L'archeologia del Subcontinente indiano. Bengala
di Jean-Yves Breuil, Sandrine Gill
Il bacino del Bengala è un complesso sedimentario che si estende tra il Bangladesh e il Bengala Occidentale indiano. Esso si apre verso sud sul Golfo del Bengala, è circondato a nord dalla catena dello Himalaya, a est dalle catene birmane (altopiano di Shillong, Tripura Hills, Chittagong Hills) e a ovest dall'estremità orientale dell'altopiano di Chota Nagpur (Rajmahal Hills). Nel bacino del Bengala si possono distinguere tre unità principali: le terrazze sopraelevate (del Barind, di Madhupur e la terrazza a occidente del fiume Hooghly-Bhagirathi), formate da antichi depositi di età pleistocenica; le pianure alluvionali del Gange (chiamato Padma nel Bangladesh), del Brahmaputra (o Yamuna) e della Meghna; infine, a sud, il delta attuale, il più esteso al mondo (140.000 km2), nel quale convergono e si fondono i delta dei tre grandi fiumi citati sopra. Le tracce di una presenza preistorica sono limitate ai margini del bacino, in particolare alle antiche terrazze pleistoceniche. Nella zona occidentale le vallate del Damodar, del Dwarakeswar, di Tarafeni, del Suvarnarekha e dei loro affluenti sono ricche di manufatti, attribuibili al Paleolitico inferiore e al Paleolitico medio. Se l'industria litica del Paleolitico superiore è più difficile da identificare, questa stessa zona è ricca di microliti: è il caso, ad esempio, del sito mesolitico di Birhanpur, lungo il Damodar. Nella zona orientale, presso le Lalmai Hills vicino a Comilla, è stata identificata un'industria di lame di legno fossile attribuibile al Paleolitico superiore, ma tracce di tale produzione sono presenti anche più a sud, nelle Chittagong Hills, e a nord presso Sylhet (Chaklapunji).
Il Neolitico sembra assente dal bacino del Bengala, ma è presente nel Nord-Est, nell'Assam e nel Meghalaya, lungo i pendii delle colline Garo e Naga dell'altopiano di Shillong, che declinano a strapiombo nella valle del Brahmaputra. È ancora nella parte sud-occidentale del Bengala (valli del Damodar, dell'Ajay e del Kapir) che si trovano i siti più rappresentativi della cultura calcolitica (1500-700 a.C. ca.). L'occupazione di alcuni siti (ad es., Pandu Rajar Dhibi, Mahisdhal e Mangalkot), alla quale è associato lo sviluppo di una caratteristica ceramica nera e rossa, prosegue durante l'età del Ferro fino agli inizi del periodo storico.
Prima dell'epoca Gupta le notizie storiche sono scarse e imprecise, tuttavia fonti letterarie, epigrafiche e archeologiche attestano la presenza di contatti tra il Bengala e altre regioni dell'India a partire per lo meno dall'epoca Maurya. Nel Divyāvadāna (testo buddhista redatto nel I-II sec. d.C.) il Pundravardhana, ovvero il Bengala nord-orientale, è accostato alla leggenda dell'imperatore Maurya Ashoka. Comunità buddhiste e jainiste dovevano contendersi all'epoca il successo in quello che era ritenuto un territorio lontano. La presenza buddhista è confermata da due iscrizioni, risalenti al II sec. a.C.; il Vanga (parte del Bengala meridionale) è citato del resto in un'iscrizione del III sec. d.C. rinvenuta a Nagarjunakonda, come una delle regioni convertite al buddhismo da parte di comunità cingalesi. Dal suo canto, la letteratura Jaina riporta le peregrinazioni di Mahavira, ventiquattresimo profeta e contemporaneo del Buddha, nella regione ostile di Radha (Bengala occidentale). Secondo il Kalpasūtra, il precettore spirituale di Chandragupta Maurya avrebbe diviso la comunità Jaina dell'India orientale in quattro classi, di cui una originaria del Pundravardhana. Infine, un'iscrizione scoperta a Paharpur si riferisce a due generazioni di discepoli Jaina stabilitisi nel Pundravardhana.
Sotto il profilo archeologico, la cultura materiale di epoca Maurya (IV-III sec. a.C.) è ben rappresentata nel Bengala da numerosi siti (Bangarh, Mahasthangarh, Wari Bateshwar, Tamluk, Chandraketugarh, Mangalkot), fenomeno legato allo sviluppo dell'urbanizzazione che, iniziato in epoca Maurya, prosegue e si amplia in epoca Shunga (II-I sec. a.C.). Nel I sec. d.C. il Periplus Maris Erythraei menziona il porto di Gange, identificato con Chandraketugarh. L'epoca Kushana (I-III sec. d.C.) vede uno sviluppo disomogeneo dei primi siti urbani del Bengala: alla fase di massima espansione del sito di Tamluk corrisponde, a Mahasthangarh, una fase di regressione.
Con l'ascesa dei Gupta, nel 320 d.C., tutto il Bengala passa sotto il controllo della dinastia fino alla metà del VII sec. d.C. Il re Gauda, Shashanka, regna anche sul Bengala nella prima metà del VII secolo. Alcune iscrizioni su placche di rame che attestano donazioni di terre forniscono indicazioni preziose sulle divisioni amministrative del Bengala. Questo è anche il periodo dei soggiorni di pellegrini cinesi in diverse regioni del Bengala: Faxian nella prima metà del V sec. d.C., Xuan Zang verso il 638 d.C.
Tra il 650 e il 700 d.C. sul Bengala regna la dinastia dei Khadga; nella seconda metà dell'VIII secolo, i Pala occupano il Bengala e il Bihar e perpetuano il proprio dominio fino agli inizi dell'XI secolo. Si tratta di un periodo opulento, caratterizzato in particolare dallo sviluppo di grandi complessi buddhisti. Alcune regioni meridionali del Bengala sono oggetto, in quest'epoca e nei secoli seguenti, di incursioni da parte di altre dinastie: i Deva nell'VIII sec. d.C., i Chandra dal X alla metà dell'XI secolo. Dopo il breve regno della dinastia Sena alla fine dell'XI secolo, il Bengala è conquistato dai musulmani nel 1204.
M.C. Majumdar, The History of Bengal, Dacca 1943; R. Mukherji - S. Maity, Corpus of Bengal Inscriptions, Calcutta 1967; N. Goswami, Archaeological Activities in Bengal till 1967, in Pratna Samiksha, 2-3 (1993-94), pp. 1-18; D.K. Chakrabarti, Ancient Bangladesh, Dhaka 20012; Id., Archaelogical Geography of the Ganga Plain. The Lower and the Middle Ganga, Delhi 2001; G. Sengupta - Sh. Panja (edd.), Archaeology of Eastern India: New Perspectives, Kolkata 2002.
di Sandrine Gill
Villaggio del Bengala occidentale, 41 km a est della città di Malda, in cui è stato scoperto nel 1990 un monastero buddhista, il più grande della regione, scavato tra il 1995 e il 2000 sotto la direzione di A. Roy.
La scoperta segue il ritrovamento casuale di una lastra di rame la cui iscrizione, in sanscrito a caratteri siddhamātṛkā del IX sec. d.C., prodotta nella provincia di Pundravardhana nel 7° anno di regno di Maharajadhiraja Mahendrapala (845 d.C. ca.), menziona la costruzione di un monastero (vihāra) a Nandadirghika Udranga sotto il patrocinio del generale Vajradeva, rivelando così non solo l'esistenza di un sovrano della dinastia Pala fino ad allora ignoto, ma anche di un monastero, il Nandi Dirghi, che prende il nome da un importante bacino idrico della zona. L'identificazione è confermata da sigillature ufficiali della comunità monastica ivi residente. L'area in cui sorge il monastero, sul bordo della formazione del Barind, fu sicuramente prescelta per la sua elevazione, che la pone relativamente al riparo dalle frequenti inondazioni. La planimetria è quella tradizionale, a corte quadrata con celle lungo i lati e un sanctum sul lato opposto all'entrata. Il recinto è provvisto di bastioni angolari e, all'interno, un pozzo circolare si apre all'angolo nord-est. Gli scavi hanno messo in luce sei principali strati di deposito dall'attuale piano di campagna al suolo vergine, costituito dall'alluvio pleistocenico del tratto del Barind, e due sole fasi costruttive a partire dal periodo Pala, cosicché J. può essere considerato un sito monoculturale.
Le strutture della fase più antica appaiono danneggiate da un'inondazione, come si evince dal deposito di limo e dal conseguente innalzamento del successivo piano di calpestio. Il materiale da costruzione è costituito da mattoni cotti di diversi formati. Gli unici elementi di pietra rinvenuti sono tre blocchi pertinenti a fusti, o a basi di pilastro, relativi alla veranda della corte. I mattoni alla base del muro esterno, alcuni dei quali trovati in situ, erano decorati con motivi fitomorfi e geometrici; al di sopra di essi correvano fregi composti di lastre di terracotta di varie forme e dimensioni, che per stile e iconografia trovano confronti in quelli di Paharpur, Antichak, Mahasthan e Mainamati.
L'entrata del monastero, a est, è costituita da un'imponente scalinata, un portico anteriore e uno posteriore, che si congiungevano alla veranda davanti alle celle, 19 delle quali (distribuite sui lati est, ovest e nord) sono state scavate. Le loro dimensioni variano da 4,9 × 3 m a 3,4 × 3,2 m, con apertura di 1 m di larghezza. Due delle celle hanno piattaforme rettangolari al centro e tutte sono pavimentate con mattoni conficcati al suolo; la stessa tecnica di pavimentazione è usata per la corte centrale (24,5 × 23,5 m), che mostra una lieve pendenza verso l'angolo nord-est, nonostante lo sbocco del sistema di drenaggio sembra fosse nell'angolo nord-ovest. Tutt'intorno alla corte è stato rinvenuto un sentiero lastricato, probabilmente coperto da una tettoia sorretta da pali di legno, come suggeriscono numerose buche. La corte era accessibile tramite due scalinate sui lati est e ovest; la principale, con sette gradini e parapetto, era quella a ovest, di fronte al sanctum; di quest'ultimo si conserva una piattaforma di mattoni, rettangolare, che aggetta dal centro del muro occidentale del recinto ed è circondata da un pradakṣiṇāpatha (sentiero processionale). Tra i reperti si annoverano 82 tra sigilli e sigillature, 29 grani di collana e alcune piccole sculture (immagini di bronzo e pietra di Buddha e una di bronzo di Marici). La ceramica, per lo più di produzione locale, non mostra differenze stratigrafiche, ma è stata classificata dagli scavatori in tre principali gruppi tipologici. Nonostante il carattere modesto, questo complesso costituisce comunque un corpus di riferimento per la ceramica del IX-X secolo. Attualmente, il sito è sottoposto a un programma di conservazione e restauro ed è in progetto la realizzazione di un museo.
G. Sengupta, A General Act of Piety. A Newly Discovered Buddhist Monastery of Ancient Bengal, in Marg, 50 (1999), pp. 77-86; A. Roy, Nandadirghi-vihara. A Newly Discovered Buddhist Monastery at Jagjibanpur, West Bengal, in G. Sengupta - Sh. Panja (edd.), Archaeology of Eastern India: New Perspectives, Kolkata 2002, pp. 551-611.
di Jean-Yves Breuil
Il sito di M. ("il grande posto fortificato"), uno dei più importanti dell'India orientale e oggetto di numerose indagini nel corso del XX secolo, sorge ai confine del Bengala settentrionale, tra il Gange (Padma) e il Brahmaputra (Yamuna), una dozzina di chilometri a nord-ovest di Bogra, attuale capoluogo di distretto.
Circondato da un imponente muro di difesa, si estende per 165 ha e ha restituito un deposito archeologico di 6-8 m, i cui livelli più antichi risalgono al III sec. a.C.; esso comprende anche un centinaio di insediamenti (per lo più religiosi) coevi allo sviluppo della città fortificata, posti fuori delle mura per un raggio di 5 km verso ovest. Ubicata sul margine orientale di un'antica terrazza, il Barind, di poco elevata rispetto alla pianura alluvionale, la città è costeggiata a est dalla Karatoya, in passato fiume di grande portata; ciò le garantì una posizione privilegiata lungo un asse di primaria importanza della circolazione fluviale tra i contrafforti dello Himalaya e il Golfo del Bengala. Noto sin dall'inizio del XIX secolo, nel 1879 il sito fu identificato da A. Cunningham con la Pundranagara delle fonti sanscrite, la prosperosa capitale del Pundravardhana visitata dal pellegrino cinese Xuan Zang nel VII secolo d.C. La maggior parte dei resti archeologici è oggi coperta da campi coltivati e strutture abitative, tuttavia resta visibile la cinta muraria di mattoni, più volte ricostruita; il suo vasto perimetro (1,5 × 1 km), scandito da elementi difensivi (in particolare, bastioni angolari) e con diverse porte di entrata sui quattro lati, è protetto a nord, a ovest e a sud da ampie depressioni umide che fungono da fossati. Due vie orientate est-ovest, ancor oggi in uso, collegano le porte e attraversano internamente il sito; si conservano inoltre le tracce di una strada con orientamento nord-sud. Altri resti archeologici sparsi, probabilmente portati alla luce dagli scavi del XX secolo e per lo più ubicati nella parte orientale della città, testimoniano con la loro varietà e quantità di un lungo e fiorente arco di vita; tra essi si annoverano infatti architetture religiose (probabilmente buddhiste e/o Jaina, induiste e islamiche di epoca pre-Moghul), civili (di epoca immediatamente preislamica e islamica) e funerarie (tombe islamiche, tra cui quella di Shah Sultan Bhalkis Mahishwar, cui si deve la conquista musulmana del 1204).
Una cronostratigrafia articolata del sito è stata fornita da scavi franco-bengalesi, condotti dal 1993 in due settori, uno a ridosso del tratto orientale delle mura, l'altro presso l'angolo sud-orientale del tratto meridionale. Essi provano che i primi abitanti di M./Pundranagara si stabilirono in un'area disabitata e al riparo da inondazioni alla fine dell'età del Ferro, subito prima o all'inizio dell'epoca Maurya (fine del IV - inizio del III sec. a.C.). Le prime costruzioni erano di terra cruda e legno, verosimilmente con copertura di materiale deperibile. È già attestata una produzione di Northern Black Polished Ware; alcuni frammenti mostrano decorazioni incise di linee ondulate e a rotella. La vasta area di diffusione di questa ceramica, prodotta in diversi centri della valle del Gange, rende difficile stabilire la provenienza di questi primi abitanti del sito, la cui cultura materiale ha scarsi o nulli riferimenti ai prodotti tradizionali dell'età del Ferro.
Il periodo II (III sec. a.C. - metà del I sec. a.C.) vede una rapida espansione della città, che probabilmente riflette l'entrata (o il ritorno) nell'orbita dell'impero Maurya. La rottura culturale con la fase precedente è contrassegnata dall'introduzione di nuovi metodi di costruzione e da una produzione materiale molto più variegata, che attesta contatti e scambi dalla valle del Gange alle lontane terre del Gandhara (Pakistan e Afghanistan attuali). Risale a quest'epoca la prima fortificazione; l'insediamento, denso e ben organizzato, evidenzia la perfetta padronanza di una tecnica costruttiva che abbina muri di mattoni crudi a tetti di tegole. All'esterno delle case sono stati rinvenuti pozzi ad anelli di terracotta sovrapposti, una tecnica ancora usata localmente fino a qualche decennio fa. Il materiale archeologico rinvenuto è ricco e diversificato: placche e figurine di terracotta, recipienti di bronzo, gioielli, uno stampo per oreficeria, perle di vetro e di pietre semipreziose, piccoli oggetti d'uso in terracotta, monete di bronzo del tipo cast copper coins, uno specchio di bronzo forse importato dal Gandhara e un ringstone di pietra rossa con decorazione figurata, anch'esso testimone di rapporti commerciali con le regioni del Nord-Ovest. La ricchezza visibile nell'abitato e nella produzione materiale in questa seconda fase di sviluppo della città sottintende floride attività nei settori agricolo, artigianale e commerciale.
Nel periodo III (fine del I sec. a.C. - fine del II sec. d.C.), nonostante il livello di vita resti sostanzialmente immutato, il materiale archeologico, di scarso interesse, sembra indicare un isolamento (temporaneo?) della città, e forse della regione, dai suoi partners culturali della valle del Gange. Tuttavia, una generale lacuna nelle fonti rende poco chiaro il quadro storico del Bengala durante questo periodo.
Per il periodo IV (200-600 d.C.), gli scarsi resti archeologici (abitazioni modeste costruite con materiali di reimpiego) sono in contrasto con la ricchezza testimoniata da altri documenti coevi: epigrafici (iscrizioni su placche di bronzo e di rame), letterari (descrizioni di Xuan Zang), artistici (statuaria in terracotta e in pietra), ecc. Una piattaforma quadrata di mattoni (base di un edificio sacro?) e le ceramiche decorate a stampo con simboli augurali a essa associate suggeriscono un orizzonte religioso buddhista e Jaina. Il lungo periodo che va dal 600 al 1200 d.C. è caratterizzato da una fitta rete di strutture abitative, di qualità modesta nel settore orientale della città, meglio organizzate in quello meridionale. Numerosi sono gli edifici religiosi e le immagini di culto. Fuori della città, nella zona nord-occidentale, sono ubicati, tra altri, gli insediamenti buddhisti di Bihar e Vasu Bihar visitati da Xuan Zang nel VII sec. d.C.; i resti dei tre monasteri e del tempio portati alla luce risalgono tuttavia al X-XI sec. d.C. A sud della città fortificata si trova l'imponente monumento di Lakhindarer Medh. Alto circa 13 m, è la base monumentale, a struttura alveolare piena, di un tempio o stūpa buddhistico della fine dell'epoca Gupta (VI-VII sec. d.C.), su cui venne costruito in epoca Sena (XI-XII sec.) un tempio dedicato a Shiva. Il periodo successivo alla conquista islamica è ancora poco conosciuto. A giudicare dai reperti numismatici, sembra tuttavia che l'inizio del XV secolo segni la fine dell'occupazione intensiva del sito.
Bibliografia
N. Ahmed, Mahasthan, Dacca 1975; M.S. Alam - J.-F. Salles (edd.), France-Bangladesh Joint Venture Excavations at Mahasthangarh. First Interim Report 1903-1999, Dhaka 2001.
di Sandrine Gill
Il lungo crinale di Lalmai-Mainamati (18 km), nell'attuale distretto di Comilla (Bangladesh sud-orientale), ospita un imponente complesso religioso buddhista.
La sua storia è connessa con Samatata, l'antica provincia del Bengala sud-orientale visitata dai pellegrini cinesi Xuan Zang e Sheng Chi nel VII sec. d.C. Una dozzina di lastre di rame di donazione regale e un numero notevole di monete associano M. alle dinastie dei Gupta, Khadga, Deva, Chandra, Verman, Sena e Deva dal VI al XIII sec. d.C. Segnalato per la prima volta nel 1875 e identificato in via d'ipotesi con le rovine dell'antica città di Pattikera nel 1917, M. divenne una postazione dell'esercito britannico nel 1943-44 e in quell'occasione, durante lavori di costruzione, vennero alla luce numerose strutture antiche. Essendo tuttora l'area sotto il controllo dell'esercito del Bangladesh, solo 9 dei 55 siti segnalati sono stati oggetto di scavo.
Il sito è estremamente ricco in termini di strutture architettoniche, materiali numismatici ed epigrafici, lastre decorative di terracotta e sculture di bronzo. Il monastero più imponente, l'Ananda Vihara (190 × 190 m), fortemente disturbato da spoliazioni, è stato parzialmente scavato dal 1975 al 1982 e di nuovo nel 2002. Esso mostra la tradizionale pianta quadrata, aperta a nord, con al centro un tempio cruciforme decorato da fregi e lastre di terracotta. Finora sono state portate alla luce solo 13 celle nelle ali settentrionale e meridionale. Una grande scultura di bronzo (alt. oltre 1 m), raffigurante il Bodhisattva Avalokiteshvara seduto, è stata rinvenuta nel 2002. Meglio conservato è il Salban Vihara (167 × 167 m), scavato estensivamente dal 1955. A esso si accede da nord attraverso un sentiero pavimentato con mattoni, che conduce a una corte quadrata con tempio centrale cruciforme e 115 celle lungo i lati. Quattro principali fasi costruttive sono attestate nel monastero e nel tempio, quest'ultimo rimaneggiato anche nella pianta, che da cruciforme diviene rettangolare allungata. Tra i reperti più importanti si segnalano otto lastre di rame e tre depositi di monete d'oro e d'argento.
A Rupban Mura, gli scavi condotti tra il 1984 e il 1986 hanno rivelato un tempio cruciforme e, 30 m a sud-est di questo, un modesto monastero con 24 celle. Sia per il tempio sia per il monastero sono documentate tre fasi di ricostruzione. Dapprima di forma allungata, la pianta del monastero divenne approssimativamente quadrata a seguito di un ampliamento di circa 12 m verso sud. Una peculiarità del tempio è la copertura a volta, di cui si conserva l'imposta, realizzata con mattoni a modiglione. Una immagine stante del Buddha (alt. 2,44 m) è stata rinvenuta nella cappella orientale; si tratta della più antica scultura in pietra del Bengala orientale, databile al VII sec. d.C.
A est di Rupban Mura, il sito di Ithakhola Mura, scavato a partire dal 1986, ha restituito un tempio di forma allungata con apertura sul lato est, all'interno di una corte, e un monastero adiacente, con 20 celle, a nord. A differenza di altri templi di M., il tempio di Ithakhola conserva l'originaria forma allungata nell'arco dei suoi cinque periodi di vita. L'immagine di culto, una grande scultura in stucco raffigurante il Dhyani Buddha Akshobhya seduto in vajrāsana (posizione del diamante), era posta all'interno di una camera al centro della cappella-stūpa, accessibile tramite uno stretto passaggio che fronteggia l'ingresso. La scultura, ancora in situ ma conservata solo nella parte inferiore dall'addome, appartiene al periodo III e appare già murata nel periodo successivo. Altro sito peculiare di M. è Kotila Mura, scavato regolarmente a partire dal 1956, con i suoi tre stūpa, che rappresentano i "tre gioielli" del buddhismo: Buddha, Dharma (legge o dottrina) e Saṃgha (comunità monastica). Edificati su una collinetta, essi sono raggiungibili mediante un'ampia scalinata sul lato est. Tre ambienti di forma allungata conducono ai tre stūpa, con basi quadrate (rispettivamente di 12,12, 11,23 e 14,5 m2) che si elevano su un plinto comune. Il piano dello stūpa centrale riproduce un dharmacakra (Ruota della Legge). Frammenti di sculture di pietra e centinaia di stūpa piccoli di stucco sono venuti alla luce negli interstizi della ruota. A conferma della ricchezza del sito va menzionata, infine, una colossale immagine in bronzo (alt. 1,5 m) del Bodhisattva Vajrasattva seduto, rinvenuta nel 1994 nella cappella centrale del Bhoj Vihara.
A.K.M. Shamsul Alam, Mainamati, 19822; Abu Imam, Excavations at Mainamati. An Exploratory Study, Dhaka 2000.
di Sandrine Gill, Jean-Yves Breuil
Prestigioso insediamento buddhista, noto in antico come Somapura mahāvihāra, fondato da Dharmapala alla fine dell'VIII sec. d.C. nel Varendra (od. distretto di Naogaon, Bangladesh nord-occidentale), famoso anche per due elementi peculiari del suo tempio centrale: l'impianto cruciforme, che si ritiene abbia influenzato i templi della Birmania, di Giava e della Cambogia, e l'eccezionale decorazione, consistente di un fregio composto da 2800 lastre di terracotta.
Riscoperto da B. Hamilton all'inizio del XIX secolo, P. fu completamente documentato e in parte restaurato dall'Archaeological Survey of India, specialmente sotto la direzione di K.N. Dikshit, tra il 1923 e il 1934. Limitati sondaggi furono condotti negli anni Ottanta dal Dipartimento di Archeologia del Bangladesh, nell'ambito dell'iscrizione di P. nella lista del Patrimonio Mondiale dell'UNESCO nel 1985. Il sito ospita un monastero che si compone di una grande corte quadrata (lato di 280 m ca.), con 177 celle monastiche disposte attorno al monumento di culto centrale, conservato per un'altezza di 22 m, di numerose strutture addizionali all'interno e all'esterno della corte e, 270 m a est, di un tempio dedicato alla divinità femminile Tara, noto localmente come Satyabir Bhita. Il monumento centrale mostra almeno quattro fasi costruttive, una delle quali, alla fine del X - inizio dell'XI secolo, caratterizzata da un massiccio rifacimento che coinvolse anche il monastero e il tempio di Tara. Questa fase, di cui tramanda notizia un monaco di Nalanda, Vipulashrimitra, vide la trasformazione di 92 celle in altrettante cappelle di culto, in cui restano piedistalli di pietra.
Originariamente, l'accesso al complesso principale avveniva tramite un portale monumentale al centro dell'ala nord, che conduceva, oltre un bacino lustrale (di epoca tarda) e attraverso un complesso di strutture minori e sale d'ingresso, all'imponente scalinata del monumento centrale. Organizzato attorno a un corpo centrale pieno quadrangolare, con quattro edicole aggettanti, il monumento ha forma piramidale, con tre livelli: base, terrazza intermedia per la circumambulazione rituale e cappelle di culto precedute da portici (maṇḍapa) e anticamere. Del coronamento resta la base, oggi parzialmente interrata, decorata con 63 sculture di pietra raffiguranti divinità Hindu, reimpiegate da templi più antichi, e due file orizzontali di lastre di terracotta che ritraggono con stile vivace scene di vita quotidiana, esseri umani, animali, fantastici e alcune divinità brahmaniche e buddhiste. Sul camminamento superiore si dispongono, in doppia fila, altre lastre di terracotta di diversi formati. Nessuna delle quattro cappelle ha restituito immagini di culto, ma è probabile che la colossale scultura di bronzo raffigurante un Buddha (il solo torso, unica parte conservata, è alto 1,3 m) rinvenuta in una cella del monastero nel 1982, fosse originariamente collocata in una delle strutture del tempio centrale.
Le celle al centro delle ali est, sud e ovest del monastero furono a un certo punto adibite a cappelle sussidiarie. Il rettore, o il monaco più anziano, del monastero abitava gli ambienti a est dell'entrata, in cui sono stati effettuati i rinvenimenti i più ricchi: monete, grani di collana, frammenti di utensili di rame, pezzi di ferro. Le celle monastiche avevano mediamente una superficie di 4,2 m2 e un ambiente rettangolare sul retro, cui si accedeva tramite uno scalino. Tutte le strutture connesse con la refezione (cucina e refettorio) erano localizzate nell'angolo sud-est della corte, mentre i bagni (piattaforme di abluzione e ghāṭ) erano all'esterno del monastero, a sud, in prossimità dell'antico corso del fiume. Il tempio di Tara (14,4 × 24 m) si apre a sud ed è circondato da 132 strutture minori e da un recinto a pianta trapezoidale. La sua identificazione si basa soprattutto sulle 50 placche circolari di terracotta qui rinvenute, con l'effigie di Tara.
La recente scoperta di altri siti attorno a P. (Halud Vihara, Jagaddal Vihara, ecc.) dimostra che questo insediamento apparteneva a un contesto molto più articolato. Oggi, dopo settanta anni di esposizione al degrado atmosferico e in seguito a un programma di restauro recente e invasivo, il tempio centrale di P. ha perso molto del suo aspetto autentico: la struttura è stata interamente ricostruita con materiali nuovi e tutte le lastre di terracotta del livello inferiore sono state rimosse e sostituite da copie. Un programma congiunto dell'UNESCO e del Dipartimento di Archeologia sta attualmente cercando di rimediare a questa situazione.
Bibliografia
K. N. Dikshit, Excavations at Paharpur, Bengal, Delhi 1938.
di Giovanni Verardi
Sito presso Chiruti nel distretto di Murshidabad, nel Bengala Occidentale, posto sulla riva destra del fiume Bhagirathi. L'interesse per R. e la non lontana Rakshasidanga dipende dal fatto che in quest'area è presumibilmente da cercare Karnasuvarna, la città capitale del sovrano bengalese Shashanka.
Tra la fine del VI secolo e il 630 d.C. circa, questi annesse al Gauda (Bengala nord-occidentale) l'Orissa e una parte del Bihar, ponendo le premesse per la successiva costituzione del regno Pala. Entrambi i siti sono stati oggetto di spoliazioni particolarmente distruttive, favorite dalla natura dei materiali impiegati nelle fasi strutturali. La sequenza stabilita a R., poco analitica e scarsamente esplicativa, comprende tre periodi. Il primo, dal II-III al IV-V sec. d.C., abbraccia due fasi strutturali: la più antica documentata da un muro fondato sul terreno vergine; la seconda da muri e "piattaforme" (consistenti di un solo corso di mattoni, forse pavimenti) poggianti su limi sabbiosi. I materiali sono molto scarsi (si notano frammenti di ceramica rossa polita e nera), ma da uno strato alto proviene un sigillo di terracotta con alcune lettere greche che sono state lette come Horae. L'assoluta sporadicità del rinvenimento e la scarsa chiarezza dei contesti stratigrafici rendono difficile una contestualizzazione dell'oggetto, anche se si sono ipotizzati contatti tra R. e gli empori costieri, il più noto dei quali è Tamluk, la Tāmralipti del Periplus Maris Erythraei.
Il secondo periodo abbraccia i secoli dal V-VI al IX-X, ed è associato alle fasi strutturali III e IV. La fase III sembra documentare l'esistenza di un monastero buddhista (cui sarebbero pertinenti una scala affiancata dalle basi circolari di due stūpa e un pavimento in mattoni), ipotesi resa credibile dal rinvenimento di un certo numero di sigilli di terracotta recanti simboli buddhisti, due dei quali iscritti col nome Raktamṛttikā. Si tratta del monastero situato nei pressi di Karnasuvarna di cui parla il pellegrino cinese Xuan Zang, che visitò il Gauda nella prima metà del VII secolo. Tra i materiali portati alla luce si segnalano teste di stucco, alcune delle quali del Buddha, attribuibili al IV-V secolo, e frammenti ceramici almeno in parte riferibili a contesti rituali. Mancano informazioni stratigrafiche sicure sulla provenienza di oggetti quali le piccole sfere, i dischi e i coni di terracotta, comuni a tutti gli scavi gangetici.
Non è chiaro il significato di una scoperta effettuata nel 1964, quando sotto la fondazione di un grosso muro fu rinvenuto il teschio di un individuo di sesso maschile di circa vent'anni, con segni di tagli praticati dopo la decapitazione. Esso sarebbe stato deliberatamente collocato nella fondazione del monastero per garantire durata e stabilità dell'edificio, secondo una pratica nota sì nell'India antica, ma non attestata in ambiente buddhista.
Dei siti nelle vicinanze di R., Rakshasidanga fu parzialmente indagata negli anni Venti del XX secolo, senza ottenere risultati apprezzabili: le strutture in mattoni dei livelli più bassi furono attribuite a un monastero del VI-VII secolo e alcune testine di stucco del Buddha furono datate all'epoca Gupta, anche se sono più probabilmente attribuibili al VI-VII sec. d.C. Nel distretto di Murshidabad si segnalano anche Panchthupi ("cinque stūpa"), a sud di R., e Gitagrama, da cui provengono sigilli, monete e figurine di terracotta databili al III-V sec. d.C.
S.R. Das, Rājabādidāṅga: 1962, Calcutta 1968; Id., Archaeological Discoveries from Murśidabad, Calcutta 1971; IndAR, 1981-82, p. 75; A. Ghosh, s.v. Rajbadidanga, in A. Ghosh (ed.), An Encyclopaedia of Indian Archaeology, II, Leiden 1990, pp. 359-60.