Invocazione alle Muse
. Nel ricevere e far suo il tradizionale uso retorico d'invocare le Muse, quando più arduo si presenti l'impegno dell'arte, D. non rinuncia ovviamente alla propria identità di poeta cristiano: com'è stato più volte osservato, egli scopre sotto i nomi pagani un nucleo di verità che anticipa, nelle forme simboliche del mito, la verità immutabile della rivelazione; sicché, rivolgendosi alle Muse, intende in effetti chiamare a sé la divina ispirazione, fecondatrice della scienza poetica.
Appartiene del resto ai veri poeti riconoscere, con quell'atto, la natura specifica della grande poesia, che per esplicarsi abbisogna di un soccorso sovrannaturale: Est etiam praenotandum quod praenuntiatio ista, quae comuniter exordium dici potest, aliter fit a poetis, aliter fit a rethoribus. Rethores enim concessere praelibare dicenda ut animum comparent auditoris; sed poetae non solum hoc faciunt, quin ymo post haec invocationem quandam emittunt. Et hoc est eis conveniens, quia multa invocatione opus est eis, cum aliquid contra comunem modum hominum a superioribus substantiis petendum est, quasi divinum quod dam munus (Ep XIII 45-47).
E tuttavia l'autore della Commedia, che di tali invocazioni trovava cospicui e numerosi esempi negli scrittori a lui noti (cfr. Virg. Aen I 8-11, VII 641-646; Stazio Theb. I 1-3, Ach. I 8-11; Ovid. Met. XV 622-625; e anche Boezio Cons. phil. I m. I 2-7), conferisce alle Muse, sin dalla preghiera che apre l'azione vera e propria del poema (e non interferiscono gli evidenti echi virgiliani), una dignità ben maggiore che non quella puramente strumentale ad esse riconosciuta dagli autori classici, invitandole a legittimare il grado assoluto di verità inerente alle sue parole e al suo conoscere: O muse, o alto ingegno, or m'aiutate; / o mente che scrivesti ciò ch'io vidi, / qui si parrà la tua nobilitate (If II 7-9; cfr. Pagliaro, Il canto II dell'Inferno, in Nuove lett. I 18).
Non molto diversamente nell'invocazione posta all'inizio del Purgatorio - Ma qui la morta poesì resurga, / o sante Muse, poi che vostro sono; / e qui Calïopè alquanto surga, / seguitando il mio canto con quel suono / di cui le Piche misere sentiro / lo colpo tal, che disperar perdono, I 7-12 - l'innalzarsi della poesia al livello congruente col nuovo tema si pone sullo sfondo di quella dichiarazione ripiena di slancio e fervore quasi religioso, o sante Muse, poi che vostro sono, dove le memorie oraziane (" Musarum sacerdos ", Carm. III I 3; " Vester, Camenae, vester in arduos / tollor Sabinos ", IV 21-22) si trasfigurano nella temperie sacra del discorso e guadagnano carattere liturgico, sul richiamo del biblico invito alla resurrezione, culminando nell'appello a Calliope, la Musa dal bel canto, secondo le Derivationes di Uguccione, anch'esso da collocare tra echi classici (" vos, o Calliope, precor, aspirate canenti ", Virg. Aen. IX 525; " Surgit et inmissos hedera collecta capillos / Calliope querulas praetemptat pollice chordas ", Ovid. Met. V 338-339, in apertura dell'episodio ricordato da D.) e suggestioni scritturali (" Cantabo... Exurge gloria mea, exurge psalterium et cithara ", Ps. 56, 6), entro una cifra simbolica, tanto più se si tien conto che il canto di Calliope presso Ovidio celebra, contrastando l'empio racconto delle Pieridi, il ratto di Proserpina e il suo ritorno a Cerere, " come a dire, il mito dell'innocenza perduta e della fecondità ritrovata " (E. Raimondi, in Lect. Scaligera II 7, poi in Metafora e storia, Torino 1970, 65-94).
Al culmine di un climax stilistico accortamente costruito troviamo la lunga ed elaborata invocazione ad Apollo che inaugura il Paradiso (I 13-33), l'ultimo e più arduo lavoro. L'eccezionale materia richiede eccezionale assistenza: occorre ora allo ‛ scriba ' il possesso massimo della virtù poetica, il medesimo che fa degni dell'alloro e del trionfo. Nemmeno, anzi, può parlarsi nelle intenzioni dantesche di un soccorso che corrobori le facoltà naturali, in quanto il pregante richiede per sé la medesima forza d'ispirazione che ebbe il dio della poesia quando sconfisse Marsia: con ciò egli, almeno sotto un profilo ottativo, tende ad assimilarsi con Apollo, a confondersi con la species ottima della poesia non già per ardire presuntuoso (la sua resta, nonostante tutto, una voce inadeguata cui forse seguirà un canto più alto) ma per chiara consapevolezza dell'immensità e della difficoltà dell'opera, al punto da dichiararsi pago di manifestare anche solo un'ombra del regno beato.
Ancor più che negli altri casi, in questo passo frequente di termini e moduli classici si coglie l'accento religioso (O buon Appollo... / O divina virtù... / vedra'mi al piè del tuo diletto legno / venire... padre), l'intensa spiritualità che ne investe i propositi (Sì rade volte, padre, se ne coglie / per trïunfare o cesare o poeta, / colpa e vergogna de l'umane voglie), il senso della poesia come grazia, come miracolo di cui l'uomo è umile strumento (coronarmi de le foglie / che la materia e tu mi farai degno).
La santità della poesia è affermata, attraverso il mito delle Muse, in un'altra invocazione che figura sul finire del Purgatorio, là dove il viaggiatore, giunto nel Paradiso terrestre, contempla la mistica processione e avverte la pochezza delle proprie forze nei confronti di un tema sì arduo non solo da tradurre in versi ma finanche da pensare: qui la voce gli s'innalza a un tono solenne e accorato, mentre commemora la fame, il freddo, le veglie durate nella spossante fatica, in nome di tanto sacrificio e di tanta dedizione all'arte chiedendo di poter sostenere il nuovo cimento: O sacrosante Vergini, se fami, / freddi o vigilie mai per voi soffersi, / cagion mi sprona ch'io mercé vi chiami. / Or convien ch'Elicona per me versi, / e Uranìe m'aiuti col suo coro / forti cose a pensar mettere in versi (XXIX 37-42); parole che richiamano un luogo non distante (XXXI 140-141 chi palido si fece sotto l'ombra / sì di Parnaso, o bevve in sua cisterna...) " dove ritorna la menzione del lavoro per la poesia e dell'ispirazione poetica, ambedue ugualmente necessari " (U. Bosco, Il canto della processione, in D. vicino, Caltanissetta-Roma 1966, 282); si noti per inciso che sulla scelta di Urania deve aver pesato l'interpretazione di ‛ Musa delle cose celesti ': " contemplatio coelestis ", dice Pietro.
L'inserto di Pd XVIII 82-87 (O diva Pegasëa che li 'ngegni / fai glorïosi e rendili longevi, / ed essi teco le cittadi e ' regni, / illustrami di te, sì ch'io rilevi / le lor figure com'io l'ho concette: / paia tua possa in questi versi brevi!) insiste pur esso sulla necessità che la Musa (Pegaséa in quanto datrice di fama, come pare si debba intendere sulla scorta di Benvenuto) illumini il poeta in tutto l'arco del suo lavoro, dalla ricezione della materia (il prodigioso dispiegarsi delle anime di Giove in figura di lettere disvelanti nell'amore della giustizia l'obbligo primo dei monarchi) all'intervento della memoria, alla finale trascrizione metrica. Ma certo il punto critico che più di ogni altro tormentava l'intelligenza dantesca era quello della rispondenza fra cosa e parola, in un contesto dove la cosa, anche se più volte intonata al registro comico-realistico, pur sempre manteneva un suggello metafisico: Ma quelle donne aiutino il mio verso / ch'aiutaro Anfïone a chiuder tebe, / sì che dal fatto il dir non sia diverso (If XXXII 10-12). Proprio a contatto con questo fondamentale problema - dire quello che non era mai stato detto, e dirlo in modo da non tradirne la sostanza trascendente, pur in una trama di parole umane - si giustificava, oltre il possesso della sapienza, dell'ars, la mediazione di una virtù sovrannaturale, di cui è appunto simbolo il favore di Apollo e delle muse all'itinerante cantore: l'acqua ch'io prendo già mai non si corse; / Minerva spira, e conducemi Appollo, / e nove Muse mi dimostrati l'Orse (Pd II 7-9).