L'archeologia del Vicino Oriente. L'Asia occidentale in eta tardoantica e medievale
di Francesca Zagari
Con "province orientali dell'Impero proto- e mediobizantino" si intende l'insieme delle vicende politiche, culturali e religiose del territorio che include l'Oriente anatolico fino all'Armenia e tutta la regione siro-palestinese, fra il IV e gli inizi del XIII secolo, dalla designazione di Costantinopoli a capitale dell'impero (330) ‒ o dalla divisione dell'Impero romano in occidentale e orientale ‒ all'occupazione latina di Costantinopoli nella quarta crociata (1204). Il periodo protobizantino arriva sino all'inizio della controversia iconoclasta (726), mentre l'impero mediobizantino è compreso tra la fine di tale controversia (843) e il 1204. Nonostante l'esistenza di diversi e importanti elementi comuni ‒ l'assolutezza del potere imperiale, la complessa macchina burocratico-amministrativa, l'apparato militare e la centralità della questione religiosa ‒, sono esistite marcate differenze di carattere storico-culturale: la complessità fu evidente soprattutto alla metà del VI secolo, quando, annettendo territori assai diversi tra loro, l'impero raggiunse la sua massima estensione, portando a compimento il disegno di Giustiniano (527-565) della renovatio imperii, per poi divenire, nel periodo mediobizantino, uno Stato sostanzialmente greco-anatolico.
Nelle province orientali si parlava siriaco, latino e greco; la prima fu lingua ufficiale sino alla metà del VI secolo, quando fu sostituita dal greco. In epoca protobizantina, la regione siro-palestinese ebbe un particolare rilievo economico, con una fiorente produzione agricola, la rinascita delle antiche città, il costituirsi di una rete di importanti centri religiosi, monastici e di pellegrinaggio e la fortificazione delle arterie commerciali, in una terra spesso scossa da forti fermenti religiosi. L'Asia Minore continuò ad avere la tradizionale divisione tra la zona costiera più ricca, con grandi città di origine ellenistica, e l'interno più povero e rurale, caratterizzato dalla presenza di insediamenti monastici (Binbir Kilise e Tur Abdin). Alla metà del VI secolo, gli imperatori dotarono le città di importanti complessi religiosi (S. Giovanni a Efeso), diedero un carattere marcatamente difensivo alle regioni interne (soprattutto presso il confine persiano) e ridefinirono infrastrutture e assi viari verso Costantinopoli. La riconquista protobizantina dell'Italia e della Spagna meridionale assegnava una nuova centralità al Mediterraneo, moltiplicando gli scambi commerciali su rotte di lungo corso o di piccolo cabotaggio, facenti capo ad approdi peninsulari o insulari, di maggiore (Cipro e Creta) o minore entità. Agli inizi dell'VIII secolo, dopo la perdita delle regioni occidentali, con la pressione persiana e l'espansione araba in Oriente, l'impero mediterraneo di Giustiniano era divenuto un impero greco-anatolico, diviso in circoscrizioni militari (temi): i Persiani sfondarono il confine mesopotamico e furono arginati da Eraclio (610-641) e, ai confini meridionali e orientali, gli Arabi occuparono la regione siro-palestinese (634).
Fortemente ridimensionato territorialmente e pesantemente segnato dalla lunga controversia politico-religiosa dell'iconoclastia, l'impero mediobizantino vide una nuova fase di sviluppo e di consolidamento delle frontiere orientali e del suo ruolo mercantile. Sotto la dinastia macedone (867-1043) venne individuata una rinascenza di tipo "antichizzante": oltre al nucleo greco-anatolico, il controllo su Creta, Cipro e le coste di Dalmazia e Puglia assicurava un'importante presenza commerciale nel Mediterraneo e con Basilio I (867-886) e Basilio II (976-1025) si ottennero la riconquista di parte della Penisola Balcanica e il consolidamento delle province orientali. I benefici furono avvertiti soprattutto dalla penisola ellenica e da Tessalonica; meno chiara è la situazione della regione anatolica, dove le città avevano un ruolo difensivo e amministrativo-ecclesiastico e dove è attestata la formazione di vasti latifondi soprattutto laici, legati alla nascita di una potente aristocrazia militare. Le province anatoliche furono esposte, già a partire dalla metà dell'XI secolo, alla minaccia dei Turchi selgiuchidi e, con la sconfitta bizantina a Manzikert (1071), ci furono la definitiva perdita della parte orientale dell'Anatolia e l'instaurarsi di un clima di insicurezza. Una nuova, moderata ripresa si ebbe con i Comneni, soprattutto sotto Giovanni II (1118-1143) e Manuele I (1143-1180): ai Selgiuchidi furono strappate le regioni costiere dell'Asia Minore meridionale, ma la disfatta a Miriocefalon (1176) aprì la strada ai Turchi per l'Anatolia occidentale. In questo periodo, si va affermando uno Stato con ridimensionate capitali di origine antica, pochi centri produttivi di grande importanza e piccoli insediamenti, spesso collocati su un'altura e con un'economia prevalentemente locale. A essi sono state ricondotte le numerosissime piccole chiese, generalmente monastiche, di scarso rilievo monumentale, ma con complessi cicli di affreschi (Binbir Kilise e Cappadocia).
La definizione dell'impero bizantino dei primi secoli come un immenso "mosaico di città", data da G. Dagron nel 1991, rende bene l'importanza dell'elemento urbano, confermata dalla cosiddetta Carta o Mappa di Madaba e dalle fonti geografiche dell'epoca: in molti casi, si tratta di città di fondazione prebizantina, ma esistono anche centri minori, fondati ex novo per specifiche esigenze militari o amministrative. Si discute se, prima del VII secolo, sia possibile parlare di una vera e propria "città bizantina", in quanto i centri urbani dell'impero avrebbero mantenuto gli elementi caratteristici della città ellenistica e poi romana (Gerasa). Nel periodo protobizantino, l'ampio respiro della politica urbana di Anastasio (491-518) e di Giustiniano si vede dalla standardizzazione degli interventi: l'omogeneizzazione delle dimensioni delle città per necessità essenzialmente difensive, la posizione degli edifici celebrativi (soprattutto di carattere religioso), l'attenzione alle infrastrutture e l'organicità delle nuove fortificazioni si affiancano a elementi tipicamente classici (mura, viabilità regolare, nucleo rappresentativo, grandi edifici pubblici, divisione tra aree residenziali e produttive).
La mancanza di fonti rende invece particolarmente oscuro, per la storia delle città dell'impero bizantino, il periodo compreso tra VII e IX secolo: gli storici si dividono tra sostenitori di una sostanziale continuità tra la città di età giustinianea e quella mediobizantina (cd. "scuola russa") e coloro che vedono una profonda crisi causata da Slavi, Longobardi, Persiani e Arabi. Un primo dato riscontrato dalle indagini archeologiche riguarda il restringimento delle aree abitate, cui si affianca la creazione o il potenziamento di nuclei difensivi, posti su altura e dotati di robuste fortificazioni (acropoli di Sardi, S. Giovanni a Efeso). Un altro fenomeno generale è costituito dal decadimento del tessuto urbano, con mancanza di pianificazione urbanistica, dall'impiego di materiali poveri (Anemourion) e dall'occupazione privata di aree o di edifici pubblici. In epoca mediobizantina, l'architettura giustinianea viene recuperata, in scala minore e in chiave "privata": chiese e palazzi sono destinati a un numero limitato di persone e si moltiplicano i monasteri, spesso all'interno delle città, come fondazioni o dipendenze (metochia) dei cenobi maggiori, con mura di cinta e molteplici edifici che circondano la chiesa posta al centro del cortile. I monasteri del tempo si allontanano progressivamente dal controllo episcopale, assumendo un'organizzazione autonoma, supportata da ricchi benefattori laici.
La difesa è un altro tema insediativo di carattere generale, cui l'impero destinò sempre grandi risorse. Il limes protobizantino si rivela essere una struttura abbastanza flessibile, legato a una concezione unitaria, ma, allo stesso tempo, adattato alle diversità geografiche, culturali e militari delle popolazioni esterne. I libri delle Guerre di Procopio di Cesarea descrivono il lunghissimo confronto tra Bizantini e Persiani sul confine orientale, tra le ultime pendici dell'altopiano anatolico e i deserti palmireni. In questo caso, si tratta di un sistema difensivo in profondità, basato sui resti del limes romano e principalmente finalizzato al controllo di corsi d'acqua, di pozzi e soprattutto delle grandi vie di comunicazione, spesso di origine romana: la Strata Diocletiana faceva capo a Damasco e collegava la Mesopotamia settentrionale ai porti della costa siro-palestinese e del Mar Rosso; la più occidentale era la cosiddetta "via dei pellegrini" che raggiungeva Costantinopoli, Nicomedia e Nicea e, dalla costa egea, arrivava nelle regioni costiere meridionali dell'Asia Minore e dell'area siro-palestinese; una seconda strada si dipartiva dalla prima all'altezza dell'attuale Konya (antica Iconium) e proseguiva verso Armenia e Persia; un altro percorso correva nell'immediato entroterra della costa meridionale del Mar Nero, collegando i porti della regione pontica con Costantinopoli.
La successiva crisi degli insediamenti lungo il limes Arabicus portò all'arretramento del confine occidentale e settentrionale, dando un ruolo militare e di difesa a centri preesistenti e di natura diversa (Palmira, Cyrrhus). Più a nord, in corrispondenza dei punti guadabili dell'Eufrate, furono costruiti impianti fortificati più o meno grandi che, insieme alle "città nuove" (Resafa, Zenobia), vigilavano sui Persiani per dare l'allarme prima che essi minacciassero direttamente le città dei primi contrafforti dell'altopiano anatolico, vero centro direzionale del confine sud-orientale dell'impero. A questa linea difensiva più interna appartenevano il nuovo centro di Dara e tre città di antica fondazione (Edessa, Martyropolis, Amida). Dopo il crollo nella prima metà del VII secolo dei vari settori del limes giustinianeo, i Bizantini si concentrarono sul confine orientale, dove si erano dovuti ritirare dalle regioni siriane e armene verso l'altopiano anatolico per la minaccia araba. Proprio le armate musulmane sono ritenute la ragione della riorganizzazione della strategia difensiva dell'impero bizantino, che portò al nuovo assetto amministrativo e militare dei temi. Tra il IX e la metà dell'XI secolo, si ebbe un periodo di pace e di espansione, interrotto dalla minaccia dei Turchi selgiuchidi ai confini orientali, che costrinse gli imperatori comneni a una vasta opera di fortificazione, iniziata con Romano IV (1068-1071) e proseguita, soprattutto sotto Alessio I (1081-1118), con il potenziamento delle città costiere (Smirne, Antalya, Korikos) e la costruzione di numerose nuove fortezze nei territori anatolici riconquistati da Giovanni II (1118-1143).
L'ultimo grande fenomeno insediativo è costituito dal pellegrinaggio, spesso legato a figure di stiliti (Qalat Seman, Mons Admirabilis) e con vasta incidenza soprattutto sulle dinamiche del popolamento dell'area siro-palestinese, poiché si moltiplicarono le strutture residenziali, assistenziali e di servizio presso i luoghi santi che finirono per acquisire la fisionomia di vere e proprie città o divennero centri direzionali del sistema difensivo orientale dell'impero giustinianeo (Resafa).
L'architettura e l'arte bizantine ebbero una speciale funzione politica e religiosa, rintracciabile nella committenza imperiale che ne faceva largo e consapevole uso per celebrare potere e ricchezza e mezzo con cui l'imperatore, rappresentante di Cristo sulla terra (nella concezione ideologica di origine costantiniana), rendeva tangibili le verità cristiane su cui si basava l'ordinamento sociale. I principali committenti furono certamente gli imperatori (Costantino I, Giustiniano I, Basilio I, Costantino VII, Costantino IX, Giovanni II Comneno), ma sono attestati anche aristocratici e alti dignitari della corte imperiale (Anicia Giuliana, Costantino Lips); meno presenti gli alti prelati (Fozio, patriarca di Costantinopoli). Con il tempo, gli interventi riguardarono sempre di più Costantinopoli e, nel periodo mediobizantino, vennero promosse dall'aristocrazia e dai vescovi locali attività artistiche, su chiese e monasteri privati, icone devozionali o libri miniati.
Il numero delle chiese bizantine conservate ha fatto erroneamente ritenere che l'architettura di Costantinopoli producesse solo luoghi di culto, mentre sono attestati anche edifici pubblici e privati, infrastrutture e monumenti celebrativi del potere imperiale, in evidente continuità con la tradizione dell'antica Roma. Sappiamo che nei palazzi imperiali mediobizantini esistevano mosaici celebranti le gesta degli imperatori, decorazioni che sottolineavano la fedeltà dei sovrani a Cristo e mosaici con soggetti bucolici ricorrevano nei pavimenti. Sebbene siano attestati gli impianti basilicali, il maggior numero di chiese bizantine è a pianta centrale, ritenuta diretta evoluzione della sala delle udienze dei palazzi, e ampia diffusione hanno i luoghi di culto cruciformi, anche di dimensioni monumentali (Qalat Seman). Le chiese mediobizantine sono caratterizzate da una maggiore cura dell'esterno rispetto a quelle, assai simili, del periodo precedente e hanno pianta centrale (con consacrazione definitiva tra VII e IX sec.).
Una particolare rilevanza, nell'ambito dell'architettura religiosa, rivestono le esperienze monastiche della Cappadocia. Queste inizialmente ebbero spesso un carattere ascetico (stiliti) a causa della natura impervia e montuosa della zona, sebbene la forma cenobitica conti esempi abbastanza precoci, ispirati a s. Basilio il Grande (Özkonak, Üzümlü Kilise di Zelve) e generalmente organizzati in veri e propri complessi anche di carattere rupestre (Açık Saray). Essi erano situati all'interno o nei dintorni dei borghi e servivano anche come luogo di rifugio per la popolazione civile (Hallaç Manastir; il gruppo del circo di Göreme; Saray di Erdemli, di X e XI sec.). L'architettura delle chiese rupestri ricalca fedelmente quella delle coeve costruzioni in muratura: pianta longitudinale o centrale, copertura a volta, piana o a cupola; nell'XI secolo, le recinzioni presbiteriali divennero delle vere e proprie iconostasi.
Più difficile è la definizione di una specifica tradizione edilizia bizantina, data l'eterogeneità delle tecniche e dei materiali anche all'interno del Vicino Oriente: tradizionalmente, già con Anastasio e Giustiniano, si distinguono un'edilizia in pietra (area siro-palestinese, parte dell'Asia Minore, confine con Armenia e Georgia), con coperture di legno, pietrisco o mattoni, e un'edilizia che utilizzava mattoni e pietrisco (costa occidentale dell'Asia Minore) sia per i muri perimetrali che per le coperture; sono attestate le volte a botte, a vela e a crociera. Per la tecnica laterizia, si tratta generalmente di mattoni quadrati (35-38 cm di lato e 4-5 cm di spessore) messi in opera interi e alternati a corsi di malta, a volte lisciati esternamente e rifiniti con stilature oblique; più rara è la presenza di un nucleo. I bolli (anepigrafi, monogrammatici o rettangolari) compaiono dal IV secolo (e soprattutto tra V e VI sec.) sino all'età paleologa, quando però è frequente il fenomeno del riutilizzo dei mattoni.
Al di fuori di Costantinopoli, l'opera laterizia è attestata nell'Asia Minore nord-occidentale e, in misura ridotta, in area siro-palestinese: sono completamente in laterizio le mura di alcuni insediamenti fortificati lungo l'Eufrate, le volte del praetorium di Zenobia e le chiese monastiche del Tur Abdin; i laterizi sono spesso alternati a corsi lapidei in edifici di committenza imperiale e in siti con funzione militare (Qasr ibn Wardan, castrum di el-Anderin, grande cisterna di Dara). Alla seconda metà del X o agli inizi dell'XI secolo si data la comparsa della tecnica del "mattone arretrato", usata soprattutto in edifici monumentali (tratti di mura di Nicea del 1065 ca.), mentre le murature miste di laterizi, pietrame e materiale di reimpiego (a cloisonné nelle fortificazioni comnene dell'Asia Minore) caratterizzano gli edifici funzionali e quelli delle aree periferiche mediobizantine. L'architettura militare, civile e religiosa delle regioni orientali e meridionali dell'impero è però contrassegnata dall'uso della pietra da taglio, impiegata in muri in opera quadrata ‒ con l'aggiunta di blocchi decorati di reimpiego in monumenti protobizantini di pregio ‒ o con doppia cortina e conglomerato cementizio, generalmente spesso e di scarsa qualità, a volte con "cinghiature" verticali formate da blocchi passanti (mura anastasiane di Dara). Dove scarseggiava il legname, lastre di pietra di origine sedimentaria o vulcanica venivano usate anche per le coperture (Belus), per volte piramidali (Umm el-Gimal) o per serramenti di porte e finestre. Il tipo di pietra impiegato era legato alla disponibilità locale, come dimostrano il basalto ad Amida, il calcare bianco piuttosto tenero a Martyropolis o il caso della cava-fossato a Dara. I caratteri originali dell'architettura siriana sono evidenti in alcuni luoghi di culto come la basilica di Qalb Loze (VI sec.): pilastri in muratura, ricca decorazione scolpita, facciata con due torri che racchiudevano le scale ed erano forse legate all'uso di chiamare i fedeli. Il complesso siriano di Qasr ibn Wardan, con palazzo, caserma e chiesa, è invece un raro esempio di residenza di un importante capo militare di età giustinianea. La tessitura muraria in fasce di mattoni alternate a corsi di blocchi squadrati di basalto sembrerebbe risentire delle contemporanee tendenze architettoniche di Costantinopoli. La specificità dell'architettura siriana proseguì sotto gli Omayyadi e si diffuse nell'Anatolia orientale, nel Sinai e in Armenia, con chiese costruite con blocchi lapidei squadrati e articolati complessi residenziali, principeschi o patriarcali.
Già nel Medioevo il mosaico veniva considerato come mezzo figurativo prettamente "greco", sebbene la pittura, sia per le raffigurazioni parietali che per le icone, fosse più comune nei territori bizantini. Nelle chiese mediobizantine nella cupola, che rappresenta l'Universo, è incarnata la divinità e sotto si dispone la sua "corte" (i diversi stadi del programma salvifico). Momento cruciale è l'Incarnazione, presente nel sacrificio eucaristico attraverso la Vergine, rappresentata nella conca absidale sopra l'altare. Solo con l'epoca postgiustinianea ci fu una grande richiesta delle icone di Cristo e dei santi, che furono incluse nei cicli pittorici delle chiese e, alternate alle figure isolate, comparvero le scene della vita terrena del Cristo (cd. "ciclo delle Feste"), con i principali eventi del calendario liturgico. Nel periodo mediobizantino, le rappresentazioni bibliche continuarono soprattutto nelle miniature, mentre nelle pitture, dall'XI secolo, cominciò ad avere maggiore spazio l'elemento narrativo, con episodi minori del Nuovo Testamento (storie apocrife di Cristo e della Vergine, leggende di santi).
Esemplificativo della produzione pittorica può essere il caso della Cappadocia, nota in periodo bizantino proprio per le pitture murali (regioni tra Yeşilhisar e Ürgüp e presso Aksaray), distinguibili in preiconoclaste e iconoclaste, con momenti di stasi nell'VIII e nel XII secolo. Sono state distinte le opere maggiori, realizzate su intonaco ‒ gesso puro e, a partire dal IX secolo, amalgama di calce e sabbia o di gesso, argilla e paglia triturata ‒, e le decorazioni di tipo grafico eseguite a secco, direttamente sulle pareti con colori di origine naturale. Nel periodo preiconoclasta, ricorrono l'esaltazione e l'invocazione dell'onnipotenza di Dio, con esempi di grazia divina (Daniele e i leoni, i Tre Ebrei nella fornace, la conversione di s. Eustachio), immagini di carattere dogmatico o simbolico (la Vergine come porta di Dio), scene dell'infanzia e della passione di Cristo. La croce assume un rilievo del tutto particolare e, come simbolo cristologico, compare in grandi pannelli votivi, su soffitti, volte e conche absidali. Al periodo iconoclasta appartengono anche sfondi di ispirazione sasanide, con racemi di vite, talvolta popolati da uccelli. Tra la fine del IX e la metà del X secolo, le chiese ebbero nuovamente una decorazione figurata, generalmente disposta su più registri (vita di Cristo nella chiesa vecchia di Tokalı); scomparvero i grandi elementi votivi e la croce fu sostituita dall'immagine della Vera Croce. Sopravvivono tendenze tardoantiche o greco-siriache e affinità con le arti popolari; non mancano elementi di ispirazione dal mondo islamico. Con la rinascenza macedone (metà X sec.) si assiste ad alcuni cambiamenti stilistici ed esegetici: la Pentecoste è arricchita dalla consacrazione dei primi diaconi (chiesa nuova di Tokalı); la Crocifissione vede la presenza di Ezechiele e Geremia e la Vergine Eleusa sottolinea la natura umana del Bambino. Lo stile trova ispirazione da modelli antichi (ellenistici e neoclassici), con figure slanciate e panneggi plastici (rara scena di trionfo imperiale nella chiesa di Niceforo Foca). Per gran parte dell'XI secolo, prosegue la tradizione precedente, anche se si registra una maggiore codificazione secondo le forme della capitale: teorie di santi, santi in pannelli isolati con la funzione di ex voto, i più significativi episodi cristologici (cd. "cicli liturgici") e, nell'abside, la Déesis. Nelle chiese di Göreme, lo stile è prezioso e aristocratico, con elementi vicini a quelli dell'arte della capitale, mentre sono attestate coeve botteghe di ispirazione classica, espressionistica o con forme semplificate. Nel XIII secolo, le pitture assumono un carattere fortemente conservatore a causa dell'appartenenza al mondo musulmano di gran parte delle comunità greche del sultanato di Rüm.
Nell'ambito della produzione dei manufatti, l'età bizantina conta due differenti tradizioni di studi: una ha per oggetto i materiali preziosi o semipreziosi delle arti minori, ritenuti quintessenza del "lusso bizantino"; l'altra si occupa dei manufatti "comuni" e ha preso avvio soprattutto dopo gli scavi del periodo tra le due grandi guerre. Sino all'XI secolo inoltrato (quando fu sostituito dalla steatite), l'avorio ebbe a Bisanzio un grande favore, poiché fu uno dei materiali preferiti per simboleggiare il potere imperiale come riflesso del Divino, oltre a essere impiegato in intarsi del mobilio e per piccoli manufatti, di destinazione sacra o secolare (officine di Antiochia). L'alto costo ne determinò l'utilizzo per una clientela colta e ricca, soprattutto in epoca mediobizantina, quando gli avori divennero di grandi dimensioni, con soggetti e stili diversi. Tra questi manufatti, spesso opera di officine che lavoravano per la corte imperiale, si ricordano i dittici (con soggetti sacri, mitologici, "politici"), gli oggetti di uso sacro (rilegature per testi sacri, icone portatili, pissidi, cassettine per reliquie), ma anche i contenitori per gioielli, dalla decorazione a "rosette", con soggetti dell'arte classica (rinascenza macedone del X sec.) o motivi zoomorfi del mondo orientale.
Sin dall'età costantiniana, i tessuti di seta erano realizzati sotto il rigido controllo dell'amministrazione imperiale e riservati all'imperatore e alla Chiesa. Secondo la tradizione, sotto Giustiniano si collocherebbe la "furtiva" importazione dei bozzoli, che consentì di estendere l'uso della seta anche a privati di alto rango, mentre l'imperatore mantenne il monopolio della tintura di porpora e del broccato d'oro. L'apogeo dell'arte tessile bizantina è collocato sotto la dinastia macedone, quando vennero prodotte stoffe con motivi di derivazione persiana. Anche l'impiego dei metalli preziosi era rigidamente controllato dal potere imperiale (marchi per i manufatti d'argento) e la ricchezza dell'oreficeria bizantina è testimoniata da fonti scritte e iconografiche, ma può contare solo su pochi rinvenimenti (tesori di Cipro occultati per la minaccia araba): oltre ad annoverare un ampio numero di leghe (oro rosa, verde e giallo), l'oreficeria bizantina eredita la tradizione decorativa e tecnica dei Romani, affinata e dotata di simboli cristiani, soprattutto a partire dal VII secolo. Tra le tecniche decorative, sono molto attestati il niello su oro e argento (soprattutto nella media età bizantina) e lo smalto, applicato in diverse varianti (ad es., cloisonné). Un certo rilievo ebbe anche la produzione di gemme da minerali semipreziosi e di cammei con immagini di Cristo e della Vergine.
Anche le monete possono, in un certo senso, essere annoverate tra i manufatti metallici di epoca bizantina, sebbene si discuta ancora sull'inizio di una vera e propria "monetazione bizantina": la riforma monetaria di Anastasio o le monete delle zecche orientali (395-491), con ritratto frontale dell'imperatore (sul dritto) e la Vittoria stante con lunga croce (sul rovescio), che saranno tipici della prima moneta bizantina. Le zecche orientali (Antiochia, Nicomedia) coniarono monete con caratteri pressoché identici a quelle dell'Africa e dell'Occidente, conservando a lungo i propri tipi, anche se con cambiamenti nella resa dei soggetti (stile e attributi) e l'introduzione di nuove immagini.
Per il periodo più antico, esistono pochi manoscritti riconducibili all'area siro-palestinese, una delle tre grandi scuole dell'impero protobizantino, mentre i testi miniati di carattere religioso ebbero un deciso incremento dopo la fine dell'iconoclastia, i cui effetti, secondo la storiografia più recente, sono sempre più da circoscrivere a Costantinopoli e all'Asia Minore. Lo studio del vetro bizantino, nonostante la pratica del riutilizzo, può contare su dati di scavo (fornaci di età proto- e mediobizantina di Sardi e Corinto) e su diversi capolavori, conservati in vari musei del mondo. Si segnala anche l'impiego di piccoli pannelli vitrei colorati nelle transenne, lignee o fittili, in luoghi di culto (Monte Nebo, Bostra) e poi nelle lussuose residenze omayyadi di Siria e Giordania. Dalla prima metà del IX secolo, l'uso mesopotamico della cenere delle piante come fondente, in luogo del natron egiziano, si diffonde in tutto l'impero bizantino a causa dell'occupazione del porto di Alessandria di Egitto da parte di profughi andalusi. Sicuramente più ampio e complesso è il discorso sulla ceramica bizantina, che ben evidenzia limiti e potenzialità della ricerca archeologica applicata alle testimonianze di questo periodo: benché risentano del ritardo della ricerca, importanti dati sulla circolazione dei manufatti ceramici nelle regioni medio-orientali provengono dagli studi di D. Talbot Rice e di C.H. Morgan e soprattutto dagli scavi del Grande Palazzo di Costantinopoli.
Sino al VII secolo, sono ancora attestate le anfore medio-orientali di tradizione tardoantica, ma in un quadro di frammentazione della produzione e della distribuzione delle derrate alimentari a medio e corto raggio, lungo una direttrice prevalentemente sud-nord, dalle aree agricole dell'Egitto e della Siria verso i centri attorno a Costantinopoli. Il contesto del S. Polieucto, con quasi 400.000 frammenti, ha fornito importanti dati sulla ceramica circolante a Costantinopoli tra gli inizi del V e gli inizi del XIII secolo: sino alla fine del VII, l'85% dei materiali è costituito da anfore da trasporto, tra le quali spiccano il tipo Saraçhane 5 (S5) prodotto in Cilicia (per granaglie o vino) e la cosiddetta "anfora di Gaza" (S6) per il vino palestinese destinato a Costantinopoli; per la ceramica da mensa, la Phocean Red Slip Ware prevale quantitativamente sino alla riconquista delle regioni maghrebine (inizi VI sec.) e la Cipriot Red Slip Ware è particolarmente numerosa in Egitto e Cipro; si riscontrano, inoltre, buone produzioni locali da fuoco (Palestina). Dopo la crisi del VII secolo, solo per Costantinopoli pare attestata la continuità delle importazioni, accanto alla ceramica fine da mensa (Glazed White Ware) prodotta probabilmente nell'area del Bosforo (inizi del VII - fine del XII sec.). L'età mediobizantina, anche dal punto di vista ceramologico, è una fase di ripresa e di sviluppo: le anfore continuano a essere il principale strumento di trasporto e di stoccaggio delle derrate alimentari e attestano la ripresa dei commerci lungo le rotte del Mar Nero e dell'Egeo; le ceramiche fini da mensa sono rappresentate, sino alla fine del XII secolo, dalle cosiddette "invetriate a impasto bianco" di Costantinopoli e dalle diverse tipologie della Glazed Red Ware, forse prodotta nell'Egeo orientale, che giungono sino all'occupazione latina di Costantinopoli, quando si individua un totale cambiamento nell'organizzazione economica e commerciale dell'Oriente bizantino.
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di Laura Saladino
L'isola, compresa nel territorio dell'Impero d'Oriente e nella prefettura bizantina, governata amministrativamente dalla vicina Antiochia di Siria, sede di un importante patriarcato cristiano, è costellata in età tardoantica di insediamenti che continuano a vivere e a prosperare sui centri ellenistico-romani. Le numerose basiliche cristiane, monumentali e con soluzioni architettoniche originali, rinvenute in tutto il territorio cipriota e oggetto di indagini archeologiche, rivelano l'importanza dei centri urbani e la loro vitalità.
Salamina (Constantia) fu sede della chiesa metropolita voluta dal vescovo s. Epifanio, morto nel 403. L'edificio, in origine a sette navate, poi ridotte a cinque, e con tre absidi, presenta caratteristiche architettoniche comuni agli edifici di culto ciprioti dei secoli IV e V: pianta basilicale con navate divise da colonne e orientamento est-ovest, copertura a capriate, abside centrale sovente affiancata da due minori semicircolari, talvolta in comunicazione con ambienti retrostanti. Ai lati delle navatelle sono frequenti due lunghi corridoi, comunicanti con l'aula di culto e presumibilmente utilizzati come kathecumena; esonartece e atrio precedono la facciata. Il battistero, qualora presente, è un edificio autonomo, con accesso diretto dall'aula di culto o dagli ambienti del complesso episcopale. Molte di queste peculiarità richiamano gli edifici ecclesiastici dell'area siriana, con qualche concessione all'influenza costantinopolitana; del tutto originali sono invece i battisteri, monumentali e articolati.
A Kourion, sulla costa sud-ovest, sede di un antico santuario dedicato ad Apollo e centro ancora fiorente nella Tarda Antichità, nella prima metà del V secolo fu costruita la basilica con l'annesso palazzo episcopale, utilizzando materiale di spoglio proveniente dagli edifici gravemente danneggiati dal forte terremoto che nel 365 distrusse tutti i centri del Sud-Ovest dell'isola. L'edificio ecclesiastico, a tre navate, ha come soluzione originale l'abside inscritta in una serie di ambienti con probabile funzione di pastophoria, comunicanti con le navate laterali divise da colonne. L'aula di culto non è preceduta dall'atrio, ma da un cortile rettangolare con al centro una vasca esagonale. A nord del cortile una serie di ambienti, che si sviluppavano su due piani e che sono stati riconosciuti come parte dell'originaria residenza vescovile, comprendeva una grande cappella con pavimento musivo ornata da stucchi e un monumentale atrio porticato. L'aula battesimale, absidata e a tre navate precedute da nartece e atrio, sorge a nord della basilica ed è attigua a essa; la vasca cruciforme è inserita in una grande nicchia decorata da mosaici. Nell'VIII secolo, nelle strutture già abbandonate del palazzo episcopale, venne ricavato un forno per il pane, che conferma la continuità di occupazione del sito. Le terme, situate in prossimità del teatro, sono coeve alla basilica e sono state datate grazie alla presenza di mosaici pavimentali di alto livello qualitativo; altri splendidi pavimenti musivi policromi, pertinenti a edifici pubblici e privati rinvenuti nelle aree I e II della città, raffiguranti scene mitologiche e di lotta tra gladiatori, confermano la vitalità di questo centro in età tardoantica. Esso, sebbene gravemente danneggiato dal terremoto del 365, divenne sede episcopale e lo rimase fino alle incursioni arabe del VII secolo, che costrinsero gli abitanti a rifugiarsi nell'interno, fondando un nuovo nucleo urbano dal nome significativo di Episkopi, residenza vescovile fino al 1222.
Nei pressi di Paphos, città che prosperò almeno fino al VII secolo, nonostante fosse stata anch'essa colpita dal terremoto del 365 come la vicina Kourion, è stata scavata una grande villa del II sec. d.C., ampliata in età tardoantica, con splendidi mosaici di argomento mitologico datati dalla fine del III al V secolo. Le grandi dimensioni dell'edificio e l'apparato musivo di alto valore artistico suggeriscono il rango elevato della committenza, probabilmente collegata all'entourage imperiale. Nei pressi, un'altra ricca abitazione ornata da mosaici del pieno IV secolo testimonia la funzione residenziale di questa zona extraurbana. A Soloi, antico centro sulla costa nord-occidentale dell'isola, gli scavi degli anni Sessanta del Novecento hanno messo in luce i resti della grande basilica cristiana della fine del IV secolo, con 5 navate divise da 12 colonne e con un'abside semicircolare, priva di atrio e di nartece e ornata da mosaici pavimentali a motivi geometrico-floreali e con figure di animali.
Per decreto dello stesso Giustiniano (527-565), Cipro passò sotto l'egida del governo centrale, avvenimento che determinò una rinnovata attività edilizia e dette nuovo impulso ai commerci e alla produzione artigianale, prima fra tutte quella della ceramica fine da mensa, la sigillata cipriota. A Salamina, sul sito del più antico ginnasio di età ellenistica, vennero ripristinate le terme monumentali, con portici e pavimento in opus sectile, per volontà di Giustiniano e Teodora. L'uso del complesso termale ebbe termine nel corso del VII secolo, probabilmente in seguito alle devastazioni conseguenti alle incursioni arabe. Ma sono soprattutto i numerosi edifici di culto del VI secolo, rinvenuti nel corso degli scavi in tutte le città cipriote, ad attestare la considerevole ripresa economica e demografica, che dette un nuovo aspetto ai centri di antica tradizione. In quest'epoca, l'architettura religiosa non subì mutamenti sostanziali e gli edifici ecclesiastici non si discostano planimetricamente dagli antecedenti, mantenendo l'impianto basilicale e la copertura lignea. Vennero comunque introdotte soluzioni nuove d'influenza costantinopolitana, come il posizionamento dell'ambone al centro della navata (Paphos, Peya), un nuovo gusto nella decorazione architettonica, realizzata con marmo proconnesio d'importazione, e l'uso di pavimenti in opus sectile, come a Salamina, Amatunte (Amathous), Soloi, Kourion e Paphos.
Molti complessi monumentali presentano restauri o rifacimenti di età giustinianea, come la basilica di Amatunte, la chiesa della Panaghia Angheloktistos di Kiti, con il catino absidale ornato da un mosaico della prima metà del VI secolo, quella della Panaghia Kanaria, che conserva l'abside della costruzione originaria del V secolo, ornata da un mosaico del secolo successivo raffigurante la Vergine in trono col Bambino e arcangeli. Della basilica di S. Ciriaco di Paphos si è potuta ricostruire l'icnografia originaria, modificata da un consistente restauro del VI secolo, che ne ridusse l'ampiezza e il numero delle navate, analogamente a quanto avvenne nella chiesa di Soloi. Furono invece costruiti ex novo la basilica di Kampanopetra a Salamina e il complesso cattedrale di Peya, costituito da un insieme articolato di ambienti aventi funzione cultuale e residenziale. La basilica di Sirmata, insieme a un edificio di culto di minori dimensioni, nella vicina località di Kopetra, entrambi datati al VI secolo, faceva parte di un insediamento vissuto almeno fino alle invasioni arabe del VII secolo, ancora non indagato.
Nel 688, in seguito all'accordo tra Giustiniano II e il sultano omayyade Abd al-Malik, l'isola acquistò la neutralità nella guerra tra Bisanzio e l'Islam. Tale avvenimento, oltre alla conquista della pace, che durò circa tre secoli, evitò a Cipro la distruzione delle immagini che fece seguito agli editti degli imperatori iconoclasti, consentendo la conservazione dei mosaici absidali del VI secolo delle chiese della Panaghia Kanaria a Lythrankomi, della Panaghia Angheloktistos a Kiti e della cattedrale di Kourion. L'abbandono di alcune antiche città (Salamina e Kourion), conseguenza degli attacchi islamici del VII secolo, è stato interpretato come sintomo di regresso economico e di decadenza; tuttavia, i restauri o la riedificazione quasi totale degli edifici di culto, nonché lo spostamento di alcuni insediamenti nell'interno, in zone più protette, sono soltanto indice di quei cambiamenti che vedono il VII secolo come epoca cardine nella trasformazione delle società mediterranee dall'età tardoantica a quella medievale.
Indagini archeologiche hanno interessato il centro di Episkopi, fondato nel VII secolo dagli abitanti di Kourion in fuga dagli Arabi. Qui sono stati rinvenuti i resti di un'aula di culto, la probabile cattedrale altomedievale a tre navate, con tre absidi e pavimento di opus sectile, affiancata da magazzini di età posteriore. Nel XIV secolo il centro divenne proprietà della famiglia veneziana dei Cornaro, che vi promossero la coltivazione della canna da zucchero, principale risorsa economica nella Cipro dell'epoca. Alla fine degli anni Settanta del Novecento lo scavo ha consentito il ritrovamento di centinaia di forme di ceramica coniche per il pan di zucchero e del mulino per la macinazione. Impianti simili sono stati rinvenuti più recentemente in varie località: un mulino con l'annessa raffineria, in uso fino al XVI secolo, è a Couvoucle-Stavros, nella regione di Paphos. Ad Arsinoe la basilica cristiana, di non vaste proporzioni, a tre navate e con tre absidi, venne distrutta nel VII secolo e subito riedificata mononave e con copertura a volte e restò in uso fino al XIV secolo.
Le ripetute scorrerie islamiche richiesero una rinnovata attenzione alle opere di fortificazione dell'isola: vennero restaurate le mura ellenistico-romane, come a Paphos e ad Amatunte, la cui acropoli fu abbandonata solo nel XIII secolo. Il centro della città di Salamina fu chiuso entro una nuova cinta con torri rettangolari, edificata utilizzando materiale di spoglio proveniente da edifici esterni a essa. Nella città settentrionale di Carpasia, la chiesa episcopale e l'area urbana circostante furono racchiuse da mura che raggiungono il porto. Il castello di Keryneia (Kyrenia), sulla costa settentrionale dell'isola, insiste su una precedente fortezza del VII secolo, mentre altre fortificazioni del VI-VII secolo sono state individuate a est di Capo Kormakitis, sulla costa settentrionale.
La riannessione di Cipro all'impero bizantino alla fine del X secolo e l'importanza strategica dell'isola come base navale furono la causa di un rinnovato impulso edilizio. Negli edifici di culto, costruiti con blocchi squadrati di calcare locale, alla pianta basilicale con copertura lignea si sostituisce l'icnografia tipicamente bizantina a pianta centrale, con cupola e volte realizzate in muratura; predomina il tipo a croce inscritta, con cupola all'incrocio dei bracci retta all'interno da quattro pilastri. Le due basiliche di S. Paraskevi a Ieroskipos e dei Ss. Barnaba e Ilario a Peristerona, erette nel X secolo, appartengono a un tipo transitorio o a uno stile più specificatamente locale, con impianto cruciforme sormontato da cupole, ma con il braccio longitudinale predominante per dimensioni e con la navata centrale più alta e di larghezza maggiore.
L'architettura militare ha in questo periodo un grande impulso, determinato dalle vicende storiche che segnano il definitivo distacco di Cipro da Bisanzio, con l'usurpazione di Isacco Comneno nel 1185, la successiva conquista da parte di Riccardo Cuor di Leone nel 1191, nel corso della terza crociata, e la cessione dell'isola, avvenuta l'anno seguente, al francese Guido di Lusignano, che inaugurò una dinastia regnante. L'importazione del sistema feudale e la stabilità politica furono probabilmente alla base dello sviluppo economico di Cipro, che divenne una delle sedi mercantili più importanti del Mediterraneo orientale, soprattutto dopo la caduta di Gerusalemme, riconquistata dal Saladino nel 1187. Nell'XI e nel XII secolo, forse a causa del pericolo turco dopo la sconfitta dei Bizantini a Manzikert (1071), furono edificate grandi fortezze a difesa delle coste, precauzione che non scongiurò l'occupazione della parte settentrionale dell'isola agli inizi del XIII secolo.
Tre delle fortificazioni principali sorgono sulla catena montuosa settentrionale e tra esse si distingue S. Ilario, caratterizzata da due circuiti murari turriti, a difesa della fortezza principale che domina il territorio da un'altura; Buffavento è invece costituita da un sistema di bastioni vicini, ma isolati e non collegati da mura, mentre Kantara, più a est, è un castello che protegge al suo interno edifici residenziali. La grandiosa fortezza medievale detta Saranda Kolonnas ("Quaranta Colonne") si ergeva nella città di Nea Paphos, impostandosi sopra una fortificazione bizantina del VII secolo. Dalla torre-ingresso orientale si accedeva all'interno del recinto caratterizzato da otto torrioni di pianta irregolare. Il corpo centrale comprendeva una serie di ambienti voltati disposti intorno a un cortile quadrato e destinati, oltre alla residenza della guarnigione, anche al ricovero degli animali, a una fucina, a un mulino e a un bagno riscaldato mediante vapore. Il castello, edificato all'inizio del XII secolo dai Lusignano, fu completamente distrutto dal terremoto del 1222.
Nei quattrocento anni di governo francese e veneziano (1191-1570), infine, la tradizione architettonica e storico-artistica bizantina sopravvisse specialmente nell'interno, nonostante il gusto occidentale importato della classe dominante, che risiedette soprattutto nei centri di Nicosia e Famagosta, quest'ultima fondata dagli abitanti dell'antica capitale Salamina.
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di Paolo Cuneo
Nel periodo iniziale detto "formativo" (o anche talvolta "arcaico" o "paleocristiano"), che va dal IV al VII secolo, si verificò l'importante attività costruttiva connessa con il potente irradiamento dalla sede patriarcale Vałaršapat (oggi Eǰmiacin) e dalla capitale politica Dvin, che raggiunse ben presto, oltre le regioni centrali, alcune aree periferiche del Paese; meno intensa risulta invece l'attività nell'area occidentale (in più stretto rapporto con il mondo bizantino), con capoluogo Cesarea (od. Kayseri). In una prima fase (IV-V sec.) risulta una prevalenza numerica di cripte e cappelle semisotterranee (talvolta incluse poi in edificazioni più recenti), tra le quali il sepolcro degli Arsacidi ad Ałc῾, del 363, l'ipogeo di Amaras nell'Arc῾ax, le cappelle-mausoleo di J̌rvež e Vołjaberd presso Ga.rni. Più spesso piccoli martyria a pianta centrale o cappelle a una navata di questa prima fase formarono i nuclei iniziali di complessi sacri sviluppatisi successivamente. I siti più importanti restano tuttavia quelli che hanno restituito, più o meno ben conservate, le grandi basiliche a tre navate, che furono le prime cattedrali dell'Armenia cristiana (Ereruk῾, K῾asał, Tekor, prima fase, Cice.rnavank῾, Ciranavor di Aštarak, Ełvard).
Della seconda fase del periodo formativo (fine VI e VII sec.) si conservano soprattutto le grandi chiese e cattedrali a cupola, in alcuni casi pervenuteci come edifici isolati o comunque privi di annessi coevi, come a Tekor (seconda fase), Mren, Ptłni, Ojun, T῾alin, Gayanē di Eǰmiacin, in altri casi accompagnate da resti di complessi civili a servizio di corti regali o episcopali, come a Dvin, Zvart῾noc῾, Aruč, Avan. Si trattò senza dubbio di un'epoca d'oro per la cultura architettonica armena, definita talvolta "classica", perché vide la formazione dello stile nazionale e l'invenzione delle tipologie architettoniche destinate a formare modelli per i secoli successivi e anche perché in tale periodo si sperimentò e si mise a punto la tecnica edilizia della muratura in blocchi con nucleo interno di calcestruzzo idraulico, che poi resterà una costante quasi assoluta nella pratica costruttiva del Paese.
Nel periodo detto "maturo" (IX-XIV sec.), si svilupparono in una prima fase (fino all'XI sec.) alcune scuole regionali dotate di una certa autonomia, connessa con la ripresa dell'attività costruttiva, nell'ambito di una organizzazione feudale del Paese facente capo ad alcuni regni indipendenti, cui si devono le splendide realizzazioni nella capitale Ani, quelle delle cattedrali di Argina, Širakavan, Ołuzlu, nonché una prima fioritura conventuale, soprattutto con Marmašen e Xc῾konk῾. Nei territori del Nord (regno del Lo.ri) e dell'Est (regno del Syunik῾), si manifestò un'altra scuola regionale con caratteri propri e con moltiplicazione di centri monastici (Sevan, Gndevank῾, C῾ałac῾k῾ar, Vorotnavank῾, Arates, Tat῾ev, ecc.). I territori meridionali dell'Armenia, unificati sotto la famiglia Arcruni, con capitale a Van, si arricchirono di centri urbani nell'ambito del bacino del Lago di Van, di conventi e di siti fortificati. Nella seconda fase del periodo maturo (XI-XIV sec.), si ebbe la formazione di grandi insediamenti monastici: complessi edilizi vasti e articolati, di norma geneticamente formati per "gemmazione", a partire da un nucleo o chiesa iniziale (V-XI sec.), di una serie di chiese, cappelle, gruppi di sepolture ed edifici ausiliari.
Tra i maggiori centri del genere, che presentano complesse articolazioni volumetriche esterne e interne e sono spesso racchiusi entro compatte cerchie di mura turrite, si possono citare: Hałbat, Sanahin, Khorakert, Hałarcin, Makaravank῾, Norvaragvank῾, nelle regioni settentrionali; Haričavank῾, Kečaris, Gełard, Sałmosavank῾, Hovhannavank῾, Ho.romosvank῾, Bagnayrvank῾, nelle regioni centrali; Noravank῾ Amału, Tanadivank῾, Tat῾ev, Dadivank῾, Ganjasar, nelle regioni orientali; Step῾anosvank῾ di Juła, T῾adeivank῾ e Bartułimeosvank' (Iran), ben conservati e, presso Muş (Turchia), Karapetivank῾, Arakeloc῾vank῾ e Hovhannesvank῾, che sono invece in stato di progressivo degrado.
di Maria Adelaide Lala Comneno
Molte delle testimonianze architettoniche del periodo formativo si trovano oggi in veri e propri siti archeologici, spesso in stato di abbandono, specie quelli in Turchia orientale. Ciò è dovuto allo spostamento dell'abitato, ai frequenti terremoti, nonché alle tormentate vicende storiche della regione; così le cattedrali si ergono isolate, a dominare rovine, ancora non studiate, di altri edifici o di interi insediamenti urbani. Dei monumenti che si trovano nei territori dell'ex Unione Sovietica, quelli nella Repubblica di Armenia, e sono la maggioranza, sono stati ripetutamente analizzati e studiati; molti sono stati restaurati con criteri più o meno condivisibili e i siti spesso sono stati scavati sistematicamente con successiva pubblicazione dei risultati. Al contrario quelli nelle due repubbliche autonome del Łarabał e del Naxiǰevan (specie di quest'ultima) non risultano altrettanto ben conservati. Gli edifici religiosi in Iran, generalmente più recenti e architettonicamente meno impegnativi, appaiono, nell'insieme, in buone condizioni e restano in gran parte utilizzati dalla popolazione locale. Completamente diversa la situazione delle chiese e dei conventi armeni in Turchia, dove il degrado è generalizzato e per moltissimi edifici si può parlare ormai di totale scomparsa: quasi nulli gli scavi archeologici, scarse le ricerche sistematiche, dovute, peraltro, a studiosi stranieri. Per avere un quadro sia pure estremamente sintetico dello sviluppo dell'architettura armena bisogna almeno accennare ad alcuni edifici imprescindibili, a cominciare da quelli del periodo formativo.
Ereruk῾ (Repubblica di Armenia), basilica a tre navate con portici laterali e torri in facciata, fondata nel IV e completata nel VI secolo, oggi priva della copertura e di parte delle murature, un tempo al centro di un complesso ora scomparso, è stata oggetto di restauri ripetuti, anche per i danni dovuti ai terremoti, ultimo quello del dicembre 1988. S. Sarkis a Tekor (Turchia) è uno dei primi esempi, se non il prototipo, della basilica cupolata, costruita in due fasi, nel IV e nel VI secolo, che conosciamo da studi e da fotografie della fine del XIX secolo e dell'inizio del successivo, perché non ne resta oggi che qualche resto illeggibile, in un sito completamente abbandonato. Ciranavor ad Aštarak (Repubblica di Armenia), basilica a tre navate della metà del VI secolo, parzialmente alterata in epoca sovietica da restauri che l'hanno liberata delle sovrastrutture fortificate medievali, è un raro caso di edificio situato all'interno del villaggio. S. Xač῾ ad Aparan (centro noto anche come K῾asał, Repubblica di Armenia), basilica della seconda metà del IV secolo, con abside sporgente, in questi ultimi anni è stata oggetto di un restauro pesantemente ricostruttivo, che ha coperto la chiesa con un nuovo tetto, rendendola utilizzabile come luogo di culto. A Mren (Turchia), un tempo importante città e oggi completamente distrutta, resta, per quanto in cattive condizioni, la cattedrale, costruita tra il 629 e il 640, in forma di basilica a tre navate con cupola, dotata di un elaborato sistema decorativo. A Ptłni (Repubblica di Armenia), la chiesa, risalente al VI-VII secolo, esempio precoce di sala absidata e cupolata, di proporzioni imponenti, priva, tra l'altro, di copertura, appare oggi come un rudere consolidato da lavori del 1940. La cattedrale, basilica cupolata, dotata di un deambulatorio su tre lati, caso veramente raro, isolata nel paese di Ojun (Repubblica di Armenia), armoniosa e imponente al tempo stesso, appare oggi in perfette condizioni, dovute, anche, ai restauri del 1949-50. Nel sito archeologico di T῾alin (Repubblica di Armenia), oggetto di scavi sistematici a partire dal 1947, spicca con la sua mole la basilica cupolata, della prima metà del VII secolo, cui un restauro parzialmente ricostruttivo ha restituito gran parte del tamburo e della copertura, ma non la cupola. S. Grigor sorge, nella sua classicità delle forme, nel sito archeologico di Aruč (Repubblica di Armenia); a partire dal 1947 è stata oggetto di scavi sistematici, che hanno riportato alla luce tracce di edifici diversi per epoca e per destinazione. Sala longitudinale cupolata, restaurata massicciamente nelle coperture, ma non nella cupola, mantiene intatta l'armonia e la sobrietà raggiunta dai costruttori nella seconda metà del VII secolo.
Caso a sé è Zvart῾noc῾ (Repubblica di Armenia), ampio complesso palatino, oggi isolato nella campagna, risalente alla metà del VII secolo, con al centro una grande chiesa tetraconca, crollato per un terremoto nel X secolo, scavato sistematicamente dall'inizio del XX secolo, ma mai ricostruito. Costituiscono delle vere e proprie eccezioni alla sorte delle chiese del periodo formativo, in quanto ancor oggi aperte al culto e situate nel centro abitato: la cattedrale di Eǰmiacin (Repubblica di Armenia), l'antica Vałaršapat, sede patriarcale, vero palinsesto archeologico, che va da un tempio del fuoco di epoca sasanide, alla chiesa del IV secolo, più volte ricostruita nel V e nel VII, fino alle sostanziali trasformazioni del XVII secolo, cui si deve il suo aspetto odierno; S. Hrip῾simē, del V e VII secolo ‒ quadriconca dalla planimetria assai elaborata, riportata alle volumetrie originarie da restauri degli ultimi sessant'anni, la cui area è stata anche oggetto di scavi archeologici che hanno rilevato la presenza di una cappella mononavata ‒, e S. Gayanē, del VII, ma quasi completamente ricostruita nel XVII secolo, entrambe a Eǰmiacin; S. Hovhannēs di Mastara (Repubblica di Armenia), del VII secolo, tetraconco cupolato caratterizzato da un ampio vano quadrato centrale, ancora in buone condizioni e solo minimamente restaurato; S. Hovhannēs di Sisyan (Repubblica di Armenia), del VII secolo, tetraconco cupolato, particolarmente compatto, più volte restaurato. Sito archeologico di primaria importanza per il periodo formativo resta Dvin (Repubblica di Armenia), capitale politica e città commerciale dal IV al IX secolo, oggetto di scavi sistematici iniziati alla fine del XIX secolo. Della città sono stati individuati e scavati la cittadella, una zona di abitazioni all'interno della cinta muraria e parte dei sobborghi. La cattedrale, fondata nel IV secolo, ricostruita più volte in varie forme, costituiva con una chiesa a sala e altri edifici un complesso cinto da mura. Testimonianze di edifici civili, assai rare nell'archeologia medievale dell'Armenia, rivelano un mercato, bagni pubblici, botteghe e abitazioni, che permettono di ricostruire la vita della città fino alla sua distruzione definitiva nel XIII secolo.
Nel periodo detto "maturo", che va dal IX al XIV secolo, sono i conventi a costituire l'impegno costruttivo maggiore, specie nei secoli XII e XIII. La ripresa di modelli dal periodo formativo appare evidente, anche se non si può parlare di "inerzia icnografica", data la varietà delle soluzioni e degli accostamenti, soprattutto nei complessi conventuali, dove compare anche un edificio dalle caratteristiche uniche, presente solo in Armenia, il gavit῾, vasto ambiente, coperto a volta e mai cupolato, anteposto alla chiesa, che spesso supera per dimensioni, ma non per altezza.
Marmašen (Repubblica di Armenia), complesso del X-XI secolo, di cui restano soltanto tre chiese cupolate, caratterizzate da una serie ininterrotta di arcatelle cieche e da alti tamburi, parzialmente interessato da lavori di consolidamento negli anni Cinquanta del Novecento, è confrontabile, per certi versi, con il coevo complesso di Xc῾konk῾ (Turchia), delle cui cinque chiese a pianta centrale resta, però, solo qualche rovina. Da ricordare, tra i tanti, almeno Tat῾ev (Repubblica di Armenia), importantissimo centro monastico, culturale ed economico, formato da decine di edifici religiosi e non, costruiti inizialmente tra il IX e il XIII secolo, sfruttando una sorta di acropoli rocciosa. La chiesa principale S. Petros e S. Połos risalente all'895-906, del tipo a sala cupolata con due pilastri liberi, distrutta, come gran parte del convento, da un terremoto del 1931, è stata praticamente ricostruita negli anni Novanta del XX secolo, così come la piccola S. Astvacacin del 1087. Il periodo XII-XIII secolo segna, un po' in tutte le regioni, l'apice dell'espansione conventuale, sostenuta dalle grandi famiglie feudali, oltre che dai sovrani locali, che fecero innalzare molti edifici anche nell'ambito di complessi già esistenti. Hałbat e Sanahin (Repubblica di Armenia) sono, nel Nord del Paese, i conventi di maggiore importanza, dotati, fra l'altro, di scriptorium e di biblioteca, conservatisi fino ai nostri giorni in ottime condizioni, anche per gli accurati restauri in epoca sovietica. Nelle regioni centrali vanno ricordati almeno Kečaris (Repubblica di Armenia), dell'XI-XIII secolo, complesso monastico, già rovinato da terremoti, oggetto di progressivi restauri, fino a quello, ampiamente ricostruttivo, degli anni Novanta del Novecento, cui si deve anche il rifacimento delle cupole, e, caso a sé, Gełard (Repubblica di Armenia), parzialmente rupestre, costruito prevalentemente nel XIII secolo, ma ingrandito fino all'inizio del XX secolo e tuttora in funzione.
Noravank῾ Amału (Repubblica di Armenia) rappresenta uno splendido esempio di complesso funerario principesco del XIII-XIV secolo, dalla elaborata architettura e dalla raffinata decorazione scultorea, rara in Armenia, di grande impegno, dispiegata sulle lunette dei portali e delle finestre. Il sito, come hanno rivelato gli scavi eseguiti a partire dai primi anni Ottanta del secolo scorso, era, fatto non inconsueto, già occupato da chiese più antiche. I lavori di restauro degli ultimi due decenni, ampiamente ricostruttivi, hanno ripristinato murature e coperture dell'intero complesso. Dadivank῾ (Repubblica Autonoma del Łarabał), vasto complesso monastico del XIII secolo, ricostruito in quell'epoca dopo la distruzione del precedente, conserva ancora chiaramente leggibili le diverse parti che lo compongono: chiese dalle diverse planimetrie, gavit῾, edifici ausiliari come biblioteca, refettorio, cucine, residenze, foresteria e un vasto, insolito, ambiente definito "sala delle feste".
Appartiene prevalentemente a questa fase il sito archeologico armeno per eccellenza, Ani (Turchia, a est di Kars), capitale di un regno di Armenia dalla fine del X all'XI, città di grande importanza fino al XIII secolo, dominata temporaneamente anche dai Bizantini, da dinastie islamiche e dai Georgiani, destinata poi a un rapido declino e al definitivo abbandono nella prima metà del XIV secolo. La ricerca archeologica, iniziata alla fine del XIX secolo e proseguita con una certa regolarità fino alla prima guerra mondiale per l'impegno, prevalentemente, di N. Marr, è stata, di fatto, abbandonata sino a pochi decenni fa, quando, a opera di archeologi turchi, i lavori sono stati ripresi e si è provveduto anche al parziale restauro di qualche edificio (Ss. Apostoli, moschea di Manuchir). La vastità del sito, il numero e la varietà degli edifici, la subitaneità (o quasi) dell'abbandono meritano senz'altro campagne di scavo sistematiche, non ancora intraprese, e articolati progetti di restauro conservativo, solo in parte avanzati. Da segnalare, anche perché non interessata da lavori recenti, la vasta città sotterranea, fatta di numerosissimi ambienti in parte naturali e in parte scavati nella roccia, con centinaia di abitazioni, stalle, depositi, ma anche decine di chiese, conventi, sepolcreti. La parte più antica della città è quella costruita, tra il V e il VII secolo, nella zona più elevata del promontorio; ne resta qualche traccia, nonché una cappella mononavata, databile al 622. Ani, divenuta capitale, fu dotata di una duplice cinta muraria (nel 963/4 e nel 978) e di un gran numero di edifici religiosi, come testimonia, a distanza di secoli, la denominazione popolare Binbir Kilise ("Mille e una Chiesa").
Da ricordare, almeno, l'ancora imponente cattedrale (980-1001), opera del famoso architetto Trdat, basilica cupolata a tre navate, che nella forma degli archi sembra anticipare il gotico, S. Grigor di Gagik, tetraconca con deambulatorio, in rovina già nell'XI secolo, S. Salvatore di Tutti (S. Amenap῾rkič῾), elaborata struttura con otto conche, crollata per metà, il Convento delle Vergini (Kusanac῾), scenograficamente disposto sulle rive scoscese del fiume, e S. Grigor di Tigran Honenc῾, interamente ricoperta di pitture all'interno. Scarse le tracce di edifici civili (Palazzo della Cittadella, Palazzo Paron, diversi bagni). Sorte diversa, assai più tragica, quella del vasto quartiere armeno di Van (Turchia), antica e prospera città a prevalenza armena, che ancora nel 1915 era dotato di numerose chiese di epoca medievale e che è ormai ridotto a un vasto campo di rovine, non indagato scientificamente.
La Cilicia, regione storica estesa da Capo Anamur al Golfo di Iskenderun e oggi parte della Repubblica di Turchia, è stata anche, dal 1199 al 1375, regno armeno indipendente, conosciuto come Piccola Armenia, privo di legami con la madrepatria, di importanza strategica in epoca crociata. L'architettura religiosa tutta, sia quella del periodo armeno, sia quella precedente, ci è nota solo da scarse tracce archeologiche, recentemente indagate, mentre l'architettura civile ha lasciato, ancora leggibili e spesso imponenti, alcuni castelli costruiti dagli Armeni sulla costa e all'interno. Il sistema di fortificazioni della Cilicia armena è da almeno un ventennio oggetto di studi sistematici storico-archeologici, data la specificità delle strutture e la loro relativa omogeneità cronologica e tipologica. Nell'insieme la produzione architettonica di questo piccolo regno, mentre appare del tutto indipendente da quella armena, rivela forti legami con l'architettura bizantina e, specie per l'arte, con l'Europa meridionale e l'Italia in particolare, segno evidente delle sue relazioni politiche.
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di Basema Hamarneh
Regione del Caucaso meridionale, sino a oggi di lingua e di cultura autonome, la Georgia si estendeva anticamente sui territori divisi tra Colchide e Iberia; oggi invece i suoi confini ‒ modificati più volte ‒ sono la Russia a nord, l'Armenia e la Turchia a sud, le sponde caucasiche del Mar Nero a ovest, l'Azerbaigian a est.
La religione cristiana penetrò nella regione provenendo, verosimilmente, dalla Palestina e dalla Siria tramite l'Armenia, incontrando inizialmente l'opposizione della popolazione legata al culto di Mitra, al mazdaismo, ai culti locali della luce e della Luna (divinità maschile), che mutò in seguito nel culto di s. Giorgio; tuttavia, la cristianizzazione ufficiale avvenne durante il regno di Mirian (265-342), che proclamò il cristianesimo religione di stato. La riorganizzazione amministrativa e l'unificazione del territorio ebbero luogo durante il regno di Vakhtang Gorgaslani (446-510), che fondò la nuova capitale Tbilisi dopo il declino di Mckheta; nel medesimo periodo la chiesa georgiana divenne indipendente con un patriarca con l'appellativo katholikòs. Intorno alla metà del VI secolo comparve un primo insediamento di monaci georgiani, probabilmente monofisiti, scacciati dalla Siria a causa della persecuzione; il monachesimo georgiano, in un primo momento, si espanse al di fuori del territorio, come testimoniano le numerose fondazioni di monasteri, in particolare quello scavato a Bir el-Qutt nei pressi di Gerusalemme, edificato da Pietro l'Ibero, con un pavimento musivo che comprende un'iscrizione georgiana datata al 532-552; altri sono attestati in Bitinia (Asia Minore), ad Antiochia (Siria), nel X secolo, nei due grossi centri religiosi e culturali, il Monte Sinai e il Monte Athos, e infine nel 1080 a Bačkovo (Bulgaria), oltre a quello di Galia (Cipro) attribuito alla regina Tamara.
In Georgia si affermò, inoltre, una salda tradizione architettonica a partire dal IV secolo; i primi edifici di culto costruiti in legno furono sostituiti da quelli in pietra, in genere a tre navate, di cui quella mediana risulta molto alta, come, ad esempio, quella di Nekresi. Al V secolo risalgono, invece, le basiliche di tipo orientale (forse su modelli di origine siriana) come Sioni (Nostra Signora) di Bolnisi del 462-477, a tre navate divise da cinque coppie di pilastri cruciformi senza ambienti annessi, con l'abside a ferro di cavallo sporgente. La navata centrale era coperta da volta a botte e quelle laterali a semibotti; al muro d'ambito, dietro l'abside, venne aggiunto, in un secondo momento, un ambiente absidato con funzione di battistero. La facciata della chiesa di Bolnisi venne ornata con croci a rilievo, mentre i capitelli presentano una decorazione zoomorfa con scene di caccia e animali affrontati. Il vescovo Teodoro nel VI secolo edificò la chiesa di Urbnisi, a tre navate con abside inglobata nell'interno, con ambienti annessi e copertura a doppia falda. Verso la fine del VI secolo si affermò il tipo a settori indipendenti (definito anche "basilica a tre chiese"), in cui la navata centrale resta la più alta, come nella basilica di Tskarostavi di Tbilisi e in quella di Kasuri a Saguramo. Compaiono costruzioni con copertura a cupola, edifici articolati a pianta centrale con l'interno a triconco o a tetraconco, come la cattedrale di Ninotsmind di Kakheti, datata alla seconda metà del VI secolo, e la basilica di Djvari a Mckheta (fine VI - inizi VII sec.), costituita da un tetraconco con quattro ambienti angolari comunicanti. La sua facciata orientale presenta una decorazione scultorea a tre pannelli a rilievo ornati con i donatori in ginocchio dinanzi a Cristo e agli angeli, mentre l'ingresso è decorato con la medesima tecnica e mostra due angeli recanti un clipeo con una croce fiorita. Molti edifici di culto relativi a quest'epoca presentano pavimenti musivi, absidi ornate con pittura ad affresco e, a volte, resti di mosaico parietale come, ad esempio, nel Mausoleo della Croce a Mckheta.
Alla fine del VI secolo a seguito della conquista sasanide di Kartli e la vittoriosa guerra di Bisanzio contro la Persia, la Georgia si avvicinò all'impero bizantino; ai sovrani vennero attribuiti i titoli di Sebaste, Patrizio e Kuropalate, mentre la Chiesa georgiana prese posizione contro i monofisiti. Negli anni Quaranta del VII secolo le truppe arabe conquistarono l'Iran sasanide, l'Armenia e una parte dell'Asia Centrale, mentre la Georgia orientale venne inclusa nel califfato omayyade che costituiva l'emirato di Tbilisi. Tale incursione causò un declino economico con una fitta migrazione della popolazione verso ovest e sud-ovest nei territori dominati in parte da Bisanzio. Alla fine dell'VIII - inizi del IX secolo circa, a seguito della caduta della dinastia omayyade, si formarono due Stati indipendenti nella Georgia: Kakheti e Hereti. La felice ubicazione della regione e la sua importanza per il commercio di transito verso l'Armenia e il Vicino Oriente permisero la fioritura di nuovi centri quali Dmanisi, collocata a sud-ovest di Tbilisi. L'unificazione avvenne però solamente nel X secolo con Bagrat III (975-1014), consolidata poi sotto David II (1089-1125); il territorio venne esteso sino a comprendere l'Azerbaigian, l'Asia Minore con Shirvan e Trebisonda, diventando più potente sotto la regina Tamara (1184-1213). Nel XIII secolo la Georgia venne devastata dai Mongoli.
G. Tschubinaschwili, Georgische Baukunst, Tiflis 1934; Sh. Amiranshvili, Istorija gruzinskogo iskustva [Storia dell'arte georgiana], Moskva 1963; C. Taumanoff, Studies in Christian Caucasian History, Georgetown 1963; O. Lordkipanidze, Vani, I. Archeologiceskie raskopki 1947-1969 [Vani, I. Gli scavi archeologici del 1947-1969], Tbilisi 1972; Art and Architecture in Medieval Georgia, Louvain-La-Neuve 1980; L.G. Chrushkova, Skulptura ranne srednevikovoi Abchazii V-X veka [Scultura dell'Abchazija medievale V-X sec.], Tbilisi 1980; T. Velmans, L'image de la Déisis dans les églises de Géorgie et dans celles d'autres régions du monde byzantin, in CahA, 29 (1980-81), pp. 47-102; W. Djobadze, Remains of a Byzantine Ambo and Church Furnishing in Hobi (Georgia), in AA, 1984, pp. 627-39; T.M. Kalinina, Svedenie pannich ucenych arabskogo chalifata [Notizie degli antichi studiosi del califfato arabo], Moskva 1988; M.D. Odiseli, Spätantike und frühchristliche Mosaiken in Georgien, Wien 1995.
di Jean-Pierre Sodini
La cristianizzazione di E. (gr. ʹΕφεσοϚ; lat. Ephesus; turco Selçuk) fu opera degli apostoli Paolo e Giovanni. Il primo vi soggiornò attorno agli anni 55-58, mentre il secondo, che lasciò un'impronta più durevole, senza dubbio vi morì all'inizio del regno di Traiano (98-117).
Gli importanti monumenti cristiani hanno avuto un ruolo decisivo nella cristianizzazione della città. Il più conosciuto intra muros è la cattedrale, major ecclesia quae vocatur Maria Dei genetrix, come viene definita negli Atti del concilio di Efeso, che qui si tenne nel 431. La città fu sede anche di un secondo concilio, nel 449, noto come il Brigantaggio di Efeso. La chiesa cattedrale venne costruita su un vasto mercato coperto (265 × 29,6 m), che fiancheggiava il lato sud del temenos dell'Olympieion; anteriore al concilio del 431, si presentava come una basilica molto allungata, divisa in tre navate da due colonnati di 20 colonne ciascuno e chiusa a est con una terminazione rettilinea e tripartita, l'abside centrale fiancheggiata da due ambienti quadrati. A ovest un largo nartece era decorato da mosaici geometrici (Rainbow Style) analoghi a quelli della chiesa pregiustinianea di S. Giovanni. Sul suo muro est, a nord della porta centrale, si trova una iscrizione di Hypatius, vescovo sotto Giustiniano verso il 530-538. Verso ovest il nartece si apriva con tre porte su un atrio. Sull'architrave della porta centrale una dedica menzionava un certo Giovanni "il santissimo arcivescovo", la cui identificazione è problematica. L'ampio atrio era stato installato all'interno delle strutture superstiti del mercato romano; contro il muro nord del mercato venne collocato, senza dubbio nella prima metà del V secolo, un battistero monumentale. La basilica del concilio sarebbe stata sostituita, forse nell'VIII secolo, da una basilica cupolata più corta, tutta in laterizi, alla quale sarebbe succeduta, verso il X secolo, una breve basilica a pilastri, che avrebbe rioccupato la parte centrale della grande basilica conciliare.
Gli scavi iniziati nel 1984 hanno sconvolto tale schema ricostruttivo. Il muro nord nella sua parte situata a est dell'atrio e all'altezza delle due chiese in infilata (a cupola e a pilastri) non sarebbe anteriore al 474, ma risalirebbe verosimilmente all'ultimo decennio del regno di Anastasio (491-518). Le conclusioni provvisorie che possono essere tratte da questa scoperta sono delicate. È impossibile che il concilio del 431 si sia svolto altrove o che i Padri si siano accontentati di un mercato per metà distrutto. Le parole degli Atti che indicano il luogo del concilio si riferiscono senza dubbio a una chiesa. La chiesa conciliare era forse stata sistemata nella parte antica conservata, cioè lo spazio diventato in seguito l'atrio. In effetti il suo lato ovest era stato dotato di un'abside il cui accesso venne valorizzato forse all'inizio del V secolo e quindi poteva costituire la chiesa conciliare. La sua collocazione a ovest non costituisce un ostacolo per questa identificazione: all'inizio del V secolo le absidi occidentali o con asse verso nord o verso sud non sono rare. I mosaici della prima metà del V secolo mostrano che questa chiesa era preceduta a est da un nartece. L'impianto del battistero, collocato secondo questa ipotesi lungo il fianco della chiesa, ricorda strettamente quello di S. Giovanni nella fase pregiustinianea e potrebbe quindi costituire un argomento per collocare in tale posto la chiesa conciliare. Nel VI secolo le autorità religiose non avrebbero fatto altro che procedere a un nuovo orientamento dell'edificio.
In seguito agli scavi, la basilica a pilastri come la cappella che la fiancheggia a sud non sarebbero da ritenere costruzioni medievali, ma si daterebbero al VI secolo, come indicherebbe il rinvenimento di una moneta del 518 sotto la pavimentazione marmorea della cappella. Quanto alla basilica cupolata, che secondo gli scavatori sarebbe anch'essa di VI secolo, è difficile capire se occupi la parte occidentale della chiesa con i pilastri, che sarebbe stata accorciata al momento del suo impianto, o se sia contemporanea a essa. In tal caso si sarebbe avuta nel VI secolo una chiesa doppia. Le stesse incertezze si pongono a proposito dell'episcopio, che era situato a ridosso della chiesa della Vergine. Palladio (Dialogus de vita Joannis Chrysostomi, 13) racconta che il vescovo Antonino fu deposto verso il 400 per aver utilizzato colonne della chiesa e lastre del battistero per la sala di ricevimento e le terme del palazzo. L'ampia abitazione scoperta nella parte orientale dell'antico mercato dell'Olympieion è stata per lungo tempo identificata con questo palazzo, tanto più che presentava le terme e una grande sala di ricevimento con un'abside. Un successivo sondaggio ha mostrato che le tramezzature dei locali datano al VI secolo. Se questo palazzo non è molto anteriore a questa data, quello degli anni attorno al 400 è da cercare altrove, forse più a ovest, nel posto attualmente occupato dalle chiese.
La chiesa di S. Giovanni è senza dubbio meglio conosciuta, sebbene sussistano molte incertezze per i periodi anteriori alla ricostruzione del VI secolo. Verso il II o il III secolo una tradizione collocava la tomba dell'apostolo su una collina a nord della città. Senza dubbio le prime tracce ufficiali di un culto si manifestarono sotto Costantino, ma s'ignora la sistemazione della supposta tomba. Forse, nel corso del IV secolo, venne eretto un heroon centrale davanti ai quattro bracci asimmetrici della basilica che verso esso convergevano e che conferirono al monumento, nel corso del V secolo, un aspetto cruciforme. Antistante la chiesa era un vasto atrio. Mosaici geometrici policromi in Rainbow Style e capitelli in uno stile non costantinopolitano indicano la prima metà del V secolo come la data conclusiva di tale sistemazione. Sul fianco nord della chiesa era collocato un battistero, fiancheggiato a est e a ovest da due ambienti absidati. Quello a est presenta, alla metà del suo lato ovest, una porta sormontata da un architrave con epigrafe, che commemora l'assemblaggio delle cornici della porta stessa e la costruzione della facciata del sekreton sotto il vescovo Giovanni. L'inizio del testo è identico a quello dell'iscrizione del vescovo Giovanni (lo stesso vescovo o un omonimo) collocata nella chiesa della Vergine. Nel VI secolo, forse sotto il regno di Anastasio, si cominciò a ricostruire la chiesa a partire da est (i bracci est, nord e sud) con murature piuttosto sottili adattate alla struttura. Poi, sotto l'influsso delle chiese cupolate di Costantinopoli e soprattutto dell'Apostoleion, come precisa chiaramente Procopio nel De aedificiis (V, 1, 4-6), si iniziò a coprire a volta l'intero edificio.
I capitelli ionici di questa parte della costruzione riportano per lo più i monogrammi di Teodora e di Giustiniano (i cui ritratti erano dipinti nella chiesa), il che prova la partecipazione imperiale alla ripresa del cantiere. Basi e colonne di marmo proconnesio, che presentano i marchi delle officine, indicano una provenienza costantinopolitana. Un vasto atrio con una cisterna era costruito su una terrazza artificiale a strapiombo sulla valle in cui si trovava il tempio di Artemide, numerosi blocchi del quale furono riutilizzati nella chiesa. Nel momento della sua maggiore estensione questa misurava circa 130 m di lunghezza e 66 m di larghezza. Il santuario, conservato all'incrocio, era a sua volta il punto focale del pellegrinaggio e il luogo in cui si celebrava la liturgia: l'altare era collocato al di sopra della supposta tomba dell'apostolo. Quest'ultima era composta da numerosi ambienti e diverticoli che apparivano deformati a causa dell'estrazione di una polvere miracolosa che veniva gettata, il giorno della festa del santo, al di sotto dell'altare. Senza dubbio verso la fine del VI secolo un vano circolare si andò a collocare nell'angolo sud-ovest del braccio nord. A due livelli, conservava nelle sue nicchie oggetti liturgici preziosi del santuario e ricorda nella sua forma il celebre skeuophylakion di S. Sofia a Costantinopoli; la sua sistemazione comportò l'installazione di un passaggio nell'ambiente annesso a est del battistero. Questo luogo di pellegrinaggio molto frequentato era forse già stato dotato di un muro di cinta.
Il terzo luogo santo di E. era una necropoli consacrata ai Sette Dormienti, sul versante orientale del Panacir Dağ. Questi sette giovani cristiani, che si erano addormentati al tempo delle persecuzioni di Decio, si erano svegliati due secoli più tardi, sotto il regno di Teodosio II e, dopo essersi fatti riconoscere dalle autorità civili e religiose, erano morti. Il luogo del miracolo era composto da svariati mausolei e cappelle; a nord una sala absidata era fiancheggiata da arcosoli. Un complesso più importante, adiacente a sud, era costituito da numerose tombe e terminava con un'abside orientata. All'estremità meridionale sorgeva un mausoleo coperto a cupola, eretto da un certo Abradas, databile al VI secolo. In aggiunta a queste, poche altre chiese sono state localizzate: oltre la porta ovest dell'agorà inferiore un tempio di Serapide venne forse trasformato in cappella; un'altra è forse nelle costruzioni pubbliche poste a nord della via che parte a nord-est della Piazza di Domiziano; la cosiddetta "tomba di S. Luca", posta presso le Terme di Vario, sembra essere una costruzione romana trasformata in chiesa mediante l'aggiunta di un'abside e di un nartece; una chiesa a sud dell'Arkadianè è stata oggetto di un rilievo sommario; un'altra è stata parzialmente scavata presso il Tusan Moteli, non lontano dall'attuale accesso al sito antico; nel Ginnasio Est venne impiantata una basilica, la sola tra tutti questi monumenti di una certa ampiezza, le cui tre navate, decorate con mosaici geometrici, sono state quasi totalmente scavate, ma la cui abside, a est, è stata distrutta dalla costruzione di una strada; infine, a ovest di S. Giovanni, sono stati rinvenuti i resti di un piccolo monastero.
L'urbanistica di E. è stata modificata in epoca protobizantina, soprattutto in merito alla rete stradale. Sull'Arkadianè venne costruito, all'inizio del VI secolo, un tetrastilo. La via di marmo fu ristrutturata all'epoca di Eutropio (fine V sec.). Nell'Embolos si provvide alla manutenzione del marciapiede musivo (stoà di Alitarco); una porta, databile all'inizio del IV secolo, venne rifatta nel V secolo dal prefetto del pretorio Flavio Costantino; è stato possibile ricostruire un secondo tetrastilo, con capitelli ionici (rinvenuti presso la porta ovest dell'agorà inferiore) in luogo dei previsti corinzi, datato allo stesso modo alla Tarda Antichità. Fontane adornavano le strade, costruite da poco tempo, come quelle poste di fronte allo stadio o lungo l'Embolos, restaurate sul lato sud dell'agorà inferiore (da Costanzo II), sull'Embolos (hydrion), sul lato sud dell'agorà superiore (ninfeo ricostruito sotto Costanzo II), o sulla strada che conduce alla Porta di Magnesia, installate in costruzioni riutilizzate, come la Biblioteca di Celso e l'Ottagono dell'Embolos. Le terme rimasero in uso benché le palestre fossero andate in rovina: il Ginnasio di Vedio, situato nei pressi del teatro, e più chiaramente ancora, i bagni del porto, conosciuti come le Thermae Constantinianae, le Terme di Scholastikia, ristrutturate e decorate da statue, quelle di Vario, che il proconsole Asclepius aveva dotato di un lungo tappeto musivo. Lo stadio e il teatro erano ancora mantenuti in vita. Solo i templi erano stati distrutti all'inizio del V secolo, con l'eccezione di quello di Adriano, la cui facciata, in qualità di monumento del demanio pubblico, era stata rispettata e integrata nelle Terme di Scholastikia.
Nell'edilizia privata, sulla base delle indagini stratigrafiche, possono essere riconosciuti due gruppi. Da una parte le vaste residenze, come quelle che si trovano tra lo stadio e il ginnasio presso il teatro o al di sopra del teatro, o più ancora quella che fu a lungo considerata un lupanare, offrono lo schema classico del "palazzo" tardoantico: ampie sale di ricevimento poligonali o allungate e terminanti con un'abside, terme private, divisione tra appartamenti privati e pubblici e, in un caso, presenza di un cortile a peristilio. D'altra parte ci sono gli edifici disposti lungo le pendici terrazzate del Coresso (Bülbül Dağ). Si tratta di residenze edificate parzialmente su due piani, la qual cosa consentiva di avere un cortile centrale a cielo aperto. Attorno a questo cortile, generalmente provvisto di una fontana, erano disposte sale di ricevimento, camere da letto, ma anche piccole terme, le cucine, le latrine e le scale che conducevano al piano superiore. Gli appartamenti disposti lungo i terrazzamenti inferiori erano i più spaziosi e potevano avere una superficie di 2000 m2, mentre gli altri, più in alto, non ne coprivano che qualche centinaio. Queste case vennero abitate dal I al VII secolo. Un terremoto negli anni attorno al 614, o piuttosto un attacco dei Persiani, danneggiò gravemente E., determinando l'abbandono delle dimore adagiate sul Coresso, che non furono sgombrate delle loro macerie. Gli attacchi arabi fecero il resto. E. fu devastata nel 654/5, poi di nuovo minacciata nel 674-678. Nel 781/2 venne presa dagli Arabi e assediata nuovamente nel 798. Nel corso di questi due secoli la città, che manteneva la sua importanza politica (poiché era senza dubbio la capitale del tema dei Traci) e religiosa, subì una considerevole contrazione della cinta muraria, sicuramente sotto Costante II (641-658): il nuovo perimetro difensivo venne arretrato al teatro e all'accademia; sia le due agorài e i loro assi di collegamento, sia il centro della città antica, furono abbandonati. Una seconda cinta muraria circondò S. Giovanni, forse nel VI secolo; questa venne rinforzata nell'VIII secolo, segnatamente la porta di accesso alla cittadella (detta Porta delle Persecuzioni).
Dopo la vittoria di Basilio I sul capo dei pauliciani, Crisocherio, nell'837, E., malgrado una breve occupazione selgiuchide tra il 1090 e il 1096, rimase bizantina fino al 1304. Sotto i Lascaridi (1204-1261) conobbe un lungo periodo di prosperità. Senza dubbio la nuova denominazione del sito, Ayios Theologos, indica lo spostamento dell'abitato verso S. Giovanni. L'antico porto, abbandonato, venne sostituito da quello di Scalanova ‒ nel sito dell'antica Phygela (l'attuale Kuşadasi), dove una chiesa dedicata a S. Giorgio venne costruita o restaurata nel 1019 ‒ e più tardi ancora dal porto di Anaea. La chiesa di S. Giovanni e la necropoli dei Sette Dormienti restarono centri attivi di pellegrinaggio. La chiesa della Vergine conservava un'immagine della Vergine che era anch'essa oggetto di visita. E. e la sua regione (attorno al monastero del Monte Galesios) erano diventati un importante centro spirituale e intellettuale. Niceforo Blemmydès (1197-1272), il più grande studioso del suo tempo, costruì a E. nel 1248 il monastero di Emathia. Nel XIII secolo, all'epoca dei Lascaridi, abitarono a E. grandi proprietari come Galavas (attestato nel 1216). Abitazioni medievali vennero costruite sul sito del Ginnasio del Porto, mentre una piccola chiesa bizantina venne inserita in una delle sue sale. Quanto alla chiesa della Vergine, la basilica a pilastri venne restaurata, l'iconostasi venne ricostruita e vi furono collocate numerose sepolture. Vennero impiantati fornaci nel battistero e un piccolo bagno nel colonnato nord dell'atrio. L'antica agorà, fuori le mura ma molto vicina a esse, divenne un luogo di riunione all'ingresso della città. In un'antica bottega trasformata in cappella è stato scoperto un affresco. Nella parte alta della città antica il tempio di Domiziano ospitava ormai una cisterna; tombe tarde vennero collocate nell'antica agorà superiore e nei suoi pressi si trovava un atelier per l'intaglio dell'osso. Nella grotta dei Sette Dormienti svariati mosaici e affreschi, che sembrano essere stati progressivamente realizzati tra l'VIII e il XIII secolo, sono testimonianza del continuo fervore di cui questo luogo godeva.
L'altura sulla quale era stata costruita la chiesa di S. Giovanni era ormai un kastron. I sovrani lascaridi ne restaurarono le mura e costruirono nella parte alta una fortezza autonoma. La chiesa offre numerose testimonianze, tra cui le tombe, della sua utilizzazione; forse in cattive condizioni al tempo del vescovo Giorgio Tornikès (1155/6), sembra essere tornata in buono stato sotto i Lascaridi. I suoi dintorni sembrano essere stati densamente popolati fino alla Porta delle Persecuzioni e lo stesso atrio sembra essere stato invaso. Queste costruzioni proseguivano verso sud-ovest fino al tempio di Artemide. Dopo il breve intermezzo catalano del 1304 la città passò nelle mani degli emiri selgiuchidi di Aydın. La prosperità rimase fino al 1425, quando gli Ottomani si impadronirono della città, che si avviò a divenire nulla di più che un piccolo villaggio nella pianura.
E. Reisch - P. Knoll - J. Keil, Die Marienkirke in Ephesos, in FiE, 4, 1 (1932); C. Praschniker - P. Miltner - H. Gerstinger, Das Coemeterium der Sieben Schläfer, ibid., 4, 2 (1937); J. Keil et al., Die Johanneskirke, ibid., 4, 3 (1951); P. Miltner, Ephesos, Stadt der Artemis und des Johannes, Wien 1958; W. Alzinger, s.v. Ephesos, in RE, Suppl. XII, coll. 1588-704; M. Restle, s.v. Ephesos, in RBK, II, 1971, coll. 164-207; A. Bammer, Ein spätantiker Torbau aus Ephesos, in ÖJh, 51 (1976-77), pp. 93-126; W. Jobst, Das öffentliche Freudenhaus in Ephesos, ibid., pp. 61-84; Id., Römische Mosaiken aus Ephesos, I. Die Hanghäuser des Embolos, in FiE, 8, 2 (1977); V.M. Strocka, Die Wandmalerei der Hanghäuser, ibid., 8, 1 (1977); P. Verzone, Le fasi costruttive della basilica di S. Giovanni di Efeso, in RendPontAcc, 51-52 (1978-80), pp. 213-35; C. Foss, Ephesus after Antiquity. A Late Antique, Byzantine and Turkish City, Cambridge 1979; M. Büyükkolanci, Zwei neugefundene Bauten der Johannes-Kirke von Ephesos: Baptisterium und Skeuophylakion, in IstMitt, 32 (1982), pp. 236-57; W. Jobst, Ein spätantikes Säulenmonument in Ephesos, in IstMitt, 39 (1989), pp. 245-55; S. Karwiese, Erster vorläufiger Gesamtbericht über die Wiederaufnahme der archäologischen Untersuchung der Marienkirche in Ephesos, Wien 1989; E. Parman, The Pottery from St. John's Basilica at Ephesos, in V. Deroche - J.-M. Spiser (edd.), Recherches sur la céramique byzantine, in BCH, Suppl. 18 (1989), pp. 277-89; E. Jastrzębowska, Ephesos und Chersonesos in Spätantike und frühbyzantinischer Zeit. Eine vergleichende topographische Studie, in RACr, 75 (1999), pp. 475-520; R. Pillinger et al. (edd.), Efeso paleocristiana e bizantina. Frühchristliches und byzantinisches Ephesos, Wien 1999; E. Russo, Sculture paleocristiane e bizantine dell'Artemision di Efeso, in U. Muss (ed.), Der Kosmos der Artemis von Ephesos, Wien 2001, pp. 265-78.
di Francesca Zagari
Parte dell'altopiano transgiordanico (800-700 m s.l.m.), si trova circa 7 km a ovest di Madaba.
Sebbene ci sia traccia di un'antichissima frequentazione, la storia di questa zona è legata al luogo della morte di Mosè (Deut., 34), dove fu ben presto costruita una chiesa. Poiché le fonti scritte non sono molto precise (Pseudo-Jonathan, Num., 32, 3, 38; 33, 47; Eus., On., 16, 24 e 136, 5; Teodosio, De situ Terrae Sanctae, 19; Itinerarium Antonini Placentini, 18, 13), per l'identificazione del luogo furono decisivi i ritrovamenti della Peregrinatio di Egeria e della biografia di Pietro l'Ibero, vescovo monofisita di Maioumas di Gaza (1884 e 1895). Le indagini archeologiche, intraprese a Siyagha nel 1933 da parte dello Studium Biblicum Franciscanum di Gerusalemme (S.J. Saller), hanno portato alla scoperta di numerosi monumenti che si sono succeduti sul luogo venerato nel corso del tempo. Nel IV secolo, fu edificata una cella trichora in grandi blocchi di calcare, che inglobava un edificio più antico: un vestibolo d'ingresso era affiancato da due cappelle funerarie e il complesso includeva anche un diakonikòn-battistero, con vasca cruciforme. Gli ambienti erano dotati di pavimenti musivi, con decorazioni geometriche e floreali, scene di caccia e iscrizioni che ricordano i benefattori, i monaci e i chierici lì sepolti, i mosaicisti e il prete e igumeno Alessio, committente dell'intera costruzione (fine IV - inizi V sec.). Una nuova grande fase di rifacimento si ebbe nella seconda metà del VI secolo, forse dopo un terremoto: la chiesa più antica divenne il presbiterio di un luogo di culto a tre navate, preceduto da un nartece e da una scala di accesso; la costruzione di cappelle laterali e di un nuovo battistero, con vasca esternamente cruciforme, comportò la distruzione dei primitivi ambienti nord e sud e dell'antico battistero. Anche in questo caso, i pavimenti musivi recano motivi geometrici, zoomorfi e vegetali e i nomi dei benefattori o la menzione della fine dei lavori, del contributo del vescovo Sergio di Madaba e un augurio di pace ai catecumeni (battistero). Più tardi, nella testata orientale della navata meridionale fu costruita una sorta di piattaforma, forse in ricordo della "memoria" vista da Egeria. I lavori furono ripresi nel primo decennio del VII secolo, al tempo del vescovo Leonzio di Madaba, quando, come ricorda l'iscrizione pavimentale musiva, fu edificata la cappella della Theotokos. Il monastero è già attestato da Egeria e, nella sua massima estensione, includeva vari livelli, per poi ridursi ai vani della prima terrazza, a ovest e a sud della basilica. Le diverse campagne di scavo hanno individuato, spesso attorno a cortili, ambienti di servizio (refettorio, cucina, forni, magazzini e luoghi di accoglienza per i pellegrini), alloggi dei monaci, cappelle, sala di lettura e scrittorio, in gran parte abbandonati alla fine del VI secolo.
Bibliografia
M. Piccirillo, Chiese e mosaici di Madaba, Jerusalem 1989, pp. 147-75; M. Piccirillo - E. Alliata (edd.), Mount Nebo. New Archaeological Excavations 1967-1997, Jerusalem 1998; N. Duval (ed.), Les églises de Jordanie et leurs mosaïques. Actes de la journée organisée à l'occasion de l'inauguration de l'exposition "Mosaïques byzantines de Jordanie" au Musée de la Civilisation gallo-romaine à Lyon en avril 1989, Beyrouth 2003.
di Francesca Zagari
Castellum (od. Rusāfa) del limes dioclezianeo nella Siria centro-settentrionale, che agli inizi del IV secolo divenne celebre come luogo del martirio di s. Sergio, le cui spoglie furono qui traslate, dando così origine al toponimo di Sergiupolis o Sergiopolis con cui esso è stato anche denominato.
Sede episcopale già nel 431, agli inizi del VI secolo R. era divenuta una delle principali mete di pellegrinaggio del Mediterraneo orientale e una delle più importanti città della zona, chiaro esempio della commistione di esigenze strategiche e religiose nella città protobizantina: furono costruiti luoghi di culto e strutture assistenziali in un centro urbano ancora limitato e probabilmente circondato da un muro di mattoni crudi. In sostituzione del primo martyrium, nel 518 fu realizzata una grande chiesa (cd. Basilica B); l'insediamento crebbe rapidamente per il flusso continuo di pellegrini, tanto che Anastasio (491-518) conferì a R. la qualifica di città. La contesa tra Bizantini e Persiani e le mire espansionistiche dei filobizantini Ghassanidi sull'area, secondo Procopio (Aed., II, 9, 3-8; Bell. Pers., II, 20, 14), avrebbero costretto Giustiniano a dotare il centro di mura, di un presidio militare permanente di 200 unità, oltre che di numerosi serbatoi d'acqua, case, portici e monumenti.
R. ha tutti gli aspetti raccomandati dalla trattatistica militare dell'epoca (De re strategica, X, 1-4): posizione difendibile in caso d'assedio, solidità della struttura difensiva, rifornimento d'acqua e presenza di una vicina cava lapidea. Probabilmente gli stessi architetti delle mura di Zenobia a R. applicarono la canonica pianta quadrangolare (550 × 400 m), simile ai castra romani e con il sistema protobizantino di triplice difesa (mura, fossato, antemurale). Lo spessore delle mura, tenendo conto del portico interno, raggiungeva i 3 m, superando quanto indicato dalla manualistica contemporanea. Le mura erano anche dotate di un complesso sistema di camminamenti e scale, di torri poste a distanza regolare (rettangolari, semicircolari e pentagonali o circolari ai quattro angoli) e di porte monumentali (in particolare quella nord). Ai pozzi, dentro e fuori il circuito murario, si affiancavano le cisterne ipogee ancora visibili presso l'angolo sud-ovest, che, tramite canalizzazioni e sistemi di decantazione, depuravano l'acqua piovana raccolta in un grande bacino artificiale all'esterno delle mura. Ancora da indagare è invece il sistema viario che non sembra fosse organizzato per assi ortogonali, ma per collegare i principali monumenti che sorsero nel corso del tempo. Contemporaneamente, si ebbe la costruzione della cosiddetta Basilica A ‒ dedicata alla S. Croce e destinata a ospitare più tardi il vescovo di R. e le reliquie del santo ‒, la chiesa a tetraconco, della quale non è nota la dedicazione, e la Basilica C, scavata di recente. Per la funzione strategica e per il ruolo religioso, R. è tra le poche città nuove che sopravvissero al potere bizantino: alla metà del VI secolo, fu sede del filarca ghassanide al-Mundhir, che costruì il suo palazzo subito fuori dalla porta settentrionale; resistette agli attacchi persiani, ma fu costretta a cedere agli Arabi alla metà del VII secolo, divenendo per breve tempo sede della dinastia omayyade (secondo quarto dell'VIII sec.), nel rispetto del pellegrinaggio cristiano. La crisi definitiva si ebbe alla metà del XIII secolo.
Bibliografia
J. Kollwitz - W. Wirth - W. Karnapp, Die Grabungen in Resafa Herbst 1954 und 1956, in AAAS, 8-9 (1958-59), pp. 21-54, in part. pp. 48-54; C. Mango, Architettura bizantina (trad. it.), Milano 1974, p. 195; W. Karnapp, Die Stadtmauer von Resafa in Syrien, Berlin 1976; G. Ravegnani, Castelli e città fortificate nel VI secolo, Ravenna 1983; T. Ulbert, Resafa-Sergiopolis: fouilles récentes dans une ville de pélerinage syrienne, in Syrie. Mémoire et Civilisation (Catalogo della mostra), Paris 1993, pp. 341-45.
di Michele Piccirillo
Le rovine di U.ar-R., o Kastron Mefaa, nella steppa orientale di Madaba (Giordania centrale), sono composte da un forte quadrangolare a carattere urbano a sud (158 m in direzione est-ovest × 139 m in direzione nord-sud) e da un quartiere sviluppatosi a nord delle mura pressappoco delle stesse dimensioni. La località è caratterizzata da un'alta torre che si innalza a 1300 m di distanza dal muro nord della cinta fortificata, nei pressi di edifici e di cave di pietra trasformate in cisterne.
Il nome fu registrato dall'esploratore U. Seetzen nel 1807. Le rovine furono descritte da E.H. Palmer nel 1870 e da H.B. Tristram nel 1872. Nel 1896 J. Germer-Durand ne propose l'identificazione con la località di Mefaat del Mishor Moab (l'altopiano moabita) ricordata nella Bibbia (Gen., 13, 18; 21, 37; I Chr., 6, 64; Ier., 48, 21), che Eusebio di Cesarea nel IV sec. d.C. associa con il "campo romano al margine della steppa" (On., 128, 21). L'ipotesi ha trovato conferma nella scoperta del nome di Kastron Mefaa nelle iscrizioni in greco dei pavimenti mosaicati della chiesa di S. Stefano (VIII sec.) e della chiesa dei Leoni (VI sec.). Nelle due chiese il toponimo è accompagnato dalla doppia vignetta topografica della città (castrum e quartiere fuori le mura), con cui i mosaicisti hanno voluto evidenziare la caratteristica urbana della località. La scoperta di tipologie ceramiche, di una base lobata e di uno scaraboide del VII sec. a.C. rimanda all'età del Ferro II-III. Nel Libro di Giosuè e nel Libro delle Cronache, Mefaat è una città del Mishor Moab conquistata dalla tribù di Ruben e scelta come luogo di rifugio e di asilo per gli omicidi involontari insieme con Qedemot, Yahsa e Beser (Gen., 13, 18; 21, 37; I Chr., 6, 64). Nel Libro di Geremia viene ricordata come una località moabita del territorio di Madaba (Ier., 48, 21). Nella Notitia dignitatum (XXXVII; fine IV - inizi V sec.) Mefa è sede degli Equites promoti indigenae sotto il comando del dux Arabiae. Nella primitiva tradizione islamica la località di Mayfa῾ah, ("villaggio della Balqa di Siria" secondo il geografo al-Bakry, XII sec.) è associata con il monaco cristiano (più tardi identificato con Buhaira), che aveva predetto a Zayd ibn Amr ibn Nufayl, uno dei quattro ḥunafā' messisi alla ricerca del vero monoteismo (ḥanīfiyya) di Abramo, la missione profetica di Muhammad loro contemporaneo (Sīrat Rasūl Allāh di Abu Muhammad Abd al-Malik ibn Hisham [m. 834], che editò materiali raccolti da Muhammad ibn Ishaq [m. 768 ca.]).
L'indagine archeologica iniziata nel 1986 nel quartiere settentrionale dallo Studium Biblicum Franciscanum in collaborazione con il Dipartimento delle Antichità di Giordania è ancora in corso (2005). Nel 1987 una missione dell'Association Max van Berchem si associò nella ricerca limitata all'interno del castrum, di cui ha potuto chiarire l'origine in epoca tetrarchica e i successivi cambiamenti in epoca bizantino-omayyade. Nel quartiere settentrionale lo scavo ha evidenziato l'accentuato carattere cristiano delle rovine già notato dagli esploratori del XIX secolo, riportando alla luce cinque grandi complessi ecclesiastici sviluppatisi tra il VI e l'VIII secolo: tre affiancati fino ad attraversare tutto il quartiere da nord a sud (il complesso di S. Stefano, quello della chiesa di S. Paolo e quello della chiesa dei Leoni), più il complesso della Tabula Ansata, sul limite meridionale del quartiere, con due chiese (chiesa della Tabula e chiesa del Prete Wail), e il complesso della chiesa del Reliquiario. A parte la chiesa di S. Stefano, i cui mosaici sono datati all'VIII secolo, le date nei mosaici delle altre chiese rimandano tutte alla seconda metà del VI secolo, al tempo del lungo episcopato del vescovo Sergio di Madaba che sappiamo in sede dal 574 al 602. Date (secondo l'era di Arabia con inizio nel 105/6 d.C.) confermate dall'indagine archeologica condotta sotto i mosaici, che ha evidenziato un uso funerario delle aree sulle quali furono poi costruite le chiese del quartiere.
Il più importante è il complesso di S. Stefano, sul limite settentrionale delle rovine, composto da quattro chiese, due delle quali mosaicate e datate, che si aprono verso l'interno della città, affiancate da cortili e da vani di abitazione. La chiesa di S. Stefano costruita per interessamento della "popolazione amante di Cristo di Kastron Mefaa" e "del diacono Giovanni arconte dei Mefaoniti" fu mosaicata al tempo del vescovo Sergio II, probabilmente nel 718. Il ricco programma decorativo è impostato in gran parte su 28 vignette di città identificate dal nome in greco: 10 vignette di località del Delta egiziano, a cominciare da Alessandria, che accompagnano i motivi fluviali della fascia nilotica che chiude il tappeto della navata centrale, e 18 vignette di città di Palestina e di Transgiordania, che decorano gli intercolunni della chiesa e le testate orientali delle due navate laterali. Nel 756, al tempo del vescovo Giobbe, il mosaicista Staurachios di Esbounta (Hesban, 7 km a nord di Madaba), coadiuvato dal collega Euremios, decorò, a una quota superiore, il pavimento del presbiterio utilizzando i motivi geometrici a intreccio caratteristici del periodo omayyade. La data alta nel mosaico fa della chiesa di S. Stefano un monumento guida della ricerca storico-archeologica nella regione, come testimonianza della persistenza nell'VIII secolo di una comunità cristiana fiorente economicamente e attiva artisticamente nella steppa orientale di Madaba.
In generale:
M. Piccirillo - E. Alliata, Umm al-Rasas Mayfa'ah, I. Gli scavi del complesso di Santo Stefano, Jerusalem 1994.
Studi e rapporti di scavo:
J. Bujard - M. Piccirillo - M. Poiatti-Haldimann, Les églises géminées d'Umm er-Rasas. Fouilles de la mission archéologique suisse (Fondation Max van Berchem), in AAJ, 36 (1992), pp. 291-306; M. Piccirillo, La Chiesa dei Leoni a Umm al-Rasas-Kastron Mefaa, in StBiFranc, 42 (1992), pp. 199-225; Id., La Chiesa del Prete Wa'il a Umm al-Rasas - Kastron Mefaa in Giordania, Early Christianity in Context, Jerusalem 1993, pp. 313-34; Id., La Chiesa di San Paolo a Umm al-Rasas - Kastron Mefaa, in StBiFranc, 47 (1997), pp. 375-94; S. Ognibene, La chiesa di Santo Stefano di Umm al-Rasas. Il problema iconofobico, Roma 2002.
di Guido Vannini
Un'amplissima letteratura storiografica internazionale, da oltre un secolo e mezzo, ha per oggetto il movimento crociato, un episodio di respiro euromediterraneo che ha interessato un'area estesa ‒ fra l'Asia Minore bizantina e il Nord Africa tunisino ‒ nei secoli XII-XIII, ma che ha il proprio baricentro nella Terrasanta; tuttavia solo da qualche decennio, più intensamente e con autonomia di problematica scientifica in questi ultimi lustri, l'archeologia come tale ha potuto portare nuove prospettive di ricerca alla stessa tematica storica generale.
Il contributo dell'indagine archeologica alla ricostruzione della presenza crociata in Terrasanta e nel Levante mediterraneo si può dire che, pur presente da tempo, solo nell'ultimo ventennio abbia potuto sviluppare un suo potenziale storico autonomo, che probabilmente non ha ancora espresso tutta l'incidenza nella stessa interpretazione (o reinterpretazione) di una molteplicità di aspetti inerenti le forme non solo materiali del bisecolare insediamento occidentale. A fronte di un'intensa letteratura storiografica sui diversi aspetti dei due secoli della presenza europea in Terrasanta e sulla scia di un tradizionale dibattito sui rapporti fra le architetture, soprattutto fortificatorie, proprie delle due culture che si affacciavano sui versanti opposti del Mediterraneo e che, fra i secoli XII-XIII, si trovarono a convivere strettamente in quell'area
straordinaria gravitante attorno alla valle del Giordano, l'apporto più specificamente archeologico si presenta, comparativamente recente, ancora frammentario. Se infatti ci troviamo di fronte, in questi ultimi lustri, a una straordinaria accelerazione di interesse archeologico per le tracce della presenza europea nella regione ‒ si pensi che i siti nei quali sono stati rinvenuti, grazie a scavi o ricognizioni, resti appartenenti al periodo di permanenza dei Franchi all'interno del Regno Latino di Gerusalemme (oltre a castelli, torri, piccole fortificazioni, cisterne, edifici voltati, acquedotti, frantoi, chiese, pietre confinarie, pozzi) sono complessivamente almeno 303, fra i quali Giudea e Samaria meridionale (108), Samaria settentrionale (15), area di Acri (28), Galilea (38), piana costiera (49), frontiera crociato-damascena (10), frontiera di Ascalona (7), Transgiordania (12), per la massima parte esplorati a partire dagli anni Ottanta del Novecento ‒, ciò è dovuto a una molteplicità di fattori e componenti.
È infatti venuto emergendo, proprio per il carattere "strutturale" (tematico) in senso storico dell'attuale stagione dell'archeologia medievale in particolare, un interesse peculiare per progetti centrati su aree culturalmente connotate; per questo una rinnovata "archeologia crociata" si è venuta ricostituendo in specie nell'area metropolitana del regno e solo in questi ultimissimi anni sta interessando le aree contigue (Siria e Libano), ma con esiti tuttora sostanzialmente inediti. Tuttavia, se ciò è dovuto in particolare a un'estensione mediterranea di interessi storiografici (e metodologie archeologiche) maturati in ambiti più ampi (incastellamento e feudalità mediterranea, produzioni e circolazione di manufatti e saperi tecnologici bassomedievali, ecc.), ha anche indotto un'attenzione rinnovata e più mirata al settore e al periodo anche in ricerche archeologiche diversamente indirizzate. Così, molti documenti materiali e ritrovamenti nei siti citati (basti scorrere le voci della EAEHL o quelle delle due edizioni dell'EIslam) sono dovuti a registrazioni effettuate in indagini condotte sempre più ad ampio spettro cronologico; un approccio anche pragmaticamente rinnovato che, fra l'altro, oltre a produrre rilevanti elementi di contesto ‒ sia cronostratigrafico che territoriale ‒ ha fortemente contribuito a introdurre nella regione un'archeologia islamica aggiornata alle nuove impostazioni dell'attuale archeologia storica. Andrà dunque distinta dall'attuale una fase "monumentale" della ricerca archeologica nel Levante crociato, intesa sia in senso lato ‒ con studi di carattere eminentemente architettonico (come quelli di E. Enlart e di P. Deschamps) incentrati soprattutto sulla descrizione dei connotati stilistico-formali e monumentali quasi esclusivamente di castelli o chiese, generalmente coniugati a restauri imponenti, come la celebre impresa francese degli anni Trenta del Novecento del Krak des Chevaliers in Siria ‒ sia riguardo a programmi più specificamente archeologici. Così, emblematico si pone lo scavo estensivo del grande castello costiero di Atlit, la cui indagine topografica mise in luce l'intera struttura, con le sue difese esterne su triplice linea, storicamente preludio dell'opera di rafforzamento delle fortificazioni dei principali insediamenti costieri che il re s. Luigi promosse nel 1250.
Progressivamente, l'attuale interesse per i caratteri dell'insediamento entro cui leggere le modalità dell'inserimento della società feudale "crociata" nella regione ha così condotto, recentemente, all'organizzazione di scavi direttamente finalizzati all'approfondimento delle caratteristiche dei diversi siti rurali franchi; da questo punto di vista, lo studio di Torre Rossa (al-Burj al-Ahmar) è stato fra i primi e più significativi. I programmi svolti dalla British School of Archaeology in Jerusalem e da D. Pringle in particolare hanno portato già alla costituzione di primi repertori e studi su singoli temi dell'archeologia del periodo crociato, anche se, i primi soprattutto, ancora tendenzialmente basati, oltre che su puntuali ricognizioni, su di un approccio architettonico che consentisse di recuperare anche quanto, in altra luce, comunque prodotto dagli studi precedenti. Tuttavia, allo stato, mancano ancora sintesi attendibili realmente fondate su di una messe di analisi anche complesse e articolate su singoli temi o aree che pure cominciano a essere già disponibili.
La costituzione del Levante crociato avvenne in un quadro in cui, progressivamente, la pianificazione riguardò esclusivamente la conquista, o meglio il suo obiettivo, nel contempo materiale, una città, e ideologico, un concetto: Gerusalemme. Quanto alle concrete forme di occupazione della regione e di insediamento nel territorio, la stessa strutturale fragilità politico-militare di questa singolare creazione della società medievale europea in Terrasanta può essere considerata anche il portato di una procedura episodica ‒ nel tempo, anche endemica ‒ della formazione degli Stati crociati e soprattutto del loro radicarsi, nella doppia accezione sociale e materiale, nell'ambiente locale. Gli elementi di razionalizzazione nelle forme di insediamento, sia tattico (la scelta di un sito) sia strategico (l'organizzazione di un'area regionale), furono certo perseguiti non secondo pianificazioni territoriali ma, nella generalità dei casi, reagendo a serie di eventi o situazioni contingenti della più diversa natura.
Tuttavia, si deve anche osservare come tale modo di procedere nell'organizzazione dei territori e dello Stato nel suo complesso poteva così valersi di tutto il pragmatismo e della flessibilità che meglio rispondevano alla stessa matrice storica e culturale dei nuovi venuti europei. Certo non abituata a governare "dal centro" territorio e società, l'aristocrazia feudale continentale, cultura protagonista dell'evento, fu infatti capace non solo di risolvere difficili situazioni contingenti ma di elaborare, progressivamente, soluzioni che, alla prova dei fatti, si dimostrarono più volte efficaci, soprattutto nel senso di dare luogo a un controllo integrato dell'intera regione. Se infatti la catena di Stati franchi che venne rapidamente a collegare i territori dell'impero bizantino, dal principato di Antiochia al Regno Latino di Gerusalemme, era sostanzialmente basata sul controllo di aree subregionali appoggiato alle antiche città fortificate soprattutto costiere (contea di Tripoli), ma anche dell'interno (contea di Edessa), via via acquisite nel primo decennio della conquista, molto più variato e certo meno strutturato ‒ forza flessibile e debolezza strutturale ‒ fu l'assetto che si venne costituendo, con significative accelerazioni e corrispondenti stasi, nel cuore del regno.
Così, per esemplificare, si passa dall'"area condominiale franco-damascena" fra il principato di Galilea a nord dello Yarmuk e l'altipiano dello Jaulan e la Terra di Suet che, sulla base di un preciso accordo con i governatori di Damasco, costituiva un territorio amministrato congiuntamente e sostanzialmente smilitarizzato (almeno per tutta la prima metà del XII sec.), al caso opposto del retroterra del porto fortificato di Ascalona, presso Gaza. Qui, infatti, la contingente ma strategica necessità di acquisire una fondamentale testa di ponte a disposizione della potente flotta dell'Egitto fatimide fu risolta attraverso un "assedio" più che quarantennale che dette luogo alla costituzione di una sorta di catena di grandi castelli (Blanchegarde, Bethgibelin), di siti fortificati (Eleutheropolis, Château Maen, Château Plains) e di un sistema insediativo di riferimento (Ramleh, Lydda, Giaffa) che finì, non direi però casualmente, per costituire una delle regioni fondamentali non solo nella difesa del regno, ma anche nella sua economia. Un caso ancora diverso è quello rappresentato dal ruolo svolto dalla presenza crociata nell'oltregiordano, dove l'intera area fertile predesertica, da sempre crocevia delle vicine maggiori civiltà, fu protetta da una linea difensiva, inserita fra Siria selgiuchide ed Egitto fatimide e appoggiata a una serie di castelli e punti forti.
Gli Stati crociati della costa siro-libanese, dal Krak des Chevaliers ‒ a fronte di poche fortezze musulmane come Ajlun ‒ attraverso il controllo di oasi come at-Tafilah (la bizantina Metrocomia) e di grandi fortezze come Shawbak e Kerak, venivano così a saldarsi con il Golfo di Aqaba e il deserto del Sinai, guardato dal castello eretto nell'Isola dei Faraoni, sul Mar Rosso. La geografia politica della regione ne venne rapidamente ridisegnata nel proprio assetto interno (dai nuovi venuti occidentali) e nei suoi equilibri esterni (con i potentati musulmani di Damasco e del Cairo); in appena un quarto di secolo, con il maggiore sforzo costruttivo dai tempi dei Severi per respiro territoriale e intensità, un sistema di castelli e fortezze venne così disposto a protezione della biblica Strada dei Re (l'antica via Nova Traiana), fondamentale arteria di collegamento nella regione, e di un'area economicamente vivace, adatta alle principali colture e al pascolo, alla produzione del balsamo, dell'indaco e soprattutto della canna da zucchero, alla raccolta del bitume e del sale, mentre le esportazioni probabilmente utilizzavano il porto di al-Mina, sul Mar Morto, dove scavi archeologici hanno restituito ceramica di periodo crociato.
Certo il sistema difensivo, in quanto spina dorsale politica e strutturale del regno, ha costituito la prima attrattiva per i programmi di indagine espressamente dedicati all'analisi archeologica dell'insediamento nel Levante crociato. Un dato che sta emergendo è il ricorso a scelte in equilibrio fra l'adattamento a condizioni e tradizioni locali e l'adozione di modelli di provenienza europea; ad esempio, le fortificazioni di frontiera, poste anche a controllo della viabilità (così, in particolare, in Galilea e in Transgiordania) di cui sfruttavano economicamente il flusso commerciale, sono spesso, secondo la tradizione europea, anche centri amministrativi e a volte episcopali (Banyas, Kerak) di un più o meno ampio territorio circostante e danno rapidamente luogo, frequentemente, a borghi esterni, generalmente difesi, in cui si raccoglie una popolazione anche e, probabilmente, soprattutto locale. Il ruolo di tali aree di frontiera sta progressivamente rivelandosi, per il XII secolo almeno, più rilevante, come, ad esempio, è emerso dalla stessa consistenza materiale, oltre che dalle precise logiche insediative (come l'"incastellamento" di Petra), dei castelli di Transgiordania (al-Wuayra, al-Habis, non solo Shawbak e Kerak), ben maggiore di quanto ritenuto solo pochi anni fa. Si è qui potuto documentare come i Crociati abbiano ricorrentemente rioccupato siti fortificati bizantini abbandonati da secoli, certo in un contesto demografico ed economico assai più fragile di quello tardoantico, ma ugualmente funzionali al controllo delle risorse agricole e della viabilità; una sorta di condizionamento "archeologico" subito dai Crociati che si manifestò sia nella dimensione tattica, con la scelta di soluzioni funzionali, militari e strutturali, adattate alla natura fisica e ambientale dei siti, sia strategica sul piano dell'insediamento territoriale.
Il risultato delle prime indagini condotte, all'incirca a partire dalla metà degli anni Ottanta del Novecento, su scala territoriale, sta conducendo a riconoscere proprio in questa lettura "di frontiera", intesa in senso feudale-europeo, una delle chiavi di lettura strutturale almeno di alcuni connotati stabili di fondo dello stesso insediamento crociato nel Levante nel suo complesso. Questa condizione introduce in effetti un elemento di razionalizzazione nell'apparente non pianificazione dell'organizzazione dei territori ("signoria territoriale"); un sistema e una sua lettura archeologica che, infatti, fa sempre più e meglio documentare e riconoscere anche le basi economiche locali e le forme della loro gestione, certo senza affatto sminuire il rilievo dei rapporti mediterranei con le città costiere europee (sotto questo profilo si conferma e si articola il ruolo specifico delle corrispondenti città fortificate di tutta la costa siro-palestinese, fino ai ritrovamenti di Beirut e Antiochia), ma portando in primo piano, soprattutto per l'interno e peculiarmente per il XII secolo, un razionale e, questo sì pianificato, sfruttamento delle risorse ambientali, non solo agricole.
Un approccio che caratterizza quanto in tal senso osservato per il territorio di confine con Tiro e l'area damascena, con la rifortificazione dell'antica Banyas, ma soprattutto con i castelli turriti di Baisan, Belvoir (tenuto dagli Ospedalieri e ampliato in almeno tre fasi successive), Beaufort (che, dotato di un faubourg esterno, aderisce a uno sperone di roccia sul fiume Litani), il templare Safad (la "chiave di Galilea" con i suoi 260 villaggi, che dispone di una straordinaria fonte scritta, il De constructione castri Saphet, la quale ha consentito di accompagnare i dati costruttivi, articolati in ben quattro grandi fasi e una doppia cerchia turrita, rilevati sul terreno, compreso il burgus sive villa e capace di contenere fino a 2200 persone), i casi straordinari di Qasr al-Atra (che, con i suoi dieci mesi di vita e il suo cantiere bruscamente interrotto, garantirà ai suoi scavatori le migliori condizioni per documentare la costruzione di un castello) e della grotta fortificata su tre livelli di Ain al-Habis (Cava de Suet) sulla valle dello Yarmuk, al centro di una zona fertile e con un'alta densità di popolazione, da cui si controllavano le comunicazioni con la valle del Giordano, la Siria meridionale e la Transgiordania. Analogamente la frontiera sud-occidentale di Ascalona (indagini parziali o iniziali sono condotte ad Ascalona stessa, Darum, Bait Jibrin, Blanchegarde) evolvette, dopo la caduta della città portuale egiziana, verso l'adozione della Grande Berrie come barriera desertica di protezione strategica, saldata tramite i castelli dell'Île de Graye e di Ayla sul Mar Rosso con la Transgiordania, divenuta signoria: il deserto come confine naturale del regno.
Appena avviati (e tuttora inediti) sono quindi vari programmi di ricerca sulle città costiere (Beirut, Sidone) e sui castelli a ridosso della frontiera fra il principato di Antiochia e l'entroterra musulmano, fino alla parte settentrionale della contea di Tripoli, fin qui preceduti solo da qualche isolata indagine (Tell Arqa) a carattere "monumentale". Si tratta di una regione di frontiera che, a differenza di quella transgiordana e sia pure con un peculiare connotato di "mobilità" nel tempo, ha visto succedersi a una "prima generazione" di castelli più modesti una seconda stagione, condivisa con il territorio metropolitano del regno, di reincastellamento, su scala decisamente maggiore, seguito alla disfatta di Hattin (1187) a opera di Salah ad-Din (il Saladino) e di cui l'emblema può essere considerato il grande Krak des Chevaliers. Si tratta di una rete complessa di insediamenti incastellati maggiori e con funzioni strategiche, ancora archeologicamente leggibili in modo sostanziale ‒ come Qalat Salah ad-Din (la franca Saône), Qalat Burzy, Qalat al-Mahalba, Qalat Bani Qahtan, Harim, ma anche il pur restaurato Margat ‒ e di siti fortificati minori ma diffusi sul territorio e spina dorsale del radicamento anche economico, ad esempio, per lo sfruttamento delle risorse agricole, come Qalat Yahmur, Safita e Qalat Arima.
Forse più diffusa ma occasionale è la ricerca effettuata su siti fortificati, in genere di dimensioni minori, dislocati a protezione del complesso sistema di comunicazioni che fino dall'antichità caratterizzava la regione e che assommava su di sé la funzione di percorso assistito per i pellegrini in direzione di Gerusalemme (ma anche di altri luoghi di devozione biblica o evangelica), di rete viaria militare e di percorso di transito commerciale, sia internazionale che, non meno rilevante, locale. L'archeologia ha identificato o sondato alcune postazioni militari che proteggevano le principali vie di accesso che collegavano con Damasco i territori di Sidone e Beirut (la grotta-fortezza di Cave de Tyron, il castello di Qalat Abu'l Hasan a nord di Sidone), gli insediamenti presso la montagna del Carmelo ‒ basati economicamente, oltre che sulle rendite dei tragitti commerciali, sull'agricoltura e sulla pastorizia, come Teqoà (Thecua), Khirbat al-Burj (Castrum Ficuum) e Khirbat al-Karmil (Carmelus) ‒, le grotte-fortezze di Tirun an-Niha (Cave de Tyron) e Magharat Fakhr ad-Din, sulla via fra Giudea e Transgiordania Khirbat Al-Burj, Khirbat al-Karmil, Khirbat at-Tuqu, mentre il controllo della valle di Jezreel era affidato ai castelli dei Templari (ordine espressamente fondato a protezione delle vie di pellegrinaggio) di Al-Fula (La Fève) e Le Petit Gérin sulla via fra Lajjun, Nazareth e Tiberiade. Altre indagini, per lo più preliminari, hanno riguardato punti forti o castelli dislocati sulla viabilità che conduceva a Gerusalemme (Monte degli Ulivi, Bethpage, Betania) o costiera (Latrun, Montfort). Le città portuali fortificate costituivano un centro portante del Regno Latino di Gerusalemme, soprattutto nel XIII secolo. Tuttavia, dei più importanti centri economici del Vicino Oriente, i Franchi controllavano, dopo la giornata ai Corni di Hattin, solo Antiochia, Tripoli e Tiro; la costa siro-palestinese venne così a svolgere la funzione di sbocco commerciale anche per i prodotti dell'entroterra musulmano. Indagini archeologiche, salvo eccezioni anche rilevanti, solo sporadicamente hanno interessato tuttavia le aree urbane, mentre più estesi sono stati gli studi architettonici, a volte entrambi sulla scia di interventi di restauro.
Acri, punto nevralgico del regno fra una rete di vie commerciali regionali e principale porto d'imbarco per merci e pellegrini, ha visto affrontati per via archeologica alcuni dei suoi problemi topografici, peraltro oggetto più volte di indagini storiche, urbanistiche, architettoniche, come, ad esempio, la questione delle mura e del rapporto topografico e funzionale con il quartiere di Montmusard. Le doppie mura che lo delimitavano a nord sono state ricostruite da una ricognizione archeologica che ha anche localizzato alla loro estremità, sul mare, una torre rotonda e definito l'assetto topografico dei quartieri veneziano e genovese e il mercato del Montmusard, fiancheggiato da botteghe su due piani "all'europea". Scavi urbani hanno messo in luce strutture attribuite a edifici monumentali citati anche nella mappa di Paulinus de Puteoli come parte del complesso degli Ospedalieri: una ecclesia, identificata sotto l'attuale moschea, e l'hospitale per pellegrini e sede dei cavalieri, riconosciuto soprattutto per l'abbondante presenza di un tipo specifico di ciotola usata per servire il pasto ai pellegrini. Indagini hanno quindi riguardato le mura, anch'esse doppie e turrite, e una chiesa a tre navate a Tiro; i centri di Giaffa e Beirut, con lo scavo della cattedrale, con tre fasi tutte entro il XII secolo; le fortificazioni di mare e di terra di Sidone datate al tempo di re Luigi IX (1253) e il molo del castello (come a Cesarea e ad Arsuf, con la localizzazione della cittadella), dove è stato notato un lastricato di pietre legate fra loro da ganci di ferro sigillati in piombo (come riscontrato anche a Beirut, Cesarea e Acri); Cesarea, i cui scavi urbani hanno documentato elementi topografici fondamentali, come strade, di cui una coperta con archi acuti, edifici monumentali, come la cattedrale costruita sopra una serie di volte antiche riutilizzate con funzione di magazzini, o residenziali, come un edificio voltato a botte con abitazione di mercante al primo piano e il suo negozio a quello sottostante, come consueto in città portuali mediterranee dell'epoca. A Gerusalemme l'archeologia costituisce un capitolo a sé, in cui una consolidata tradizione di archeologia monumentale, biblica e classica, costituisce tuttora il contesto dominante entro il quale si è mossa la ricerca che, anche recentemente, ha potuto documentare la fase crociata della città; si tratta soprattutto di analisi di impianti o di resti di edifici ecclesiastici (il Santo Sepolcro, l'abbazia di S. Maria nella valle di Josaphat), di elementi difensivi (mura, cittadella), di strutture monumentali di servizio (cisterne, botteghe) o residenziali (il cd. "palazzo reale" rinvenuto nel giardino armeno).
Complessivamente si può comunque affermare che gli scavi fin qui condotti nelle città soprattutto costiere del regno hanno potuto dimostrare che, almeno in alcune aree, l'asserito spopolamento degli insediamenti ebbe origine nel periodo precedente a quello crociato (Cesarea, Arsuf); un fatto che peraltro si accorda, paradossalmente, con un certo ripristino dei collegamenti fra gli empori di Siria e Palestina con il mercato mediterraneo, riaprendo al commercio i principali porti della costa che l'invasione musulmana aveva storicamente ("pirennianamente") limitato.
I siti franchi a carattere non monumentale sono stati a lungo trascurati dalla ricerca archeologica e dispongono peraltro di scarse fonti scritte. La loro distribuzione inizia ora a essere conosciuta e discussa; ad esempio, la zona a nord di Gerusalemme risulta già più intensamente insediata di quanto non si credesse, come la Giudea e la Samaria meridionale o il territorio di Acri. In alcuni di essi vi sono edifici a corte centrale che potevano essere residenze di signori feudali, l'equivalente delle maisons fortes in Occidente; altri villaggi (ar-Ram, Magna Mahumeria, Khirbat al-Burj) sono a impianto pianificato, con aree residenziali al primo piano e un piano terreno voltato, usato come magazzino o laboratorio, con evidente modello europeo. La ricerca archeologica sui siti rurali ha consentito già di identificare resti materiali di centinaia di insediamenti e un considerevole numero di edifici crociati, frequentati stabilmente dai Franchi e con un investimento di energie molto superiore a quanto fin qui comunemente ritenuto, al di fuori degli insediamenti urbani fortificati già in età musulmana, riaprendo quindi la classica questione di natura e dimensione del popolamento, insediativo e demografico, nei territori del regno.
A proposito del grado e delle modalità di integrazione della società franca in quella locale, la storiografia ha proposto differenti interpretazioni; dal modello tradizionale che propendeva per una società integrata franco-siriana, a quello "colonialista" che sostiene piuttosto una netta separazione fra i Franchi e la popolazione locale, a uno recente (R. Ellenblum) che tende a delineare, su base topografica se non proprio archeologica, una società in cui Franchi e cristiani locali tendevano a egemonizzare lo stesso controllo territoriale. In tale quadro ‒ la questione, tutt'altro che risolta, è tuttavia reimpostata su nuove basi, anche materiali ‒ le ricognizioni archeologiche indicano già con chiarezza l'importanza che per i Franchi assunse la scelta delle logiche insediative da adottare in base a caratteristiche ambientali, come la posizione elevata, la disponibilità d'acqua, la vicinanza alle comunicazioni, ma anche ricorrendo alla propria "dotazione culturale", molto spesso ponendosi in una sorta di continuità storica con le precedenti fasi di occupazione dei siti stessi, magari dopo abbandoni di secoli: al-Bira, ar-Ram, Suba, Jifna, Khirbat al-Marjama, Amwas, Abud, Ramla, al-Baina, Mi'iliya, Khirbat Iribin, Qaqun, Saffuriya, al-Affula, sono tutti siti caratterizzati da almeno uno di questi elementi. Una logica, peraltro, riscontrabile frequentemente (in Transgiordania in maniera ricorrente) per via archeologica anche nei maggiori siti incastellati; lo stesso Guglielmo di Tiro testimonia, ad esempio, che una delle motivazioni all'origine della scelta del luogo di fondazione di Darum sia stata la presenza di consistenti strutture precedenti.
L'analisi archeologica di una tale rete insediativa comincia a fare emergere anche una struttura economica del Levante crociato che sarà possibile interpretare su di una rinnovata base documentaria, di natura materiale. Per ora gli elementi disponibili sono parziali e frammentari e possono solo essere prudentemente esemplificati, tuttavia la loro stessa crescente dimensione e significativa distribuzione anche territoriale promette la possibilità di future sintesi storiche. Sta, ad esempio, emergendo tutta una serie di strutture in siti nei quali la produzione di zucchero, metallo, vetro e il funzionamento di mulini sembrano essere le funzioni principali, affiancandosi a quelle dello sfruttamento agricolo tradizionale.
Così, il carattere economico di molti insediamenti indagati archeologicamente è rivelato dalla presenza di terrazzamenti e di installazioni legate alla produzione dello zucchero, che giunse a essere esportato anche in Europa. Ad esempio, le zone di Tiro, della valle del Giordano e della piana di Acri erano fra le più attive per piantagione e lavorazione della canna da zucchero; di quest'ultima, presente sulle rive del Giordano e del Mar Morto, parlano fonti scritte del periodo, quando lo zucchero "del Cranco di Monreale" (Kerak) veniva esportato fino a Cipro. Così, per l'area a nord di Giaffa è attestata una forte presenza di mulini e una diga, controllati dagli Ospedalieri, che sfruttavano il fiume Yarkon; la piana di Acri produceva zucchero e grano, anche a sostegno dei suoi numerosi villaggi. Fra i molti resti di mulini emersi è interessante ricordare quello relativo al castello di Montfort, del tipo a ruota verticale, anziché orizzontale come è tipico in quest'area, probabilmente introdotto proprio dai Franchi.
Su di un altro piano, se si vuole, il problema dei caratteri del popolamento crociato risponde, con tutta evidenza e secondo una mentalità concretamente medievale, a rilevate necessità logistiche e anche tattiche (una difesa a sistema integrato) o strategiche (ad es., il ripristinarsi dopo secoli di una frontiera nella regione). Ma prima ancora ‒ e le due questioni non appaiono separabili ‒ corrisponde a una cultura europea che è feudale e continentale (ciò vale anche per i Normanni dell'Italia meridionale) e in quanto tale da sempre abituata a governare società e territorio dal contado, diversamente da quanto invece "pensa" una cultura urbana, in questo erede dell'antica tradizione mediterranea orientale, come quella islamica del tempo. Una tradizione urbana che, a partire soprattutto dalle coste del Mediterraneo e in particolare dell'Italia, proprio dall'XI secolo torna progressivamente ad affermarsi anche in Europa e che condurrà alla fine, significativamente in sostanza contemporanea, della feudalità mediterranea e poi continentale.
Un tale assetto insediativo trova riscontri anche nella dimensione strutturale, costruttiva degli edifici eretti dai Franchi; ciò senza volere entrare nello specifico settore dell'"architettura crociata" che, come noto, dispone di una sua propria tradizione di studi, come peraltro accade più in generale per la storiografia crociata. Così, il fatto che in diversi villaggi, che risultano infeudati all'inizio del XII secolo, siano stati rinvenuti edifici fortificati, in molti casi costituiti da semplici torri, ricorda forme occidentali ‒ europee e mediterranee ‒ di organizzazione dell'insediamento, con la rappresentazione non solo militare del potere signorile sul territorio, già praticate almeno dal X secolo e con funzioni anche residenziali e amministrative o politiche. La forma materiale era infatti spesso una torre difesa da un muro di cinta, di cui esempi franchi, archeologicamente accertati, in Palestina possono essere Torre Rossa e Burj Baitin; peraltro le testimonianze scritte descrivono questi edifici come caratteristici del paesaggio intorno a Gerusalemme. Tuttavia, possono riconoscersi altri elementi direttamente legati alla peculiarità della situazione del Levante latino, come l'organizzazione dei centri degli Ospedalieri presso Gerusalemme, dove le indagini archeologiche hanno suggerito una ripartizione funzionale fra i vari insediamenti, con Belmont, principale centro amministrativo dell'area, Aqua Bella, infermeria per i membri dell'ordine, e Castellum Emmaus, ospizio per i pellegrini.
In tale quadro, vengono ad acquisire una nuova dimensione anche alcune peculiarità costruttive (non solo architettoniche) nel modo stesso dei Latini di edificare in Oriente; si prospetta, in altri termini, un modo di acquisire nuovi contesti d'interpretazione, di natura archeologica, per riaffrontare la questione dei rapporti e delle reciproche influenze fra i saperi tecnologici fra le opposte sponde del Mediterraneo medievale. Attualmente la sostanza dell'approccio archeologico che ha iniziato a produrre una vera e propria nuova base documentaria, una peculiare fonte per contribuire a riproporre anche vecchie problematiche, è di tipo soprattutto territoriale e, in qualche caso, di associazione stratigrafica di scavo; salvo un promettente contributo allo stato iniziale e circoscritto a una casistica transgiordana, non è invece ancora entrata a fare parte delle correnti metodologie di analisi archeologica la lettura stratigrafica dell'edilizia storica che, in prospettiva e coniugata con la dimensione territoriale, potrebbe rivelarsi per vari aspetti decisiva ("archeologia leggera"). Tuttavia una serie di elementi e di documenti materiali sono già emersi in modo significativo, nel senso già detto.
Ad esempio, alcune forme architettoniche risultano in effetti coniugare, in alcune soluzioni costruttive adottate, elementi di diversa provenienza culturale; le torri, che pure connotano il paesaggio, ambientale e politico, del regno, non risultano normalmente avere più di due piani; il soffitto è voltato e l'ingresso generalmente al piano terreno: tutti elementi che differenziano pure la stessa struttura in Europa e nel Levante latino, senza contare (ma questo è ben comprensibile) l'uso del legno, in Occidente, per soffittature e dispositivi d'appoggio (bertesche, percorsi di ronda, carpenteria interna, ecc.). Tutto ciò mentre la struttura generale mutua un modello che non solo riporta a moduli europei ma, soprattutto negli impianti di XII secolo, si dimostra del tutto aggiornato: un donjon rettangolare circondato da un muro di cinta con torri quadrate (come a Ibelin, Bethgibelin e Tell as-Safi, ma anche a Belvoir e nella fortificazione interna del villaggio di Mi'iliya).
Un connotato certo non esclusivo ma ricorrente e caratteristico delle soluzioni difensive adottate negli insediamenti crociati può riconoscersi nella tendenza a dotare di strutture o collocazioni urbanistiche militari edifici di diversa destinazione prioritaria; in primo luogo le chiese, spesso fortificate e collocate in posizioni strategicamente rilevanti nella difesa del sito di appartenenza.
Ciò avviene anche in ambito urbano (Tartus), ma è soprattutto negli insediamenti incastellati che tale scelta è ricorrente: così ad Arsuf e forse a Safad, nella fase templare e qui collegata a una cisterna, dove la chiesa è ubicata entro una torre; a Shawbak e ad al-Wuayra, con la presenza della maggiore cisterna del castello sotto la chiesa, peraltro ubicata (al-Wuayra) entro la cittadella e nel punto di estrema difesa del castello (con una "medievale" allusione di fatto alla salvezza, fisica e metafisica: l'ultima acqua nel punto di un probabile fonte battesimale, presso l'abside). Sempre a tale proposito si può citare l'uso frequente di fortificare i monasteri (così è a Betania, Monte Tabor), ma anche le strutture civili e produttive, come è il caso del mulino di Tall Dauk, nella piana di Acri, provvisto di una torre di difesa, e di quello di Khirbat Kurdana, dove sono presenti una caditoia e feritoie. Le influenze occidentali in ambito cittadino sono probabilmente anche maggiori ‒ le strade coperte di Acri e Cesarea, diffuse peraltro nel Mediterraneo orientale, la presenza degli archi acuti nella strada di Cesarea (ma anche ad al-Habis e Shawbak), la torre Burj as-Sultan di Acri, di tipo urbano italiano, le botteghe di Gerusalemme, con funzione residenziale al piano superiore ‒, ma probabilmente (si pensi al ruolo mediterraneo svolto dalle città e ai loro quartieri "italiani", questi sì "coloniali") andranno valutate autonomamente rispetto a quanto presente nel territorio metropolitano.
L'adozione, l'elaborazione, la diffusione di specifiche soluzioni costruttive caratterizzano con la loro presenza il modo di edificare nel Levante crociato, anche se ne resta tuttora incerta, in più di un caso, l'origine; fra queste si può ricordare la tecnica costruttiva cosiddetta "dei cunei a cuscino", che incorpora corsi di colonne nello spessore del muro, adottata in diverse strutture crociate (ad es., nelle mura di Cesarea), o la tecnica che utilizza grappe di ferro nelle murature (a Beirut, Cesarea, Acri), secondo alcuni appresa dai costruttori franchi osservandone la presenza nel riutilizzare materiale antico, ciò che peraltro è a sua volta prassi consueta. Si stanno anche censendo e classificando altri indicatori di rilievo edile, come i marchi di scalpellino e la lavorazione delle pietre a linee diagonali e parallele (ad es., nel castello di Safed e a Eleutheropolis), elementi che stanno divenendo indicatori della tecnica costruttiva franca, ma che potranno produrre effetti documentari considerevoli quando saranno sistematicamente collegati a un'analisi stratigrafica degli elevati su scala territoriale (un metodo che in Transgiordania ha già portato a costituire atlanti tematici di murature che ora costituiscono indicatori cronotipologici delle strutture murarie validi su scala regionale).
Un settore specifico che in futuro potrebbe trovare un ruolo significativo è anche quello, allo stato del tutto embrionale, dell'archeoantropologia; un settore che ‒ coniugato con le letture archeoambientali, anch'esse nascenti nell'area ma capaci di offrire informazioni potenzialmente strategiche per la comprensione di mutamenti e permanenze nelle condizioni dell'ambiente (fra clima, risorse del suolo, alimentazione e antropologia) ‒ sembra essere in grado, a quanto fin qui osservato e su di una base ancora del tutto minore di documentazione disponibile, di fornire informazioni insostituibili sulla caratterizzazione dei popoli occidentali nel loro nuovo ambiente e su alcuni aspetti del loro inserimento nella regione, sia culturale che ambientale. Ciò tanto più in quanto l'intera area regionale del Vicino Oriente mediterraneo dispone di studi e di estesi campionamenti relativi a un ampio spettro cronologico che, sostanzialmente, copre tutto il periodo precedente e antico (J. Rose): un'ottima base documentaria in grado di offrire preziosi quadri di riferimento, confronto e contestualizzazione.
Certo ancora del tutto episodiche e non generalizzabili sono le indicazioni che i primi studi sulle sepolture hanno finora fornito sulle condizioni di vita dei Franchi in Terrasanta. Se infatti non trascurabile è il numero non solo di sepolture ma anche di aree cimiteriali attribuibili al periodo e a insediamenti europei nella regione, soltanto pochissimi (realmente soltanto due: Jezreel e al-Wuayra) sono i siti studiati anche sotto il profilo archeoantropologico. Così, 116 sono le sepolture attribuite al periodo crociato nello scavo di una delle due aree cimiteriali esplorate a Giaffa, molte con tracce di cassa lignea, tutte orientate e con il capo del defunto poggiato su di un cuscino di pietra, secondo un uso attestato anche in altri siti europei sia orientali (al-Wuayra, Cesarea) che occidentali e riferibile a un particolare status sociale dell'inumato. Ma è lo scavo delle 38 sepolture rinvenute presso la chiesa di Jezreel, secondo un uso largamente attestato in tutta l'Europa del XII secolo, che, oltre alla postura, all'utilizzo del sudario e alla conferma di quanto sopra osservato, ha avviato una sistematica analisi antropologica degli inumati. Se il campione non è ancora sufficiente per andare oltre l'episodio sullo stato sanitario e sull'aspettativa di vita, il fatto che 36 delle 38 sepolture siano infantili e che questo corrisponda singolarmente con il solo altro campione disponibile, le 16 sepolture analoghe di al-Wuayra, anch'esse adiacenti alla chiesa, può tuttavia essere considerato indicativo dell'età della mortalità infantile, prevalentemente fra i 6 e i 18 mesi, e di alcune diffuse malattie, fra le quali l'anemia. Dal confronto fra i due gruppi di sepolture prevalentemente infantili, nonostante l'esiguità dei campioni, si nota ad al-Wuayra un tasso molto più alto di mortalità alla nascita e di gravi infezioni, tanto da far pensare al modello tipico di una popolazione introdotta in un ambiente nuovo, per il quale non è biologicamente o immunologicamente preparata.
Il quadro che una tradizione specifica di studi ceramologici, recentemente rivista alla luce delle acquisizioni stratigrafiche degli anni Ottanta e Novanta del Novecento, ha potuto comporre circa presenza, produzione e circolazione di una serie di tipi ceramici ben individuati, comincia a costituire un affidabile indicatore economico per valutare condizioni e vicende del sistema insediativo almeno di alcune aree del Levante crociato e dei suoi rapporti tanto sul versante mediterraneo, in particolare verso i centri di irradiazione italiani, quanto verso l'entroterra islamico, egiziano e siriano in specie.
La base della dotazione ceramica era costituita da modesti tipi locali di forme acrome, particolarmente nelle aree interne lontano dalle città costiere, dove tali produzioni paiono migliori; vi erano anche tipi dipinti sommariamente a motivi geometrici (Qasr al-Atra, al-Wuayra) e in alcuni siti maggiori nel territorio metropolitano e costiero del regno anche invetriati (Qasr al-Atra, Acri). Significativa, anche se quasi sempre sporadica, è quindi la presenza di ceramica da mensa e di pregio (almeno per i consumatori occidentali) di importazione, sostanzialmente prodotta fra il tardo XII e il primo XIII secolo, sia dall'entroterra siriano (maiolica a lustro metallico e a ornamenti a rilievo, Fritware tipo Raqqa, Underglazed Painted Syrian Ware) che dal Mediterraneo islamico (ceramica siculo-maghrebina nordafricana, invetriata copta tipo Fayyum e maiolica a lustro egiziana), bizantino (ingubbiata tipo Zeuxippus, Cipriota X, Aegean Ware, graffita bizantina del XII sec.) e occidentale (riconoscibili i tipi italiani: protomaiolica, Spiral Ware), mentre un ruolo peculiare pare rivestire la cosiddetta "ceramica graffita crociata" (con la Port St. Symeon Ware), in quanto di possibile produzione, più probabilmente commissionata, interna al regno. Tutto ciò avviene tuttavia solo in una serie selezionata di insediamenti, ove il carattere residenziale è non solo presente ma coniugato anche a ruoli in qualche modo istituzionali o di governo (Qasr al-Atra, Jezreel, Baisan, Qaimun, Atlit, Cesarea, Acri). Si tratta di indicatori che, su un piano più generale quale inizia a emergere dall'insieme dei dati archeologici disponibili, ancora documentariamente frammentari e metodologicamente eterogenei ma complessivamente di buona consistenza, disegnano un quadro fortemente differenziato fra una situazione materialmente modesta e del tutto dipendente dall'instrumentum tradizionale locale ‒ e riferita a un'area sostanzialmente periferica nel mondo musulmano del XII secolo, dominante nel primo secolo della presenza occidentale in Terrasanta e persistente nelle sedi interne ‒ e un'altra assai più articolata e attrezzata nei siti urbani e costieri. Tuttavia, presenze e proporzioni ‒ come iniziano a emergere dai siti meglio scavati e dalle aree subregionali oggetto di ricognizioni più sistematiche ‒ indicano chiaramente, da parte degli insediamenti occidentali, non solo un progressivo miglioramento nel dotarsi di manufatti per l'organizzazione dell'esistenza quotidiana, ma anche un obiettivo più efficace inserimento nell'ambiente regionale.
Quanto al quadro offerto dalle tipologie importate, gli scavi hanno restituito ceramica prodotta a Cipro, nell'area dell'Egeo, in Italia, in Siria e nella regione di Antiochia; inoltre, la presenza di ceramica copta e a lustro metallico di produzione egiziana conferma i rapporti commerciali fra costa palestinese e Delta del Nilo. Un quadro che è possibile delineare anche grazie ai vecchi ritrovamenti di Atlit e Port Saint Symeon e agli studi ceramologici più recenti dedicati alle principali tipologie, resi possibili anche da una fitta serie di rinvenimenti, quantitativamente non cospicui ma provvisti di indicazioni topografiche e a volte stratigrafiche complessivamente già affidabili. Così è stato possibile definire e riconoscere precise tipologie che ora possiamo definire "mediterranee" come cultura produttiva, in quanto strettamente collegate a famiglie di tipi affini, e che svolgevano un ruolo cruciale nella stessa formazione di un rinnovato settore ceramistico duecentesco nel Mediterraneo centrale; introduzione e diffusione in Italia di ceramiche graffite e delle prime smaltate sembrano trovare anche nei centri costieri crociati (oltre che a Cipro) uno dei crogioli (o dei tramiti) di origine e diffusione anche di specifici saperi tecnici.
La protomaiolica, una tipologia frequentemente attestata in vari siti del regno, prodotta in Italia meridionale a partire dalla fine del XII secolo, era presente in molti siti costieri mediterranei (ad es., a Corinto), ma aveva una diffusione che vedeva forse il principale addensamento extraitaliano proprio in una pluralità di siti lungo tutta la costa degli Stati franchi. È stato osservato in proposito e con una qualche forzatura come la distribuzione di protomaiolica nel Mediterraneo medio-orientale, indicando un'importazione proveniente dal luogo d'origine del colonizzatore e per il suo stesso consumo, rifletta un tipico modello di commercio coloniale osservato più volte nel corso della storia. Ciononostante, il commercio di questo prodotto, così culturalmente caratterizzato da una simbiosi di elementi occidentali e orientali, presuppone l'esistenza nel XIII secolo di un mercato non solo sufficientemente stabile per la sua ricezione, ma anche caratterizzato dall'apprezzamento di un manufatto che conteneva connotati tecnologici, formali e decorativi propri della cultura sia dei produttori che dei committenti della ceramica realizzata nel Vicino Oriente.
La graffita crociata (Port St. Symeon Ware), fra le tipologie ceramiche locali da mensa ‒ in genere assai modeste (monocroma graffita e Slip-Painted and Glazed Ware) ‒ riveste un ruolo specifico e particolarmente interessante; si può dire che, su di un altro piano funzionale, pur essendo attribuibile a una produzione di origine siriana, dovette assumere una caratterizzazione regionale (da Antiochia alle città del regno) in forma non dissimile da quella già osservata per alcune produzioni più modeste di uso comune da cucina o dispensa; una produzione fortemente caratterizzata, cronologicamente circoscritta dall'inizio del XIII secolo al 1268 ‒ quando la regione di Antiochia, dove era collocato il principale centro produttivo, passò dalla dominazione franca a quella dei Mamelucchi ‒ e che comunque non sembra essere sopravvissuta alla fine della presenza della committenza europea nel Levante. Questo tipo ceramico, commerciato attraverso tutto il territorio residuo del regno, ma non sembra al di fuori di esso (con un'eccezione molto parziale per il Delta egiziano), aveva quindi una committenza senza dubbio franca e doveva interpretare una cosciente, precisa identità culturale; una serie di connotazioni, quindi, che possono essere considerate un contributo archeologico alla domanda storica su livello e modalità di integrazione culturale dei Franchi nell'ambiente locale.
Un quadro del tutto diverso e fortemente significativo, anche comparativamente, è quello della Transgiordania del XII secolo, il solo di periodo crociato nella regione, il cui popolamento occidentale si conclude bruscamente e totalmente con l'abbandono intervenuto nel biennio 1187-1189, seguito alla rotta di Hattin. La netta prevalenza, fra i reperti degli strati crociati, della più modesta ceramica fatta a mano ma con una discreta articolazione di forme e con tipi ceramici dipinti in ocra rossa, è significativa della dipendenza di al-Wuayra dal mercato e dalla pur modestissima produzione locale, probabilmente quella del vicino villaggio beduino di Wadi Musa, come della mancanza di artigiani specializzati sul sito; la scarsa quantità di invetriata al tornio sembra rinforzare quest'ipotesi. In tale quadro, un preciso significato appaiono rivestire sia la presenza di alcuni frammenti di ceramica d'importazione dai grandi centri produttori del Vicino Oriente islamico (il tipo Raqqa siriano e il lustro metallico egiziano), sia la loro sporadicità; ciò nel senso tanto di una perifericità della zona al momento del primo impianto crociato, quanto di un avvio di reinserimento con una propria soggettività della regione nel contesto generale dell'area. Caratteri, questi, che contrastano radicalmente con quanto sta invece emergendo dalle ricerche condotte negli Stati crociati costieri del secolo seguente, il XIII, dove sporadici e poco affidabili sono invece i dati riferibili alla prima generazione di XII secolo. Qui, l'omogeneità nella presenza delle tipologie indica, probabilmente a opera dell'attività delle navi italiane, un sistema intenso di ridistribuzione costiera alimentato armonicamente tanto da ceramiche prodotte localmente quanto da quelle importate, mostrando il ruolo del trasporto navale costiero all'interno della vita economica dell'area; un connotato economico strutturale che la ceramica, un prodotto raramente menzionato nelle fonti scritte, può contribuire a illuminare.
Le migliori metodologie applicate alla ricerca archeologica nell'area hanno iniziato a restituire anche una documentazione vetraria più affidabile, anche se i dati disponibili sono ancora del tutto sporadici e rendono prematuro qualsiasi tentativo di sintesi. Tuttavia qualche singolo caso permette alcune osservazioni che, peraltro, possono riguardare solo le città costiere del tardo Duecento, Acri in primo luogo. In linea generale sembra che le forme più diffuse di bottiglie e bicchieri rientrino nella più tipica dotazione dei vetri da tavola del periodo, sia di ambito culturale occidentale che orientale di età mamelucca, ma riferibili a produzioni di minore qualità rispetto alla media. Da un buon contesto archeologico di XIII secolo, sempre da Acri, proviene invece un gruppo di bicchieri con decorazioni applicate e di fabbricazione locale ‒ da considerarsi prodotti di pregio, tanto ad Acri che in altri contesti franchi ‒ in cui è riconoscibile un'influenza di artigiani italiani; pare quindi potersi trattare di una condizione simile a quella riscontrata all'origine della graffita crociata: una produzione strettamente connessa alla stessa presenza crociata nella regione.
Altri indicatori economici su scala territoriale provengono anche dai dati archeoambientali ottenuti sia in ricognizione sia (per ora solo in qualche singolo caso) in scavo. Ad esempio, lo stesso paesaggio di molte zone e, in prospettiva, dell'intera regione appare prendere corpo e non sempre in direzioni attese; un quadro complessivo che delinea uno stesso quadro climatico, che sembra essere stato sensibilmente diverso e probabilmente significativamente più umido rispetto a ora, peraltro in accordo con quanto per altre epoche già in passato avanzato.
Non solo, ad esempio, risulta ben presente la vigna, ma più diffusa la coltivazione dell'ulivo; molte case nei villaggi rurali indagati (ad es., al-Qubaiba, Ramot Allon, Suba) contenevano al piano terra frantoi da olio o da vino e vasche per la pigiatura dell'uva. L'area di Petra nel XII secolo, ad esempio, è un ambiente che già le fonti scritte (i "boschi" anche di ulivi e di alberi da frutto citati da Guglielmo di Tiro nel 1144) e ora i primi rilevamenti archeoambientali (al-Wuayra) ci fanno intuire significativamente diverso dall'attuale e non solo per la presenza di acqua, sorgiva e meteorica. Tuttavia tali condizioni non avevano attratto ‒ almeno nei secoli immediatamente precedenti il XII e anche dal XIII ‒ che un popolamento beduino sporadico, strettamente locale o seminomade; condizioni, insomma, di estrema periferia di un mondo, quello del Vicino Oriente islamico, fra i più progrediti del tempo. Così, pur non potendo ancora generalizzare quanto viene emergendo, anche ad al-Burj al-Ahmar i resti archeobotanici e archeozoologici hanno rivelato la coltivazione di numerose varietà vegetali, per lo più alimentari, che consentiva una dieta molto varia e ricca degli occupanti del sito in periodo crociato; hanno inoltre fornito indizi di un allevamento di maiali, mentre recenti indagini condotte nei villaggi di Suba, Khirbat Summaqa in Galilea e Tell Hesban in Transgiordania hanno potuto documentare la presenza diffusa di bovini, ovini e suini e un netto incremento anche di caprini, equini e cammelli, delineando un modello basato su di un'economia mista di agricoltura e allevamento e sullo sfruttamento degli animali soprattutto per latte e lana o pelle, più che per la carne. Da notare che la lista di carni consumate nell'Ospedale di Gerusalemme indicata dalle fonti scritte trova corrispondenza con i resti archeozoologici: il consumo di maiale, capra e pecora, la giovane età di macellazione dei caprini, l'abbondanza di polli e pesce e la presenza di piccioni domestici.
Quanto alla documentazione numismatica, l'osservatorio consentito dai ritrovamenti di Atlit, provenienti in gran parte dal borgo, resta il più completo di periodo crociato (con quelli di Antiochia, Acri e Cesarea), anche se relativi per lo più alla prima metà del Duecento, tanto più che il quadro dei rapporti che ne esce appare potersi riferire indirettamente alla vicina Acri. La provenienza delle monete disegna la rete dei rapporti mediterranei del Regno Latino di Gerusalemme (Cipro, Damietta, Sicilia, Tripoli), dato il normale uso di quelle europee, bizantine, crociate e islamiche, queste ultime soprattutto coniate a Damasco. La presenza inoltre di tessere mercantili di piombo (come accade anche ad Acri, Cesarea, Belmont) riporta a usi aggiornati nella mercatura italiana e francese del tempo.
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di Stella Patitucci Uggeri
Castello della Siria meridionale sui monti Nusairi, situato in forte posizione sulla cima di una collina isolata a circa 700 m di quota, in collegamento visuale con la vicina fortezza di Chastel Blanc (Safita). Viene denominato anche Castrum Crati, Crac de l'Opital e in arabo Hisn al-Akrad, Qalat al-Hisn. È una delle fortezze più imponenti e meglio conservate del Levante crociato.
Fondato dall'emiro di Homs nel 1031 e occupato da una guarnigione di Curdi, preso momentaneamente nel 1099 dai Crociati diretti a Gerusalemme, fu assediato e rioccupato da Tancredi d'Antiochia nel 1109; nel 1112 passò ai conti di Tripoli; nel 1142 il conte Raimondo II di Tripoli lo cedette agli Ospedalieri, che rafforzarono e ampliarono le fortificazioni, soprattutto dopo il terremoto del 1157, così efficacemente da resistere ai successivi attacchi arabi. Dopo il terremoto del 1169 altri interventi e la cappella furono eseguiti con il contributo di Vladislao II, re di Boemia. In conseguenza del terremoto del 1201 il K.d.Ch. fu rafforzato e fu realizzata la cerchia più esterna: da allora diventò la base per le scorrerie degli Ospedalieri. Ma quando questi persero i territori più orientali, nel 1267 caddero in mano al sultano Baybars i 3 castelli minori e le 16 torri attorno al K.d.Ch., che rimase isolato. Assediato decisamente, dopo un mese capitolò e venne evacuato dai cavalieri l'8 aprile 1271. Il sultano lo restaurò e rafforzò aggiungendo due torri a sud. Nel 1285 il sultano Qalaun aggiunse la torre quadrata sul lato esterno sud. Il castello restò in uso fino al XIX secolo, quando vi si installò un villaggio, che ne causò il degrado. I restauri iniziarono nel 1927. Il castello sorge su uno sperone, isolato da un fossato a sud, ed è costituito da due anelli concentrici di fortificazioni collegate da una rampa. La cerchia esterna ad andamento subovale (220 × 150 m ca.) è rafforzata da 3 forti torri a sud, da 5 torri semicircolari a ovest, da 3 bastioni a est, in uno dei quali si apre l'accesso principale, e da 2 bastioni a nord, che guardano una postierla. Un cortile anulare si svolge all'interno; una profonda cisterna rettangolare è scavata nella roccia a sud. Dall'entrata un lungo corridoio coperto sale con un netto gomito alla fortificazione interna. Questa consiste in un giro anulare di ambienti e in una corte centrale subtriangolare (80 × 35 m ca.), nella quale sorgono, a ovest, di fronte all'ingresso, il grande salone porticato, a nord la cappella e a sud i grandi magazzini. Sul lato sud si eleva il settore più forte con tre grandi torri con nobili ambienti voltati e sovrapposti, a destinazione residenziale.
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di Guido Vannini
Il centro della Transgiordania in età bizantina vide l'inizio del suo declino e dal VII secolo, con la conquista araba e la perdita della sua funzione di frontiera e di tramite fra culture diverse e complementari, venne definitivamente abbandonato fino alla breve stagione crociata (1100-1189), quando iniziò a riacquistare alcuni degli antichi caratteri.
Uno studio di archeologia territoriale condotto sull'insediamento crociato a P. è da anni in corso a opera dell'Università di Firenze, nei suoi aspetti strutturali ma anche come "osservatorio" sulla frontiera crociato-musulmana di Transgiordania, in rapporto con il modello insediativo ayyubide. Le indagini hanno documentato modalità, fasi e dinamiche dell'imponente sistema di castelli e fortezze disposto a protezione della cosiddetta Strada dei Re e che, di fatto, venne a costituire, seppure non pianificato, il primo apparato difensivo orientale del Regno Latino di Gerusalemme, un cuneo strategico fra Damasco e Il Cairo. Fra i primi interventi, datati entro il primo quindicennio del XII secolo, si collocano la fortificazione di Kerak, il presidio dell'oasi di at-Tafilah, la costruzione, per opera dello stesso Baldovino I, del castello di Shawbak (Crac de Montréal) e, in specie (prima di Ayla e dell'Île de Graye sul Mar Rosso), il nuovo sistema insediativo di P.; qui, dopo un'eclissi di quasi mezzo millennio, sorse un vero, articolato sistema classico d'incastellamento feudale dell'intera valle, con i castelli o i punti forti di al-Habis, Jabal Atuff, al-Wuayra, Hormuz. I principali di essi erano già stati oggetto di osservazione ‒ Li Vaux Moises, isolato sugli aspri rilievi di al-Wuayra e dominante gli accessi all'antica valle, visitato dai viaggiatori europei (H. Savignac, A. Musil) fra fine Ottocento e primo Novecento e indagato di recente con un limitato sondaggio (R. Brown) ‒ o, come al-Habis, che chiude il controllo interno della valle, oggetto di una ricognizione di superficie (Ph.C. Hammond). Le indagini hanno prodotto una sequenza di fasi di occupazione per un lungo arco cronologico (con due lunghi abbandoni, uno fra le fasi nabatee, ellenistico-romane, bizantine e l'impianto crociato e il secondo nel periodo successivo) e contraddistinte da precise tipologie in termini di contesti di manufatti mobili, tecniche murarie, tipi di finitura dei materiali edilizi e tracce di strumenti. La redazione di atlanti cronotipologici di murature stratigraficamente attribuibili alla fase crociata di XII secolo ha consentito di documentare, su scala territoriale, precisi rapporti anche con le scelte strategiche e con specifiche soluzioni tattiche adottate secoli prima (come il limes Arabicus in età tardoromana e bizantina), per la difesa di una frontiera che, di questa specifica regione storica, rappresenta una vera "struttura" culturale di lungo periodo. Così, per un verso sono emerse interazioni tra occidentali e popolazione residente nel processo di urbanizzazione dei siti ‒ documentando il coinvolgimento di maestranze della pietra di origine araba nel cantiere del castello ‒, per un altro sono state riconosciute fasi insediative precedenti a quella di XII secolo, in particolare di età bizantina ed ellenistico-romana (al-Wuayra, al-Habis).
Bibliografia
H. Savignac, Chronique: Ou'airah, in RBi, 12 (1903), pp. 114-20; Ph.C. Hammond, The Crusader Fort on El-Habis at Petra. Its Survey and Interpretation, Salt Lake City 1970; R. Brown, A 12th Century A.D. Sequence from Southern Transjordan Crusader and Ayyubid Occupation at el-Wu'eira, in ADAJ, 31 (1987), pp. 267-88; F. Cardini et al., Ricognizione agli impianti fortificati di epoca crociata in Transgiordania. Prima relazione, in Castellum, 27-28 (1987), pp. 5-38; G. Vannini - A. Vanni Desideri, Archaeological Research on Medieval Petra: a Prelimitary Report, in ADAJ, 39 (1995), pp. 509-40; G. Vannini - C. Tonghini, Medieval Petra. The Stratigraphic Evidence from Recent Archaeological Excavations at al-Wu'Ayra, in Studies in the History and Archaeology of Jordan, 6 (1997), pp. 371-84; G. Vannini et al., "Medieval" Petra. Archaeology of the Crusader-Ayyubid Fortified Settlements in Trans Jordan, in Civilisations of the Past, Dialogue of the Present: Italian Research Mission in Jordan, Amman 2002, pp. 181-99; G. Vannini - M. Nucciotti, Fondazione e riuso dei luoghi forti nella Transgiordania crociata. La messa a punto di un sistema territoriale di controllo della valle di Petra, in R. Fiorillo - P. Peduto (edd.), III Congresso Nazionale di Archeologia Medievale (Salerno, 2-5 ottobre 2003), I, Firenze 2003, pp. 520-25.
di Guido Vannini
Castello (ar. al-Burj al-Ahmar) situato al centro della piana di Sharon, in Palestina, fra i vicini corsi del Nahr Iskandaruna e del Nahr al-Faliq.
La storia archeologica dell'area inizia dal Calcolitico (IV millennio a.C.) e dal Bronzo Antico (III millennio a.C.), mentre al periodo romano e bizantino (37 a.C. - 636 d.C.) si deve un insediamento generalizzato, con lo scavo di canali artificiali in funzione ancora nel Medioevo (il Nahr al-Faliq, per i Crociati Flum de Rochetaillé). Alla via maris si affianca una viabilità costiera fra Cesarea e Giaffa. Se nella prima età islamica (VII sec. - 1099) inizia un lento processo di spopolamento dell'area, si mantenne la viabilità tra Il Cairo e Damasco lungo il fronte tra Bizantini e Fatimidi per il controllo della Palestina. L'insediamento crociato sembra quindi essersi "superimposto" fra il terzo decennio del XII secolo e il Duecento avanzato. Il sito e l'intera area sono stati indagati da una missione britannica negli anni Ottanta del Novecento, con lo scopo di raccogliere dati sull'insediamento rurale nella Palestina "medievale", dall'arrivo dei Crociati alla conquista turca. La maggior parte della popolazione era locale, inquadrata in una rete insediativa preesistente solo marginalmente modificata dai Crociati. La ricerca di superficie ha dimostrato come il fenomeno delle Terrae vastatae, ovvero degli insediamenti islamici abbandonati, noto dalle fonti crociate, sia da attribuire piuttosto agli scontri tra Bizantini e Fatimidi nel X secolo. L'arrivo dei Crociati non modificò il sistema insediativo della regione, impostato sui siti di fondazione romano-bizantina "selezionati" durante il primo periodo islamico. L'insediamento crociato della piana di Sharon continuò fino al XIII secolo avanzato (quando le sue difese furono rinforzate) e praticamente tutti i castelli e le torri attestati nel Duecento hanno un'origine databile entro il terzo decennio del XII secolo. Dal punto di vista materiale i tre castelli della piana, di cui sono ancora visibili strutture in elevato, presentano un analogo tipo edilizio, riconducibile a quello identificato già da Th.E. Lawrence nel sito di Qalat Yahmur, nella contea di Tripoli. Esso costituisce una "variazione orientale" del tipo donjon-enclosure, comparso nella Francia settentrionale nell'XI secolo e successivamente attestato in tutto il Nord Europa fino al XIII secolo, ed è composto da un edificio palaziale di due piani a pianta subquadrata (il donjon) posto all'interno di una piccola cortina fortificata (l'enclosure). Il donjon misura normalmente fino a 20 m di lato (la T.R. misura 19,7 × 15,5 m). Dopo l'abbandono crociato le rovine videro solo frequentazioni nomadiche. In generale c'è una netta prevalenza della ceramica locale (salvo un frammento del tipo siriano cd. Raqqa); interessanti i resti archeozoologici, che riflettono le norme alimentari (presenza di maiali) della Regola del Tempio, e quelli archeobotanici.
D. Pringle, The Red Tower. Settlement in the Plain of Sharon at the Time of the Crusaders and Mamluks (A.D. 1099-1516), London 1986.