INDUISMO
(XIX, p. 147; App. IV, II, p. 176)
L'i. recente è, almeno a livello delle masse, soggetto a un lento processo di trasformazione, per nulla paragonabile alla profonda evoluzione storica e sociale che sta subendo il mondo indiano. Antiche credenze, remote pratiche rituali, superstizioni e culti ancestrali di divinità locali (devatā) ricche di straordinarie facoltà peculiari e ambivalenti nel loro intervento, non hanno perso il loro significato primitivo. Pellegrinaggi grandiosi e suggestivi, commosse celebrazioni legate alla vita di grandi Maestri spirituali, pittoresche festività per ricorrenze cicliche (soprattutto quella fastosa della Durgāpūjā, che si connota di tanti colori e tradizioni locali) mantengono inconfondibili i segni di questa eredità culturale. La maggior parte degli indù non si riconosce in alcuna delle tante sètte che costellano l'i. moderno, ma sono spesso queste correnti e questi ''indirizzi'' particolari che hanno dato un contributo rimarchevole alla sopravvivenza delle istanze più remote e della più genuina tradizione mistica. L'i. continua a essere più un'ortoprassi che un'ortodossia, e gli insegnamenti del passato trovano la via ideale per la loro continuità nel perpetuarsi di antichi riti (dalla triplice sandhyā alla pūjā allo homa) e di abitudini quotidiane. Il contrasto comunque è innegabile e la ricerca di un equilibrio reale tra nuovo e antico è difficile, perché è difficile superare lo sfasamento temporale che separa la cultura indiana, autoctona, da quella occidentale, importata, così ''diversamente'' ricche di valori e così contrastanti per differenze essenziali negli schemi interpretativi dell'esperienza, nelle impostazioni di metodo, nelle tipologie semantiche, da precludere ogni speranza di confronti significativi tra di esse se non in aree ristrette o all'interno di grandiose sintesi creative. Il formarsi di sintesi siffatte è appunto il fenomeno che, nel processo di acculturazione, costituisce il fatto di maggior rilievo. In questo sforzo di ricerca di una connotazione unitaria ed equilibratrice i casi più significativi per la grande eco che hanno suscitato sono quelli del Mahatma Gandhi (v. XVI, p. 364; App. II, i, p. 1018), di Aurobindo Ghosh (v. in questa Appendice), di Jiḍḍu Kṛṣṇamūrti (v. in questa Appendice).
La riscoperta creativa della tradizione ha portato Gandhi a porre in risalto con formidabile coerenza d'impegno etico-politico gli antichi valori della non-violenza (ahiṃsa) e dell'esaltazione della verità, strappandoli al mondo quieto ma esclusivista degli asceti, per forgiare con essi l'anima nuova della nazione indiana, offrendo quale punto di convergenza di questa riformulazione una serie di ideali extraindiani, da quelli evangelici a quelli tolstoiani.
La riscoperta della cultura antica si delinea ancora più netta nel caso del filosofo e mistico Aurobindo Ghosh, sostenitore di un i. ecumenico deputato a realizzare la sintesi tra i valori spirituali e religiosi della cultura indiana e i principi più validi e vitali del mondo occidentale.
Tra i più rappresentativi esponenti dell'i. moderno e contemporaneo, per il personalissimo messaggio di cui è stato portatore, va infine ricordato Jiḍḍu Kṛṣṇamūrti, il grande filosofo e teosofo di Madras che non esitò a ripudiare sia i principi sia le strutture della scuola teosofica di Adyar, pur di restare libero da qualsiasi condizionamento spirituale e materiale. Con il suo messaggio Kṛṣṇamūrti propugnò un'intima e determinante ricerca della verità. Verità che si può attingere nella sua pienezza soltanto a prezzo di una disciplina costante e di un impegno sincero per eliminare quanto vi è d'irreale e di non essenziale nella coscienza dell'uomo: il rimedio al dolore, che nasce dall'egoismo, dall'avidità, dalla corruzione, dall'ipocrisia, l'individuo lo può trovare solo in se stesso. A parte l'impronta lasciata da queste e da alcune altre personalità di statura straordinaria, che furono amate e venerate da seguaci d'ogni parte del mondo, l'i. contemporaneo continua a portare il segno degli insegnamenti e delle tendenze di nuovi movimenti religiosi, spesso in auge trionfante e spesso tormentati da crisi interne e talvolta irreversibili.
Tra i movimenti più vivaci e più recenti − anche se in parte si rifà alla corrente kṛṣṇaita di Caitanya (15°-16° secolo) − è quello degli Hare Kṛṣṇa, che rappresenta la realtà di una rinnovata ''coscienza di Kṛṣṇa'', così come l'aveva propugnata il bengalese Svāmi Bhaktisiddhanta (m. 1936) con la speranza di diffonderla successivamente in Europa e nell'America Settentrionale. La realizzazione effettiva di questo progetto la si deve ad Abhaya Charana De (1896-1977) che i discepoli chiamarono Bhaktivedanta Svāmi Prabhupāda. Bhaktivedanta pronunciò i voti monastici nel 1956, continuando un'intensa attività editoriale mirata a guadagnare sempre più numerosi e più preparati discepoli al culto di Kṛṣṇa. Trasferitosi a New York nel 1966, ebbe la buona sorte di guadagnarsi le simpatie degli hippies e poté fondare, in quello stesso anno, la Società internazionale per la coscienza di Kṛṣṇa. Il movimento ottenne un grande successo e nel 1968 Bhaktivedanta poté far costruire in Virginia una sede (New Vrindabana) per accogliervi un gran numero di devoti. La predicazione degli Hare Kṛṣṇa fu gradualmente estesa a tutti gli Stati Uniti e poi all'Europa dove ha suscitato per un certo periodo un notevole interesse. Attualmente alcuni contrasti interni e qualche problema finanziario sembrano intaccare la precedente stabilità del movimento.
Il principio informatore della corrente di Meditazione Trascendentale, invece, si può dire sorto da un fatto del tutto casuale. Fu infatti l'incontro fortuito tra Svāmi Brahmānanda Sarasvati (1868-1953), Śaṅkarācārya del Jyoti Matha di Badarīnātha, e un giovane studente di fisica di Allahabad, di nome Mahesh Prasad Varma (n. 1911, o 1918), a suscitare in quest'ultimo tale entusiasmo per la dottrina del Maestro che decise di farsi monaco nel monastero di Jyotir Matha. Quando Brahmānanda (soprannominato Guru Dev) morì, Mahesh si ritirò per qualche tempo nelle selve, poi andò in pellegrinaggio nel Sud dell'India, dove ricevette il soprannome di Maharishi a testimonianza di ammirazione per la profondità del suo sapere. Dal 1957 Mahesh cominciò a tenere conferenze pubbliche in India e nei paesi del SudEst asiatico, finché raggiunse gli Stati Uniti dove, superate le difficoltà iniziali, incontrò successo crescente, tanto che dai primi mille seguaci raccolti nel 1966 passò, tre anni dopo, a 24.000 e nel 1979 toccò il milione di adepti. La pratica che Maharishi propose e la scuola alla quale egli ha dato vita hanno assunto il nome di Meditazione Trascendentale; il suo pensiero, che è la base di un movimento di ''rigenerazione spirituale'', si fonda su una lettura semplificata del Veda condotta alla luce della dottrina filosofica sankariana.
Tra i movimenti che contano oggi maggiore seguito in ogni parte del mondo è quello capeggiato da Satyanārāyaṇa Raju, un asceta di Puttaparthi (n. 1926) che nel 1940 si proclamò incarnazione di Sai Bābā, il venerato asceta di Sirdi, assumendo il nome di Satya Sai Bābā. I tratti salienti della sua personalità, quelli che lo qualificano a pieno titolo come avatāra ("incarnazione"), sono i poteri prodigiosi che più colpiscono l'immaginazione dei fedeli: l'ubiquità, l'onniscienza, i decantati poteri terapeutici, fino ai veri e propri miracoli. Il principio su cui si fonda questo movimento è legato innegabilmente al culto della personalità. Il valore soteriologico ne è il punto di partenza: il guru è il salvatore, il guru è incarnazione del ''divino'', è Dio stesso, la felicità del devoto sta nel suo totale abbandono in lui. La presa esercitata da principi tanto semplici e avvincenti è evidente: oggi, in India e in altri quaranta paesi, i fedeli si contano a milioni.
Nel quadro della nuova religiosità che, per diverse vie, ha arricchito il mondo della spiritualità con contributi di eccezionale rilevanza, costituiscono un capitolo a sé stante alcuni movimenti che, per molteplici motivi, per la superficialità e la strumentalità dei loro intenti, per la povertà dei loro contenuti, per le vicende grottesche che ne hanno affrettato il declino, vanno ricordati semplicemente a titolo di cronaca. Rientra fra questi il movimento capeggiato dal "guru-bambino" (bala-guru) che all'età di otto anni, in occasione dei funerali di Śrī Mahārāj Jī, si proclamò pubblicamente ''maestà vivente'', assunse il nome di Mahārāj Jī e s'impose come guida suprema di quella scuola Radhasoami (detta Sant Math, "Via dei Santi") che, concepita come sintesi fra i. e Sikhismo e impostata su particolari tecniche di meditazione, era stata fondata nel 1861 da Soamiji Mahārāj (1818-1878) e aveva portato con Śrī Hans Mahārāj alla fondazione (1960) della Divine Light Mission. Questa scuola imponeva l'assoluta devozione del devoto al Guru e una singolare tecnica di pensiero che favoriva il ''Viaggio dell'anima'' ponendola in sintonia con i flussi sonori emanati dalle ''sfere superiori''. Le tappe del successo di Mahārāj Jī furono rapidissime e realizzate tutte in America dove il movimento raccolse migliaia di fedeli, e accumulò beni cospicui. Ma il declino completo fu altrettanto rapido e rovinoso. Sposatosi a diciassette anni con la sua segretaria, americana, e trasferitosi nella sontuosa residenza di Malibu, Mahārāj Jī venne sconfessato dalla propria madre, Mata Jī, che lo dichiarò decaduto dalla sua missione nell'ambito della Divine Light Mission. L'ultimo atto, quello delle vicende giudiziarie che ne seguirono, segnò la fine della Divine Light, che è stata infatti sciolta dallo stesso Mahārāj nel 1983.
Uno dei più discussi maestri dei movimenti religiosi contemporanei è senza dubbio Rajneesh Candra Mahan. Nato a Kuchwada nel 1931 in una famiglia di fede giaina, Rajneesh sosteneva di aver avuto la sua prima esperienza estatica all'età di 14 anni e di aver conseguito l'illuminazione a 21. Docente di Filosofia all'università di Jabalpur, si ritirò dalla vita accademica nel 1966 per dedicarsi alla predicazione della ''meditazione dinamica'', un singolare coacervo di principi giaina e induisti e di psicoterapia occidentale. Nel 1974, già noto al mondo occidentale con il titolo di ''Beato'' (Bhagavan), fondò a Poona la Rajneesh Foundation. Nel 1981 si trasferì negli Stati Uniti e fondò nei pressi di Antelope (Oregon) la ''città di Rajneesh'' (Rajneeshpuram) destinata a ospitare le riunioni dei seguaci. Ribaltando un principio etico che da sempre gli asceti indù accettano come fondamentale e sacro, Rajneesh sosteneva − per una scelta d'ispirazione tantrica − che il neo-sannyāsin non deve rinunciare alla vita, deve anzi immergersi totalmente in essa per dimostrare nei suoi confronti la propria superiorità e per dominarla; predicava anche la più ampia libertà sessuale e favorì in ogni modo l'affermarsi di un culto della personalità, essenziale per la resa totale del discepolo al volere del Maestro con la cui essenza anelava a fondersi. Questi e altri eccessi, un'affrettata e grottesca esibizione di ricchezze, una pessima amministrazione dei beni, alcune penose disavventure personali fecero sì che l'ingente patrimonio accumulato da Rajneesh andasse presto dissolto. Rajneesh venne arrestato e dovette lasciare gli Stati Uniti. Soltanto una sentenza dell'Alta Corte di giustizia di Bombay gli consentì (1986) di rientrare in India e di stabilirsi a Poona, dove morì nel 1990.
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