intelligenza
Il concetto di intelligenza si è evoluto grandemente nel 20° sec., fino ad approdare a quello più comprensivo e definito di cognizione, studiato dalla scienza detta appunto cognitiva. Con il tempo si sta superando il tradizionale dualismo tra mente (e quindi intelligenza) e cervello, grazie sia ai grandi progressi delle scienze del cervello sia alla capacità di costruire artefatti (robot e reti neurali) in grado di simulare comportamenti degli organismi dai quali emergono precipue capacità elaborative della mente. Sulla base del nuovo approccio integrato di studi interdisciplinari è stato possibile definire gli aspetti caratteristici dell’intelligenza umana (in particolare la capacità di previsione e di stabilire nessi tra causa ed effetti anche provocati dal proprio comportamento). Un ruolo fondamentale nello sviluppo dell’intelligenza umana è quello svolto dal linguaggio, sia in quanto serve all’individuo singolo a comunicare con sé stesso definendo in modo più appropriato l’ambiente che lo circonda, sia come potente promotore di una intelligenza sociale che, superando quella individuale, permette all’intera società di allargare enormemente la comprensione della realtà e la capacità di intervenire per modificarla. [➔ evoluzione culturale; intelligenza artificiale; linguaggio; mente e cervello; motivazione] Con il termine di intelligenza viene indicata comunemente la facoltà di pensare, concepire e intendere con la mente; lo si usa anche per definire il maggiore o minore sviluppo di alcune facoltà psichiche, come la memoria associativa, la capacità di reagire a stimoli provenienti dall’interno e dall’esterno, ecc.
Il concetto di i. è stato molto popolare nella psicologia del Novecento in quanto legato all’uso dei test di intelligenza. Una persona che si sottopone a un test di i. risponde a una serie di domande e svolge una serie di compiti standardizzati e, in base alle risposte che dà, le viene assegnato un punteggio, il quoziente di intelligenza (➔), che misura la sua i. rispetto a quella delle persone della sua stessa età. I test di i. hanno avuto molte applicazioni pratiche in campo educativo, in quello militare e nella selezione del personale, ma non hanno contributo molto a farci capire la natura dell’intelligenza. Sono state le ricerche di Jean Piaget, degli psicologi della Gestalt, di Lev S. Vygotskij e di James J. Gibson a fare un po’ di luce sui meccanismi e sui processi dell’intelligenza. Piaget ha analizzato il modo in cui l’i. si sviluppa nel bambino, introducendo il fondamentale principio dell’epistemologia genetica in base al quale per capire X è necessario ricostruire la genesi di X, ossia il modo in cui X è diventato nel tempo quello che è. Gli psicologi della Gestalt hanno sottolineato quello che l’i. ha in comune con la conoscenza percettiva della realtà e hanno studiato la capacità della mente di percepire o concepire X come qualcosa che va al di là della somma delle sue parti. Vygotskij ha messo in luce il ruolo che il linguaggio svolge nel dare forma all’i. e nell’accrescerne le potenzialità e ha analizzato la vita mentale come un parlare a sé stessi. Gibson ha studiato il ruolo che le azioni hanno nella nostra conoscenza del mondo e ha mostrato che la mente vive in un ambiente ecologico all’interno dell’ambiente fisico delle azioni che l’organismo svolge sulle cose.
Già nella psicologia della seconda metà del Novecento il concetto di i. è entrato in crisi. Da un lato è stato sostenuto che non esiste la i. (quella misurata dai test di i., che al massimo distinguono tra i. verbale e i. non verbale) ma esiste una molteplicità di forme di i. che utilizziamo nelle nostre diverse attività e per i nostri diversi bisogni. Poi i test di i. hanno dato luogo a polemiche e discussioni senza fine, su questioni come quella se vi siano differenze di i. tra i diversi gruppi umani o quella se l’i. sia geneticamente ereditata o sia il frutto dell’esperienza e dell’ambiente in cui si è vissuti. Lentamente il concetto di i. è stato emarginato e il termine è stato sostituito da quello di cognizione. L’uso di quest’ultimo termine, soprattutto nella forma aggettivale di cognitivo, si è rapidamente diffuso negli ultimi decenni del Novecento come effetto dell’imporsi di un approccio interdisciplinare allo studio della mente umana. Questa è un’entità così complessa che il compito di chiarire come funziona è stato affidato non alla sola psicologia ma a un insieme di discipline che include la linguistica, l’antropologia, la filosofia e l’i. artificiale (➔). Un ruolo particolarmente importante è stato svolto proprio da quest’ultima disciplina, che ha come obiettivo quello di costruire sistemi artificiali che esibiscano comportamenti che si possano definire intelligenti. Tale approccio interdisciplinare allo studio dell’i. è stato chiamato scienza cognitiva. Questo complesso di discipline si è andato trasformando nel tempo e attualmente lo studio della mente assume forme nuove rispetto a quelle del passato anche più recente. La trasformazione più importante è stata il progressivo emergere di una visione biologica della mente umana. La psicologia ha sempre voluto tenersi distinta dalla biologia, e anche se questo si può spiegare in base alle tipiche ‘gelosie’ disciplinari, in realtà l’esigenza di considerare la mente umana come qualcosa di separato dal suo sostrato materiale è stata centrale in tutta la storia della cultura occidentale, fin dai suoi inizi nella Grecia antica. Negli ultimi decenni, tuttavia, i continui progressi delle scienze della natura, e in partic. delle scienze biologiche, hanno reso la separazione dello studio della mente dallo studio delle sue basi biologiche sempre meno plausibile. E così, per la prima volta, sta affermandosi una scienza della mente che vede quest’ultima come qualcosa che emerge dalla natura, non solo come affermazione di principio ma nella pratica concreta della ricerca.
La nuova scienza della mente stabilisce rapporti con tutte le discipline biologiche, dallo studio comparato del comportamento degli animali a quello dell’evoluzione, alle discipline che studiano gli organismi come entità caratterizzate da una forma, da organi sensoriali e motori, da organi e sistemi interni (in partic. il sistema nervoso), e da un DNA che non solo rappresenta il prodotto di una lunga storia evolutiva ma che controlla lo sviluppo dell’organismo e il suo funzionamento al livello molecolare e cellulare. La nuova scienza della mente tende a formulare le sue teorie non più ‘a parole’, come avveniva tradizionalmente in psicologia, ma costruendo artefatti. La teoria viene usata come blueprint per costruire l’artefatto, e il comportamento dell’artefatto costituisce le predizioni empiriche derivate dalla teoria e quindi deve riprodurre il comportamento dell’organismo. Gli artefatti dell’i. artificiale, che ignoravano la biologia e concepivano l’i. come manipolazione logica di simboli, sono stati sostituiti dai robot, fisicamente realizzati o soltanto simulati in un computer, il cui comportamento è controllato da un modello simulativo del sistema nervoso chiamato rete neurale (➔). In questo nuovo quadro l’i. viene interpretata come adattamento all’ambiente, in partic. per quanto riguarda le interazioni sensomotorie che l’organismo ha con l’ambiente. L’adattamento avviene a due livelli. Al livello biologico-evolutivo è il risultato di un processo evolutivo che avviene in una popolazione di individui che si riproducono in modo selettivo in base alla capacità di ciascun individuo di sopravvivere e riprodursi nel particolare ambiente in cui si trova a vivere, e con l’aggiunta costante di mutazioni casuali nel DNA che i figli ereditano dai genitori. Ma gli organismi si adattano all’ambiente anche nel corso della vita dell’individuo, attraverso l’apprendimento, e questo è vero in particolare modo negli esseri umani, che apprendono non solo interagendo con l’ambiente naturale ma anche imitando gli altri conspecifici e dando così luogo a un processo evolutivo di tipo culturale più veloce di quello biologico.
Un aspetto della mente che la ricerca attuale sulle sue basi biologiche mette in luce, è che gli organismi hanno due livelli di funzionamento, quello motivazionale e quello cognitivo. Tutti gli organismi hanno motivazioni diverse da soddisfare (mangiare, bere, evitare i pericoli, riprodursi, prendersi cura dei figli piccoli, riposarsi quando si è stanchi o malati, ecc.) ma normalmente possono soddisfarne solo una alla volta. Questo significa che in ogni determinato momento devono scegliere tra le loro diverse motivazioni quale cercare di soddisfare, accantonando le altre, e questo rappresenta il livello motivazionale o strategico del comportamento. Una volta presa questa decisione, l’organismo deve essere in grado di eseguire i comportamenti appropriati che permettano di soddisfare la motivazione scelta, facendolo in modo efficiente, e questo rappresenta il livello cognitivo o tattico del comportamento. Dal punto di vista biologico sono importanti sia il livello della scelta motivazionale sia quello del comportamento appropriato per soddisfare la motivazione che è stata scelta. Un organismo può non essere in grado di sopravvivere o di riprodursi o perché sbaglia nelle sue decisioni motivazionali e non decide con la necessaria rapidità e risolutezza, oppure perché, pur avendo scelto la motivazione giusta, non è capace di fare quello che è necessario per soddisfarla. L’i. tende a essere identificata con il livello cognitivo del comportamento e perciò, intesa in questo senso, rappresenta solo una metà della mente. L’altra metà della mente, quella della scelta tra le diverse motivazioni, è altrettanto importante, e forse anche di più, perché scelte motivazionali sbagliate o non sufficientemente rapide e risolute possono più direttamente e più seriamente compromettere le possibilità di sopravvivenza/ riproduzione dell’individuo e il suo benessere. Il livello della scelta motivazionale è importante anche perché è a questo livello che agiscono le emozioni (➔), ossia gli stati del corpo (e in partic. delle interazioni tra cervello e altri organi e sistemi interni), che permettono di prendere decisioni motivazionali più efficaci per la sopravvivenza e il benessere dell’organismo. Per es., la scelta tra la motivazione di mangiare e la motivazione di sfuggire a un pericolo deve essere necessariamente quella giusta (sfuggire al pericolo piuttosto che mangiare) e deve essere presa con la necessaria rapidità. Se la percezione del pericolo è accompagnata da uno stato emotivo di paura, è più facile che la scelta sia corretta e rapida. Lo stesso vale per gli stati emotivi positivi che accompagnano motivazioni come quelle di trovare un partner per la riproduzione. La psicologia ha dato più spazio agli aspetti cognitivi che a quelli motivazionali ed emotivi della mente e, nel corso del Novecento, il solo psicologo veramente importante che abbia riconosciuto con chiarezza la rilevanza e la priorità del livello motivazionale è stato Sigmund Freud, insieme a tutta la scuola psicoanalitica. La tendenza a privilegiare gli aspetti cognitivi del comportamento è continuata anche nella scienza cognitiva, come sottolinea lo stesso nome di questa scienza. Anche in questo caso, come già avvenuto con la tendenza a ignorare le basi biologiche del comportamento e della mente, il privilegiare la metà cognitiva della mente rispetto alla metà motivazionale ed emotiva, non è solo caratteristico della scienza della mente ma è una componente importante di tutta la cultura occidentale, fin dalle sue origini. Del resto, le due tendenze sono legate tra loro perché se è possibile – almeno fino a un certo punto – ignorare le basi biologiche e corporee della metà cognitiva della mente, questo diventa più difficile se si studia la metà motivazionale ed emotiva, che implica un forte coinvolgimento – che ha profonde radici evolutive – non del solo cervello ma dell’intero corpo.
Inserire esplicitamente lo studio della mente nell’ambito delle discipline biologiche non deve tuttavia far dimenticare la specificità della mente umana rispetto a quella degli altri animali. Quando si parla di i., normalmente si intende quella umana. Questo è sbagliato perché ogni animale ha la sua forma di i., ma ciò non toglie che se vogliamo conoscere l’i. umana dobbiamo individuarne le caratteristiche specifiche e spiegarle. Considereremo tre di queste caratteristiche: la capacità di scoprire le regolarità presenti nell’ambiente e di interpretare la realtà come fatta da cause che producono effetti; la capacità di usare il linguaggio per comunicare con sé stessi e quindi per pensare; la capacità di realizzare forme di i. al livello non dell’individuo ma della società.
Il controllo sulla regolarità degli eventi e l’idea di causa. Ogni animale sfrutta le regolarità che sono presenti nel suo ambiente per comportarsi in modo più efficace. Per es., se l’evento X è seguito regolarmente dall’evento Y che ha conseguenze negative per l’animale, questa regolarità viene catturata dal suo cervello in modo tale che, quando si presenta l’evento X, l’animale agisce in modo che l’evento Y non avvenga o lui non ne debba subire le conseguenze negative. Quello che caratterizza gli esseri umani rispetto agli altri animali è che il loro cervello ha la capacità di cogliere non solo le regolarità esistenti nell’ambiente ma anche quelle esistenti tra le loro azioni e gli effetti di esse. Se un individuo esegue un’azione e nota che l’azione è regolarmente seguita da un certo evento, l’individuo eseguirà l’azione se giudica tale evento come positivo, mentre eviterà di eseguirla se giudica l’evento come negativo. Questo in qualche misura è vero anche per gli animali ma negli esseri umani la capacità di cogliere le regolarità tra le proprie azioni e gli effetti che producono, cioè di prevedere tali effetti, è particolarmente sviluppata. Gli esseri umani sono in grado di prevedere non solo gli effetti immediati delle proprie azioni ma anche gli effetti di questi effetti, e così via, estendendo così la prospettiva temporale del proprio comportamento. Gli esseri umani sono anche in grado di compiere azioni al solo scopo di conoscere quali sono i loro effetti, arrivando a costruire così una mappa più ricca e articolata del proprio ambiente. Questo è vero anche perché la capacità di prevedere gli effetti delle loro azioni li aiuta a conoscere meglio le regolarità presenti nell’ambiente. Essi non debbono aspettare che un evento X sia seguito da un evento Y, ma possono provocare con le loro azioni l’evento X per vedere se è seguito dall’evento Y. E, infine, poiché le regolarità non sono mai perfette e senza eccezioni, quando un evento X, che è normalmente seguito da un evento Y, non è di fatto seguito dall’evento Y, o quando un’azione che normalmente produce un certo effetto non produce tale effetto, gli esseri umani possono cercare altri fattori che spieghino perché le loro previsioni non si sono realizzate. Tutte queste capacità, e soprattutto quella che consiste nell’usare le proprie azioni per scoprire le regolarità presenti nell’ambiente e per spiegare perché queste regolarità abbiano eccezioni, costituiscono la base dell’idea di causa, che ha un ruolo molto importante nel definire l’i. umana, cioè il modo in cui gli esseri umani conoscono e interpretano la realtà. La capacità di fare previsioni e l’idea di causa costituiscono la base della scienza, che è fatta di metodo sperimentale e di metodo quantitativo. Il metodo sperimentale è il sistematico controllo e la sistematica manipolazione di ciò che causa o può causare gli eventi osservati. Il metodo quantitativo è un modo per rendere più precise e più obiettive le osservazioni sulle regolarità osservate nell’ambiente o nel laboratorio sperimentale.
L’intelligenza e il linguaggio. Gli esseri umani hanno un sistema di comunicazione, il linguaggio (➔), molto più complesso di quelli usati dalle altre specie animali. Il linguaggio trasforma la nostra conoscenza della realtà, stabilendo confini più netti tra le cose, isolando aspetti della realtà che altrimenti si presenterebbero confusi con altri aspetti, e permettendoci di articolare la conoscenza della realtà utilizzando una sintassi, ossia considerandola costituita da oggetti (nomi), proprietà (aggettivi), azioni, stati ed eventi (verbi), autori delle azioni (soggetti in senso linguistico), oggetti delle azioni (complementi in senso linguistico), modalità con cui le azioni vengono compiute (avverbi), tempi e modi delle azioni. Un aspetto peculiare del linguaggio è che gli uomini sono in grado di usarlo per comunicare con sé stessi oltre che con gli altri. In questo modo, la realtà si presenta agli esseri umani non solo come cose percepite e azioni compiute, come accade negli animali, ma come filtrata attraverso la ‘lente’ del linguaggio. Ciò è tanto più importante per definire l’i. umana in quanto gli esseri umani tendono a mettere la ‘lente’ del linguaggio tra la percezione delle cose e le azioni con cui reagiscono a queste cose, e questo trasforma il loro comportamento.
L’intelligenza sociale. Il linguaggio è un potente sistema di comunicazione con gli altri, ed esso così contribuisce a fare emergere una i. sociale, ossia una i. che non appartiene al singolo individuo ma a una collettività di individui che interagiscono tra loro. Molti animali sono sociali, cioè vivono con altri individui della stessa specie e spendono una buona parte del loro tempo a interagire con essi. La socialità umana è diversa e più complessa per almeno due motivi. Il primo è che gli altri animali tendono a vivere in gruppi formati da individui geneticamente molto simili. Questo fa sì che in tali gruppi i comportamenti individuali siano quasi sempre altruistici, ossia tali da aumentare la probabilità che gli altri individui sopravvivano e si riproducano, anche a scapito delle proprie singole probabilità di sopravvivere e riprodursi. Come spiega la teoria della selezione di parentela, ciò è dovuto al fatto che, essendo molto simili i geni di tutti gli individui del gruppo, il comportamento altruistico del singolo aumenta la probabilità che i geni degli altri individui siano presenti anche nelle generazioni successive. Così, di fatto, aumenta la probabilità che i propri geni ‘altruistici’ siano presenti nelle generazioni successive. In questo modo, nei gruppi animali formati da individui che hanno gli stessi geni i comportamenti altruistici sono quelli sociali dominanti, anche se ovviamente non mancano comportamenti competitivi e aggressivi. Nei gruppi umani invece, specie in quelli di certe dimensioni, gli individui non sono parenti (stretti), cioè non hanno gli stessi geni, e quindi i comportamenti osservati sono spesso egoistici, non altruistici, ossia rivolti ad aumentare le proprie probabilità di sopravvivere e riprodursi a scapito di quelle degli altri. Questo spiega perché, per evitare che i comportamenti egoistici dannosi per gli altri si diffondano troppo fino a mettere in questione l’esistenza stessa della società, tutte le società umane si dotano di meccanismi per contenere tali comportamenti, dai sistemi delle leggi ai sistemi della reputazione sociale fino ai sistemi di interiorizzazione delle norme legati alla religione o alla moralità. Il vivere in società procura molti vantaggi agli individui in quanto, coordinandosi tra loro, essi possono produrre risultati che nessun individuo da solo sarebbe in grado di ottenere. Grazie all’i. sociale, la conoscenza della realtà a disposizione di ogni singolo individuo non è più solo quella che l’individuo può procurarsi direttamente attraverso la sua esperienza ma è anche quella cumulativa acquisita dall’esperienza di una molteplicità di individui. Lo stesso vale per la capacità di fare previsioni e di trovare le cause dei fenomeni, e quindi di risolvere i problemi. L’individuo singolo può fondarsi solo sulla sua osservazione diretta delle regolarità presenti nella realtà, mentre un individuo che vive in società può fare previsioni e conoscere le cause sulla base delle esperienze compiute da tutti i membri della società, messe in comune e accumulate nel tempo. Domenico Parisi