ISTINTO (lat. instinctus)
È il movente interno che provoca negli animali una complessa serie di movimenti e di azioni che servono a raggiungere uno scopo utile alla vita dell'animale stesso. La caratteristica propria dell'istinto, che lo distingue dall'intelligenza, è l'essere congenito, immutabile, ereditario.
Fin dalla più remota antichità si agita fra naturalisti e filosofi il dibattito intorno all'interpretazione degl'istinti degli animali. Si può dire che i più antichi filosofi greci non ammettessero una netta distinzione fra l'anima degli animali e quella umana: ma pure Eraclito paragona l'anima di un animale a quella di un ubriaco; questa, divenendo più umida, si avvicina a quella. La psicologia degli orfici e dei pitagorici, sotto le influenze orientali, volge al dualismo e, ammettendo la migrazione dell'anima, che si andrebbe perfezionando attraverso gli animali e l'uomo, per assurgere alla sua purezza, implicitamente riconosce esservi fra l'animale e l'uomo differenze di grado, ma non di sostanza, essendo sempre la stessa anima immortale a compiere il suo viaggio espiatorio e purificatore attraverso il corpo di varî esseri. In principio anche Platone accettò la dottrina della migrazione dell'anima, per ritenerne più tardi poi soltanto l'immortalità. Ma con l'acquistare, per lui, l'anima più alta dignità, quale emanazione divina, si andò accentuando l'opposizione fra un'anima animale e un'anima ragionante: quest'ultima esclusiva dell'uomo. L'anima intellettuale e l'anima sensitiva di Aristotele corrispondono a queste due anime; ma sembra tuttavia che Aristotele non si rifiutasse di ammettere la possibilità d'una graduale evoluzione dall'anima animale, esclusivamente sensitiva, a quella umana intellettuale. Anche gli stoici ammisero una diversità di anima nell'uomo e negli animali; questi hanno soltanto la sensazione, la percezione, la rappresentazione e l'impulso ad agire che ne deriva; essi sono come bambini, che non ancora possiedono il raziocinio; e gli animali, mancando di ragione, non possono avere idee morali. Gl'impulsi degli animali sono loro dati dalla natura e diretti a un fine. È nei dialoghi di Plutarco sull'intelligenza degli animali che troviamo forse per la prima volta affrontato direttamente e di proposito il problema delle facoltà psichiche dell'uomo e degli animali. In essi Plutarco, rifacendosi ai pitagorici, nega ogni differenza sostanziale fra uomo e animale, affermando perfino che "tutti gli esseri dotati di sensibilità debbono anche poter pensare." Gli animali son dunque ragionevoli, sebbene in grado minore degli uomini. Nel Medioevo la scolastica negò agli animali l'anima razionale o pensante, concedendo loro la sola anima sensitiva.
Descartes (e, prima di lui, Gómez Pereira nella sua Antoniana Margarita aveva espresso le stesse idee) dichiarò gli animali puri automi, contrapponendoli nettamente agli uomini, esseri dotati di anima, di coscienza, di volontà. Questa opinione fu adottata quasi generalmente per molti anni; essa sembrava dar ragione della perfezione e dell'immutabilità di molti istinti. Similmente H. S. Reimarus nel 1760, con la sua opera Allgemeine Betrachtungen über die Triebe der Tiere, ecc., volle dimostrare che gli animali sono dotati da Dio di facoltà adeguate ai loro bisogni, "così saggiamente determinate.... da poter cavarsela per il proprio bene meglio che non noi uomini". E il Reimarus ammise un gran numero d'istinti innati, i quali sarebbero altrettanti mezzi particolari per ottenere dati scopi. Non diversamente, in tempi più vicini ai nostri, opinarono B. Altum, e il gesuita E. Wasmann, ben noto entomologo.
Il Montaigne, invece, non esitò a concedere anche agli animali una certa dose d'intelligenza. Fra i naturalisti, A. Réaumur, pur ammettendo essere molti degli atti degl'insetti istintivi, cioè incoscienti, non negò loro un po' di ragione. G. Buffon condannò senz'altro tali "stravaganze" e affermò la netta e profonda distinzione fra istinto e ragione, ritenendo questa facoltà esclusiva del genere umano. Anche G. Cuvier ritenne l'istinto una facoltà sui generis, concessa agli animali dal Creatore, ben diversa dall'intelligenza.
Col diffondersi delle dottrine evoluzionistiche, si ammise che gl'istinti erano andati a poco a poco sviluppandosi e perfezionandosi parallelamente alle forme degli animali. E, secondo le due opposte tendenze, gl'istinti furono considerati dai lamarckisti come risultato di abitudini acquistate durante la vita individuale, trasmesse per eredità e perfezionatesi con l'esercizio; dai darwinisti come conseguenza d'una continuata selezione, attraverso molte generazioni, di attitudini e facoltà iniziali proprie degli esseri viventi, mantenutesi e accentuatesi sempre che risultavano vantaggiose alla specie nella concorrenza vitale. E, come logica conseguenza dell'evoluzione progressiva, che a poco a poco ha prodotto dalle forme primitive più semplici le più complesse ed evolute, anche le facoltà psichiche si vollero complicate e perfezionate dal processo evolutivo; così, a poco a poco, dai semplici riflessi o automatismi si andarono formando gl'istinti e da questi, per ulteriore evoluzione, si originarono le facoltà psichiche di grado superiore: volontà, coscienza, intelligenza; fra queste varie facoltà, le infime e le somme, vi è differenza soltanto di grado ma non di qualità. G. J. Romanes, seguendo il Darwin, così si esprime: "L'istinto è un atto riflesso in cui c'è un elemento di coscienza. Il termine è dunque generico e comprende tutte le facoltà dell'anima ch'entrano in gioco nell'atto cosciente e adeguato, anteriormente all'esperienza personale, senza necessaria conoscenza della relazione fra i mezzi adoperati e lo scopo raggiunto, ma effettuato in modo simile in circostanze simili e frequenti da tutti gl'individui di una specie". Ma subito soggiunge essere "spesso difficile, o anche impossibile, decidere se un dato atto implichi o no un elemento mentale, cioè se esso sia cosciente o inconscio". Ma ciò, afferma il Romanes, "non ha nulla a che vedere con una definizione dell'istinto in modo da distinguerne formalmente l'atto riflesso e la ragione". E conclude che è difficile o impossibile tracciare un limite fra atto istintivo e atto riflesso.
Quanto all'identità di natura fra atti istintivi e atti intelligenti, non furono d'accordo fra loro gli stessi darwinisti. Mentre il Darwin e i suoi più fedeli seguaci includevano l'uomo e le sue facoltà psichiche nelle serie dell'evoluzione animale, A. Wallace, com'è noto, distinse nettamente l'umano dall'animalesco. Ma anche intorno al modo come sarebbe avvenuta l'evoluzione degl'istinti, i darwinisti ebbero opinioni diverse e mentre H. Spencer, p. es., afferma essersi gl'istinti originati dall'evoluzione di semplici riflessi, il Lewes li vuole derivati da atti intelligenti, coscienti, divenuti abitudinarî, automatici con graduale attenuazione ed eliminazione dell'elemento intellettuale. Il Romanes cerca di conciliare queste due opposte interpretazioni con l'ammettere due specie d'istinti: i primarî, originati direttamente dai riflessi, e i secondarî, derivati da abitudini contratte dapprima consapevolmente, con intenzione, divenute poi atti automatici, con graduale eliminazione della volontà e della coscienza, e conservatesi per effetto della selezione, in quanto utili. Alle opinioni dei selezionisti intorno alla natura e all'evoluzione degl'istinti, si può muovere, ed è stata difatti mossa, la stessa principale obiezione opposta alla dottrina della selezione stessa: che, cioè, gl'istinti, se interpretati utilitaristicamente, in tanto sono efficaci, in quanto perfetti; e, se nascono perfetti per una improvvisa variazione (si tratterebbe in questo caso, come ora diremmo, d'una mutazione), non hanno bisogno d'essere perfezionati dalla selezione; se derivano dalle supposte lievissime differenze iniziali di reazioni individuali, non sembra possano dar presa alla selezione, perché non rappresentano vantaggi efficaci nella concorrenza vitale. Raffreddatosi a poco a poco, verso la fine dello scorso secolo, l'entusiasmo per l'evoluzionismo, si è ritornati al metodo sperimentale, e all'osservazione degli animali nei loro ambienti naturali.
Affermando che dal modo di comportarsi di esseri diversi da noi, noi possiamo conoscere soltanto quanto ci si palesa con l'osservazione e non siamo autorizzati a formulare giudizî per analogia che c'inducano a interpretare gli atti degli animali con premesse antropomorfiche, molti recenti cultori di fisiologia comparata escludono ogni possibilità di analizzare uno stato di coscienza in qualsiasi animale e rifiutano perfino di servirsi di vocaboli quali percezione, sensazione, volontà, intenzione, che implicano fenomeni non constatabili; e si attengono esclusivamente e rigorosamente alla registrazione e descrizione delle reazioni (cioè dei movimenti) degli esseri viventi corrispondenti a determinate condizioni e all'azione di stimoli precisabili. Una categoria di reazioni elementari è costituita dai cosiddetti "tropismi", cioè dall'orientamento che assume il corpo d'un essere verso la direzione con cui gli stimoli (luminosi, termici, chimici, ecc.) colpiscono le parti del corpo atte a riceverli. La teoria dei tropismi, elaborata soprattutto da J. Loeb, cerca d'interpretare i movimenti degli animali, anche dei più semplici e sprovvisti di sistema nervoso, quali per es. i Protozoi, in funzione della direzione e intensità degli stimoli e delle disposizioni anatomiche degli organismi. Altra forma di reazione è quella dovuta ai "riflessi" che, negli animali provvisti di sistema nervoso, sono movimenti determinati dall'effetto degli stimoli che agiscono sugli organi "ricettori" (organi di senso del linguaggio comune e dell'antica nomenclatura) trasmesso sotto forma di flusso nervoso, attraverso il sistema nervoso, agli organi "effettori" (in questo caso i muscoli). Le proprietà strutturali e costituzionali degli elementi ricettori, i nervi che li collegano agli apparecchi nervosi "centrali" o stazioni interposte, e i nervi che da queste stazioni conducono la corrente nervosa ai muscoli, eccitandoli a contrarsi, compongono un insieme di particolari meccanismi neuro-motorî, tali che a un dato stimolo deve necessariamente seguire una data reazione, con perfetto automatismo. Esempî comuni di riflessi li abbiamo, per es., nel restringersi della pupilla sotto l'azione della luce, nel chiudersi delle palpebre se un colpo minaccia l'occhio, ecc. Simili movimenti sono affatto incoscienti e involontarî, e si continuano a compiere regolarmente anche in assenza di ogni partecipazione dei centri cerebrali corticali che sono sempre implicati nei movimenti volontarî e intenzionali. Ora, molti animali, anche se decapitati o scerebrati, possono compiere movimenti anche complicati con perfetta coordinazione: così una rana scerebrata, gettata in acqua, nuota e un uccello scerebrato, lanciato in aria, vola. Sol che manca in questi animali senza cervello ogni iniziativa di movimento e, se non sono scossi, rimangono indefinitivamente accoccolati e immobili.
Che cosa avvenga nell'intimo di un animale integro, che spontaneamente si muove, e se tale spontaneità sia reale o soltanto apparente espressione forse di riflessi più complicati, noi non possiamo sapere con certezza. Ci è dato constatare sperimentalmente che certi organi, certe parti del sistema nervoso centrale e certe particolari connessioni nervose sono indispensabili all'esecuzione di certi movimenti, al manifestarsi di reazioni più o meno complesse; ma se a queste manifestazioni corrisponda un particolare stato di coscienza, simile al nostro, e quali essi siano, non abbiamo modo di conoscere direttamente.
Trasportare in esseri diversi da noi la nostra fenomenologia interna, che è la sola di cui possiamo aver coscienza, non è certamente lecito; ma quando si tratta di animali che hanno un'organizzazione molto simile alla nostra e che, in circostanze simili, hanno un modo di comportarsi simile al nostro, sembra esagerato il rigorismo dei "puristi" della fisiologia. Un cane che grida quando gli si pesta una zampa, che guarda ansiosamente il boccone che gli si offre, che accoglie il padrone con evidenti manifestazioni di giubilo, è molto probabile che "senta" il dolore, il desiderio, la gioia, presso a poco come li sentiamo noi. Ma si deve anche convenire che non altrettanto giustificato è un siffatto giudizio per analogia, quando vogliamo applicarlo agli atteggiamenti e alla condotta d'un granchio o d'una mosca, e meno ancora se a quelli d'un verme o d'una medusa. Quanto più un essere differisce da noi, tanto più ci riesce incomprensibile.
Ora, è appunto nell'interpretare gl'istinti degli animali, che si sono manifestate e si manifestano due tendenze opposte, una antropomorfica, che, scendendo dall'uomo fino agl'infimi animali, vuol vedere sempre come base di ogni atto un medesimo principio psichico direttivo, che in noi si palesa come volontà, intenzione, ragionamento, e che va a poco a poco scemando d'incensità, senza tuttavia cambiare di qualità, a misura che si scende nella scala zoologica. L'altra tendenza, vietando recisamente, come scientificamente illecito, ogni giudizio per analogia, considera le più complicate azioni degli animali come risultato di catene di riflessi, come puri automatismi, col solo accompagnamento e sussidio tutt'al più d'un'altra facoltà: la memoria, riducibile anch'essa a una persistenza dell'azione degli stimoli e tale che può descriversi in termini obiettivi, senza che sia necessario metterla in relazione con stati di coscienza o altre inconoscibili e misteriose facoltà psichiche.
Non è chi non veda come questo secondo modo d'interpretare i fenomeni psichici conduce necessariamente e logicamente ad applicare tale interpretazione alla condotta dell'uomo stesso e quindi a negargli ogni libertà e responsabilità; a meno che non si segua il Wallace e si voglia collocare la specie umana in una categoria a parte nel mondo animale, concedendole facoltà esclusivamente sue proprie. Questa peraltro è una soluzione che esce fuori dai confini della scienza strettamente sperimentale.
Gl'istinti si possono raggruppare in due grandi categorie: quelli in servizio della conservazione dell'individuo, e quelli destinati alla conservazione della specie. Fra i primi, alcuni sono poco più di semplici riflessi, quali la fuga, l'immobilizzazione subitanea (fare il morto) propria di molti artropodi, l'ascondimento, l'autotomia (v.) e tutti quelli diretti alla ricerca e alla presa dell'alimento, fra cui le astuzie e accorgimenti di molti carnivori e tutte le abilità venatorie spiegate dagli uccelli rapaci e da alcuni mammiferi. Anche più complicati e sorprendenti sono gl'istinti che servono alla conservazione della specie. Fra essi primeggiano le cure parentali, le costruzioni dei nidi, il loro approvvigionamento, l'allevamento e l'educazione dei piccoli, ecc. Di molti di questi istinti particolari è detto negli articoli dedicati ai singoli gruppi zoologici o a singoli animali.
Conviene qui rilevare che alcuni di questi istinti, sebbene talora molto complicati, sembrano doversi interpretare come perfetti automatismi, quali la massima parte di quelli proprî degl'insetti; altri, invece, dimostrano una certa modificabilità e adattabilità a diverse circostanze, le quali sembrano dovute a una specie di ragionamento da parte dell'animale e parlano a favore dell'esistenza d'un certo grado di consapevolezza. Altro argomento, che depone nello stesso senso, è la possibilità di ammaestrare alcuni animali, sia perfezionando e indirizzando a scopi particolari istinti naturali (educazione di varî tipi di cani da caccia, per es.), sia sviluppando nuove abitudini (obbedienza ai comandi, sviluppo di poteri inibitorî atti a vincere gl'impulsi istintivi).
Gli esempî più illustrativi di veri istinti ci sono forniti dagl'insetti: soprattutto fra gl'imenotteri troviamo gli atti istintivi più complicati, i quali raggiungono poi il loro più alto grado negl'imenotteri sociali (api, vespe, formiche). Questi animali fin dalla nascita sono dotati di tutto il corredo di facoltà necessarie a compiere una serie di operazioni talora molto complicate, in modo perfetto. Essi ricevono per eredità il loro istinto, allo stesso modo come ricevono le loro forme, i loro organi e tutti i caratteri specifici. Nella maggior parte dei casi, i nuovi nati non conoscono i loro genitori, né sono da questi conosciuti; non possono dunque riceverne né educazione né esempî, e tutto ciò che fanno, fin dalla loro prima comparsa nel mondo, non è mai dovuto all'esperienza. Essi operano necessariamente e sempre allo stesso modo, come hanno operato prima di loro innumerevoli generazioni che li hanno preceduti; operano secondo un piano prestabilito per conseguire un dato scopo, senza, a quanto pare, nessuna coscienza né dello scopo da raggiungere né dei mezzi di cui si servono. Non diversamente, del resto, dalle tante operazioni che continuamente si compiono in tutti gli organismi da parte degli organi della vita vegetativa per mantenere in vita l'organismo stesso, il quale ignora completamente ciò che fanno il suo stomaco, il suo intestino, il suo cuore. Non è meno meraviglioso il modo come si forma il corpo d'un animale dall'uovo, e la perfetta coordinazione di tutte le funzioni d'un organismo, che non sia la costruzione d'un nido di vespa o d'uccello. Ma siccome gli atti della vita di relazione degli animali ci sembrano ispirati da una capacità psichica e si avvicinano molto più alle azioni umane, noi siamo indotti, quasi nostro malgrado, a considerarli sotto l'aspetto di fenomeni psicologici, che forse a torto ci sembrano di natura diversa da quelli puramente fisiologici.
Bibl.: H. E. Ziegler, Der Begriff des Instinktes einst und jetzt, 3ª ed., Jena 1920; M. Thomas, L'Instinct. Théories. Réalité, Parigi 1929 (in queste due opere si troverà un'ampia bibl.); G. J. Romanes, L'intelligence des animaux, Parigi 1887; id., L'évolution mentale chez les animaux, Parigi 1884; J. H. Fabre, Souvenirs entomologiques, s. 10ª, 7ª ediz., Parigi 1919-1921.