JACHIA
"Sultan Jachia gran principe ottomano": così J. - un nome che in arabo si avvicina al nostro Giovanni; Jachia semplifica Yahyâ - sottoscrive una lettera dell'8 sett. 1615 da Parigi al duca sabaudo Carlo Emanuele I.
"Sultanis Mahometis tertii […] natu maximus", s'autoqualificherà il medesimo in un latino traballante nel 1633, deducendo dall'asserita primogenitura la consistenza del suo essere "legittimus orientalis imperii heres". Né disdette le sue "giuste pretensioni" alla "naturale et legittima successione di sangue" nel trono turco, allorché s'accontentava di dirsi secondogenito di Maometto III. Questo il primogenito, Mustafà o Mahmud, l'avrebbe eliminato. In tal caso il trono toccava egualmente a Jachia. E se, nel 1609, un ambasciatore lucchese a Firenze lo definiva "terzogenito del Gran Turco" - è spacciandosi per tale, evidentemente, che J. si presentò alla corte medicea -, i suoi pretesi diritti successori restano già sostenibili, nella misura in cui si sottintenda che, alla morte del padre, né il primogenito, né il secondogenito erano in vita.
Arduo precisare precedenze genealogiche con il Turco se si considera che - come informa Leonardo Donà reduce dall'ambasceria straordinaria a Costantinopoli il 12 marzo 1596 - Maometto III, divenuto il 18 genn. 1595 sultano "per raggione di primogenitura" (è figlio di Murad III e di Baffo) e facendo subito strangolare i 19 "fratelli" minori allora in serraglio, di figli ne ha avuti parecchi da donne diverse, e, simultaneamente, con relativo complicarsi e aggrovigliarsi della linea successoria. Comunque sono solo tre quelli indicati da Donà nella sua relazione (Seneca): "Selim" di 12 anni, "Acomat", "Suleimano". Così, come in ordine di successione. Morto, nel 1597, Selim, stando alla relazione del 1600, al rientro dal bailaggio, di Girolamo Cappello al Senato veneziano (Relazioni di ambasciatori veneti), primogenito diventa "Acmat", che è sui 13 anni, seguito dal "secondo" figlio "Memet" e da un terzo, di appena un anno, di cui non viene fatto il nome. In entrambe le relazioni - questo va sottolineato - J. non figura. E, morto, il 22 dic. 1603, Maometto III, gli succede, viene da dire regolarmente, Ahmed I segnalato, appunto, come primogenito da Cappello. Ma questi, a detta di J., è un usurpatore, perché nato dopo di lui.
È come sultano legittimo che J. - ambasciatore di se stesso, avvocato della propria causa, più ostinato a ribadirla che forte di elementi probatori - si presenta. E c'è da credergli sulla parola. E se per la Serenissima la diffidenza non viene meno, per cui J. resta "quel tale nominato Sultan Jachia", se per i suoi diplomatici l'autodenominazione, ribadita lungo i decenni dall'interessato, vale a modo di pittoresco nomignolo a connotare un uomo che, per quanto di sé dice, sarebbe "del sangue ottomano", se l'opinione dello stesso re di Spagna, Filippo III, è che J. sia un "embustero", uno spudorato mentitore, un fanfarone, altri lo prendono sul serio, a quel che racconta credono o mostrano di credere. Tra questi Maiolino Bisaccioni: se a proprio riguardo costui al titolo di "conte" aggiunge la qualifica di "huomo ordinario della camera del re christianissimo et suo cavalliere", come è con se stesso abbondante di titoli, così - dopo essersi con J. incontrato - è indulgente con le pretese al trono di J. stesso, non si mette a scrutinarle e vagliarle. E le prende per buone pure il biografo di J. - nonché con lui in rapporto -, il minorita croato Rafail Levaković, l'autore dell'Alfabeto slavo… chiamato Salterio (Roma 1629), attivo, per conto della congregazione romana di Propaganda Fide, nella redazione di libri liturgici slavi: donde, a sua cura, l'edizione, nel 1631, del Messale in redazione (ricettiva delle pressioni degli uniati ucraini) rutena e l'approntamento, nel 1635, del Breviario che, dopo la sua nomina a vescovo di Ochrida del 1647, viene stampato nel 1648. Per Hammer J. non è che un avventuriero, forse greco, il quale - vantandosi figlio di sultano con diritto di successione - in veste di monaco (e qui è senz'altro impreciso lo storico austriaco) cristiano va cercando protezione e quattrini a Firenze e a Parigi, a Napoli e a Roma, a Varsavia. Un giudizio, questo dello storico ottocentesco, che sbrigativamente riassume opinioni su J. che circolavano al tempo in cui era vivo. Ma, di contro, non impostore J. se, come farà nella monografia a lui dedicata Oscarre di Hassek, fidente nella validità del profilo di Levaković - circolante manoscritto quanto meno all'inizio del 1646 se, in una lettera al Senato veneziano del 30 marzo 1646, il residente veneto a Firenze Giovanni Ambrogio Sarotti può allegare il riassunto delle vicende di J. steso dall'abate Leonardo Fabroni (di J. "amico e familiare") proprio sulla base della ivi citata "vita" del religioso croato -, l'identità con la quale si presenta in Occidente non è abusiva, ma attendibile e fededegna. E un prete greco, tale Giorgio Moschetti, riferisce, nel 1611, al granduca di Toscana Cosimo II, da cui era stato incaricato di indagare sulla "verità dell'historia" di J., di "molte canzoni che raccontano li fatti" di J. cantate "in Costantinopoli, in Magnesia et in Natolia".
Non un greco imbroglione, in tal caso J., ma nato effettivamente a Magnesia, il 26 ott. 1585, dal governatore di questa e futuro sultano Maometto III (e allora nonni paterni di J. erano Murad III e Baffo) e da Elena Comnena di Trebisonda, di illustre ascendenza e, in cuor suo, cristiana. Questa, timorosa per la vita del figlio, lo avrebbe sottratto al Serraglio, affidandolo ai monaci del convento macedone di S. Anastasia, a Bugarion, un villaggio non lungi da Salonicco, dove finì per riparare essa stessa; e J. vi sarebbe stato battezzato con il nome di Alessandro. Così una versione. Una variante lo vuole battezzato a Salonicco il 1° sett. 1595, mentre l'assunzione del nome Alessandro sarebbe più tarda, allorché J. era uomo fatto, quando si autotitolava conte di Montenegro e sposava Anna Caterina Castriota figlia del duca Pietro nonché conte di Drivasto, tra i cui antenati ci sarebbe Scanderbeg. A rischio, comunque, la sopravvivenza del fanciullo una volta successo al padre il fratello Ahmed, nato anche questo a Magnesia, ma dopo di lui, da altra donna. Sicché, lungi da Costantinopoli J. si portò in Valacchia e Moldavia, così iniziando la sua esistenza errabonda. Oltrepassato il Danubio a Nikopol, s'aggregò, in veste di mercante, a una carovana diretta in Polonia. Ma, ammalatosi, fu costretto a fermarsi a Targoviste. Rimessosi in salute, si unì a dei mercanti greci e armeni coi quali, nella primavera inoltrata del 1606, raggiunse Jaşi, qui un po' appalesandosi con il voivoda Jeremia Movila. Quindi, dopo un qualche ulteriore gironzolio, puntò su Cracovia per alfine giungere, il 20 giugno 1608, alla corte cesarea di Praga, a farvi valere la propria prestigiosa nascita.
Ma era troppo recente il trattato di pace di Zsitvatorok dell'11 nov. 1606 tra la Porta e l'Impero, a conclusione di un conflitto dal quale quest'ultimo uscì stremato, per utilizzare J. nelle mosse antiturche da lui prospettate. Rodolfo II non intende certo compromettere la pace con il Turco per prestare orecchio alle mirabolanti imprese caldeggiate da J., alle quali, invece, mostra di interessarsi Ferdinando I de' Medici, su di lui informato dal proprio ambasciatore a Praga. È a Firenze, allora, che J., camuffato da principe ungherese, ove - come scrive il rappresentante lucchese Alessandro Lamberti agli Anziani di Lucca - si trasferì con tutta probabilità entro il marzo del 1609, venendovi "riceuto et intertenuto assai secretamente per molto tempo et con grand'onore" dal granduca Cosimo II, nel frattempo subentrato al padre, "nella fortezza vecchia". Non ignoto a Lamberti che il misterioso personaggio era "fratello del sultano", stando, almeno, alle voci a lui relative, le quali lo dicevano salvato dalla madre, "donna molto astuta et sagace", dalla "barbara crudeltà" di Ahmed deciso a far morire chiunque poteva dar ombra al suo insediamento in trono. A detta di Lamberti, J. "si fuggì in cristianità" non senza in questa reclamare che "l'imperio" ottomano "a lui legittimamente si apparteneva". E, una volta a Firenze, vagheggiata una spedizione esitante con J. a capo dei sudditi della Porta "in grandissimo numero sollevatisi" contro Ahmed, "l'imperatore loro". Si affaccia nelle angustie del microassolutismo mediceo il sogno di una grande gloriosa impresa, quasi sia possibile ribaltare l'impero del male e guadagnarlo alla fede. Forse a J. basterebbe una decorosa sistemazione tranquilla presso la corte medicea. Forse è il primo a non credere realizzabili le fantasie cui, con la sua venuta, ha dato esca. Fatto sta che si trova coinvolto nell'ambizioso attivismo marinaro di Cosimo II, sicché il 27 ag. 1609 si reca - con il "generale dei galeoni" Guglielmo de Beauregard e con Guidubaldo Brancadoro comandante delle milizie di terra - a Livorno, non senza fare una puntata a Roma. È in corso una febbrile mobilitazione. Si adunano truppe, "fabbricate" - scrive Lamberti, il 19 settembre, agli Anziani - "500 casacche alla turchesca" a iniziare lo sbarco in terra nemica con lo stratagemma di un'infiltrazione. Arrivati nel frattempo a Firenze due presunti pascià fuggitivi ad assicurare che J. è "veramente fratello del Gran Signore". Animato dalla fiducia sia giunta, tramite lui, l'ora della riscossa il salpare - con, naturalmente, imbarcato J. - della flotta stipata di armati alla volta del Levante. Ma deludente l'arrivo in Soria (Siria) dell'armata. Nessuna eco di emiri ribelli, di una Persia pronta a colpire alle spalle il Turco. Non c'è che da far marcia indietro al più presto. L'armata - così, il 2 maggio 1610, Lamberti - già pomposamente salpata con piglio baldanzoso, con "speranze di gran successo", sinora non ha "fatto cose considerabili". E ora revocata da Cosimo II. E, ad aggravare lo smacco, il consuntivo amaro di più galeoni perduti. E gran "altercazione tra' ministri" medicei rinfacciantisi a vicenda la responsabilità di un'iniziativa fallimentare, di un'impresa che sta naufragando nel ridicolo.
Quel che ci rimise fu J. che - laddove nessuno ardiva formulare qualche addebito alla volta del granduca e alla sua smania di protagonismo in Oriente - fu facile bersaglio a portata di mano al quale, nello scarico delle responsabilità, finire con l'attribuirle tutte. E, mentre i ministri gareggiavano a scagionarsi, eccoli concordi nell'additarlo quale colpevole del disastro, tutti unanimi a colpevolizzarlo, ognuno giudicandolo "debolissimo istrumento et di fede non sincera".
A questo punto, in discredito J. nella capitale granducale, dalla quale, dopo un paio d'anni, si allontanò per tentar di riaccreditarsi altrove, da un lato prospettando opportunità praticabili per suo tramite, dall'altro cercando per sé autorevoli patrocini. Donde il suo apparire e scomparire dalla Moscovia alla Francia, il suo rapportarsi ora alle inquietudini di Carlo Gonzaga Nevers, ora a quelle di Gasparo Graziani, il croato che già ambasciatore della Porta presso la corte cesarea, una volta principe di Moldavia pagò, nel 1620, con la sconfitta e con la morte l'eccesso avventato delle sue ambizioni. A Parigi contattò, essendo a questo presentato dal signore di Lanzac, l'ambasciatore sabaudo Carlo Moretta, tramite il quale fece appello al duca Carlo Emanuele I, senza, però, esserne degnato di una risposta. Risbucò, quindi, in Valacchia e in Polonia. Camaleontico, già fintosi nei Balcani monaco ortodosso, s'infiltrò, questa volta camuffato da sipahi, tra le truppe di Iskender pascià; con queste per un po', una volta ad Alba Julia, si allontanò per portarsi a Jaşi e di lì a Chocim per poi unirsi ad alcuni armeni a Camenizza. Nel 1617 - così, almeno, in una lettera del 5 apr. 1618, di Jacques Pierre (che, noto come "le capitaine", sarà eliminato nello stroncamento preventivo della congiura di Bedmar) intercettata dalla Serenissima - si presentò a Napoli al viceré P. Téllez Girón duca di Osuna a capo di una delegazione cristiana dei Balcani. Possibile, a detta di J., un'insurrezione purché incoraggiata e, naturalmente, finanziata. Era un'opportunità che J. faceva presente pure alla Repubblica marciana senza, però, che questa gli prestasse attenzione. A Vienna e poi nell'ottobre del 1618 a Cracovia J., successivamente saggiò - per conto di Abaza Mehmed pascià, il governatore di Erzerum nel 1623 apertamente ribelle alla Porta - la praticabilità di concerti operativi; fu J. che, in certo qual modo rappresentante ufficioso del pascià, si aggirò nell'area sud danubiana per incontri, più o meno furtivi, con il notabilato cristiano di quella. Assunta la falsa identità di Zaim aga, J. fu anche a Sofia e Orava.
Incontratosi, nella primavera del 1624 a Jaşi, con il principe di Moldavia e Valacchia Radu Mihnea, fu con il sovvegno di questo che J. fu attivo, nel 1625, nell'offensiva antiottomana sferrata dalla combattiva furia dei Cosacchi. Sconfitti questi, riparò in Russia, quindi si portò a Brema. Ad Amsterdam nel 1626 per acquistare armi, non disponeva, però, del denaro necessario. Purtroppo, morto Mihnea, non poté contare sui 200.000 talleri che da questo si riprometteva. Era Wallenstein, dopo che quello scomparve, la persona alla quale J. - ad Amburgo nel 1627, a Norimberga nel 1628 e quindi a Praga - faceva riferimento. E fu alla presenza di Wallenstein che, l'8 giugno 1629, a Pustkow in Galizia, J. ebbe modo di pronunciare un bellicoso discorso - fatto circolare, a dargli soddisfazione almeno in questo, in varie copie, senza che, però, ciò impegnasse a tenerne conto - sul "mover guerra al Turco". Un'offensiva alla grande, quella da lui caldeggiata, per la quale s'autocandidò a un ruolo di primo piano. A capo dei "christiani […] sparsi per l'Albania, Grecia, Servia, Bulgaria, Tracia, Macedonia, Thessalia et Bosnia" all'uopo armati ed equipaggiati era, infatti, pronto ad assumere il comando per scendere, a fine ottobre, in campo, sorprendendo così il nemico solito, appunto, soprassedere alle operazioni belliche dal 26 ottobre a fine aprile. Così sbarrava il transito all'avversario e ne invadeva il territorio sino ad Adrianopoli. E da qui programmabili puntate offensive "contro l'istessa Costantinopoli". Mobilitabile, nel contempo, il valore delle truppe cristiane guidate da J. a fronteggiare - magari insieme con l'esercito cesareo cui J. garantiva l'apertura delle porte a farlo entrare e procedere "per paese", grazie a lui, "amico" - a piè fermo il "grosso esercito" ottomano prevedibilmente spostatosi dall'Asia "nelle campagne" di Adrianopoli. E, nel frattempo, certa la resa delle fortezze ungheresi, purché isolate, purché private di soccorso. Ad attivare un programma del genere - quantificava J. - gli necessitavano 60.000 moschetti, 20.000 paia di pistole, 20.000 carabine, 10.000 corazze, artiglierie (anzitutto 20 cannoni), polveri, carriaggi, viveri, almeno 40 vascelli, 4 o 5000 soldati, possibilmente croati o boemi, sì che potessero intendersi con la massa di armati prevedibilmente calamitati dalla galvanizzante presenza di Jachia. Certa - promise - la vittoria se lo si fosse dotato di quanto chiedeva.
Ma inutili le promesse di successo di Jachia. Il suo piano non fu preso seriamente in considerazione. E, mentre egli nel settembre era a Trieste, poi a Firenze, quindi, nel 1630 e nei primi mesi del 1631, a Napoli, per giungere a Roma nel giugno di quell'anno, in vana attesa di una convocazione per attuarlo, questa non arrivò. Costretto, allora, "princeps sultanus Jachias", a mutare referente cui proporre le proprie "cogitationes […] de modis profligandae mahometanae impietatis et recuperandi orientalis imperii". E fu a Torino che traslocò, dove il duca Vittorio Amedeo I - con lui più condiscendente di quanto non fosse stato suo padre, anche perché, autoproclamatosi, nel dicembre del 1632, re di Cipro, a dar consistenza al titolo valeva un progetto di lega tra Stati italiani sospingibile, tramite J., alla crociata - permise che si installasse nel 1633 insieme con Gaspare Scioppio improvvisatosi intanto portavoce e segretario di Jachia. "Consiliarium nostrum intimum" lo definì quest'ultimo in una sorta di credenziale del 1° novembre, con la quale lo autorizzò a trattare coi principi quale suo oratore e ambasciatore. E fu a nome di J. che Scioppio, un po' pavoneggiandosi quale conte di Chiaravalle, si recò a Genova - a ciò autorizzato anche dal duca sabaudo il quale non aveva nulla in contrario a che J. così chiedesse ad altri quei mezzi e sovvegni che egli si guardava bene dal dargli -, a caldeggiare la "riuscibilità et facilità dell'impresa" strepitosa, azzardabile facendo perno su J. "primogenito di Mahometto III imperatore" e come tale, "per la ragion del sangue", con diritto al trono sempre valido. Profilato da Scioppio J. quale personaggio di eccezionale levatura, con pratica dell'Impero ottomano di cui conosce tutti i "passi", il quale, provetto uomo d'armi forgiatosi alla scuola dei principi d'Orange, aveva alle spalle l'esperienza di decenni di lotta al Turco "per mare e per terra". Padrone di almeno 14 lingue, in grado di intendersi e di essere inteso da tutte le etnie dell'Impero ottomano, ancora il 16 ag. 1617 J. sarebbe stato riconosciuto da 150.000 sudditi del Turco imperatore e "padrone naturale". Tutti i cristiani soggetti alla Mezzaluna - oltre 13 milioni di "fuochi" azzarda il memoriale consegnato da Scioppio a Genova - sono in fremente attesa della sua venuta a scatenare la riscossa. Avvinto da "amicitia molto stretta" con i "moscoviti" e i "cosacchi" di rito greco, con questi ultimi - ottemperanti allo zar che li esortava a servire fedelmente J. quale "suo caro fratello" - nel 1625 avrebbe formato un "esercito di 90 mila combattenti", a capo del quale sarebbe andato all'assalto di Trebisonda, Cherasonda, Caffa Sinope sconfiggendo l'"armata turchesca" cui avrebbe tolto, il 23 agosto, almeno 300 pezzi d'artiglieria. Aveva dalla sua la benedizione di un sant'uomo spagnolo da quasi 50 anni orante nell'eremo di Camaldoli, il quale, onoratolo come "campione della christianità", profetizzava fosse proprio lui l'"imperatore pelegrino" voluto dalla provvidenza a distruggere la legge di Maometto, a piantar nell'orrore vigne, "palatii et giardini". Un oracolo confermato dall'apparizione della Vergine - di cui si raccontava pure a Vienna e nella stessa Genova; e lì la notizia la portò un "chiaus", qui un religioso - allo stesso atterrito sultano vivente Murad IV, a ingiungergli di restituire a J. quell'"imperio" che "di ragione" gli spettava. Nella primavera del 1633 ci sarebbe stata, con "grandissimo spavento" del Turco, questa comparsa della Madonna. Anch'essa dall'alto dei cieli voleva l'attacco d'autunno, al mobilitare dei "timarristi o comendatori": se a detto attacco concorrerà Genova, enormi i vantaggi per questa dopo la vittoria data per scontata: avrà Caffa e Scio, oppure l'Albania oppure l'Erzegovina; godrà dell'esclusiva di "tutto il traffico di levante"; e sin d'ora impegnato J., allorché sultano, a fornire ai Genovesi "grandissime entrate", onorificenze, titoli, incarichi, cariche.
Cortese l'accoglienza riservata all'"illustris vir Gaspar Scioppius" e congedato con una lettera nella quale, in data 12 genn. 1634, i "gubernatores et procuratores Reipublicae Genuensis" insieme con il "dux" plaudono alle intenzioni di J., tanto più commendevoli ché non solo motivate "iuris sui vindicandi desiderio", ma pure dal nobile stimolo "orthodoxae fidei propagandae". Indubbio l'assenso celeste allo "iustum bellum" di J. promosso "ad delendam impiam Turcarum tirannidem". Quanto a Scioppio - il propagandista del piano di J. -, i governanti genovesi si auguravano che anche "caeteri principes […] benigne excipiant". Munito così delle buone parole della Superba, Scioppio le adoperò come credenziale per gli Anziani di Lucca. E questi, l'8 febbraio, in un latino più elaborato di quello della credenziale genovese, consentirono con questa con espressioni ancor più incoraggianti. Solo che Scioppio impaziente era già partito per Firenze. Una scortesia nei confronti della quale Lucca si adontò. E Cesare Burlamacchi, rappresentante lucchese alla corte medicea, protestò con lo stesso granduca Ferdinando II. "Gran litterato" - concordarono entrambi - Scioppio, però ignaro dello "stile delle corti". Partito da Torino Scioppio a cercar, per la causa di J., più che buone parole di incoraggiamento dei contributi in moneta. Questi non li ebbe a Genova, non li ebbe a Lucca. E a Firenze non ebbe nemmeno buone parole, perché Ferdinando II - lungi dallo scucire i 50.000 scudi che J. da lui s'attendeva - manifestò tutto il proprio scetticismo sull'impresa che Scioppio andava per J. perorando. A questo punto fu lo stesso propagandista - così Burlamacchi - a dubitare di un trionfo dal quale - come gli aveva promesso J. - sarebbe sortito duca di Tebe, principe di Atene e con un'entrata annua di 600.000 scudi, a esser convinto della sua irrealizzabilità. Sicché, una volta a Parma, più che tanto non riuscì a reclamizzarla con il duca Odoardo Farnese. Stanco di recitare la parte del piazzista di una merce avariatasi per strada anche a proprio giudizio, bruscamente Scioppio si defilò dall'incombenza, fattasi insostenibile, di insistere sull'attuabilità di una sollevazione esitante nell'intronizzazione di Jachia. Al più la vagheggiò a Modena il già duca Alfonso d'Este il quale, ora cappuccino con il nome di fra Giambattista, intravedeva occasione per spalancare al proprio Ordine la missione storica della cattolicizzazione integrale di tutte le terre liberate dalla Mezzaluna.
Utilizzabile, comunque, J. nella misura in cui tutta un'area - Albania, Bosnia, Valacchia, Moldavia, Rascia, Serbia, Bulgaria - era valutata come virtuale polveriera da fare, in qualche modo, esplodere. In Croazia, chiamato dal conte Giorgio Lodovico di Schwarzenberg J. nel 1638, nel frattempo tornato a Torino da Bucarest dove comparve nella prima metà del 1637. E in Valacchia Levaković, per conto di Propaganda Fide; forse è questi a persuadere il principe Matteo Basarab a prestare credito al "serenissimo signor Alessandro sultan Jachia Ottomanovich". Disposti, nel 1641, a schierarsi con lui due pascià - quello di Silistria e quello di Timişoara - in rotta con la Porta, ma uccisi entrambi.
Comunque si continuò a tramare e cospirare. E J. - con indubbio coraggio - travestito da derviscio si spinse sino a Salonicco e a Costantinopoli. Aveva dalla sua l'appoggio di Basarab, del principe di Moldavia Basilio Lupu. Disponibile nei suoi confronti anche il principe di Transilvania Giorgio I Rákóczi. Forse qualche frutto poteva venirne anche alla Serenissima, costretta all'impari confronto con il Turco. "È venuto in questi contorni" - scriveva, il 18 maggio 1646, da Varsavia, l'ambasciatore veneto Giovanni Tiepolo - "il conte di Montenero che asserisce esser figliuolo di Mehemet III", il quale, "nutrito nella fede cattolica" (il che valeva sino a un certo punto, visto che, come racconta l'abate Fabroni sulla base di Levaković, sin imbevuti della "ortodossa dottrina della Chiesa greca" i "più teneri anni" di J. successivamente "amicissimo del rito latino": non da subito cattolico J. e in base ai luoghi, alle circostanze, agli interlocutori; l'"ortodossa fede" di taluni di questi non era certo la cattolica; l'impressione è che J. facesse l'ortodosso con gli ortodossi, il cattolico con i cattolici, "atto a far cose mirabili nell'una e nell'altra Chiesa") combatté, nel 1625, con i "cosacchi di Moscovia". Vantando "molte intelligenze […] nel paese turchesco […] con prencipi, prelati et altri principali", J. "di se stesso molto promette", quanto meno "si offerisce dar molti lumi et informazioni" sul "come […] notabilmente offender il Turco". Già, per tramite di Giovanni Michele Pierucci (un giurista fiorentino allora docente di pandette nello Studio di Padova, in rapporto con Scioppio e con Galilei), ancora il 16 febbr. 1646, J. si era proposto alla Repubblica quale organizzatore e animatore di una diversione tale da "metter garbugli nell'impero ottomano", purché a capo di un esercito di tre nazioni - ossia di bulgari, serbi, albanesi - da formarsi a spese di Venezia. Ma - anziché anticipargli una gran somma perché operasse autonomamente - il governo veneto (nel quale costante era la presa di distanza da J. di cui "si presume esser figliuolo d'un Gran Turco" e di cui si constatava "sia gran testa ripiena di vastissimi concetti piegati a gran rivolte" sicché, ancorché senza "denari, gente, né munitioni", tuttavia "con le accutezze del suo ingegno pretende superar tutte le cose") optò per un regolare inquadramento di J.: arruolato, infatti, questi - nel frattempo stabilitosi a Venezia con l'identità di Alessandro Varna, piemontese - alla fine del 1647 con il grado di colonnello e imbarcato, il 22 ag. 1648, nella galea Ottobona, alla volta della Dalmazia a operarvi di concerto, ma anche con possibilità di iniziative autonome, con il provveditore generale Leonardo Foscolo. Giunto, il 3 settembre, a Zara, dettagliatamente fantasioso Hassek lo volle attivo in Albania, quindi animoso assediante di Risano - presa in effetti da Foscolo l'11 febbr. 1649 dopo 11 giorni di assedio -, per poi morire di lì a poco a Cattaro, per l'aggravarsi della malattia contratta da tempo e trascurata pur di continuare a combattere, in casa dell'amica famiglia locale dei Bolizza. Sempre a detta di Hassek, J. fu sepolto a Cattaro dopo esequie solenni. Ma questa versione del biografo sugli ultimissimi mesi di J. è ridimensionata dalle informazioni desumibili dalle lettere di Foscolo al Senato.
Questi dà sì notizia dell'arrivo di J. "per impiegarsi nell'impresa d'Albania", ma di fatto non iniziò alcunché, perché "disgustato" - così il 12 ottobre Foscolo - dal non poter subito disporre di 4000 fanti e di 30.000 moschetti. E sin trascendente in "segni espressi di alteratione" - così il 20 sempre Foscolo - J. nel constatare che niente per lui arrivava da Venezia, così "vedendosi defraudato nelle concepite speranze", per, appunto, la mancanza di quanto occorrerebbe a realizzarle. Significativo, tuttavia, che Foscolo si guardasse bene dal caldeggiare con il Senato di accontentarlo al più presto. Per J. non nutriva alcuna stima.
"Scopro" - così il 17, permettendosi di dire "liberamente" la propria opinione - che J. dell'Albania non ha "niuna prattica", non ha "alcuna corrispondenza con quelle genti", ancorché vada vantando "adherenze" con le quali potrà "grandemente progredire". E non a Cattaro, in casa Bolizza, come vuole Hassek, scomparso J., ma a Zara. "Sempre trattenutosi nella galea" - così Foscolo, da Cattaro, il 17 marzo 1649; si può supporre che J. sia morto uno o due giorni prima - J. era deceduto "assalito da male gravissimo", per un po' sostenuto a bordo, quindi a terra, dove, per quanto ben assistito, incapace di resistere egli "ha finalmente reso l'anima al Creatore". Più che lamentare la perdita di J. preme a Foscolo far notare che i suoi mesi di soggiorno in galea erano stati - per il governatore di questa, Marcantonio Ottobon - di "non poco incomodo, spesa et merito", per la pazienza avuta.
Dalla moglie Anna Caterina Castriota J. ebbe un figlio e una figlia: questa, Elena (1638-97), sposerà nel 1658 il nobile pisano Andrea Biagi; quello, Maurizio (1635-93), così chiamato in onore del cardinale Maurizio di Savoia suo padrino di battesimo, militerà al soldo della Serenissima finendo i suoi giorni a Palma quivi preposto al comando della fortezza.
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