Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il ruolo dell’intellettuale diventa, nel Novecento, un tema di discussione decisivo e in costante definizione. La riflessione sulla classe intellettuale e sui doveri dell’intellighenzia occupa gran parte dei dibattiti del secolo: pensatori come Antonio Gramsci, Benedetto Croce, Julien Benda, Paul Nizan meditano e definiscono linee di condotta intellettuale con cui in seguito i maggiori scrittori del secolo sono costretti a confrontarsi. Le linee del dibattito, con l’ingresso nella società industriale, arrivano a interessare il rapporto tra intellighenzia e società dei consumi, coinvolgendo gli intellettuali nell’analisi delle nuove tendenze e categorie sociali inaugurate dal neocapitalismo.
Chi sono gli intellettuali
Antonio Gramsci
La formazione degli intellettuali
Ogni gruppo sociale, nascendo sul terreno originario di una funzione essenziale nel mondo della produzione economica, si crea insieme, organicamente, uno o piú ceti di intellettuali che gli dànno omogeneità e consapevolezza della propria funzione non solo nel campo economico, ma anche in quello sociale e politico: l’imprenditore capitalistico crea con sé il tecnico dell’industria, lo scienziato dell’economia politica, l’organizzazione di una nuova cultura, di un nuovo diritto, ecc. ecc. Occorre notare il fatto che l’imprenditore rappresenta una elaborazione sociale superiore, già caratterizzata da una certa capacità dirigente e tecnica (cioè intellettuale): egli deve avere una certa capacità tecnica, oltre che nella sfera circoscritta della sua attività e della sua iniziativa, anche in altre sfere, almeno in quelle piú vicine alla produzione economica (deve essere un organizzatore di masse d’uomini; deve essere un organizzatore della “fiducia” dei risparmiatori nella sua azienda, dei compratori della sua merce ecc.). [...] Si può osservare che gli intellettuali “organici” che ogni nuova classe crea con se stessa ed elabora nel suo sviluppo progressivo, sono per lo piú “specializzazioni” di aspetti parziali dell’attività primitiva del tipo sociale nuovo che la nuova classe ha messo in luce.
A. Gramsci, Gli intellettuali, Roma, Editori Riuniti, 1971
Il termine “intellettuali” per designare un gruppo di uomini di cultura che assume specifici compiti nel contesto politico entra nell’uso delle lingue europee solo a partire dalla seconda metà dell’Ottocento. La parola si fa risalire di solito a una derivazione dal russo intelligencija, termine che – ricalcato dal latino intelligentia e usato per la prima volta, pare, negli anni Sessanta del secolo dal romanziere Pëtr Dmitrievic Boborykin – indica l’insieme dei liberi pensatori che, nella Russia prerivoluzionaria, hanno svolto attività di opposizione all’autocrazia zarista. Con il Manifeste des intellectuels, pubblicato sul giornale “L’Aurore” il 14 gennaio 1898 in difesa di Dreyfus e firmato da scrittori come Zola, Proust e France, il termine “intellettuali” acquisisce l’accezione che ancora oggi è in uso.
Se da un lato, dunque, il problema del rapporto tra cultura e politica si presenta come una questione antichissima, che si può far risalire almeno alla Repubblica di Platone, dall’altro quello dell’intellettuale diventa un ruolo riconosciuto e circoscritto soltanto nel Novecento. Il riconoscimento di una classe intellettuale apre pertanto un ampio dibattito sulla definizione dei suoi doveri e compiti. Già in Francia con il manifesto dei dreyfusards, infatti, si apre la complessa questione del rapporto tra intellettuali e potere, e si manifesta una scissione tra quelli che Norberto Bobbio definisce “intellettuali rivoluzionari” e “intellettuali puri”: i primi convinti che l’intellettuale debba impegnarsi contro il potere costituito per la definizione di una nuova società; i secondi persuasi che l’unica causa da servire sia quella della verità, sia essa incarnata o meno dal potere costituito. Tra i più importanti sostenitori di questa seconda posizione è Julien Benda, che nel suo libro più celebre, Il tradimento dei chierici (1927), imposta il problema essenzialmente su base morale. Secondo Benda la vita civile impone una divisione dualistica dei compiti: i “laici”, da un lato, hanno la funzione di provvedere alla sopravvivenza della comunità; i “chierici”, dall’altro, hanno la funzione di esaltare dei valori “che trascendono le cose temporali”. Benda non auspica un mondo retto da chierici, e non nega che la morale laica sia la più adatta a gestire le società; il compito dei chierici, dunque, non è quello di governare, ma di perseguire la verità e renderla pubblica al mondo. Se le logiche di governo devono essere a volte “machiavelliche” e improntate a principi contrari alla morale, non per questo possono ritenersi indenni dalla denuncia degli intellettuali. I chierici che si astengono dalla denuncia e dalla critica al potere e che si compromettono con il mondo reale, sacrificando gli ideali che dovrebbero difendere, sono allora falsi intellettuali e si macchiano di tradimento. Per questo motivo il vero intellettuale dovrebbe essere senza patria, aggirando, con un destino da sradicato, le tentazioni del nazionalismo che secondo Benda rappresenta il rischio più grave di tradimento. Anche Benedetto Croce, in molte sue opere, si muove su posizioni simili, affermando spesso, per esempio nelle Pagine sulla guerra, il primato del dovere verso la verità rispetto al dovere verso la patria. All’idea dell’intellettuale puro, del resto, corrisponde l’idea, recentemente affermatasi nell’ambito degli studi sociali, di una scienza “avalutativa”, ossia estranea da ogni giudizio di valore. È la posizione propugnata con decisione dagli studi di Max Weber e riassunta dalla contrapposizione tra “scienziato” e “apostolo” che Vilfredo Pareto delinea nel suo Trattato di sociologia generale (1916): la scienza ha il preciso dovere di accertare i fatti, difendendo la ragione scientifica dagli attacchi delle ideologie. Il distacco critico che Benda attribuisce all’intellettuale, dunque, si colloca in una precisa tradizione epistemologica che non ha mancato di sollecitare critiche: Paul Nizan nel 1932 pubblica un attacco ai filosofi della Sorbona e agli intellettuali francesi, intitolato I cani da guardia, in cui prende di mira, tra gli altri, anche Benda. Nizan, che auspica un diretto coinvolgimento dell’intellettuale nella lotta di classe e nel partito comunista, accusa Benda di limitarsi a mantenere l’ordine delle cose, mettendosi indirettamente al servizio della borghesia. Benda risponde a Nizan affermando il dovere di astenersi da politiche di partito – che avrebbero compromesso il valore dell’indipendenza intellettuale – anche a prezzo del mantenimento dell’oppressione.
Assai distante, dunque, la posizione di Julien Benda rispetto a quella di Antonio Gramsci, la cui attività intellettuale è completamente assorbita dalla militanza nel Partito Comunista d’Italia, che contribuisce a fondare. Per la sua attività politica Gramsci viene imprigionato nel 1926 e non uscirà dal carcere fino alla sua morte, avvenuta 11 anni dopo, nel 1937. Durante il lungo periodo di prigionia Gramsci compone i Quaderni dal carcere, nei quali raccoglie i suoi pensieri e le sue riflessioni sulla storia e sulla politica. Non solo Gramsci ritiene indispensabile, per l’intellettuale, essere un intellettuale rivoluzionario, ma nell’ambito del suo pensiero politico il ruolo dell’intellighenzia si rivela del tutto centrale. Secondo Gramsci, infatti, ogni società crea organicamente il proprio gruppo di intellettuali, e anche la nuova classe avrà pertanto bisogno dei suoi “intellettuali organici” da contrapporre a quelli tradizionali. Il nuovo intellettuale dovrà dunque operare all’interno del partito, collaborando alla riforma della società e fornendo il proprio contributo per un nuovo ordine sociale.
L’“intellettuale organico”
La figura dell’“intellettuale organico”, operante nei quadri del partito e completamente assorbita dall’impegno rivoluzionario si è sviluppata, nel corso della storia del Novecento, in modo spesso problematico. Significativi, a questo proposito, i casi di scrittori come Arthur Koestler, Ignazio Silone, George Orwell e Albert Camus. Arthur Koestler, nato a Budapest, visita come inviato speciale la Russia e la Spagna durante la guerra civile. Tornato dalla Spagna, decide di abbandonare il Partito comunista, a cui ha aderito nel 1932. Lasciata l’attività giornalistica, si dedica alla narrazione, cercando di mettere in luce il contrasto tra principi ideologici e valori individuali e ponendo radicalmente in discussione la politica di partito: la sua opera più celebre – Buio a mezzogiorno, pubblicata nel 1940 – è dedicata alla descrizione dei processi di Mosca. Negli anni successivi, con testi come Lo Yogi e il commissario (1945), Koestler prosegue la linea di critica al comunismo e al totalitarismo. Secondino Tranquilli, che assume lo pseudonimo di Ignazio Silone negli anni Venti, in seguito alla sua condizione di clandestinità, entra dapprima nella gioventù socialista, e poi nel Partito Comunista d’Italia. Silone, che si avvicina al comunismo a causa della questione agraria, vive sempre con disagio la distanza che si crea tra le astrazioni della politica e la realtà sociale, tra le ragioni di partito e quelle degli oppressi. Questa frattura è rappresentata, oltre che dalla sua attività politica, anche dalla sua attività letteraria: in opere come Fontamara (1930) e Il seme sotto la neve (1942), Silone rappresenta, calato nello scenario quasi mitico del suo Abruzzo, la profonda distanza tra ragioni ideologiche e ragioni pratiche, la cesura incolmabile tra strategie di partito e bisogno di giustizia. Saranno anche questi stati d’animo a causare l’allontanamento di Silone dal partito comunista, culminato con l’espulsione deliberata nel 1930. Anche George Orwell, pseudonimo di Eric Blair, incarna un caso di “intellettuale organico” fallito. Similmente a Silone, Orwell inizia una critica al socialismo sulla base del proprio attaccamento alla realtà sociale in cui è nato: nonostante la propria adesione agli ideali della sinistra, lo scrittore inglese attua una sorta di adattamento dell’ideale socialista alla realtà medio-borghese in cui è cresciuto. Di qui il rifiuto, in un’opera come Il leone e l’unicorno (1941), di un socialismo radicale, nemico della proprietà privata e internazionalista, in favore di un assetto politico che elimini i disagi del sistema capitalista senza distruggere i principi del bene privato e dell’ideale patriottico.
Il dissenso come vocazione
Pur muovendo da ideali socialisti – combatte ed è ferito nella guerra civile in Spagna – Orwell è persuaso che una rivoluzione veramente democratica abbia bisogno di uno “spostamento essenziale del potere”, senza il quale non si passerebbe a uno stato di libertà, ma semplicemente a una nuova forma oppressiva. Questa convinzione spiega l’ansia di una nuova gerarchia totalitaria espressa in 1984 (1949) e il sarcastico campione di rivoluzione fallita presentata in La fattoria degli animali (1945). Personalità più travagliata rispetto a Orwell e Silone, Albert Camus, condivide con questi scrittori alcune tappe del suo percorso intellettuale. Come nei casi di Silone e Orwell, i primi passi di Camus verso l’impegno politico sono all’insegna della militanza nella sinistra. Molto giovane, nel 1933, entra nel PCF (Parti Communiste Français), e dal 1940, a Parigi, partecipa alla Resistenza e al giornale “Combat”. Esordisce come romanziere nel 1942 pubblicando Lo straniero, in cui emerge il tema dell’assurdo, che sarà centrale in tutta la sua opera successiva. Nel 1947 Camus pubblica La peste, cronaca di una immaginaria epidemia di peste che assedia Orano: il morbo, che provoca diverse reazioni nella comunità e che alla fine verrà debellato, può essere letto come allegoria del nazismo e della sua rapida diffusione. Come Silone e Orwell, Camus finisce poi per allontanarsi dal partito, che abbandonerà definitivamente per manifestare il suo dissenso nei confronti del rallentamento della campagna anticolonialista. Nodo fondamentale per la sua vita e per la sua opera, la situazione algerina diventa il centro anche del suo contrasto con i cosiddetti “esistenzialisti” francesi, Jean-Paul Sartre e Simone de Beauvoir su tutti. Per Camus, nato e cresciuto in Algeria, la guerra d’Algeria rappresenta un episodio di profonda frattura interiore: da un lato è convinto che l’atteggiamento repressivo manifestato dalla Francia sia antidemocratico, dall’altro è persuaso che l’attuazione dell’indipendenza rivendicata dal Fronte Nazionale di Liberazione Algerina significherebbe la fine per la comunità pied noir. Per queste ragioni Camus rifiuta di appoggiare tanto la linea colonialista quanto quella indipendentista, e finisce per distaccarsi da Sartre e dalla De Beauvoir, del tutto solidali con il FLN.
Il problema dell’organicità dell’intellighenzia, che i profili di Camus, Orwell, Silone e Koestler pongono in evidenza, non è l’unico problema che si pone a un inquadramento del ruolo dell’intellettuale. Come critico della società, infatti, l’intellettuale si può trovare a sposare cause al di fuori di un’ottica di partito, a fare da interprete e portavoce per gruppi che non conoscono alcuna organizzazione politica. È il caso di Simone de Beauvoir, che, pur essendo iscritta al PCF – come Sartre, suo compagno di una vita – si trova ad affrontare analisi e problemi sociali che esulano dalla prospettiva di partito. L’attenzione della De Beauvoir nei confronti della condizione femminile e della terza età avvicina la scrittrice a problemi relativi a due categorie sociali del tutto estranee alle categorie marxiste. L’analisi della De Beauvoir individua nel corpo femminile una predisposizione biologica allo stato di asservimento a cui le donne sono costrette: la riproduzione – che le vede dapprima violate, e poi alienate, obbligate a ospitare un corpo estraneo che si nutre di loro – costituisce un esempio emblematico del destino femminile. La donna è schiava della natura, ed è su queste basi puramente biologiche che diventa schiava della società. Il corpo femminile è dunque la sede primaria dell’affermazione della propria emancipazione: solo sfuggendo al proprio destino biologico, e sottraendosi al matrimonio e alla maternità, la donna può essere ammessa nel mondo che marcia positivamente verso l’avvenire e il progresso. La De Beauvoir, tanto ne Il secondo sesso (1949), quanto in La terza età (1970), adotta dunque un approccio analitico nei confronti della realtà che esula dalla prospettiva ideologica e adotta un taglio più propriamente sociologico. Su una strada simile procederanno molti intellettuali del Novecento, che si faranno interpreti, dalla loro specola disciplinare – sia essa di stampo filosofico, artistico o scientifico – dei mutamenti che la società contemporanea affronta.
Società di massa e nuovi soggetti
Il rapporto della cultura con il mondo industriale e con i cambiamenti che esso comporta, del resto, costituisce un nodo fondamentale della riflessione culturale di tutto il secolo: fondamentale, in questo senso, l’apporto della cosiddetta Scuola di Francoforte, la cui attività negli anni Trenta raccoglie i contributi di personalità intellettuali del calibro di Horkheimer, Habermas, Adorno, Fromm e Benjamin. Questo gruppo di studiosi, attraverso lo studio di Weber e l’applicazione delle scoperte di Freud agli studi sociali, pone in atto una serrata analisi della cultura contemporanea, volta a individuare i tratti distintivi della società neocapitalistica e delle strategie di dominio di cui essa si serve. Particolarmente significative, in questa direzione, le analisi sociali di Herbert Marcuse , che delinea, nel saggio L’uomo a una dimensione (1964), l’esemplare umano più caratteristico della società industriale: un soggetto schiavo dei beni materiali, tenuto in scacco dal benessere in un sistema culturale che fa dei beni di consumo il nuovo veicolo di repressione e controllo. La lettura di Marcuse può essere, da questo punto di vista, accostata all’analisi che Hermann Broch attua, a partire dagli anni Trenta, in merito al kitsch. Il kitsch, che mira a riprodurre gli effetti dell’arte senza condividerne l’aspetto gnoseologico e di ricerca, è per Broch l’equivalente di ciò che sul piano etico può essere ascritto alla categoria del male. L’uomo del kitsch è un uomo deteriore, malvagio, che rappresenta il naufragio non solo dei valori estetici, ma anche dei valori etici della cultura occidentale.
L’attenzione alla realtà industriale, del resto, coinvolge, a partire dagli anni Cinquanta, anche numerosi intellettuali italiani, che si fanno interpreti della cultura di massa esplosa, nell’Italia postbellica, in seguito al boom economico. Particolarmente originale è l’opera di Ottiero Ottieri, che si concentra sugli effetti dell’industrializzazione sulla società italiana e che con i suoi due romanzi Tempi stretti (1957) e Donnarumma all’assalto (1959), può essere considerato l’inventore della letteratura industriale in Italia. Su una linea simile opera Paolo Volponi che tra i suoi temi privilegia l’esperienza della fabbrica come luogo alienante e di conflitto. In lavori come Memoriale (1962) e La macchina mondiale (1965), Volponi mette in scena il contrasto insanabile che si crea tra individuo e strutture produttive, tra mondo naturale e mondo industriale. In questo clima di illusioni e rilancio culturale postbellico, fondamentale è il lavoro intellettuale di Elio Vittorini , che negli anni Trenta si è impegnato nel favorire l’accesso alla nuova letteratura americana con una intensa attività di traduzione, e che negli anni Cinquanta anima la scena intellettuale con accese polemiche sui nuovi indirizzi letterari, orientati sempre più verso una letteratura di consumo e sempre meno di ricerca. All’opera di Vittorini si deve il lancio di scrittori come Fenoglio e Sciascia e la fondazione di importanti riviste come “Il Politecnico” e “Il Menabò”. Anche Franco Fortini , poeta e critico, impegnato come collaboratore in numerose riviste culturali e politiche tra cui “Il Politecnico”, “Nuovi Argomenti”, “Paragone” e “Officina”, affronta spesso, nei suoi scritti, il problema del neocapitalismo. La riflessione di Fortini si concentra in particolare sul sistema dei valori imposti dalla società industriale e sul ruolo del lavoro intellettuale nella cultura di massa. Fortemente critico nei confronti della società dei consumi, di cui attua un’analisi acuta e precocissima, spesso anticipatrice, è Pier Paolo Pasolini . Poeta, romanziere, saggista e regista, la personalità di Pasolini si impone come una delle più eclettiche del Novecento. Se in romanzi come Ragazzi di vita (1955) e Una vita violenta (1959) si concentra sul proletariato romano, che sarà al centro anche della sua prima stagione cinematografica, nella sua attività di polemista (pubblicata postuma in raccolte come Scritti corsari e Lettere luterane), Pasolini affronta spesso il tema di quella che interpreta come una vera e propria “mutazione antropologica”: il radicale cambio di valori imposto dalla società dei consumi alla cultura italiana. La critica pasoliniana si esercita soprattutto in due direzioni: da un lato, verso la classe dirigente, che non si rende adeguata interprete della contemporaneità; dall’altro, verso le nuove generazioni, che subiscono la perdita di valori generata dalla società dei consumi. Anche Alberto Arbasino si concentra su alcuni aspetti peculiari della nuova Italia industriale, che nella sua opera narrativa è rappresentata in modo caricaturale e satirico. L’ironia di Arbasino, che in testi come Le piccole vacanze (1957) o La bella di Lodi (1972), affiora in modo dirompente, si esercita sui luoghi comuni della provincia borghese italiana, di cui l’autore mette in scena, con un linguaggio quasi incline alla chiacchiera e al pettegolezzo, tutte le frivolezze. Nemmeno Italo Calvino si sottrae a una rappresentazione critica dell’Italia dei consumi, condotta ora con gli amareggiati toni di denuncia de La speculazione edilizia (1957), La nuvola di smog (1958) e La giornata d’uno scrutatore (1963), ora con i toni più lievi, quasi fiabeschi, di Marcovaldo, ovvero le stagioni in città (1963), in cui l’autore descrive le disavventure dell’operaio Marcovaldo che, muovendosi nello spazio metropolitano come se si trovasse in uno spazio naturale, finisce per generare situazioni comiche e paradossali equivoci.
Società di massa e nuovi saperi
Sulla nuova epoca industriale e sui suoi effetti sociali e culturali si concentrano del resto le forze di alcuni dei più importanti intellettuali del secondo Novecento. Fondamentali, per esempio, le riflessioni di Roland Barthes, studioso francese che in opere come Miti d’oggi (1957) si impegna in uno strenuo lavoro di decifrazione delle strutture comunicative correnti e che nella sua sterminata opera di indagine si rivolge a campi tra loro molto diversi come la fotografia, la storia della cultura, la letteratura. Concentrata sul ruolo e sulle implicazioni della società di massa è anche l’analisi di Hans Magnus Enzensberger, poeta tedesco che ha affiancato alla sua produzione artistica una ricca produzione politico-saggistica volta soprattutto a individuare nell’attività critico-letteraria lo strumento di demistificazione dell’“industria della coscienza” costituita dall’insieme dei mezzi di comunicazione di massa. Proprio la massa è alla base degli interessi del bulgaro Elias Canetti, premio Nobel per la letteratura nel 1981, che, oltre a essere autore del celebre romanzo Auto da fé (1935), si segnala per un importante saggio, Massa e Potere (1960), in cui analizza uno dei concetti chiave del XX secolo – quello di massa, appunto – in un ampio tessuto mitologico e antropologico.
L’analisi delle forme di pensiero contemporanee, condotta attraverso la ricerca epistemologica, è al centro dell’opera del filosofo francese Michel Foucault, che cerca, con un approccio metodologico che illustrerà in L’archeologia del sapere (1969), di individuare le trasformazioni nel campo della storia eliminando quella che definisce la “soggezione antropologica”, ossia il riferimento alla funzione fondatrice del soggetto. Questa impostazione porta a una radicale critica della formulazione sociale di concetti capitali come quelli di malattia, follia e sessualità. Anche Jacques Derrida si dedica a una profonda revisione della filosofia tradizionale, di cui opera un’attenta critica impostata soprattutto sulla convinzione che sia impossibile conoscere l’essere attraverso il linguaggio. Derrida, che ha scritto anche in merito all’11 settembre, ha ispirato attraverso le sue opere – in particolare La scrittura e la differenza (1967) – la linea ermeneutica decostruzionista, che, in opposizione allo strutturalismo, vede nel testo un organismo aperto e irrisolto.
L’avvento della società dei consumi e l’imporsi dei suoi linguaggi costituiscono anche in Italia un nuovo campo di indagine per quegli studiosi che, utilizzando strumenti di ricerca messi a punto nel nuovo secolo come la semiologia e la linguistica, si dedicano all’analisi dei comportamenti comunicativi della nuova società di massa. Tra questi intellettuali, un ruolo fondamentale svolge l’opera di Umberto Eco. Semiologo e scrittore, Eco si sofferma spesso sulle forme di comunicazione di massa, dedicandosi all’analisi del fumetto, della canzone pop e del linguaggio pubblicitario. In Apocalittici e integrati (1964), Eco illustra le due posizioni dell’uomo di cultura di fronte ai nuovi linguaggi di massa: da un lato gli “apocalittici”, coloro che con Marcuse vedono nell’“industria culturale” una forma di manipolazione ideologica; dall’altro gli “integrati”, coloro che, con Marshall McLuhan, vedono nei nuovi linguaggi la possibilità di un allargamento dell’area culturale. A questa impasse Eco propone come via d’uscita l’analisi semiotica, che utilizza gli strumenti della ricerca scientifica per determinare le modalità e i rischi della comunicazione di massa.
Le riflessioni di Eco sono anche tra gli apporti fondamentali alla costituzione del Gruppo 63, movimento italiano di avanguardia costituito nell’ottobre del 1963, di cui oltre ad Eco, fanno parte, tra gli altri: i poeti Nanni Balestrini, Alfredo Giuliani, Francesco Leonetti, Elio Pagliarani, Antonio Porta, Amelia Rosselli, Edoardo Sanguineti; i critici Luciano Anceschi, Renato Barilli, Fausto Curi, Angelo (1929-) e Guido Guglielmi (1930-2003); gli scrittori Alberto Arbasino, Gianni Celati, Giorgio Celli, Furio Colombo (1931-), Franco Lucentini (1920-2002), Luigi Malerba, Giorgio Manganelli, Nico Orengo (1944-), Giuseppe Pontiggia e Sebastiano Vassalli (1941-). Il Gruppo 63 nasce come movimento di reazione all’establishment culturale del Paese, colpevole di non essersi accorto della nascita dei linguaggi legati alla nuova realtà economica e sociale. Attorno al Gruppo 63, che si scioglie a pochi anni dalla fondazione, operano riviste come “Marcatré” e “Quindici”, e si forma un’intera classe intellettuale che ha occupato, negli ultimi decenni, posti di prestigio nel mondo dell’editoria, della critica, della televisione.