TORNI, Jacopo
– Nacque a Firenze, nel popolo di San Miniato fra le Torri , il 3 gennaio 1476, da Lazzaro di Bartolomeo, fornaio, e da un’Agnese, come testimonia la registrazione di battesimo, ed ebbe come fratelli Raffaello, Filippo, Giovanbattista, Tommaso e Francesco (v. la voce in questo Dizionario), come attestano le successive decime di suo zio, il borsaio Piero di Bartolomeo (Zurla, 2010-2011, pp. 53 s., note 4-5).
Nei pochi documenti familiari conosciuti non compare menzione del cognome Torni, e non si conosce, pertanto, un possibile vincolo con la famiglia fiorentina dei Torni insediata allora nel popolo di San Niccolò (Archivio di Stato di Firenze, Raccolta Sebregondi, famiglia Torni). Il cognome è associato a Jacopo da un documento legato al soggiorno di suo fratello Francesco nell’ospedale di S. Giacomo degli Incurabili a Roma, dove nel 1562 venne registrato come «magister Franciscus Torni alias vulgariter nuncupatus l’Indaco pictor Florentinus» (Bertolotti, 1881, p. 75; Id., 1882, p. 294). Dobbiamo alla biografia che Giorgio Vasari dedicò a «Jacopo detto l’Indaco», in entrambe le edizioni delle Vite, la menzione del soprannome Indaco, che condivise con suo fratello pittore Francesco, «anch’egli l’Indaco», cui è riservato un paragrafo all’interno della biografia del fratello nell’edizione giuntina (Vasari, 1568, 1878, III, pp. 679-682). Tuttavia è solo a suo zio – «micer Francisco» – che Lázaro de Velasco, figlio di Jacopo e pittore di libri, nonché architetto a Granada, attribuisce il soprannome Indaco al menzionare entrambi come «excellentes pintores y escultores y arquitectos en Italia y España» nell’introduzione della sua edizione commentata di Vitruvio verso il 1564 (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 5v). Sconosciute rimangono le origini del soprannome, potendo essere legato a una particolare abilità di entrambi i fratelli nell’uso di quel pigmento colorante di origine indiana, o forse alla provenienza paterna, come si potrebbe desumere dalla Vita vasariana di Ghirlandaio, dove Jacopo viene menzionato come «dell’Indaco», essendo forse così conosciuti entrambi i fratelli, Francesco come «il Giovane» e Jacopo come «l’Indaco Vecchio», quale è menzionato dallo stesso Vasari nella Vita di Michelangelo (Vasari, 1568, 1881, VII, p. 175).
Secondo Vasari, Jacopo «fu discepolo di Domenico Ghirlandaio» (Vasari, 1568, 1878, III, p. 679), insieme a «David e Benedetto Ghirlandai, Bastiano Mainardi da San Gimignano e Michelangelo Buonarotti fiorentino, Francesco Granacci, Niccolò Cieco, Iacopo del Tedesco, Iacopo dell’Indaco, Baldino Baldinelli» (ibid., p. 277), e ciò trova conferma in alcuni documenti che dimostrano la familiarità con la sua cerchia: nel 1497 Jacopo fu testimone di David Ghirlandaio per la nomina di due procuratori (Aquino, 2007, p. 64) e nella recognitio bonorum della bottega familiare a S. Michele Berteldi (Geronimus - Waldman, 2003, p. 156, nota 114). Con molta probabilità Jacopo era tra i «garzoni» che si trovarono a lavorare con Ghirlandaio nel duomo di Pisa nel 1493 (Cadogan, 2000, pp. 166, 169). A rafforzare le parole di Vasari sul vincolo con i membri della cerchia di apprendisti di Ghirlandaio,«Jacopo di Lazzaro» fu, insieme a Francesco Granacci, membro della Compagnia di S. Bonaventura e S. Bartolomeo con «Giovanni Battista di Lazzaro» (Geronimus - Waldman, 2003, p. 151, nota 72), quest’ultimo, forse suo fratello, anch’egli pittore e appartenente alla Compagnia di S. Paolo (Colnaghi, 1928, p. 146). Dopo l’apprendistato ghirlandaiesco, Jacopo iniziò la sua attività artistica autonoma a Firenze, essendo menzionato come «pictor» nel 1499 in un contratto di affitto per quattro anni di una «domum cum suis habituris et edificiis» nelle vicinanze del duomo, nel popolo di S. Benedetto (Waldman, 2002, p. 28, nota 28); qui rimase fino al 1503, quando affittò, insieme al pittore-battiloro Antonio di Stefano, una bottega – «unam apothecam» – presso S. Lorenzo (Filippini, 1996, p. 310).
Alla sua attività come pittore a Firenze si aggiunge quella di scultore, documentata per la prima volta a Carrara, dove nel maggio del 1505 fu riconosciuto come «sculptor» in diversi contratti per la fornitura, da parte di cavatori carraresi, di una grande quantità di marmi in società con il lapicida messinese Pietro Freri, a motivo di una grande e complessa opera che combinava una struttura architettonica con figure o rilievi marmorei, nello stesso periodo in cui Michelangelo preparava a Carrara l’estrazione di marmi per la tomba di Giulio II (Zurla, 2010-2011, pp. 45-48).
Vasari afferma, nella seconda versione della biografia di Jacopo, che «in Roma lavorò con Pinturicchio», anticipando allora un periodo romano dell’artista che non ha trovato riscontri documentari (Vasari, 1568, 1878, III, p. 679). Nella Vita di Michelangelo il biografo introduce «l’Indaco vecchio» fra gli «amici suoi pittori» che si spostarono da Firenze a Roma nel 1508 perché «gli porgessero aiuto et ancora per vedere il modo del lavorare a fresco» nell’impresa della cappella Sistina (Vasari, 1568, 1881, VII, p. 175), potendosi riferire all’Indaco – oppure a Jacopo di Sandro – la lettera di Granacci nella quale si menziona «Jachopo» come uno fra i pittori fiorentini disposti a spostarsi a Roma per aiutarlo in quell’impresa (Il Carteggio di Michelangelo, 1965, pp. 64 s., 375-379).
È sempre Vasari a scrivere come Jacopo «praticava [...] molto dimesticamente con Michelangelo», illustrando con diversi aneddoti un carattere poco dedito al lavoro e uno speciale rapporto di amicizia con il grande artista, che sarebbe nato nella bottega di Ghirlandaio e che avrebbe fatto sì che le carriere di entrambi s’incrociassero fra Firenze, Carrara e Roma. «Lavorò Jacopo molti anni in Roma, o per meglio dire stetti molti anni in Roma e vi lavorò pochissimo»; nello specifico Vasari si riferisce a opere perdute e delle quali non si hanno altre notizie: come gli affreschi con la Pentecoste e due storie di Cristo; la tavola d’altare con un Cristo morto in una cappella di S. Agostino; e una «tavoletta» con la «coronazione di Nostra Donna» nella Trinità dei Monti. Vasari considerava Jacopo un grande disegnatore e conservava i suoi disegni nel suo Libro (Vasari, 1568, 1878, III, pp. 679-682).
Nel 1519 Jacopo «vino a España», secondo quanto scrive suo figlio de Velasco che lo definisce un «excellentissimo pintor y primo esculptor, hombre alto, enxuto, cenceño, rubio y blanco», e a Granada «casó con Juana de Velasco» (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r), una figlia del maestro di intaglio Diego López de Velasco di Jaén, cosa che viene confermata da un expediente de limpieza de sangre legato a lui (Gómez-Moreno Calera, 1989, pp. 76 s.). Da allora Jacopo rimase in Spagna fino alla morte nel 1526, e nel breve profilo biografico stilato da suo figlio è menzionata la realizzazione di importanti opere di pittura, scultura e architettura tra Granada, Siviglia e Murcia a partire dal 1520, molte delle quali hanno poi trovato conferma documentaria, cominciando dalla grande impresa artistica della Capilla Real.
Nel 1504, poco prima della sua morte, la regina Isabella la Cattolica decise di ubicare i sepolcri reali in una cappella presso l’ex moschea principale della città di Granada. La Capilla Real venne costruita dall’architetto Enrique Egas fra il 1504 e il 1517, quando il nuovo re Carlo I – futuro imperatore – aumentò i benefici per portare a conclusione le opere artistiche interne, che dovevano coinvolgere i migliori artisti e architetti. Dal 1519 la cappella ospitò il lavoro dei più importanti artisti spagnoli che avevano speso parte della loro giovinezza in Italia, come Alonso Berruguete, Pedro Machuca, Bartolomé Ordoñez e Diego de Siloè: le Águilas secondo Francisco de Holanda. L’Indaco ebbe forse modo di conoscerli tra Firenze, Carrara e Roma, comparendo con un ruolo affermato nel cantiere reale e apparendo le sue realizzazioni alla critica come «eslabón» che collega le moderne realizzazioni dei primi decenni del secolo agli importanti sviluppi legati alle Águilas (Marías, 1989, p. 366).
Jacopo lavorò nella cappella con un ruolo di rilievo, secondo diversi riscontri documentari: a partire dall’ottobre del 1520, infatti, «Jácome Florentín pintor vezino de Granada» coordinava maestranze diverse e forniva muestras e disegni per opere che si caratterizzano per l’uso di repertori ornamentali desunti dall’antico: in concreto, «conforme a una muestra que fizo maestre Jacome», si dipingevano la «caxa de los órganos» e si eseguivano «los caxones» e la «rexa» della sagrestia (Gómez Moreno, 1926, pp. 114-116). Il 4 aprile veniva cancellata l’esecuzione, insieme a Martín Bello, di un retablo che avrebbe invece dipinto Juan Ramírez (p. 121), e nello stesso anno Jacopo realizzò le «traças» – i disegni – per gli stalli lignei del coro, la cui esecuzione fu pagata a Bello il 14 giugno 1521 (León Coloma, 1990, p. 46).
L’opera più importante che Jacopo realizzò nella cappella fu il Retablo de la Pasión, che doveva ospitare, fiancheggiato da altri nuovi dipinti, il trittico della Deposizione della Croce del fiammingo Dierick Bouts. In totale autonomia gli fu affidato il disegno architettonico del retablo l’8 febbraio 1521 (Gómez Moreno, 1926, p. 118), e lo stesso giorno concordò, questa volta insieme a Machuca, «de pintar syete ystorias del retablo que yo el dicho maestre Jácome hago», trattandosi, secondo il contratto, delle scene di «la çena del Señor», «la Oraçión en el huerto» ed «el Prendimiento» nel livello inferiore, «la Asunçión del Señor», la «Aperiçion de la Madalena de Noli me tanger» e «quando yba a Emaus» nel livello intermedio, e «la Baxada del Espíritu Santo a los Apóstoles» nella parte sommitale (Gómez Moreno, 1926, pp. 119 s.); fra tali tavole de Velasco gli attribuisce, oltre al disegno architettonico, «la Cena y los Apostoles» (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r). Dopo una disputa sulla valutazione monetaria del lavoro realizzato, l’intaglio architettonico del retablo doveva essere quasi finito il 28 agosto, dato che quel giorno si comprometteva a terminarlo entro il giorno di San Michele (29 settembre) e il 13 settembre Antonio de Plasencia e Alonso de Salamanca s’impegnarono di dorare e colorire l’intera opera (Gómez Moreno, 1926, pp. 119 s.).
A Granada Jacopo «prosiguió la capilla del Gran Capitán que avia empecado modernista», secondo la testimonianza di de Velasco (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r), la quale si riferisce alla cappella maggiore della chiesa del monastero di S. Jerónimo che Carlo V cedette nel 1523, mentre era in costruzione, a María Manrique, duchessa di Sessa e di Terranova e vedova di Gonzalo Fernández de Córdoba, quale luogo di sepoltura familiare (Gómez Moreno, 1925, p. 277). Dal 1523 o dal 1525, quando venne ufficializzata la concertazione del patronato, fu modificata la costruzione ‘modernista’ – cioè di impianto tardogotico – della parte della chiesa già costruita – la navata, il coro e le cappelle – in favore di un nuovo progetto per la cappella absidale e il transetto, dove vennero privilegiati la composizione e gli elementi di impronta classica. Dopo la morte di Jacopo il progetto fu concluso da de Siloè a partire dal 1528. Nel chiostro grande del monastero di S. Jerónimo si trovava nel 1657 il gruppo scultoreo dell’Entierro de Cristo, oggi nel Museo di belle arti di Granada, che fu attribuito da Manuel Gómez Moreno a Jacopo in assenza di riscontri documentari, così come nel caso del gruppo della Crocifissione nella chiesa della Magdalena a Jaén (Gómez Moreno, 1925, pp. 275 s.), e di due crocifissi lignei a Granada: quello di San Agustín nel convento dell’Ángel Custodio e quello della Misericordia nel convento della Concepción al Albaicín (Id., 1941, p. 95). Jacopo è, invece, menzionato da de Velasco come autore de «la Salutación de piedra de sobre la puerta de la dicha sacristía dela dicha capilla [Real]» in riferimento al gruppo della Annunciazione che ancora si conserva in quel posto (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r).
Sempre suo figlio menziona fra le sue opere «la imagen de Nuestra Señora del Antigua, pintura excellente y muy afamada de todos los officiales» (ibid., c. 8r), nella cattedrale di Siviglia, ovvero il rifacimento o restauro del dipinto parietale della Virgen de la Antigua, con l’addizione degli angeli che incoronano la Vergine, la quale allora si trovava su un pilastro all’interno dell’antica moschea che fu risparmiato dalla demolizione proprio per la devozione popolare verso l’opera. Con buona probabilità tale intervento aveva avuto luogo nel 1519, nel caso che la menzione dei fiorentini Miguel, Jacobo e Francesco che in quell’anno si spostarono da Granada a Siviglia per contrattare «losas para el altar mayor» includa l’Indaco (Gestoso, 1890, p. 211).
Dopo i lavori nella Capilla Real, Jacopo si spostò a Murcia a motivo della nomina come maestro mayor degli edifici della diocesi di Murcia-Cartagena, un compito che non lo fece rinunciare all’importante e rappresentativo incarico di S. Jerónimo nel 1523. Il capitolo della cattedrale di Murcia comunicò attraverso una lettera del 29 marzo 1522 la sua selezione e lo invitò a recarsi a Murcia per stabilire le condizioni di lavoro. L’affidamento fu dovuto anche alla fama di cui Jacopo già godeva e a contatti precedenti, menzionati dai canonici. Da allora, Jacopo avrebbe dovuto farsi carico delle opere di pittura, scultura e architettura nella cattedrale e nel resto della diocesi: in particolare, nella lettera vengono menzionati «un retablo de bulto del altar mayor de dotar y pintar», così come la prosecuzione della «torre y campanario», «siete u ocho bultos y enterramientos y muchas ymagenes en la capilla del señor Marqués de los Vélez, y ademas destos, otro suyo muy sumptuoso en el altar mayor desta iglesia y otras muchas obras que ay en esta ciudad y obispado» (Gutiérrez-Cortines Corral, 1987, pp. 64 s.). L’incarico venne assunto dal 31 aprile 1522, come testimoniano i conti della fabbrica della cattedrale, in sostituzione di Francesco Fiorentino, con il quale Jacopo si era incontrato nel cantiere della Capilla Real e che era stato maestro mayor dal 7 luglio 1519 (González Simancas, 1911, pp. 519-521) fino alla morte nel marzo del 1522 (Gutiérrez-Cortines Corral, 1987, p. 94, nota 104).
A Murcia Jacopo fu prevalentemente impegnato nella cattedrale ed è considerato l’autore dei progetti di tutte le opere avviate fra il 1522 e il 1526, anche se il suo nome non compare direttamente nei documenti di cantiere. In primo luogo Jacopo «ordenó la torre de Murcia» (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r), con ciò riferendosi de Velasco alla torre campanaria «que está començada» da Fiorentino (González Simancas, 1911, p. 519): secondo il disegno di Jacopo e la sua direzione dei lavori si concluse soltanto il livello inferiore. Al suo interno progettò la sagrestia con una cupola a ombrello su pennacchi completamente in pietra, di impronta quattrocentesca fiorentina, terminata prima della sua morte giacché reca la data del 15 novembre 1525 nella cornice lungo le pareti; per la sagrestia progettò i mobili interni, in legno scuro di noce e vicini alle sue realizzazioni lignee per la Capilla Real di Granada, e il portale che, disegnato come un grande arco di trionfo, introduce un apparato scultoreo all’interno di una struttura architettonica molto articolata e complessa. Al di fuori del ruolo ufficiale di Jacopo come maestro mayor si colloca l’incarico privato da parte del canonico Gil Rodríguez de Junterón per la sua cappella funeraria nella stessa cattedrale.
Fra il 1511 e il 1513 e, di nuovo, fra il 1519 e il 1521, il religioso fu eletto fabriquero mayor, ovvero il prelato incaricato della Fabbrica della cattedrale. L’arrivo di Jacopo a Murcia, e forse anche quello di Fiorentino, dovette collegarsi con questa figura, che condivise con Jacopo la permanenza a Roma durante il pontificato di Giulio II. Junterón fu uno stretto collaboratore del papa Della Rovere, e ciò potrebbe aver fatto conoscere al prelato la cerchia artistica del pontefice che lavorava nei tanti cantieri vaticani, facendolo forse entrare in contatto con Jacopo. Fu il pontefice che concesse a Junterón i tanti benefici ecclesiastici nella diocesi di Murcia-Cartagena durante il soggiorno romano del prelato spagnolo fra il 1505 e il 1510, quando fu nominato protonotario apostolico e conte palatino, oltre che arcediano di Lorca mediante una bolla papale del 1508 in cui è menzionato come «familiaris noster et continuus commensalis» (Villella, 2002, pp. 83 s., 93).
Il 7 giugno 1510 Junterón chiese di acquistare una delle cappelle quadrate nella navata sud, quella di Piero Saorín, limitata dal muro esterno della cattedrale (Villella, 1998-1999, p. 100, nota 1). La richiesta di costruire la cappella al di fuori della cattedrale comportava di demolire quel muro, cosa che fu autorizzata il 24 marzo 1525, quando l’arcidiacono si «obligó de acabar la dicha capilla dentro de dos años primeros siguientes» (Baquero Almansa, 1982, pp. 134 s.), potendo dunque datarsi prima del 1525 un dettagliato progetto che doveva precisarne la configurazione architettonica, e per il quale la critica concorda che fu Jacopo l’autore, pur in assenza di riscontri documentari. Dopo la sua morte ne fu affidata la prosecuzione, insieme al resto dei cantieri aperti nella diocesi, al suo collaboratore e successore come maestro mayor, Jerónimo Quijano.
Secondo de Velasco, Jacopo morì «en un lugar de Murcia que se dize Villena» (Vitruvio, 1564 circa, 1999, c. 8r), precisamente il 26 gennaio 1526 (Gutiérrez-Cortines Corral, 1987, p. 61), nonostante che Vasari collochi la sua morte a Roma intorno al 1544, all’età di sessantotto anni (Vasari, 1568, 1878, III, p. 681).
Fonti e Bibl.: M. Vitruvio, Los diez libros de Arquitectura de Marco Vitruvio Polion según la traducción castellana de Lázaro de Velasco [ms., 1564 circa], a cura di P. Mogollón Cano-Cortés - F.J. Pizarro Gómez, Cáceres 1999, cc. 5v, 8r; G. Vasari, Le vite (1568), a cura di G. Milanesi, III, Firenze 1878, pp. 679-682, 277, VII, 1881, p. 175; A. Bertolotti, Einige unbekannte Familiennamen berühmter Künstler, in Repertorium für Kunstwissenschaft, IV (1881), pp. 73-77; Id., Paolo di Mariano scultore nel secolo XV, in Archivio storico, artistico, archeologico e letterario della città e provincia di Roma, VIII (1882), 4, pp. 291-309; J. Gestoso, Sevilla monumental y artística, II, Sevilla 1890, p. 211; M. González Simancas, La catedral de Murcia. Noticias referentes a su fábrica y obras artísticas, in Revista de archivos, bibliotecas y museos, XXIV (1911), pp. 519-521; M. Gómez Moreno, Sobre el Renacimiento en Castilla. II. La Catedral de Granada, in Archivo español de arte y arqueología, III (1925), pp. 272-277; Id., Documentos referentes a la Capilla Real de Granada, ibid., IV-V (1926), pp. 114-121; Id., Las Águilas del Renacimiento español: Bartolomé Ordoñez, Diego de Siloé, Pedro Machuca, Alonso Berruguete, Madrid 1941, pp. 57, 95; A. Baquero Almansa, Rebuscos y documentos sobre la historia de Cartagena, Cehegín, Mula y Murcia, Murcia 1982, pp. 134 ss.; Il Carteggio di Michelangelo, a cura di P. Barocchi - R. Ristori, I, Firenze 1965, pp. 64 s., 375-379; D.E. Colnaghi, A Dictionary of Florentine painters from 13th to the 17th centuries, London 1986, p. 146; C. Gutiérrez-Cortines Corral, Renacimiento y arquitectura religiosa en la antigua diócesis de Cartagena, Murcia 1987, pp. 61-66; J.M. Gómez-Moreno Calera, El licenciado Lázaro de Velasco, pintor de libros y arquitecto. Aproximación a su biografía y obra, in Boletín de arte de Málaga, X (1989), pp. 75-92; F. Marías, El largo siglo XVI: los usos artísticos en el Renacimiento español, Madrid 1989, p. 366; M.A. León Coloma, La Lonja de Granada, Granada 1990, p. 46; F. Sricchia Santoro, Del Franciabigio, dell’Indaco e di una vecchia questione. II, in Prospettiva, 1993, n. 71, pp. 12-33; C. Filippini, Il pittore-battiloro Antonio di Stefano, compagno di bottega dell’Indaco, in La Toscana al tempo di Lorenzo il Magnifico. Atti del Convegno di studi... 1992, I, Firenze 1996, pp. 305-311; M. Villella, J. T. detto l’Indaco (1476-1526) e la cappella funebre «a la antigua» di Don Gil Rodríguez de Junterón nella cattedrale di Murcia, in Annali di architettura, X-XI (1998-1999), pp. 82-102; J.K. Cadogan, Domenico Ghirlandaio. Artist and artisan, New Haven-London 2000, pp. 166-199; M. Villella, Don Gil Rodríguez de Junterón: committente architettonico e artistico tra Roma e Murcia, in Anuario del Departamento de historia y teoría del arte Universidad autónoma de Madrid, XIV (2002), pp. 81-102; L.A. Waldman, Two foreign artists in Renaissance Florence: Alonso Berruguete and Gian Francesco Bembo, in Apollo, CLV (2002), 484, pp. 22-29; D.V. Geronimus - L.A. Waldman, Children of Mercury: new light on the members of the Florentine Company of St. Luke (c. 1475-c.1525), in Mitteilungen des Kunsthistorischen Institutes in Florenz, XLVII (2003), pp. 118-158; L. Aquino, I Ghirlandaio, Baccio d’Agnolo e le loro botteghe «in sulla piazza di San Michele Berteldi», in Invisibile agli occhi. Atti della Giornata di studio in ricordo di Lisa Venturini... 2005, a cura di N. Baldini, Firenze 2007, pp. 64-76; M. Zurla, J. T. detto l’Indaco, pittore e scultore tra Italia e Spagna, in Proporzioni, n.s., XI-XII (2010-2011), pp. 39-68.