infarto cerebrale
Sindrome conseguente alla chiusura di un’arteria che irrora il cervello: ciò determina una carenza critica di apporto di sangue, che può esitare nella necrosi del tessuto ischemico (➔ ischemia cerebrale). L’i. c. viene pertanto indicato anche come ictus ischemico, per distinguerlo dall’ictus emorragico, che consegue alla rottura di un’arteria.
Si distinguono tre grandi sottogruppi di i. c.: aterotrombotico, cardioembolico e lacunare. I. c. aterotrombotico: questo tipo di i. c. è determinato dallo sviluppo di placche aterosclerotiche a carico delle arterie carotidi interne o delle arterie vertebrali nel loro tratto extracranico; negli individui di razza caucasica (cui appartiene la popolazione italiana autoctona) lo sviluppo di placche a carico delle arterie intracerebrali è un’evenienza rara (circa il 5% dei casi), mentre è più frequente in individui di razza asiatica o afroamericana. La placca aterosclerotica è composta da cristalli di colesterolo, tessuto fibroso e calcio in proporzioni variabili. Si forma a seguito dell’azione dannosa esercitata sulla parete arteriosa da elevati regimi pressori, eventualmente coadiuvati dal danno ipossico conseguente al fumo. Le sedi più frequentemente interessate sono quelle nelle quali si hanno turbolenze di circolo, come le biforcazioni delle arterie carotidi comuni da cui originano le arterie carotidi interna ed esterna. Il danno della parete arteriosa favorisce l’accumulo di colesterolo all’interno di macrofagi che esercitano una funzione di richiamo e di stimolo proliferativo di cellule muscolari e fibrose. Placche con una maggiore componente fibrosa sono più stabili, mentre placche con un più marcato contenuto lipidico e con una sottile capsula fibrosa sono più instabili. Le placche instabili vanno incontro a complicazioni, quali ulcerazioni della superficie o emorragie intraplacca. Tali complicazioni possono portare alla completa chiusura dell’arteria nel tratto extracranico, oppure alla migrazione di frammenti di placca che embolizzano nelle arterie intracraniche, causando, quindi, un ictus arteroembolico. I. c. cardioembolico: questa forma è causata da una patologia cardiaca che favorisce la formazione di trombi intracardiaci; questi, frammentandosi, migrano nel circolo cerebrale. La più importante cardiopatia emboligena è la fibrillazione atriale, la cui frequenza aumenta con l’età tanto da arrivare a interessare oltre il 10% degli individui nella popolazione al di sopra degli 80 anni. Seguono per frequenza l’infarto del miocardio, in partic. nei primi tre mesi successivi a esso, le patologie valvolari di origine reumatica, la miocardiopatia dilatativa primaria o, più frequentemente, secondaria a ischemia miocardica, le endocarditi e i rari tumori cardiaci. I. c. lacunare: tale tipo di i. c. è causato da una patologia delle piccole arterie intracraniche, più frequentemente conseguente a ipertensione cronica e a diabete, ma si può verificare anche in assenza di questi, talora per cause geneticamente determinate.
A seguito dell’occlusione di un’arteria intracranica non tutto il tessuto cerebrale da questa irrorato muore subito. Il cervello è infatti difeso da molti circoli collaterali che consentono di mantenere un flusso ematico di compenso in alcune porzioni dell’area cerebrale servita dall’arteria occlusa. Il circolo di compenso è sufficiente a impedire la morte immediata del tessuto cerebrale, ma non a consentirne il normale funzionamento. Per analogia figurativa alla zona di semiombra attorno al centro di un’eclissi solare completa, il tessuto cerebrale ischemico ma ancora vitale viene denominato penombra ischemica, il salvataggio della quale è l’oggetto di tutte le terapie messe in atto nella fase acuta dell’ictus.
Il quadro clinico più tipico è rappresentato dal deficit di forza della metà destra o sinistra del corpo che va dalla riduzione (emiparesi) alla perdita totale (emiplegia), accompagnata o meno da una perdita di sensibilità. Possono essere concomitanti un disturbo nell’articolazione del linguaggio (disartria) o nell’ideazione e produzione delle parole (afasia) o una riduzione del campo visivo (emianopsia) dallo stesso lato del deficit di forza. Non sono indicative di ictus una perdita di coscienza isolata, senza deficit al ritorno della vigilanza, e una vertigine isolata.
Attualmente i fattori di rischio per l’i. c. si distinguono in modificabili e non modificabili. Fattori di rischio modificabili sono l’ipertensione, il fumo di sigaretta, il diabete, l’ipercolesterolemia, il consumo eccessivo di alcol, l’obesità, mentre fattori di rischio non modificabili sono l’età, il sesso e le condizioni geneticamente determinate. L’incidenza dell’ictus aumenta infatti con l’età, anche se le fasce di età giovanile (≤45 anni) non sono esenti dal rischio, tanto che l’incidenza della malattia in soggetti giovani è superiore a quella di altre patologie neurologiche considerate più tipiche dell’età giovanile come la sclerosi multipla. Nei giovani prevalgono cause di ictus cosiddette rare, come: la dissecazione arteriosa, cioè lo scollamento del foglietto più interno (tunica intima) dei tre che compongono la parete arteriosa, conseguente a traumi o anche spontanea; la presenza del forame ovale pervio, ossia di una comunicazione anomala fra atrio destro e atrio sinistro, attraverso la quale materiale trombotico può passare dal circolo venoso direttamente al cervello (embolia paradossa); l’abuso di sostanze vasoattive, come cocaina o derivati, che provocano uno spasmo delle arterie dal quale può originare anche un’emorragia, oltre che un’ischemia cerebrale; malattie geneticamente determinate o mutazioni di geni che codificano fattori della coagulazione, dei quali è causata un’alterata funzionalità che favorisce la formazione di trombi arteriosi, specie se in concomitanza con fumo e uso di contraccettivi orali. Il sesso maschile predispone a una maggiore incidenza di malattia fino alla settimaottava decade di vita, dopo la quale l’incidenza è maggiore nel sesso femminile.
La prevenzione primaria (impedire che la malattia si manifesti) e secondaria (impedire una recidiva di malattia) dell’i. c. si basano sulla correzione e sul controllo dei fattori di rischio modificabili attraverso norme di stile di vita, norme dietetiche, farmaci. In partic., il ricorso a farmaci antipertensivi, a farmaci ipoglicemizzanti nei pazienti diabetici e a farmaci in grado di ridurre i livelli di colesterolo ha notevolmente modificato la storia naturale della malattia. A questi farmaci si affiancano quelli antiaggreganti, capaci di bloccare l’aggregazione delle piastrine e quindi la formazione del trombo, e quelli anticoagulanti che impediscono la formazione della rete di fibrina che consolida il trombo. I primi sono indicati nella prevenzione dell’i. c. aterotrombotico, mentre i secondi si utilizzano in quella dell’i. c. cardioembolico. Un ruolo fondamentale nella prevenzione secondaria dell’i. c. aterotrombotico è svolto dall’endoarteriectomia, cioè dall’asportazione chirurgica della placca aterosclerotica quando riduce il lume carotideo di oltre il 70%. Interventi alternativi, come l’applicazione di uno stent per via intrarteriosa, non sono risultati a tutt’oggi (2010) più efficaci e più vantaggiosi dell’endoarteriectomia, che quindi resta il trattamento di prima scelta.
Malgrado la prevenzione primaria, l’i. c. nei Paesi industrializzati è la seconda causa di morte e la prima causa di invalidità permanente. Ogni anno si verificano in Italia circa 157.000 casi di ictus ischemico, di cui l’80% è costituito da nuovi episodi e il 20% da recidive, che colpiscono soggetti già precedentemente affetti. Questa incidenza è destinata ad aumentare a causa del progressivo invecchiamento della popolazione. Pertanto la terapia dell’i. c. finalizzata a limitare il danno e a favorire un miglior esito clinico e, se possibile, la guarigione, è un momento cruciale nel processo di cura di questa patologia. La creazione di unità operative (unità cerebrovascolari o stroke units) specificamente dedicate alla cura dell’i. c., in analogia alle unità coronariche per i pazienti colpiti da infarto miocardico, ha permesso di ridurre in maniera significativa la mortalità e l’invalidità residua dei pazienti con infarto cerebrale. La prevenzione e la cura di complicanze cardiache, pressorie, respiratorie, infettive, cutanee (piaghe da decubito), la gestione della disfagia e la corretta alimentazione, la riabilitazione precoce, sono i punti cardine dell’efficacia delle unità cerebrovascolari. Sono state inoltre sviluppate strategie terapeutiche atte a riaprire l’arteria chiusa (causa dell’i. c.), e a riperfondere il tessuto cerebrale in penombra ischemica. L’attivatore tessutale del plasminogeno (t-PA, tissue- Plasminogen Activator) è un enzima prodotto dalla parete delle arterie come difesa naturale contro la formazione dei trombi: la somministrazione endovena di un farmaco analogo al t-PA (trombolisi), prodotto con la tecnica del DNA ricombinante, ha consentito di ridurre in maniera significativa la mortalità e l’invalidità da i. c. ed è attualmente (2010) la terapia più efficace e sicura dell’ictus ischemico. Tuttavia è necessario un intervento molto rapido, entro un massimo di 4,5 ore dall’inizio dei sintomi, perché con il passare dei minuti nell’area di penombra ischemica muore un numero crescente di neuroni, con gravi esiti invalidanti. Inoltre, è necessario un monitoraggio clinico e strumentale continuo, al fine di tenere sotto stretto controllo, durante la terapia e nelle 24÷48 ore successive, parametri (pressione arteriosa, ritmo cardiaco, temperatura corporea, ossigenazione del sangue, glicemia) che possono influire sull’esito della terapia. Questa modalità gestionale è possibile solo nelle unità cerebrovascolari, per cui la trombolisi è praticabile solo in queste strutture. Approcci di rivascolarizzazione endovascolare, come somministrazione intrarteriosa di farmaci trombolitici e, soprattutto, ricorso a stent o a strumenti atti ad asportare il trombo occludente l’arteria, sono in fase di ricerca (2010) e appaiono potenzialità terapeutiche molto promettenti. Risultati negativi, invece, hanno conseguito gli studi che hanno valutato farmaci neuroprotettori, atti cioè a proteggere il tessuto cerebrale in penombra ischemica dai meccanismi lesionali che ne determinano la morte. Dopo le terapie della fase acuta ca. il 40% dei pazienti con i. c. necessita di riabilitazione motoria e cognitiva, da effettuare in maniera intensiva in centri specializzati e, in alcuni casi, da proseguire anche dopo il ritorno del paziente a casa.