di pianta semicircolare e non quadrangolare come precedentemente supposto, mostrano una sequenza simile di interventi successivi, forse prolungatisi fino alla primissima età islamica.
Z.I. Usmanova, Erk-kala, in TJuTAKE, 21 (1963), pp. 20-94; M.I. Filanovič, Gjaur-kala, ibid., 25 (1974), pp. 15-139; G.A. Košelenko (ed.), Drevnejšie gosudarstva Kavkaza i Srednej Azii [I più antichi stati del Caucaso e dell'Asia Centrale], Moskva 1985; Id., s.v. Margiana, in EAA, II Suppl. 1971-1994, III, 1995, pp. 540-43; G. Herrmann - St.J. Simpson - K. Kurbansakhatov, The International Merv Project. Preliminary Report on the Ninth Year (2000), in Iran, 39 (2001), pp. 9-52 (con bibl.); T. Williams et al., The Ancient Merv Project, Turkmenistan. Preliminary Report on the First Season (2001), ibid., 40 (2002), pp. 15-41.
di Fabrizio Sinisi
Poco prima di raggiungere la località di Q.-i Sh., a 30 km dal confine iraniano con l'Iraq, sulla strada Kirmanshah-Baghdad, si trovano le rovine di un vasto complesso, la cui edificazione è generalmente attribuita a Khusraw II (590-628). Le due costruzioni principali, conservatesi fino alla guerra Iran-Iraq, che ha investito direttamente il sito causandone la quasi completa distruzione, sono conosciute con i nomi di Imarat-i Khusraw e Chahar Qapu. Una terza, Haush Quri, a pochi chilometri di distanza, non è mai stata seriamente esplorata dopo la visita di J. de Morgan alla fine del XIX secolo.
L'Imarat-i Khusraw, oltre che da de Morgan (che già lo aveva trovato in rovina), fu esaminato da G. Bell, la quale nel 1913-14 ne ricostruì la pianta, ricorrendo però largamente ad analogie tratte dal palazzo abbaside di Ukhaidir in Iraq. Nel 1938 O. Reuther intervenne a sua volta sui materiali della Bell, rielaborandoli in uno schema oggi radicalmente contestato, anche se la situazione attuale del sito non permette una seria impostazione di ipotesi alternative. In base alla ricostruzione di Reuther il palazzo sorge su un'enorme piattaforma artificiale (285 × 91 m; alt. 8 m), orientata sull'asse est-ovest, alla quale danno accesso doppie rampe di scale convergenti su tre dei suoi lati. Attraverso l'entrata principale, sul lato est, si accede a una grande corte ‒ un vero e proprio parco ‒ all'interno della quale si trova il palazzo. Questo si apre con un īwān colonnato sui lati che precede una sala rettangolare, coperta originariamente da una volta a botte centrale con volte simili sui lati.
In successione sullo stesso asse, sul quale è centrata la pianta simmetrica dell'intero edificio, si trova poi una corte porticata di circa 27 m di lato, con un secondo īwān opposto all'entrata. Ai lati di quest'ultimo sono disposte simmetricamente alcune stanze, dalle quali altri due īwān si aprono verso ovest su un'ulteriore grande corte rettangolare, divisa in due parti da un muro con portale sull'asse. L'intera corte è circondata da un corridoio che permette l'accesso agli edifici laterali, ognuno provvisto di corte interna, īwān e locali secondari. Questi ambienti hanno un prolungamento, su un livello del terreno più basso, in una serie di strutture di dimensioni variabili adibite a usi diversi: sul lato nord, e forse anche su quello ovest, locali destinati probabilmente al personale e, sul lato sud, asimmetricamente disposte, due grandi corti che fungevano da spazi aperti per le scuderie di palazzo. Le caratteristiche fondamentali di questo tipo di impianto si ritroverebbero nel palazzo di Haush Quri: grande terrazzamento artificiale con parco all'interno, palazzo con sala centrale rettangolare preceduta dall'īwān di ingresso e corte sull'asse, in uno schema di fondo che si ripete anche nei locali secondari.
Sulla destinazione del Chahar Qapu gli studiosi sono tuttora divisi: i contrari all'interpretazione come palazzo, pur sottolineando la presenza in esso di elementi che richiamano l'architettura dei čahār tāq, rimangono comunque incerti se attribuire un'eventuale funzione religiosa all'intero complesso o solo alla costruzione principale. Questa è costituita da una sala quadrata di circa 16 m di lato all'interno, con muri molto spessi che sostenevano una cupola, di ben 18 m di diametro, poggiante su trombe angolari. In ognuno dei quattro lati si apre un ingresso con arco a tutto sesto, sormontato a sua volta da una piccola apertura di forma analoga. L'esistenza stessa di un possibile indizio sulla sua natura di tempio del fuoco, un corridoio esterno di cui rimarrebbe traccia nei resti di un muro tutt'intorno alla costruzione, è stata anch'essa a lungo dibattuta. In realtà l'edificio è inserito in una struttura più vasta (ca. 155 × 95 m), di cui occupa il lato occidentale. La parte anteriore di tale complesso, sul lato est, è centrata su una lunga sala rettangolare con ai lati, disposte simmetricamente, unità secondarie circondate da ambienti più piccoli. Dalla sala rettangolare si raggiunge, attraverso una struttura di ingresso, una larga corte interna da cui si accede alla sala coperta dalla grande cupola. Tutt'intorno alla corte sono disposti locali di dimensioni diverse, presenti anche sui due lati della sala quadrata, dalla quale li separa il corridoio che la circonda, i cui resti sono definitivamente emersi in tempi relativamente recenti grazie a lavori di restauro. La sala quadrata risulta quindi non più isolata, ma connessa con il resto del complesso su tutti i suoi lati, analogamente a strutture palaziali quali quella di Ukhaidir; se a ciò si aggiunge l'assenza nelle fonti storiche di qualsiasi riferimento a un tempio del fuoco presso Q.-i Sh. delle dimensioni del Chahar Qapu (che sarebbe stato il più grande edificio di questo tipo tra quelli pervenuti fino a noi) l'interpretazione "templare" della struttura diviene in effetti assai più problematica.
O. Reuther, Sāsānian Architecture. A History, in A.U. Pope - Ph. Ackerman (edd.), A Survey of Persian Art from Prehistoric Times to the Present, London - New York 1938, pp. 493-578; K. Schippmann, Die iranischen Feuerheiligtümer, Berlin 1971, pp. 282-91; W. Kleiss, Bemerkungen zu den Chahar Taqs (Vierbogenbauten) von Qasr-i Shirin und Izadkhast, in AMI, n.s. 7 (1974), pp. 197-202; J. Schmidt, Qaṣr-i Šīrīn. Feuertempel oder Palast?, in BaM, 9 (1978), pp. 39-47; L. Bier, The Sasanian Palaces and their Influence in Early Islam, in ArsOr, 23 (1993), pp. 57-66.
di Fabrizio Sinisi
A 3 km circa dalla località omonima nell'Azerbaigian iraniano, su una piccola altura prodotta dai depositi calcarei di una sorgente d'acqua, sorge il sito di T.-i S., da identificare forse con l'antica Šīz.
Sebbene vi siano state rinvenute tracce di occupazione dal periodo achemenide al XIII sec. d.C., la sua fase più importante, conclusasi con la distruzione a opera dell'imperatore bizantino Eraclio durante la sua campagna persiana, è sicuramente quella sasanide; all'epoca, qui si trovava la sede dell'Ādur Gušnasp, il Fuoco dei Re e dei Guerrieri, il secondo nella gerarchia dei fuochi sacri zoroastriani. Una spessa cinta muraria di pietra di circa 15 m di altezza e fornita di 38 torri semicircolari, costruita seguendo l'andamento del rilievo, protegge le strutture all'interno, alle quali si accede per mezzo di due entrate, a nord e a sud.
Dal 1959 al 1970 una missione del Deutsches Archäologisches Institut diretta da R. Naumann ha esplorato una zona a nord del piccolo lago formato dalla sorgente, all'interno di una ulteriore recinzione di muratura che delimita l'area occupata dal complesso vero e proprio. Procedendo sull'asse che collega l'entrata settentrionale e il lago, una piccola sala dà accesso a una grande corte interna con sale su tre lati. Sul suo versante meridionale un īwān conduce a un corridoio che circonda un'ampia sala quadrata (7,65 m di lato), il čahār tāq principale del complesso sacro. Stessa pianta, sprovvista però di corridoio, si ritrova in un čahār tāq attiguo di dimensioni minori ‒ che un passaggio mette in comunicazione con il lato est del corridoio attorno al čahār tāq principale ‒ con al centro una bassa vasca di pianta quadrata, che Naumann ritiene adibita alla conservazione del fuoco permanente.
Sul lato sud del corridoio si apre un īwān di 18 × 9 m circa, che affaccia direttamente all'esterno, verso il lago, mentre il čahār tāq minore si inserisce in un insieme di ambienti interconnessi che occupa l'angolo sud-orientale dell'edificio. Tra questi spiccano due stanze identiche dalla pianta a doppia croce che, in base ai fori per le scaffalature rimasti nelle pareti delle nicchie, si pensa potessero costituire la tesoreria del tempio. L'adiacente sezione nord-orientale del complesso è costituita da due unità: la prima, immediatamente sulla sinistra della grande corte, è un'altra sala che la pianta cruciforme, un altare e resti di canalizzazioni indicano adibita al culto dell'acqua. La seconda, più articolata, è costituita da una corte interna attorno alla quale sono disposti a spirale quattro lunghi corridoi non comunicanti tra loro, forse locali per la custodia dei materiali relativi al culto. Alcuni passaggi attraverso questi corridoi collegano la corte con la sala con altare e quindi con la grande corte d'ingresso nonché, indirettamente, con la sala centrale per l'esposizione del fuoco sacro. Da segnalare sono le 234 cretule di argilla di tardo periodo sasanide, uno dei maggiori ritrovamenti archeologicamente contestualizzabili di tale classe di materiali, rinvenute in uno strato di ceneri prodotte da un incendio in un locale nei pressi dell'entrata dell'edificio.
Gli scavi hanno interessato anche la parte occidentale del complesso, forse il palazzo utilizzato dal sovrano nel corso dei suoi pellegrinaggi annuali al santuario, separata dal tempio mediante un lungo corridoio. Dallo spazio aperto antistante il lago si succedono in direzione sud-nord, precedute da sei pilastri rettangolari, due sale rettangolari a tre navate delimitate da due file di colonne, quadrangolari nel primo caso e circolari nel secondo. Sull'asse si trova poi un locale con pianta a doppia croce, che in parte si restringe verso il lato nord, e un altro čahār tāq con la base di un altare al centro; in tutta quest'area sono stati rinvenuti diversi oggetti legati alle pratiche cultuali, probabilmente appartenenti a una successiva fase di occupazione di questa sezione. A nord e a ovest, fino a raggiungere la recinzione interna, sono presenti vari locali di dimensioni simili, mentre a sud-ovest, all'esterno di questo complesso, sono stati riportati alla luce i resti di un grande īwān fiancheggiato a nord e a sud da due sale rettangolari con pavimento a quota inferiore, dalla probabile funzione residenziale; sul fondo dell'īwān sono due sale rettangolari di pianta a croce con quadrato inscritto, datate alla ripresa del XIII secolo. Dello stesso periodo è una recinzione quadrangolare in muratura che circonda l'intero specchio d'acqua.
K. Schippmann, Die iranischen Feuerheiligtümer, Berlin 1971, pp. 309-57; R. Naumann, Die Ruinen von Tacht-e Sulaiman und Zendan-e Suleiman und Umgebung, Berlin 1977 (con bibl. ult.).
di Fabrizio Sinisi
T.-i B. si trova sulla strada che connette Teheran e Baghdad, 11 km a nord-ovest di Kirmanshah, nel punto in cui una propaggine della parete rocciosa dello Zard Kuh si abbassa sulla piana percorsa dal Kara Su.
Tra le vestigia di epoca sasanide giunte fino a noi, particolarmente importanti sono due ambienti rupestri e il vicino rilievo di Ardashir II. Giardini e un laghetto sorgivo ancora visibili nell'area immediatamente antistante erano con ogni probabilità parte di un complesso più vasto, che includeva anche uno dei famosi "paradisi" sasanidi, di cui sono rimaste significative tracce sul terreno. Lo specchio d'acqua, la cui dislocazione è stata modificata da interventi di epoca Qajar (1794-1925) e da alcuni lavori negli anni Settanta del XX secolo, lambiva originariamente l'estremità orientale della parete rocciosa, punto in cui era posto il rilievo di Ardashir II; in esso era raffigurata una tipica scena di investitura, con il re, al centro, che riceve il diadema da Ahura Mazda mentre un nemico giace ai loro piedi. A sinistra, dietro al sovrano, compare il dio Mithra, identificabile dal cospicuo nimbo radiato, in piedi su un fiore di loto mentre tiene il barsom (fascio di ramoscelli usato nel culto zoroastriano) con entrambe le mani. La forma delle corone portate dai personaggi, elemento fondamentale per l'identificazione, ha fatto anche ipotizzare che la figura sulla destra possa rappresentare non Ahura Mazda ma Shapur II, predecessore di Ardashir II. Le tre figure sono ritratte frontalmente, con i piedi di profilo, anche se i volti, qui come nella grotta piccola e nella figura equestre di quella grande, sono resi di tre quarti.
Poco distanti dal rilievo si trovano i due ambienti rupestri, di fatto veri e propri īwān ricavati nella roccia, che si aprono all'esterno con archi a tutto sesto. Quello più piccolo contiene, incisa sul fondo, una sola raffigurazione nella quale sono ritratti, uno di fronte all'altro e distinguibili solo dalle corone, Shapur II e Shapur III. I nomi dei due sovrani appaiono anche nelle due brevi iscrizioni in pahlavi incise accanto alle figure. Immediatamente a sinistra si trova la grotta grande, provvista di una facciata esterna monumentale, con sette grandi merli a gradoni che sovrastano due figure di Nike offerenti in volo. Sulla sommità dell'arco è raffigurato un crescente lunare diademato, mentre tutto il bordo è coronato da una decorazione che termina anch'essa in guisa di due vitte di diadema. Ai lati, in basso, sono scolpiti dei pilastri ornati da motivi vegetali. La parete di fondo è divisa in due registri con figure scolpite quasi a tutto tondo; il timpano, alto circa 5 m, riproduce l'investitura del sovrano, che appare nel registro inferiore, di circa 4 m di altezza, raffigurato in armatura a cavallo. Nella scena dell'investitura, il re (variamente identificato in base alla corona con Khusraw II o altro sovrano tardosasanide) è al centro, con la spada nella sinistra, mentre riceve il diadema da Ahura Mazda; alle sue spalle, Anahita, con un piccolo vaso nella sinistra, offre anch'ella un diadema con la destra. I tre personaggi sono frontali, il re leggermente più grande; alle caratteristiche tipiche di queste raffigurazioni (assenza di tratti individuali ed enfasi sull'apparato simbolico fornito da attributi e decorazione, ricca e curata fin nei minimi dettagli) si accostano un'accentuata plasticità e una volumetria sconosciute ai rilievi più antichi. La figura equestre più in basso, inserita in una sorta di cornice di colonne e motivi fitomorfi, è ritratta di lato, ha il capo circondato da una grande aureola ed è rivestita di una cotta di maglia che lascia scoperti solo gli occhi; con la mano sinistra tiene lo scudo, mentre il braccio destro con la lancia è teso all'indietro.
Vi è stata vista una rappresentazione della fravaši del sovrano piuttosto che un suo ritratto, ma in realtà l'interpretazione è controversa e in qualche modo legata anche alla datazione delle due composizioni (verosimilmente quella in basso è posteriore); il regno di Khusraw II appare comunque il contesto più probabile. Anche le due pareti laterali della grotta sono scolpite, in bassorilievo, con raffigurazioni senza dubbio rifinite in origine con il colore, a completare la trasposizione scultorea di un īwān analogo a quelli costruiti: a sinistra la caccia al cinghiale e a destra quella al cervo. Si tratta anche in questo caso di soggetti caratteristici dell'arte sasanide, ambientati nei paradisi reali, la cui resa è però particolarmente suggestiva: in una sorta di "visione aerea" delle scene il re appare al centro delle composizioni, su un'imbarcazione nel primo caso e a cavallo nel secondo, attorniato da una molteplicità di figure minori di paggi, inservienti e animali, che riempiono totalmente lo spazio circostante in un'istantanea vivacissima della vita di corte. Alcuni capitelli sasanidi decorati con figure regali e motivi vegetali sono sparsi nei giardini antistanti le grotte; in massima parte provengono dalla vicina area di Bisutun, con ogni probabilità da un edificio di tardo periodo sasanide che lì doveva sorgere.
Significative a T.-i B. sono anche le testimonianze di epoca Qajar: immediatamente a destra della facciata della grotta grande è un'iscrizione e all'interno, sopra la scena della caccia al cinghiale, un rilievo colorato che ritrae il governatore di Kirmanshah, Mohammad Ali Mirza Dowlat Shah, con i suoi figli. Dello stesso periodo era anche il piccolo palazzo (20 × 12 m) di mattoni, oggi in rovina a seguito di interventi degli anni Sessanta del XX secolo, che sorgeva a pochi metri dal rilievo di Ardashir II, nel punto dove anticamente lo specchio d'acqua creava una piccola insenatura. La costruzione, su due piani, includeva all'interno un ambiente in cui scorreva l'acqua di una sorgente ed era concepita per richiamare l'architettura sasanide, come chiaramente mostra la facciata, basata sullo schema del grande arco centrale con archi minori ai lati.
Bibliografia
Sh. Fukai et al., Taq-i Bustan, I-IV, Tokyo 1969-84; H. Luschey, Das Qadjarische Palais am Taq-i Bostan, in AMI, 12 (1979), pp. 395-414; M. Azarnoush, Šâpur II, Ardašîr II and Šâpur III: Another Perspective, in AMI, N.F., 19 (1986), pp. 219-47; H. Luschey, Taq-i Bostan, in W. Kleiss - P. Calmeyer (edd.), Bisutun. Ausgrabungen und Forschungen in den Jahren 1963-1967, Berlin 1996, pp. 121-27.