TESSILE, INDUSTRIA
L'industria tessile in Italia. - I primi segni di un'organizzazione delle attività del settore tessile italiano su scala industriale − identificabile con il trasferimento delle attività in opifici, con l'impiego di forza motrice centralizzata e di macchinari meccanici − risalgono ai primi trent'anni del 19° secolo. Anche in Italia si avviò allora quel processo di trasformazione dei nuclei di produzione a carattere artigianale in manifatture industriali, che, già visibile in altri paesi europei dal 18° secolo, si sviluppò molto gradualmente e investì inizialmente solo una delle fasi della produzione, quella della filatura (o torcitura per la produzione serica), consistente nella riduzione della materia prima grezza in filo. L'attività a monte (trattura) conservò a lungo un carattere stagionale, mentre quella a valle (filatura) veniva svolta ancora nella metà del 19° secolo con carattere artigianale, prevalentemente nelle abitazioni dei contadini.
Questo particolare assetto della produzione nell'Italia preunitaria determinerà la sua specializzazione come fornitore di materia prima (filati) ai paesi più avanzati, quale l'Inghilterra, in cui si erano ampiamente diffuse già prima del 1850 macchine innovative (filatoi jenny e mule, brevettati prima del 1780, e il telaio meccanico, introdotto intorno al 1820) in grado di favorire straordinari miglioramenti della produttività. In Italia alla metà del 19° secolo si contavano meno di mille piccole fabbriche, nei diversi segmenti dell'i.t.: seta, cotone, lino e lana. Di queste, solo una piccola parte raggiungeva apprezzabili dimensioni, ma, anche grazie alla fitta rete di relazioni con i numerosissimi nuclei di lavoranti a domicilio, la loro presenza iniziava a influenzare la fisionomia di aree fino ad allora dedite pressoché esclusivamente all'agricoltura.
L'eredità dell'organizzazione artigianale del modo di produzione si può individuare nella fortissima concentrazione territoriale delle produzioni tessili, un carattere chiaramente visibile ancora oggi. A Como e Milano si consolidò il fulcro della produzione serica. Biella, Schio e l'area toscana di Prato si distinsero per le manifatture laniere. Il cotone veniva lavorato prevalentemente tra Legnano e Castellanza, oltre che nel Milanese. Altri aspetti salienti attorno ai quali si strutturava l'i.t. italiana nella prima metà del 19° secolo erano la disponibilità di risorse idriche per l'alimentazione della forza motrice, l'ampia riserva di manodopera a costi relativamente bassi e la protezione doganale accordata dai vari stati italiani dopo il 1815. L'adozione anche da parte dei governi dell'Italia unita di politiche protezionistiche a partire dal 1878, mentre costituì un freno per lo sviluppo economico complessivo del paese, indubbiamente assicurò un notevole impulso all'i.t., specie a quella cotoniera. Tra il 1876 e il 1900 le imprese operanti nel settore passavano da 627 a 727, con un corrispondente incremento dell'occupazione da 52.000 a 135.000 unità. L'avvento dell'organizzazione industriale del settore tessile portava intanto anche in Italia i problemi concernenti le condizioni e i turni di lavoro, oltre che la questione del lavoro minorile, già emersi nei paesi più avanzati.
All'inizio del 20° secolo, si era distinto un ristretto nucleo di imprese più solide, comprendente per es. il Cotonificio Cantoni e la Lane Rossi. Queste − strutturatesi da tempo nella forma di società per azioni e contando tra i propri azionisti anche alcune banche locali minori, non coinvolte dalla crisi bancaria di fine Ottocento − avevano mirato a ridurre il vincolo alla crescita rappresentato da un'insufficiente dotazione di capitale. L'i.t. italiana visse un periodo di espansione nei primi venti anni del 20° secolo. Con gli anni Trenta i livelli di attività si ridussero (anche a seguito della scelta autarchica) e furono ulteriormente depressi dall'approssimarsi del secondo conflitto mondiale.
Nel secondo dopoguerra, il settore tessile fu tra quelli che mostrarono i più intensi tassi di sviluppo della produzione. Alla fine degli anni Cinquanta, la produzione e il fatturato del settore delle fibre tessili artificiali crescevano a ritmi ampiamente superiori a quelli già molto sostenuti registrati dalla media manifatturiera, arrivando a toccare punte vicine al 30% annuo nel 1959 e nel 1962, mentre meno brillanti apparivano i tassi d'incremento della produzione cotoniera. Aveva inizio in quegli anni, infatti, la graduale diffusione delle fibre artificiali che, soprattutto per merito del rapido sviluppo delle fibre sintetiche (poliestere, poliammide, fibre acriliche) nel corso degli anni Settanta, avrebbero assunto un peso comparabile a quello delle fibre naturali (cotone e lana) nella produzione e nel consumo mondiali. Anche grazie all'adesione alla CEE, l'i.t. italiana poteva accedere più agevolmente al mercato dei principali partners europei, condividendo in tal modo il processo di crescita trainato dalle esportazioni, che connotava il complesso dell'industria manifatturiera nazionale.
Alla crescente richiesta dei prodotti più tradizionali dell'i.t. si associava la crescente domanda di prodotti per l'arredamento della casa, coincidente con l'incremento dei livelli di reddito delle famiglie, che apriva nuovi importanti segmenti di domanda. Questa evoluzione del mercato veniva assecondata anche grazie alla capacità delle imprese di sfruttare gli sviluppi che contemporaneamente avevano luogo nell'industria chimica, che negli anni Quaranta aveva già fornito all'i.t. mondiale nuove fibre artificiali, per es il nylon, destinate a essere largamente impiegate dall'i.t. e da quelle a valle, come l'abbigliamento e la maglieria. Nel corso degli anni Sessanta tale tendenza si consolidò, e la capacità d'innovazione di prodotto nel settore tessile venne largamente dominata dagli sviluppi dell'industria chimica. Esempi dell'interazione tra le due industrie furono la produzione dei cosiddetti ''nontessuti'', ottenuti attraverso un trattamento termico che consentiva di superare le consuete fasi di filatura e tessitura, e, ancora, la gommapiuma, i tessuti trapuntati, i tappeti tuft.
L'introduzione e l'accettazione relativamente rapida da parte dei consumatori delle nuove fibre sintetiche innescò un tipico processo dinamico di competizione tecnologica tra fibre naturali e artificiali, da cui scaturirono significativi miglioramenti anche nelle tecniche tradizionali di trattamento delle fibre naturali. Il progresso tecnico comportò principalmente l'aumento della velocità delle macchine e la contemporanea riduzione dei difetti di lavorazione. Nella filatura, rimasta pressoché inalterata nella prima metà del 20° secolo, si susseguirono il perfezionamento della filatura ad anello (o filatura ring) e l'introduzione del più rapido sistema open-end, che riduceva le fasi che precedevano la filatura vera e propria. Nella tessitura iniziavano ad apparire i primi esemplari di una nuova generazione di telai, che dal telaio senza navetta (shuttleless loom) della fine degli anni Cinquanta arriva agli attuali sistemi a getto d'acqua e d'aria. Gli incrementi di produttività sia del macchinario che della manodopera furono notevolissimi: per es., mentre nel 1962 nell'industria cotoniera occorrevano 24 ore/uomo per produrre 100 kg di filato, nel 1972 il tempo necessario era stato dimezzato.
Di pari passo con il processo di graduale aggiornamento tecnologico e in linea con aspettative rivelatesi in seguito eccessivamente ottimistiche sulla domanda finale, tra gli anni Sessanta e i primi anni Settanta fece la sua comparsa anche in Italia un modello di produzione tessile su larga scala, basato su impianti più grandi della media, in grado di fornire produzioni di massa, standardizzate, suddivise in lotti molto ampi e scarsamente variabili, pertanto adattabili con relativa facilità ai cicli industriali. La tendenza all'integrazione verticale dei processi produttivi derivava anche dal fatto che alcuni gruppi tessili erano stati assorbiti dai produttori di fibre. Il punto debole di questa organizzazione della produzione stava però nella sua rigidità e nel forte aumento dei costi unitari che si registrava non appena l'impiego della capacità produttiva scendeva al di sotto dei livelli minimi ottimali.
Nel corso degli anni Settanta il contesto in cui si sviluppava l'i.t. mutò sensibilmente, in seguito all'evoluzione sia dello scenario internazionale che di quello più specificamente italiano.
Sul piano internazionale, la crisi connessa all'aumento dei prezzi delle materie prime (principalmente del petrolio e dei suoi derivati) ridusse notevolmente la competitività dei produttori di fibre sintetiche dei paesi industrializzati. Il calo della quota della capacità produttiva mondiale nelle fibre artificiali controllata dai paesi industrializzati dall'82% nel 1960 al 58% del 1982 avvenne principalmente a vantaggio dei paesi di nuova industrializzazione asiatici, passati nello stesso periodo dall'1,5% al 15%. In aggiunta, il consumo di prodotti contenenti fibre chimiche diminuì notevolmente: nei paesi della CEE l'impiego di filati sintetici nell'abbigliamento scese dal 22% al 18% tra il 1975 e il 1980. Nel complesso, si avvertivano i primi segnali di un'inversione di tendenza nella domanda finale, che sembrava orientarsi sempre più chiaramente verso le produzioni differenziate. Inoltre, tra il 1963 e il 1973 si era ampiamente concretizzata la minaccia costituita dai produttori dei paesi emergenti, il cui peso sulle esportazioni mondiali di prodotti tessili passò dal 18% al 22%. Anche il quadro delle politiche commerciali entro cui avveniva la competizione internazionale nel tessile mutò significativamente nel corso degli anni Settanta. La crescente pressione delle importazioni a basso costo sui consumi dei paesi industriali condusse questi ultimi a introdurre, con l'Accordo Multifibre (AMF) del 1973, un regime volto a limitare l'import proveniente dai paesi in via di sviluppo, attraverso l'applicazione di restrizioni quantitative. Le imprese italiane hanno sfruttato le limitazioni delle importazioni decise in base all'AMF come un ''ombrello protettivo'', operante sia sul mercato interno che sui principali mercati dell'Italia. In tale contesto è stato avviato l'aggiustamento strutturale del settore, proseguito nel corso degli anni Ottanta e mirante a ridefinire la collocazione delle imprese italiane su fasce elevate del mercato, relativamente meno esposte alla concorrenza dei paesi in via di sviluppo.
Sul piano interno, alla fine degli anni Settanta, s'innescò un'intensa dinamica salariale, che risultò la più accentuata, nel confronto con i paesi industrializzati. Conseguentemente, nel 1983 il livello dei salari orari dell'i.t. italiana aveva superato quello rilevabile nei principali paesi industriali. L'evoluzione dei prezzi delle materie prime − in alcune lavorazioni tessili relativamente più importanti del costo della manodopera − e la non brillante evoluzione della domanda, sia interna che europea, contribuirono a complicare il quadro competitivo delle imprese tessili. In aggiunta, nel 1979, con l'adesione dell'Italia agli accordi di cambio nell'ambito del Sistema Monetario Europeo, si riduceva (fino al 1992) la possibilità di alimentare la competitività delle imprese sui mercati internazionali attraverso la svalutazione della lira. Come in altri settori dell'industria italiana, i conti delle imprese peggiorarono sensibilmente. La strategia che molte imprese del settore adottarono dopo la metà degli anni Settanta per fronteggiare le crescenti difficoltà e riaggiustare i bilanci fu di ricorrere sempre più al decentramento produttivo. Si riorganizzava così la produzione precedentemente svolta all'interno di un unico stabilimento, distribuendola tra più unità indipendenti, normalmente di piccole dimensioni, meno condizionate dalla conflittualità sindacale e alle quali era possibile ricorrere più flessibilmente, con una significativa riduzione dei costi.
Premessa di tale riorganizzazione era la scomposizione del processo produttivo in segmenti da affidare a unità produttive specializzate nell'esecuzione di specifiche fasi. Ugualmente importante per il successo del decentramento era la disponibilità di nuclei di piccole imprese molto concentrati territorialmente, in grado di assecondare tale tendenza. L'importanza del ricorso al decentramento è testimoniata dal crescente valore delle lavorazioni per conto terzi in rapporto al fatturato del settore tessile, passato dal 7% del 1976 al 10,2% del 1986. Emergeva in questa fase l'importanza dell'organizzazione del lavoro dell'i.t. in distretti industriali, in grado di operare come veri e propri microsistemi di produzione per le imprese leader. La storica concentrazione territoriale dell'i.t. italiana − con l'85% degli addetti in Piemonte, Lombardia, Veneto, Emilia Romagna e Toscana − rappresentò una condizione per il successo del decentramento. Come risultato, nelle statistiche del settore cresceva il peso delle imprese di piccole dimensioni. La struttura industriale del settore si modificò significativamente, con un'ulteriore riduzione della dimensione media delle imprese, scesa da 11 a 8 addetti tra il censimento del 1971 e quello del 1981, per il settore tessile nel complesso, comprendente anche la maglieria. Le imprese con meno di 50 addetti, che rappresentavano una quota crescente sul totale delle imprese del settore, occupavano nel 1984 circa il 28% degli addetti totali contro il 20% del 1978. Tuttavia il decentramento, mentre dava buoni risultati in segmenti quali il perfezionamento tessile e, più in generale, nell'abbigliamento, non venne applicato estesamente in altre importanti produzioni, quali la lana e il cotone. In quest'ultimo settore si registrava invece la sostituzione di importazioni alla produzione nazionale di filati. Il carattere estremamente composito delle produzioni sinteticamente raggruppate nel settore tessile contribuisce a spiegare la forte variabilità che costantemente si riscontra tra le strategie predisposte nei diversi segmenti del tessile.
Già sul finire degli anni Settanta, ma ancor più intensamente nel corso degli anni Ottanta, l'i.t. italiana intraprese un intenso processo di ristrutturazione per rispondere al rapido mutamento del quadro competitivo. Parallelamente alla spinta al decentramento, s'intensificò infatti l'introduzione di tecnologie di produzione avanzate in grado di consentire ulteriori aumenti di produttività insieme al conseguimento di livelli qualitativi della produzione ampiamente superiori al passato. Gli investimenti del settore tessile crebbero nella prima metà degli anni Ottanta a un ritmo superiore a quello del totale della trasformazione industriale, con una forte accelerazione nel biennio 1984-85 e successivamente nel 1988. Il settore meccanotessile ha fornito un sostegno indispensabile all'aggiornamento tecnologico delle imprese tessili, quasi mai in grado di svolgere autonomamente attività di ricerca e sviluppo tecnologico. Il fortissimo impegno profuso per un decennio nell'innovazione di processo ha portato l'i.t. italiana a conseguire nel 1993, secondo stime della Commissione delle Comunità Europee, l'indice di produttività del lavoro più elevato al mondo. L'Italia è infatti il paese che ha modernizzato maggiormente il parco macchine a disposizione del settore tessile.
Una diretta conseguenza dell'adozione di tecniche in gran parte risparmiatrici di lavoro è stata la consistente espulsione di manodopera, che ha riguardato particolarmente il periodo 1980-84 (circa −15%). Di conseguenza, l'intensità capitalistica di alcune produzioni è salita vistosamente: si stima che la creazione di un posto di lavoro con le tecniche più produttive nell'industria cotoniera comporti attualmente un investimento nell'ordine di 5,5÷6 miliardi di lire. Il ragguardevole incremento degli investimenti ha permesso al sistema tessile italiano di sostenere con successo la competizione internazionale, come indica l'evoluzione delle quote sulle esportazioni mondiali. L'Italia è riuscita infatti ad ampliare la propria quota sulle esportazioni mondiali, dal 7,6% del 1980 all'8,7% del 1992, un risultato condiviso solo dalla Germania tra i paesi industrializzati (v. tabella). Al contrario, altri grandi produttori tessili europei, come la Francia e il Regno Unito, non solo non hanno arginato la caduta dell'occupazione − risultata anche più intensa che in Italia − ma hanno anche subito l'erosione delle quote sul mercato internazionale.
Con il robusto piano di investimenti avviato nel corso degli anni Ottanta, il settore tessile si predisponeva ad affrontare quella che si profilava come una vera e propria svolta della domanda che, pur mostrandosi non molto dinamica sul piano quantitativo, si trasformava radicalmente sul piano qualitativo. Alla mutevolezza delle caratteristiche qualitative richieste nell'ambito di ciascun ciclo stagionale di produzione si univa, infatti, il crescente peso dei grandi gruppi multinazionali della distribuzione commerciale. Il loro ruolo non è consistito solo nell'orientare i cambiamenti della moda ma, soprattutto, in virtù della capacità di smistare le proprie commesse rapidamente pressoché in ogni angolo del pianeta, ha avuto l'effetto di amplificare la minaccia competitiva proveniente in special modo dai paesi di nuova industrializzazione del Sud Est asiatico (Taiwan, Corea del Sud e Hong Kong) e dalla Cina. Anche grazie al progressivo allentamento delle restrizioni quantitative da parte dei paesi industrializzati, la quota di questi paesi sulle esportazioni mondiali nel settore tessile è salita notevolmente nel corso degli anni Ottanta. Mentre il commercio mondiale di prodotti tessili cresceva a ritmi superiori alla media tra il 1980 e il 1991 (7% annuo contro 5%), la quota di Hong Kong, secondo esportatore mondiale dopo la Germania nel 1992 se si tiene conto delle ri-esportazioni (ovvero dei flussi di esportazioni di merci temporaneamente transitate da Hong Kong, provenienti da altri paesi), saliva dal 3% al 9%; quella della Cina dal 4,6% al 7,3%; quella della Corea del Sud dal 4% al 7% (v. tabella). Benché la pressione competitiva di questi paesi sia più intensa sui settori più a valle dell'abbigliamento e della maglieria, ne è derivata una forte spinta a tutto il sistema dell'i.t. verso un'esasperata ricerca di più elevati livelli di qualità e l'ampliamento della variabilità dei prodotti offerti, che ha coinciso con una sensibile frammentazione degli ordini.
Nella seconda metà degli anni Ottanta, le imprese hanno dedicato notevoli sforzi all'impiego dell'elettronica e di sistemi di automazione per l'esecuzione di operazioni elementari (per es. quelle che precedono la filatura), ma anche per finalità più complesse quali quelle connesse alla logistica. Si è registrata anche l'introduzione dei sistemi a matrice informatica (CAD, CAM) per la guida del disegno e della manifattura mediante computer. L'obiettivo è stato quello di rendere i sistemi di produzione molto più flessibili e in grado di rispondere con rapidità ed efficienza alle sempre più frequenti variazioni delle specifiche della produzione, quali colore e tipo delle fibre, imposte dalle tendenze mutevoli della moda. Inoltre, verso la fine degli anni Ottanta, la chimica ha offerto nuove opportunità d'innovazione di prodotto, attraverso l'introduzione delle microfibre.
Con un diametro inferiore a 10 micron e un'estrema leggerezza (1000 m pesano meno di un decimo di gr), queste fibre non solo si prestano a replicare le caratteristiche delle fibre più pregiate (come la seta), ma hanno anche mostrato un'apprezzabile versatilità, poiché possono essere ampiamente sfruttate anche nell'abbigliamento sportivo e tecnico. In aggiunta, contrariamente a quanto avviene per le fibre sintetiche più tradizionali, ancora nei primi anni Novanta, i paesi in via di sviluppo non sono apparsi in grado di padroneggiare la complessa tecnologia di produzione, e pertanto la loro minaccia competitiva è, in questo segmento, meno intensa. Negli ultimi anni è emerso inoltre un composito gruppo di prodotti − i tessili per impieghi tecnici − la cui domanda si sviluppa a ritmo molto intenso nei paesi industrializzati e ha raggiunto il 21% del consumo di fibre (in peso) in Europa, il 28% negli Stati Uniti e ben il 38% in Giappone. Tali tessuti vengono utilizzati in svariati impieghi di tipo industriale e ambientale, quali il filtraggio di acqua e gas, la stabilizzazione del suolo, gli usi medicali.
Soprattutto nella seconda metà degli anni Ottanta, l'innovazione nelle imprese più grandi non si è limitata all'introduzione di sistemi di produzione tecnologicamente all'avanguardia, né all'introduzione di nuovi prodotti, ma ha riguardato anche l'organizzazione commerciale e le strategie di internazionalizzazione. Per quanto concerne quest'ultimo aspetto, si assiste nel corso dell'ultimo decennio a una profonda trasformazione del settore tessile italiano. Al ben noto peso del tessile-abbigliamento sulle esportazioni totali italiane (tra il 1983 e il 1993 circa il 12% del totale) e al contributo fondamentale al saldo commerciale con l'estero (il saldo attivo del settore tessile ammonta a circa 3/4 del deficit energetico), si associa dopo il 1985 un processo di crescita internazionale delle imprese italiane. La crescita dimensionale che ha riguardato i principali gruppi (come Miroglio e Marzotto) e la spinta rappresentata dal ''cambio forte'' hanno indotto la scelta dell'internazionalizzazio ne produttiva da parte delle imprese più grandi. Nei pochi anni dal 1985 al 1991 le filiali all'estero di imprese italiane passano da 27 a 39 (al netto dei disinvestimenti), gli occupati da 5900 a 8600, il rapporto tra occupati all'estero e occupazione nazionale dallo 0,9% al 2,8%. Parallelamente cresce il ricorso delle imprese al traffico di perfezionamento passivo, attraverso il quale vengono fatte eseguire all'estero parti di lavorazioni per mezzo di esportazioni temporanee. Anche l'accresciuta incidenza delle importazioni sul consumo (passata dal 10% del 1985 al 17,5% del 1992) può essere in parte interpretata come un riflesso della crescita delle partecipazioni delle imprese italiane all'estero. L'evoluzione del quadro politico nei paesi dell'Est europeo a partire dal 1989 verificatasi contemporaneamente all'accresciuta propensione multinazionale del sistema tessile italiano offre ulteriori opportunità per proseguire in questa strategia.
Il contesto della competizione internazionale entro cui operano le imprese italiane si è modificato nel corso del biennio 1992-93, a seguito di due principali eventi. In primo luogo, la consistente svalutazione dei cambi ha riportato la competitività di prezzo ai livelli degli anni Ottanta. In secondo luogo, è mutato il regime che governa l'interscambio mondiale di prodotti tessili, in coincidenza con la chiusura dei negoziati dell'Uruguay Round del GATT. Dal 1° gennaio 1995 il settore tessile affronta il progressivo smantellamento dell'AMF, il sistema di quote alle importazioni dai paesi in via di sviluppo che ha governato gli scambi mondiali dal 1973. Il processo che è stato avviato porterà ad azzerare in dieci anni le quote stabilite dall'AMF, secondo uno schema che prevede per ogni paese aderente all'Accordo una liberalizzazione a partire dal 1995 di una quota delle importazioni pari al 16% del volume totale registrato nel 1990, seguita da ulteriori riduzioni delle limitazioni al commercio nel 1998 e nel 2002. È sempre più chiaro come la competizione internazionale nel settore tessile si svolga in misura crescente sul piano delle conoscenze, delle tecnologie e delle idee e sempre meno sul tradizionale terreno dei bassi costi della manodopera.
Bibl.: Confederazione Generale dell'Industria italiana, L'industria italiana alla metà del secolo XX, Roma 1953; S. Mariotti, Efficienza e struttura economica: il caso tessile-abbigliamento, Milano 1982; IRS, Rapporto del settore tessile-abbigliamento, ivi 1989.