NIEVO, Ippolito
NIEVO, Ippolito. – Nacque a Padova il 30 novembre 1831, da Antonio e da Adele Marin.
Il padre (n. 1801), di famiglia mantovana, aveva intrapreso da pochi mesi la carriera giudiziaria; la madre (n. 1809) proveniva dall’unione tra una nobile famiglia veneziana, i Marin appunto, e una prestigiosa stirpe friulana, i Colloredo. A seguito della nomina di Antonio alla mansione di cancelliere, i Nievo si trasferirono a Soave nel 1832, dove nel febbraio 1836 nacque il secondogenito Carlo. Quando, nel 1837, in ragione di un’altra promozione, Antonio passò a Udine con il ruolo di pretore aggiunto, tutta la famiglia lo seguì e nei due anni successivi nella città friulana nacquero Elisa (ottobre 1837) e Alessandro (aprile 1839).
Studiò privatamente, passando poi alle scuole elementari a Udine nel corso del triennio 1838-40. Iscritto al collegio del seminario vescovile di Verona nell’autunno del 1840, vi rimase fino al 1845 come convittore, assorbendo almeno in parte le idee rosminiane che improntavano l’insegnamento; nel 1845-46 frequentò, invece, i corsi da esterno, prendendo una dimora a pensione. Negli anni veronesi rilievo notevole ebbe il rapporto con il nonno materno, Carlo Marin (Ippolito ne diede spesso notizia nelle prime lettere inviate a Udine): funzionario a Verona della Repubblica veneziana, Marin era stato protagonista degli eventi del 1797 e proprio su quel passaggio i suoi racconti giocarono più avanti un ruolo importante in alcune pagine celebri delle Confessioni. Ma in quegli anni contarono anche i risultati eccellenti conseguiti negli studi, in particolare nelle materie classiche, primi segnali di una disposizione che si sarebbe rivelata decisiva per la produzione letteraria.
Nell’estate del 1847, terminato il ginnasio, passò a Mantova, ove sin dal 1841 il padre era stato trasferito; i Nievo disponevano sia di una casa in città (in Contrada corta, oggi via Ippolito Nievo), sia di una villa in campagna, a Fossato di Rodigo. Iscrittosi al liceo a Mantova, sin dalle prime settimane strinse un’amicizia destinata a durare con il coetaneo Attilio Magri, le cui memorie (Biblioteca comunale di Mantova, Il dramma della mia esistenza, I misteri diun’anima: Mss., 1076-1077), inedite ma largamente sfruttate dagli studiosi, offrono importanti elementi per questi anni nieviani.
In occasione del capodanno 1848 raccolse un quadernetto di poesie offrendolo al nonno Carlo Marin, nel frattempo andato in pensione e trasferitosi nella casa mantovana. Appena poche settimane dopo quel gesto di devozione fanciullesca, venne almeno lambito dai riflessi dei moti antiaustriaci. Mantova visse l’onda del 1848, seppure in modo debole e contenuto: il comitato provvisorio fu presto neutralizzato e già alla fine di marzo gli austriaci ripresero il controllo della città. Se è plausibile che Ippolito, diciassettenne da poco, avesse in qualche modo partecipato alle azioni, certo è che un ruolo significativo vi giocò il padre, nel ruolo di assessore municipale. Lo stato di assedio imposto dagli austriaci determinò la chiusura del liceo: Ippolito, come anche Attilio Magri, si iscrisse dapprima in una scuola privata a Revere, poi si trasferì a Cremona e, dopo aver superato in estate gli esami del primo anno, a Sabbioneta, raggiungendo il padre. Malgrado la sconfitta di Custoza (22-27 luglio 1848), meditò tentativi di partecipazione ai moti: si diresse a Mantova, forse sperando di prendere parte alla difesa di Venezia, ma fu probabilmente frenato dalle preoccupazioni della famiglia.
Alla fine di quell’anno, e poi ancora nelle prime settimane del 1849, ospite di Magri, prese a frequentare la famiglia Ferrari, nella villa di San Giovanni di Roncoferraro: Attilio era legato a Orsola Ferrari mentre Ippolito venne certo affascinato dalla sorella maggiore, Matilde (una prima lettera scritta a Matilde: Lettere, 1981, n. 18, è stata datata da Marcella Gorra al gennaio 1849, mentre una datazione più avanzata è ora proposta da Chaarani Lesourd, 2011, p. 180). Si trattò di una pausa chiusa all’inizio di febbraio: dopo un nuovo passaggio a Rovere, partì per la Toscana, facendo tappa a Ferrara e Bologna (per una descrizione del viaggio: Lettere, 1981, n. 21). Dietro la ragione ufficiale di iscriversi ai corsi universitari a Pisa, si celava l’intenzione di prendere finalmente parte attiva negli scontri. Fermatosi un mese a Firenze, passò a Pisa ove frequentò le scuole matematiche, intrecciando legami amorosi di breve durata e soprattutto stringendo un’altra amicizia importante, quella con il bresciano Andrea Cassa, interlocutore di molte tra le lettere più intime e vive degli anni seguenti.
Da Pisa scrisse anche ad Attilio diverse lettere su Matilde, descrivendo la nascita di un sentimento cui si piegò con resistenza («l’amore il più perfido di tutti i veleni»: ibid., nn. 23, 26; per la citazione p. 24) e insieme con trasporto. Probabilmente prese parte ai moti di Livorno nel maggio, anche se non ne rimane traccia nell’epistolario, ove invece si legge: «non faccio altro che leggere e scrivere nel mio giornale» (ibid., n. 32, p. 40).
Progettò e forse intraprese un viaggio verso Roma, tornò infine sui suoi passi e decise di lasciare la Toscana alla fine di agosto. Il ritorno a Mantova comportò non solo riprendere con Attilio la frequenza delle lezioni private di Revere, ma anche nuove serate in casa Ferrari e lo stringersi di un rapporto sentimentale con Matilde: dopo una serie di incontri tra l’autunno e l’inverno del 1849, nelle prime settimane del 1850 maturò una passione che Ippolito dichiarò infine in una lunga lettera del 26 febbraio (ibid., n. 37).
Fu la prima di una lunga serie, un carteggio amoroso e vibrante che si distribuì lungo tutto l’anno e che sembra fortemente sbilanciato dalla parte di Ippolito. In quelle pagine, a forte caratura letteraria, talora accompagnate dall’invio di versi per Matilde, finì per riflettere anche una sorta di apprendistato: nei racconti a Matilde venne man mano rivelata una vasta serie di letture (da Chateaubriand a Rousseau, da Balzac a Stendhal, e persino Jane Austen, accanto ai classici dell’Ottocento italiano), mentre in alcuni passaggi si delineava al tempo stesso, dietro la cortina sentimentale, un animo impaziente: «[…] e degli Angeli, credimi Matilde, ve ne sono ben pochi in questa misera società d’eunuchi e d’egoisti che si chiama progressista e illuminata» (ibid., n. 41, p. 63).
Impegnato negli studi ancora a Revere e dopo aver raggiunto in maggio il padre a Sabbioneta (Antonio era stato sospeso dalle sue mansioni e in settembre sarebbe stato trasferito in Friuli), nell’agosto 1850 prima superò gli esami al liceo di Mantova poi, in una lettera ad Attilio, con accentuarsi rabbioso del dissidio tra sentimento e ragione, annunciò d’aver «[…] cominciato a scrivere una storiella del mio amore passato, presente e futuro» (ibid., n. 81, p. 157).
Si trattava dell’Antiafrodisiaco per l’amor platonico, romanzo umoristico nel quale della storia d’amore con Matilde, ancora viva all’altezza di quell’agosto, Nievo diede una versione mascherata e rovesciata, piegata di rabbia e sarcasmo, all’insegna di una profonda disillusione. La corrispondenza con Matilde proseguì ancora per qualche mese, tuttavia virata progressivamente di distanza; già alla fine dell’anno il legame venne interrotto e Ippolito chiese la restituzione delle proprie lettere. Sull’onda di tali eventi l’Antiafrodisiaco fu concluso nei mesi successivi, ma Ippolito decise di conservarlo inedito (e tale sarebbe rimasto a lungo: la prima edizione, a cura di C. Bascetta - V. Gentili, per Le Monnier, uscì infatti a Firenze nel 1956).
Nel settembre di quello stesso 1850, indubbiamente un anno di svolta, si iscrisse al corso di diritto dell’Università di Pavia e subito appresso compì un lungo viaggio in Friuli, raggiungendo il padre e tornando tra l’altro in quel castello di Colloredo che era tra i possedimenti della famiglia materna. Passato a Mantova in novembre, fu certamente a conoscenza (e forse parte diretta) della riunione segreta (2 novembre) da cui prese avvio la congiura di Belfiore.
Sempre a Mantova trascorse il primo semestre del 1851, con brevi passaggi a Pavia, impegnato negli studi in vista degli esami estivi, superati con risultati eccellenti, e ancora amareggiato dalla fine della passione per Matilde: amarezza che riversò prima in una singolare sperimentazione letteraria, poi in una sorta di acre bilancio indirizzato ad Attilio (cfr. Lettere, 1981, nn. 121, 127, 129).
Nel settembre 1851 si trasferì a Colloredo e a Udine, mentre nelle ultime settimane dell’anno passò a Mantova, ancora impegnato in studi di diritto, cui accostava fitte letture di letteratura contemporanea e uno sguardo attento al contesto della pubblicistica coeva. Non sorprende dunque che, nel giro di poche settimane, scrivesse dapprima (fine gennaio 1852) una lettera di protesta contro La sferza, periodico bresciano filoaustriaco, criticando le posizioni antisemite del direttore Luigi Mazzoldi; e che poi (entro aprile) componesse un dramma dal titolo Emanuele, contestando appunto ogni pregiudizio antiebreo.
Il dramma non fu portato in scena ma il doppio passaggio è significativo per la piega militante che l’attività letteraria nieviana prese sin dalle origini, concepita come pratica parallela, più libera e stratificata, rispetto alle battaglie condotte sulle colonne dei giornali. Un passo verso il pieno impegno letterario fu rappresentato dall’invio, in autunno, al Crepuscolo di Carlo Tenca, di un testo in versi complesso come l’Umanità: non venne accettati, e tuttavia sembra accentuare il piano inclinato che spinse il giovane Ippolito alle prime raccolte di versi.
Dopo gli esami di luglio a Pavia, e dopo un viaggio anche fuori dai confini (Klagenfurt, Trieste, Lubiana), dal settembre 1852 si iscrisse ai corsi di diritto di Padova, città nella quale trascorse lunghi periodi, con i soliti intervalli a Mantova e in Friuli, fino al 1855. Nell’ambiente padovano e nei contatti che vi maturarono affondano le radici le prime prove poetiche, mentre si consumarono in questi mesi diverse relazioni sentimentali, tutte di breve respiro. Prima e dopo gli esami estivi sostenuti a Padova, nell’estate 1853 viaggiò a lungo, trascorrendo diverse settimane con Andrea Cassa.
In novembre prese a pubblicare su L’Alchimista friulano di Camillo Giussani una serie di componimenti in versi, tra i quali meritano menzione il Bruto minimo all’Università, per la ripresa implicita del precedente leopardiano, e Pane e vino (testo inviato appunto a Cassa: Lettere, 1981, n. 146), sin dal titolo espressione di una impostazione realistica che si richiamava in modo esplicito a Giuseppe Giusti. Una linea di impegno cui, nei modi consentiti dalla stasi apparente di quegli anni, si intrecciò una prepotente necessità di sperimentazione letteraria così espressa in uno scorcio di lettera divenuto celebre: «[…] e voglio scrivere, scrivere, scrivere… finché altri avrà pazienza di leggere ed al di là. Voglio scrivere in verso, in prosa, in tragico, in comico, in sublime, in burlesco…» (ibid., n. 148, p. 264). Minaccia che si fece concreta sia nelle fitte spedizioni di versi per L’Alchimista friulano, sia nella stesura di un dramma (Gli ultimi giorni di Galileo Galilei) completato nel febbraio 1854 e portato in scena in aprile, con esiti che complessivamente finirono per deluderlo (v. Lettere, 1981, n. 155).
Nei mesi successivi, nei quali ebbe luogo anche un incontro con Matilde Ferrari, si impegnò a raccogliere in volume le poesie fin allora composte: la stampa uscì presso Vendrame nel maggio (Versi, Udine 1854), con una dedica di sapore risarcitorio «a M. F.», e passò abbastanza inosservata, se si eccettua una recensione di Tenca, solo parzialmente positiva e puntuale nel segnalare i debiti verso Giusti.
Si trattò, in ogni modo, soltanto di una tappa iniziale nel cammino di «restaurazione civile e morale» cui lavorava tramite i versi (Lettere, 1981, n. 156, p. 284): sempre nell’Alchimista friulano riprese a pubblicare componimenti nelle settimane subito successive e allargò l’area di impegno con una singolare sintesi di storiografia letteraria: gli Studii sulla poesia popolare e civilemassimamente in Italia (ancora per Vendrame: Udine 1854), scritti e pubblicati a puntate tra luglio e agosto, affrontarono radici e antecedenti di una dorsale di poesia popolare avvertita come cruciale in quel frangente.
In estate trascorse a Pellestrina un periodo di vacanza, quindi si spostò a Castelfranco Veneto, ospite dello scrittore Arnaldo Fusinato; all’inizio dell’autunno passò a Colloredo, poi nuovamente a Mantova. Appena un segnale, eppure traccia significativa di orientamenti e pratiche sempre più coraggiose, sono i versi per la Beatrice Cenci di Francesco Domenico Guerrazzi (1853), in seguito ai quali l’uscita del 10 dicembre dell’Alchimista friulano venne sequestrata dalla censura. E di un coinvolgimento complessivo, tra la confessione in pubblico e la militanza, dice la lunga composizione intitolata Poesia d’un’anima che con cadenza regolare cominciò a pubblicare dal gennaio 1855, come anche il primo invito a collaborare a un giornale milanese (Il Caffè dei fratelli De Castro), ad attestare una rete di relazioni e una stima estese ormai ben oltre la discosta editoria friulana.
Nievo destinò al periodico milanese una serie di «fantasie strambe ed enigmatiche […] sotto il titolo di Lucciole» (Lettere, 1981, n. 187, p. 323), e poco appresso avviò una serie di recensioni teatrali per un foglio fiorentino, L’arte. A distanza dunque di un anno dal suo pronunciamento, il programma di una scrittura irrefrenabile e condotta su più piani sembrò già realizzato e anzi venire coronato nel marzo, quando, in una lettera a Fusinato, annunciò il progetto di un romanzo contemporaneo, di materia contadina, «un racconto contemporaneo, semplice semplice», che sarebbe poi divenuto Il conte pecorajo (Lettere, 1981, n. 194, p. 334). E mentre lavorava al romanzo, già nel maggio presero a uscire capitoli di un racconto (La nostra famiglia di campagna), primo tassello di quello che sarebbe divenuto il Novelliere campagnuolo.
Alternando la scrittura a Mantova con gli esami sostenuti a Padova, organizzò la stampa del secondo volume dei Versi (Udine 1855); poi, con diversione improvvisa, interrotta la stesura de Il conte pecorajo, lavorò in estate a un nuovo progetto narrativo, Angelo di bontà, ambientato nel Settecento veneziano e nel quale era più ravvicinato il confronto con il modello manzoniano (v. Lettere, 1981, n. 208). A ritmi di lavoro serratissimo, in quella che sarebbe divenuta una costante per molte delle composizioni narrative, già a fine agosto 1855 Angelo di bontà venne ricopiato e inviato in lettura a Fusinato. Ancora in questi mesi si collocano l’abbozzo di un libretto teatrale e la composizione di una commedia, il Pindaro Pulcinella, con cui riprese il registro della scrittura teatrale dopo il tentativo del dramma su Galileo.
Il 22 novembre prese la laurea a Padova, ma – quasi simbolicamente – le settimane subito precedenti erano state impiegate a chiudere la stampa dei Versi (ancora a Udine, presso Vendrame) e a procurarsi un editore per Angelo di bontà (stampato a Milano, da Oliva, al principio del 1856). Sono i segni di una vocazione letteraria che, nel bivio posto al termine degli studi, si fece ancora più nitida.
Nel gennaio 1856 si spostò a Udine, e il mutamento di ambiente e contesto si riverberò subito nella corrispondenza: «Intanto, figurati, vo studiando Omero e questi nostri contadini di stampo affatto primitivo. Non puoi immaginarti quanto io trovi affini questi due studii» (Lettere, 1981, n. 226, p. 371).
Naturale che riprendesse vigore il progetto di un romanzo contadino, ma soprattutto che Nievo dedicasse i primi mesi dell’anno alla stesura di novelle «campagnuole», pubblicate in diverse riviste e che presto vennero pensate come tessere di una raccolta complessiva da costruire.
Dopo qualche mese trascorso tra Colloredo e Mantova, in estate passò alcune settimane a Grado (ne ricavò una sorta di singolare e fantastico resoconto, Le maghe di Grado), poi a Castelfranco presso Fusinato. Nel settembre, improvvisamente, ricevette la convocazione da parte delle autorità austriache per via della novella L’Avvocatino, pubblicata in Panorama universale tra aprile e giugno, entro la quale si leggeva uno scorcio poco riguardoso contro la polizia. Il processo, che si sarebbe trascinato a lungo, non riuscì tuttavia a frenare la scrittura giornalistica, vivacissima in tutti questi mesi, e Nievo tentò soltanto in un’altra novella campagnola (La viola di San Bastiano) di attenuare e smussare il precedente dell’Avvocatino. Risale alle ultime settimane del 1856 la conclusione de Il conte pecorajo, suggello simbolico di un anno profondamente segnato dalla componente friulana e contadina.
A dispetto delle speranze paterne per l’avvio di una carriera giuridica, i primi mesi del 1857 trascorsero tra l’attesa del processo che si tenne a Milano e la composizione di altre opere letterarie: un paio di commedie (I beffeggiatori e Le invasioni moderne) che ottennero pochi mesi dopo una menzione speciale al concorso bandito dall’Istituto filarmonico-drammatico di Padova; e persino i capitoli di un nuovo romanzo satirico di marca sterniana e improntato al Candide volteriano, inizialmente intitolato Le disgrazie del numero due e che poi sarebbe stato pubblicato in volume come Il barone di Nicastro (Milano 1860). Il romanzo fu occasione per l’avvio di una collaborazione con il Pungolo di Leone Fortis, con sede a Milano, ove Nievo si era spostato sin da marzo, ospite del cugino Carlo Gobio e della moglie Bice Melzi d’Eril. Con Bice e con la sorella Caterina prese avvio una corrispondenza all’insegna di intimità e vicinanza profonda, con toni che, specie nelle lettere per Bice, sfiorano la passione.
Fatto ritorno a Mantova nella primavera del 1857, mentre continuava la composizione de Il barone di Nicastro, intraprese la stesura di due tragedie di materia classica, I Capuani e Spartaco, attraverso una rilettura puntuale di scorci della storia romana: anche queste opere non raggiunsero le scene e rimasero confinate (fino alle edizioni di primo Novecento) negli autografi della Biblioteca comunale di Mantova, pur attestando la sperimentazione a tutto campo messa in atto da Ippolito. Trascorse a Udine i mesi centrali dell’anno, correggendo tra l’altro le bozze de Il conte pecorajo (pubbl. Milano 1857), fino a quando non venne raggiunto dalla convocazione per il processo a Milano, con udienza fissata al 10 novembre: decise di difendersi da solo, con esiti brillanti, in tal modo guadagnandosi ulteriore notorietà entro i circoli culturali milanesi. Non per caso, ancora nel 1857, iniziò una collaborazione con L’uomo di pietra, periodico che vedeva coinvolti alcuni fra gli intellettuali più significativi del nascente movimento scapigliato. Sempre a Milano, in dicembre, dette inizio alla stesura delle Confessioni.
Le lettere, seppure solo in alcuni passaggi, fanno intendere un impegno di composizione assai intenso: «le anime mi sono cresciute in corpo e credo di averne per lo meno undici (è il mio numero prediletto e fatale), tutto occupato a scrivere, a stampare, a corregger bozze, e a rider dell’Appello…» (Lettere, 1981, n. 305, p. 464). Mentre annunciava di voler scrivere, sul modello di Stendhal, un libro sull’amore (ibid., n. 317), portò a termine una prima stesura del romanzo entro giugno, con una copiatura-correzione terminata in agosto; significativo che in questi stessi mesi cadesse l’incontro con Pisana di Prampero, antica compagna di giochi di Udine ora a Milano per ragioni di salute: la giovane morì, poche settimane dopo, il 31 marzo, e il suo nome finì per transitare, forse come omaggio, nel personaggio cruciale del romanzo.
In aprile, dopo aver pubblicato presso Redaelli la raccolta delle Lucciole (Milano 1858), si diresse prima a Mantova e poi a Udine, continuando con il rosario delle collaborazioni giornalistiche: tra luglio e agosto, mentre era impegnato nella revisione delle Confessioni, fece pubblicare un paio di annunci del romanzo e prese i primi contatti con gli editori, coinvolgendo Tenca e persino un intellettuale fiorentino come Raffaello Lambruschini (Lettere, 1981, n. 339). L’approdo alla stampa si rivelò però da subito complesso, tanto per la mole quanto per il titolo delle Confessioni: «Per Romanzo sono in contratto in dieci luoghi, e si stringe nulla in nessuno»; «il mio Romanzo non va per ora perché non incontrerebbe alla censura» (ibid., nn. 349, 370, rispett. pp. 527, 556).
Trascorse alcune settimane di riposo in uno stabilimento termale a Regoledo e poi, forse anche con l’intento di sbloccare l’impasse delle Confessioni, oltre che per seguire da presso la frenetica situazione politica, alla fine del 1858 si riportò nuovamente a Milano, descrivendosi in diverse lettere pienamente interno alla redazione de L’uomo di pietra.
Le settimane successive, poco testimoniate nell’epistolario, sfumarono nell’attesa dello scoppio della guerra di indipendenza: completò la pubblicazione in rivista de Il barone e si impegnò nella traduzione di canti popolari greci, con un gesto di portata simbolica, appena prima di arruolarsi tra i volontari delle truppe garibaldine, nel mese di maggio. Con i Cacciatori delle Alpi passò tra Biella, Como e Arona, e raccontò le diverse tappe in alcune lettere a Bice Gobio, tra ironia e impazienza: «si corre come disperati, ma questi desiderati Austriaci non si incontran mai» (Lettere, 1981, n. 390,p. 577). A metà giugno infine prese parte alla battaglia di Rezzato, ma le sue truppe ripiegarono poi tra Bergamo e Bellagio mentre erano in corso le trattative segrete che portarono all’accordo di Villafranca dell’11 luglio.
La delusione per Nievo fu fortissima: lasciò le truppe e si rifugiò nell’amicizia di Bice e Carlo Gobio. Con loro spese, tra Milano e Genova, l’estate del 1859 e, forse progettando un nuovo arruolamento, decise di affidare a Bice i propri manoscritti, tra cui l’autografo delle Confessioni. Congedatosi dall’esercito in settembre si spostò di nuovo a Fossato, con puntate a Brescia e a Modena.
In quelle settimane, all’insegna di un’impazienza profonda, riprese una scrittura a marce forzate: compose la raccolta poetica Gli amori garibaldini (Milano 1860), «una raccolta e quasi un giornale di versi», e soprattutto una serie di scritti collegati alla situazione politica: il frammento su Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale (così intitolato nell’ed. Gorra), lo scritto su Venezia e la libertà d’Italia, edito anonimo poco tempo dopo, e, con tutt’altra inclinazione, un racconto umoristico, La storia filosofica dei secoli venturi, entro il quale riuscì a intrecciare felicemente protesta per la condizione politica e ispirata visione profetica. E ancora, tra un sondaggio e l’altro, in attesa di una nuova campagna garibaldina, scrisse le prime pagine di un nuovo romanzo, così annunciato alla madre: «Del resto le cose si mettono regolarmente bene e stasera comincierò alla fine il Pescatore di anime» (Lettere, 1981, n. 423, p. 624).
A Milano, dove era passato sin dal novembre, collaborò in modo fitto a una serie di periodici, e trascorse nuovamente mesi di sospensione, convertiti in pubblicistica di vario taglio («io devo ritrarre questa povera anima dal fodero e farne una bacchetta magica al servizio di Sua Maestà il Pubblico»: ibid., n. 425, p. 626); infine, il 5 maggio, senza neppure avvertire la famiglia (con l’eccezione di una lettera al fratello Carlo), si imbarcò da Quarto con Garibaldi. Già durante la navigazione verso la Sicilia, a dimostrazione di un rilievo subito avvertito della sua personalità, venne nominato viceintendente per le Truppe e fu messo a collaborare con Giovanni Acerbi. Partecipò alle prime battaglie siciliane e il procedere entusiasmante delle vittorie venne riflesso in lettere dai toni tanto appassionati quanto a tratti increduli. Il 27 maggio i garibaldini conquistarono Palermo e una settimana dopo Nievo commentò così il suo incarico: «Sono ancor vivo; e stanotte ho dormito sopra mezzo milione di piastre perché sono Tesoriere della Sicilia» (ibid., n. 439, p. 643). Mentre si consolidava il dominio garibaldino su Palermo, trasmise alla famiglia istantanee controverse del mondo siciliano – ora affascinate, ora sprezzanti – e spedì a Carlo Gobio (ibid., n. 446) Il Giornale della Spedizione, subito appresso pubblicato in L’Uomo di pietra. Ma soprattutto entrò in una fase di intensa attività amministrativa, a gestire la macchina sempre più complessa che reggeva l’impresa: nominato vice intendente generale, dovette far fronte all’ostilità di Giuseppe La Farina e dei cavouriani che avevano preso a gettare ombre sulla gestione economica garibaldina; rispondere ai sospetti e documentare scrupolo e precisione delle sue attività diventarono l’obiettivo principale degli ultimi mesi di Nievo, che confidava alla madre sulla metà di luglio: «Hanno scoperto in me de’ gran talenti amministrativi» (Lettere, 1981, n. 453, p. 661).
Proprio per questo ruolo cruciale, su richiesta dello stesso Garibaldi, accettò di rimanere a Palermo mentre il fronte dei combattimenti si spostava a Est e oltrepassava lo Stretto. Rimase per massima parte a Palermo, promosso ancora, dapprima tenente colonnello e quindi, in novembre, colonnello. Probabilmente si recò in Campania, tra settembre e ottobre, al seguito di Garibaldi, ma già a metà ottobre si immerse nella stesura di un resoconto della gestione garibaldina del periodo maggio-luglio.
Il processo unitario era però ormai saldamente nelle mani di Cavour, e Nievo colse inequivocabili segnali di chiusura e smantellamento dell’impresa garibaldina; gli rimase il dovere di rintuzzare le accuse di abusi e appropriazioni (di qui anche una lettera, a sua firma, pubblicata sulla Perseveranza e concordata con Acerbi: Lettere, n. 496), dovere che lo tenne a Palermo ancora a dicembre: «Sono finito, sfinito, sfinitissimo, ti confesso che se avessi creduto di imbarcarmi per questa galera a Genova il 5 maggio mi sarei annegato. Bei conforti la patria ci dona! […] Io sono rimasto l’ultima camicia rossa a Palermo» (ibid., n. 491, p. 697).
Strappò un permesso per la fine dell’anno e trascorse le vacanze a Mantova, con la famiglia, passando poi a Brescia e a Milano; a fine gennaio giunse a Napoli, da dove descrisse una situazione confusa dell’esercito meridionale. Ebbe l’incarico di tornare a Palermo per riprendere i documenti e portarli a Torino; arrivò in Sicilia a metà febbraio e vi rimase un paio di settimane, per ripartire il 4 marzo, sull’Ercole. Il piroscafo, diretto a Napoli, venne però colto da una tempesta di fronte alle coste campane e si inabissò all’alba del 5 marzo 1861, portando con sé Nievo, i dipendenti dell’Intendenza e la documentazione contabile.
Le ricerche partirono in ritardo e rimasero senza esito, come senza esito rimase il viaggio in Sicilia, per recuperare notizie su Ippolito, compiuto l’anno dopo da Matilde Ferrari.
Opere: Le opere di Nievo sono disponibili in alcune raccolte dovute a due diverse iniziative editoriali: la prima, einaudiana, che vide la stampa di ‘Novelliere campagnuolo’ e altri racconti, a cura di I. De Luca, Torino 1956, e di Teatro, a cura di E. Faccioli, ibid.1962; la seconda, per i «Classici Mondadori», in cui confluirono le Poesie, a cura di M. Gorra, Milano 1970 (che comprende le raccolte edite in vita e insieme frammenti, abbozzi e traduzioni poetiche) e le Lettere, a cura di Id., ibid. 1981 (da cui si cita ancora oggi l’epistolario). Da ultimo è stata avviata, presso Marsilio, una Edizione nazionale delle opere di Ippolito Nievo (primo volume edito quello delle Commedie, a cura di P. Vescovo, Venezia 2004), della quale sono usciti diversi volumi, tra i quali va ricordato anche il prezioso censimento dei manoscritti nieviani (Le carte di Nievo. Per un regesto dei manoscritti autografi, a cura di S. Casini, ibid. 2011).
Vanno ricordate, inoltre, le raccolte: Opere, a cura di S. Romagnoli, Milano-Napoli 1952; Scritti politici e storici, a cura di G. Scalia, Bologna 1965; e soprattutto Tutte le opere narrative di Ippolito Nievo, I-II; a cura di F. Portinari, Milano 1967. Per le Confessioni d’un italiano, uscito la prima volta per i tipi di Le Monnier col titolo Le confessioni di un ottuagenario (I-II, Firenze 1867), andranno ricordate le edizioni a cura di S. Romagnoli (già nelle Opere del 1952; poi Venezia 1990, con nuove soluzioni testuali); quindi a cura di M. Gorra (Milano 1981), e infine a cura di S. Casini (Parma 1999), che contiene (alle pp. CLXXXIII-CCLXXIV) un quadro completo sulle edizioni e la bibliografia relative anche agli altri testi nieviani.
Scritti inediti sono apparsi in: Due scritti politici, a cura di M. Gorra, Padova 1988 (contiene: Rivoluzione politica e rivoluzione nazionale e Venezia e la libertà d’Italia); G. Comelli, Quattro lettere inedite di Ippolito Nievo, in Memorie storiche forogiuliesi, LXXXIII (2002), pp. 167-189; U.M. Olivieri, Un inedito nieviano, in Ippolito Nievo e il Mantovano, Atti del convegno, Rodigo… 1999, a cura di G. Grimaldi e introd. di P.V. Mengaldo, Venezia 2001, pp. 441-488 (si tratta del poema giovanile: Scienza e passione); un’edizione de I beffeggiatori (sulla base della recuperata redazione inviata da Nievo per il concorso sopra citato), è stata data alle stampe, seppure in modo poco convincente: I beffeggiatori, Milano 2006; si veda, infine: Scritti giornalistici alle lettrici, a cura di P. Zambon, Lanciano 2008 (in partic. alle pp. 171-173, 319-328).
Fonti e Bibl.: Per la biografia di Nievo è ancora utile D. Mantovani, Il poeta soldato. I. N. (1831-1861), Milano 1899; sotto il profilo culturale, si vedano: C. Bozzetti, La formazione del N., Padova 1959; M. Gorra, Ritratto di N., Firenze 1991. Un quadro più dettagliato è stato offerto da S. Casini, Cronologia, a margine della sua edizione commentata delle Confessioni (ed. cit., pp. CXXI-CLXXXII); ma v. anche: E. Chaarani Lesourd, I. N.: uno scrittore politico, Venezia 2011 e G. Maffei, N. (in corso di stampa), rilevante monografia, con bibliogr. ragionata alle pp. 9 ss.. Importante la documentazione di F. Samaritani - P. Zambon, Nota nieviana: la biblioteca di casa N., in Archivi del Nuovo. Notizie di Casa Moretti, 2002, n. 10-11, pp. 55-68. Una serie di seminari e convegni ha prodotto una bibliografia aggiornata su larghissima parte della produzione nieviana, affrontandone sia il radicamento storico sia la specificità letteraria: I. N. nella cultura e nella storia del territorio: dall’Illuminismo al romanti-cismo… 1988, I-II, Udine 1988-89; I. N. e il Mantovano…, cit.; Ippolito Nievo tra letteratura e storia. Atti della giornata di studi in memoria di Sergio Romagnoli, a cura di S. Casini - E. Ghidetti - R. Turchi, Roma 2004 (contiene, fra l’altro, A. Nozzoli, N. 1860: sulle lettere a Romeo Bozzetti, pp. 59-74, con cinque lettere inedite); I. N., Atti del convegno, Udine… 2005, a cura di A. Daniele, Padova 2006. Meritano inoltre menzione la raccolta di studi di P.V. Mengaldo, I. N.: lingua e narrazione, Padova 2011, nonché «Io nacqui Veneziano e… morrò per la grazia di Dio Italiano». I. N. negli scritti autografi verso l’Unità d’Italia (catal.), a cura di M. Santiloni, Firenze 2012.