VILLAFRANCA, Juan
de. – Pochissimi sono i dati biografici noti su questo misterioso ma cruciale personaggio, attivo a Napoli nella prima metà del XVI secolo, il cui profilo è avvolto nell’oscurità; al pari, del resto, di altri leader del radicalismo religioso italiano. Ignota è la sua data di nascita né si sa dove nacque salvo il fatto, accertato, che fosse spagnolo.
Non è noto neanche perché vivesse a Napoli, dove sicuramente risiedette fino al 1545 almeno dal 1539 ma, verosimilmente, già da alcuni anni prima. Certo è che egli portava lo stesso cognome della moglie del viceré di Napoli, Pedro Álvarez de Toledo, che in virtù del suo matrimonio era anche, appunto, marchese di Villafranca. Si può dunque ipotizzare una parentela, considerando che Juan de Villafranca «stava con don Pietro di Tolledo [sic] viceré alhora di Napoli» (Firpo - Marcatto, 1998-2000, II, p. 97), che era «servitor del viceré» (Addante, 2010, p. 44) e che era stato, d’altra parte, «ali servitii della duchessa di Castrovillari» (ibid.), vale a dire di Isabella Álvarez de Toledo, figlia dello stesso don Pedro. Di fronte alla scarsità e vaghezza dei dati biografici, il suo nome aleggia in diversi processi inquisitoriali degli anni intorno alla metà del XVI secolo, celebrati a Napoli, a Roma, a Venezia. Dalle testimonianze risalta, in modo netto, la sua leadership sull’ala radicale del movimento valdesiano dopo la morte di Juan de Valdés, l’eresiarca spagnolo da cui il movimento trae il nome.
Dalle fonti, inoltre, affiora lo stretto rapporto che lo legava a Valdés quando questi era ancora in vita. Un testimone ben informato, il protonotario fiorentino Pietro Carnesecchi, lo ricordò fra gli «amici» di Valdés e ne parlò in questi termini: «Di Villafranca posso ben affermare questo, che mentre ch’io ero a Napoli in vita del Valdés lo vedevo praticare molto intrinsicamente seco, et mi ricordo havere sentito il detto Valdés parlare con molto honore et affetione di lui, lodandolo come inclinato alla pietà et che attendesse molto alla mortificatione» (Firpo - Marcatto, 1998-2000, II, pp. 81, 1134).
Parole molto significative, poiché pochissime persone (tra cui in primis Giulia Gonzaga) potevano vantare rapporti di vera «affetione» con l’eresiarca spagnolo. Di più, nondimeno, Carnesecchi non disse, solo accennando a una radicalizzazione seguita alla morte di Juan de Valdés (1541). In modo del tutto analogo, in ogni caso, si espresse un altro personaggio venuto a contatto con il mondo valdesiano, il sacerdote Girolamo Spinola, che testimoniò di fronte all’Inquisizione che «il Villafranca era discipolo intrinseco del decto Valdesso» (Lopez, 1976, p. 156). Laddove è da notare l’uso dello stesso termine – «intrinseco» – adoperato da Carnesecchi. D’altronde, anche altre fonti confermano la grande vicinanza fra i due eterodossi spagnoli; testimoniando, inoltre, il fatto che Villafranca era tra quanti nel movimento si occupavano, più in particolare, della conversione dei neofiti che si avvicinavano alle idee di Valdés.
Per esempio, il sacerdote Lorenzo Tizzano confessò che, dopo aver conosciuto Valdés e avergli manifestato il desiderio di leggerne alcuni scritti per comprenderne meglio il messaggio, non lo vide più, mentre ne fu affidata la conversione a «uno nominato Villafranca, un altro spagnolo suo più amico di me», che gli «prestò poi molti delli scritti soi» (Berti, 1877-1878, p. 69; Addante, 2010, p. 18 e passim). La conversione di Tizzano è esemplare del metodo usato da Juan de Villafranca: un metodo socratico, esoterico e graduale, fondato su un sistematico dubbio (critico, non scettico) e su un’eccezionale libertà soggettiva. Metodo ricalcato su quello di Juan de Valdés, a sua volta in ciò debitore del movimento alumbrado – con il quale era entrato in contatto negli anni della formazione a Escalona – ma anche della lezione di Erasmo da Rotterdam. Ed ecco che, se in un primo momento Villafranca aveva indotto Tizzano ad accogliere quelle che il sacerdote definì «lutherane opinioni» (ibid.), dopo qualche tempo sia Villafranca sia il suo seguace calabrese Girolamo Busale passarono a instillargli idee ben più radicali. Difatti, Tizzano giunse a un certo punto a negare la Trinità, la divinità di Cristo, la verginità della Madonna, l’esistenza dell’Inferno e la veridicità di alcuni passi evangelici che parevano affermare la divinità di Gesù.
Un metodo che Villafranca usava con tutti gli adepti, come il legista Giulio Basalù, il quale dapprima fu da lui indotto ad accettare il principio della giustificazione per fede, ispirato a Lutero ma al quale Valdés aveva apportato variazioni significative, in tema di opere e libero arbitrio. Dopodiché, «vedendo che io l’havevo accettata – confessò Basalù – mi comenzò far molte consequentie», e «in mancho di 4 mesi, di consequentia in consequentia, con el fondamento solo della ditta oppinion [sulla giustificazione], mi persuase che non li era intercession de santi, purgatorio, adoration de imagine, iubilei, confessione auricolar» (Addante, 2010, p. 28). Estremamente significativa era l’espressione «di consequentia in consequentia» usata da Basalù, poiché rivelava con molta chiarezza quale fosse il metodo adoperato da Villafranca.
Per tutti i neofiti valdesiani il punto di partenza era la giustificazione per fede rivista da Valdés; e molti giudicarono sufficiente aderire a quel principio che, in ogni caso, segnava il distacco dall’ortodossia della Chiesa di Roma, sebbene poi ciò non implicasse la fuoriuscita esteriore dalla stessa Chiesa. Nondimeno, chi conduceva il gioco della conversione (Villafranca così come altri), lasciava intuire all’adepto che dalla giustificazione si potessero trarre diverse «illationi» (Firpo - Marcatto, 1998-2000, II, p. 145). Così, di fronte a chi mostrava di desiderare altri approfondimenti, il maestro faceva scorgere man mano idee sempre più estreme, deducibili (con totale libertà da ogni ortodossia dottrinale) da quel principio di partenza che segnava l’ingresso nel movimento.
Restando al caso di Basalù, accolta la giustificazione per fede e le conseguenze d’intonazione luterana che ne derivavano, Villafranca lo «lassò star in queste oppinion da altri 4 mesi» (Addante, 2010, p. 28), in modo da fargli sedimentare per bene le idee di cui lo aveva persuaso. Trascorso il lasso di tempo lasciatogli, però, riprese ad agitare altri dubbi, poiché gli «comenzò a parlar de oppinion de maggior importanza, cioè del sacramento [dell’eucaristia, affermando] che era puro segno» (pp. 28 s.). Andando oltre Martin Lutero, Villafranca negava che nell’ostia ci fosse realmente il corpo di Cristo, sostenendo che essa fosse un mero simbolo, secondo le idee di Huldreich Zwingli. Subito dopo, passando al vero e proprio radicalismo, gli pose il problema «della divinità in Christo, negandola», giacché «diceva esser puro homo, ma pieno abundantemente de spirito de Dio» (p. 29). Basalù a quel punto volle saperne di più e apprese da Villafranca «che le anime delli reprobi moreno con il corpo et che quelle de fideli si salvaranno» (ibid.). Era, ancora una volta, un modo di vedere le cose ricalcato sul pensiero di Valdés, che in alcuni scritti, come il commento al Vangelo di Matteo, aveva così esposto la sua visione sul destino ultraterreno dell’anima. Al momento della morte, le anime non sarebbero andate né in Paradiso né all’Inferno, ma sarebbero restate in una condizione di sonno, cui sarebbe succeduta, nel momento del Giudizio universale, la resurrezione e la vita eterna per i soli eletti di Dio, mentre la gran parte del genere umano, i reprobi, sarebbero stati annichilati in una «morte eterna» (J. de Valdés, Lo Evangelio di san Matteo, a cura di C. Ossola, Roma 1985, p. 304; M. Firpo, Gli affreschi di Pontormo a San Lorenzo, Torino 1997, p. 132 e passim).
Date queste premesse, ne conseguiva la negazione dell’esistenza dell’Inferno, insinuandosi una forma di criptomaterialismo. Così, compresi gli esiti ultimi dell’insegnamento di Villafranca, Basalù (con altri, come il mercante Tobia Citarella), si spinse ancora più in là, pervenendo a negare tout-court l’immortalità di tutte le anime (non solo di quelle dei reprobi), deducendone l’eternità del Mondo con la negazione della creazione divina e, conseguentemente, di «ogni sorte de religion, così christiana come ebrea et ogn’altra», «credendo che tutte le religione fossero inventione di homini» (Addante, 2010, p. 30). Esiti increduli e libertini non comuni nel XVI secolo – seppure i casi siano certamente di più di quanto a lungo ammesso dalla storiografia – e che non erano quelli cui insegnava a giungere Juan de Villafranca, almeno per quanto confessò lo stesso Basalù e confermano le altre fonti a oggi conosciute. Ma in ogni caso, le evoluzioni libertine di Giulio Basalù e altri dimostrano quanto fosse il metodo stesso che, in una miscela esplosiva di critica implacabile e libertà soggettiva, facilmente portava, «di consequentia in consequentia», a trarre «illationi» che andavano ben al di là di ogni religione.
Un altro valdesiano, il calabrese Matteo Busale (fratello di Girolamo), spiegò agli inquisitori come procedesse Villafranca nel suo percorso di conversione dei neofiti. «Dal principio me entrava pian piano, et me ragionava di queste cose che ho detto [la giustificazione per fede] [...]; et poi mi monstrava alcune autorità, et monstrava de dubitar et diceva: “Bene, come intendereste questo?” Et inanzi mi faceva dubitar nell’autorità, et poi, come era cascato nel dubio, diceva: “Ben, quando se intendesse cossì, non vi pare a voi che stesse bene...?”» (p. 47). Un gioco abilissimo e serrato di «dubbi e di ragionamenti, di autorità e di critica delle autorità, che s’insinuava fra le certezze per smontarle pian piano» (ibid.); e che portava a esiti sempre più estremi quanti si fossero mostrati propensi a proseguire nel sentiero dei dubbi e delle libertà.
Un sentiero che, va ribadito, non tutti erano disposti a percorrere fino in fondo, magari procedendo da soli ancora più innanzi; ma in ciò emergeva un ulteriore carattere costitutivo del valdesianesimo, poiché lo stesso Valdés aveva insegnato che ciascuno dovesse spingersi fin dove la propria coscienza lo avesse portato. Nessuno è straniero nel palazzo di Dio, affermava richiamando Maimonide. Eppure, alcuni si affacciano solo sulla soglia di quel palazzo, mentre altri vi vogliono entrare. Altri ancora ne vogliono vedere tutte le stanze e non manca chi desidera frugare fin dentro le casse. In questo contesto segnato da un’estrema libertà soggettiva, facile che poi alcuni andassero ancora più oltre, abbattendo il palazzo stesso, come Basalù: era il metodo, in sé, che portava a quei possibili esiti. Si è visto come, di fronte all’idea che la gran parte delle anime fosse mortale, Basalù si fosse spinto a credere nella mortalità di tutte le anime.
Qualcosa del genere accade anche con la critica di Villafranca alla veridicità dei Vangeli. Egli non sosteneva che i Vangeli fossero sic et simpliciter dei testi falsificati; ma una volta ammesso il principio che alcune parti potessero esserlo, non era difficile prevedere che qualcuno troncasse la questione in maniera più netta, sostenendo la totale falsità del Nuovo Testamento. Infatti, è proprio questo l’esito cui giunsero Tizzano e altri discepoli di Villafranca dopo la sua morte, stimolati in tal senso dal calabrese Francesco Renato, affiancato da Girolamo Busale. Furono Busale e Renato a imporre su una parte dell’ala radicale del movimento valdesiano simili (e altre) idee, che risentivano fortemente di echi sia ebraici (del resto Busale aveva radici marrane) sia islamici.
Tale estremizzazione, non condivisa da tutti, coincise con i prodromi della svolta repressiva di lì a breve avviata dall’Inquisizione; e verosimilmente fu ciò a determinare la dispersione del gruppo fra il 1546 e il 1547. Renato fu tratto in arresto, mentre Busale, poi raggiunto da altri come Giovanni Laureto e, più tardi, Tizzano, confluì a Padova. Qui Busale e Laureto vennero a contatto con il mondo dell’anabattismo, ampiamente diffuso a metà Cinquecento nel Nord-Est della penisola, grazie alla predicazione del misterioso Tiziano e di suoi seguaci come l’asolano Benedetto dal Borgo e il trevigiano Nicola d’Alessandria. Proprio con d’Alessandria e dal Borgo s’incontrarono Busale e Laureto, e iniziò un fitto scambio di idee in incontri sempre più partecipati nei quali, pur al riparo da orecchie indiscrete, «ogniun diceva quel che [g]li pareva» (Addante, 2010, p. 10 e passim).
Busale, Laureto e altri meridionali accettarono di farsi ribattezzare, accogliendo le idee degli anabattisti. Al contempo, Busale iniziò a mettere nel piatto della discussione i principi appresi da Villafranca. I principi e il metodo, poiché il calabrese non rivelò subito tutte le «consequentie» cui erano giunti lui e i suoi compagni (andando anche oltre Villafranca), ma inizialmente si limitò a mettere in dubbio la divinità di Gesù. Iniziò così una serie di animati dibattiti, nei quali la discussione si polarizzò fra Busale e Tiziano, che si opponeva con forza alle idee del calabrese e dei suoi compagni.
I dibattiti si tennero fra l’inverno e l’estate del 1550 a Padova, a Vicenza (i collegia Vicentina della tradizione sociniana) e a Ferrara. Mentre Busale raccoglieva sempre più adesioni fra gli anabattisti, al contempo alzava la posta, alimentando il dibattito con altre idee di Villafranca come la falsificazione parziale dei Vangeli, tacendo ancora (con valdesiano gradualismo) la negazione dell’intero Nuovo Testamento. Tiziano continuò a resistere a ogni tentativo d’innovazione rispetto alle idee tradizionali degli anabattisti, e l’inconcludenza delle discussioni portò alla decisione di convocare un concilio di anabattisti a Venezia, che risolvesse la disputa una volta per tutte. Nel concilio Busale s’impose e furono sanciti dieci punti che ricalcavano il radicalismo di Juan de Villafranca: umanità di Gesù, nato come qualunque uomo da Giuseppe e Maria, parziale falsificazione del Nuovo Testamento, inesistenza dell’Inferno.
Erano trascorsi cinque anni dalla morte di Villafranca, prematuramente scomparso nel 1545 per un «mal di milza» (Addante, 2010, p. 44), probabilmente una cirrosi epatica che l’aveva stroncato dopo aver trascorso l’ultima fase della sua vita in casa della valdesiana Isabella Briseño (o Breseña). Eppure, grazie alla leadership carismatica di Busale, le sue idee si dimostravano capaci di sopravvivergli e di diffondersi ben oltre il suo gruppo di discepoli a Napoli. Non sorprende, pertanto, l’ordine diramato dall’Inquisizione romana, nel 1553, di dissotterrarne e bruciarne il cadavere.
Fonti e Bibl.: D. Berti, Di Giovanni Valdés e di taluni suoi discepoli secondo nuovi documenti tolti dall’Archivio veneto (1877), in Atti della R. Accademia dei Lincei. Memorie della classe di scienze morali, storiche e filologiche, s. 3, CCLXXV (1877-1878), 2, pp. 61-81; P. Lopez, Il movimento valdesiano a Napoli. Mario Galeota e le sue vicende col Sant’Uffizio, Napoli 1976, p. 156; M. Firpo, Tra alumbrados e «spirituali». Studi su Juan de Valdés e il valdesianesimo nella crisi religiosa del ’500 italiano, Firenze 1990, pp. 10, 19, 37, 87 s., 92-94, 98; Id., Introduzione, in J. de Valdés, Alfabeto cristiano. Domande e risposte. Della predestinazione. Catechismo, a cura di M. Firpo, Torino 1994, pp. CI, CXXVIII-CXXX, CXXXIV; M. Firpo - D. Marcatto, I processi inquisitoriali di Pietro Carnesecchi, Città del Vaticano 1998-2000, I, pp. 60 s., II, pp. 81 s., 97, 264, 994, 1134, 1138; L. Addante, Eretici e libertini nel Cinquecento italiano, Roma-Bari 2010, pp. XI, 18-21, 23-25, 28 s., 32-37, 40-62, 66, 72, 76, 79 s., 82 s., 97, 102, 107 s., 110, 117 s., 121, 123, 125, 130, 132, 137 s.,156 s., 159, 161, 163, 179, 190; M. Firpo, Valdesiani e spirituali. Studi sul Cinquecento religioso italiano, Roma 2013, pp. 87 s., 100, 102; Id., Juan de Valdés e la Riforma nell’Italia del Cinquecento, Roma-Bari 2016, pp. 234-239, 242, 246, 250, 258.