INDOEUROPEI
. L'espressione "popoli indoeuropei" deve essere intesa come un'abbreviazione di "popoli che parlano lingue indoeuropee", poiché, mentre la derivazione di queste lingue da un unico ceppo è un fatto scientificamente dimostrato, l'unità originaria dei rispettivi popoli non si può, in genere, affermare e in molti casi si deve negare. In altre parole, esiste un tipo linguistico indoeuropeo, ma una stirpe o razza indoeuropea non esiste.
Come equivalenti di indoeuropeo ricorrono nella letteratura scientifica altre denominazioni tra cui le più usate sono: indogermanico, ariano e arioeuropeo. "Indoeuropeo", il termine preferito in Italia e in Francia, apparve nel 1813 in uno scritto del medico e fisico inglese Thomas Young. Tra i linguisti il primo ad accoglierlo fu, a quanto pare, F. Bopp. "Indogermanico" si usa generalmente in Germania e in Olanda, spesso anche altrove. Documentato per la prima volta in due opere di J. v. Klaproth uscite con la stessa data (Asia polyglotta e Voyage au Mont Caucase et en Géorgie, Parigi 1823), deve ritenersi come un'abbreviazione del polinomio "indiano-latino-persiano-germanico" adoperato già da A. W. Schlegel (1819). Chi lo adotta suole giustificarsi rilevando che esso definisce con gli estremi geografici (l'India e la germanica Islanda) l'area occupata nel vecchio mondo dall'intera famiglia. "Ariano" è specialmente usato dagli studiosi inglesi (che però si valgono anche di "Indo-European", riferendo più spesso questo termine alle lingue, quello ai popoli). "Arioeuropeo", di cui talvolta si servì G. I. Ascoli, oggi si usa in Italia da alcuni linguisti e geografi. Tutte queste denominazioni sono convenzionali, naturalmente, e tutte più o meno criticabili. Forse la più criticabile è proprio quella di "Indoeuropei", perché mette sullo stesso piano due aggettivi di ben diversa comprensione (etnico e ristretto l'uno, geografico ed esteso l'altro) e perché si presta a essere erroneamente intesa nel senso che in Europa tutte le lingue rientrino in questa famiglia e in Asia soltanto l'indiana. Il difetto viene attenuato in "arioeuropeo", dove "ario" va inteso nel senso rigorosamente storico di "indiano e iranico". Chi prende "ario" o "ariano" nel senso di "indoeuropeo" estende al tutto il nome di una delle sue parti, estensione lecita finché se ne usi in maniera da non dare occasione a malintesi.
La famiglia linguistica indoeuropea appare divisa in molti rami, dei quali alcuni sono rappresentati da una sola lingua, mentre altri - e sono i più - comprendono un numero più o men grande di lingue. I rami più importanti sono dodici: Indiano, Iranico, Tocario, Armeno, Albanese, Greco, Italico, Celtico, Germanico, Baltico, Slavo, Hittito. Il terzo e l'ultimo sono rappresentati da lingue estinte e fino a poco fa sepolte nell'oblio. Gli altri dieci comprendono, oltre a lingue non più parlate, numerosissime favelle che attualmente si parlano in complesso da oltre novecento milioni d'uomini viventi non solo in Europa e in Asia, dove lingue di questa famiglia erano già largamente diffuse all'alba dei tempi storici, ma anche nel nuovo mondo, ove esse furono importate nell'età moderna. La documentazione comincia per le varie lingue a epoche molto diverse. Dati cronologici per ciascuna lingua si troveranno alle rispettive voci. Qui basti ricordare che i più antichi documenti indoeuropei di data approssimativamente sicura spettano alla lingua hittita e risalgono a un'epoca non molto lontana dall'anno 2000 a. C., mentre delle lingue baltiche e dell'albanese le prime attestazioni datano appena dal sec. XIV d. C. e i primi monumenti letterarî dal sec. XVI. Di altre lingue, che in parte rientrano nell'uno o nell'altro dei gruppi suddetti e in parte rappresentano rami ormai estinti della famiglia indoeuropea, si hanno attestazioni scarse e di alcune addirittura esigue. La lingua dei Luvî, i cui resti furono scoperti insieme con i documenti della lingua hittita, era verosimilmente affine a questa. Col hittito e col luvio, forse più strettamente con questo che con quello, si collegava secondo studî recentissimi di B. Hrozný (Archiv Orientální, IV, 1932, p. 373), la lingua delle iscrizioni geroglifiche attribuite per lungo tempo agli stessi Hittiti. Il materiale prevalentemente onomastico che la tradizione attribuisce agli Sciti e ai Sarmati ha carattere decisamente iranico. Il frigio, che in Asia Minore si parlava ancora in età relativamente tarda, era indoeuropeo senza dubbio, come risulta dal materiale epigrafico, il quale tuttavia è così frammentario che non vale a confermare né a infirmare la notizia trasmessaci da Erodoto (VII, 73) che fa derivare dai Frigi gli Armeni. Se i più antichi Macedoni parlassero un dialetto greco o possedessero una lingua propria e distinta, è una questione molto discussa e non risolta né risolubile, forse, allo stato delle nostre conoscenze. Altre due lingue indoeuropee ci sono attestate, quasi soltanto dall'onomastica, per la regione balcanica nell'antichità: a occidente l'illirico, a oriente il tracio, di cui ora possediamo anche una breve iscrizione. Al ceppo illirico si rannodavano la lingua dei Veneti e quella dei Messapî, entrambe documentate da non poche iscrizioni. L'appartenenza del ligure alla famiglia indoeuropea, ammessa da qualche studioso, è per lo meno assai dubbia.
La scoperta dell'unità linguistica indoeuropea è una conquista moderna. Alcune concordanze del sanscrito con lingue europee erano state notate nel sec. XVI da Filippo Sassetti, mercante fiorentino che viaggiò e morì nell'India, e nel secolo seguente da qualche missionario, ma ricerche metodiche in questo campo si iniziarono soltanto nel sec. XVIII. Negli anni 1768-75 giunsero da Pondichéry all'Académie des inscriptions di Parigi alcuni scritti del P. Cœurdoux, nei quali le somiglianze del sanscrito col latino e col greco erano acutamente esaminate e si spiegavano postulando la comune origine delle tre lingue. Le carte del gesuita francese, rimaste inedite per quarant'anni, non poterono influire sugli studiosi d' altri paesi che in quello scorcio di secolo s'interessavano ai medesimi problemi; se il Bopp, il quale fu a Parigi poco dopo la loro pubblicazione, ne abbia avuto conoscenza, ę una questione che fu sollevata alcuni anni fa e difficilmente si potrމ risolvere. Nel 1786 William Jones, giudice inglese nell'India e studioso della letteratura sanscrita, in una conferenza tenuta a Calcutta dichiarava che sanscrito, greco e latino rivelano affinitމ cosị strette che non ę possibile spiegarle senza ammettere la derivazione delle tre lingue da una fonte comune, e aggiungeva che ragioni analoghe, se non cosị impellenti, inducono a pensare che anche il gotico e il celtico abbiano la stessa origine. Poco appresso un monaco tedesco, Paolino da S. Bartolomeo, scriveva De antiquitate et affinitate linguae Zendicae, Samscrdamicae et Germanicae (Padova 1798) e De Latini sermonis origine et cum orientalibus linguis connexione (Roma 1802). E di lì a poco F. Schlegel in un libro famoso, Über die Sprache und Weisheit der Indier (Heidelberg 1808) riaffermava la stretta parentela del sanscrito con le lingue classiche, col tedesco e col persiano, ma errava nel considerare l'indiana come quella lingua da cui le altre sarebbero derivate. Chi per primo indagò con rigore di metodo le relazioni tra le lingue europee fu R. K. Rask, il quale, facendo astrazione dal sanscrito, giunse a stabilire la parentela fra germanico, slavo, lituano, greco e latino. Però il suo libro (Undersögelse om det gamle Nordiske eller Islandske Sprogs Oprindelse), scritto nel 1814 e pubblicato a Copenaghen nel 1818, fu conosciuto fuori di Danimarca solo quando fu parzialmente ripubblicato in tedesco in appendice alle Vergleichungstafeln di S. Vater (Halle 1822). Frattanto era uscito il libro di F. Bopp, Über das Conjugationssystem der Sanskritsprache in Vergleichung mit jenem der griech., latein., persischen u. german. Sprache (Francoforte 1816), in cui la parentela di cinque tra le più importanti lingue indoeuropee veniva per la prima volta discussa, e ampiamente e definitivamente dimostrata. Nel vol. I dell'opera massima del Bopp (Vergleichende Grammatik, Berlino 1833) anche il lituano appare tra le lingue messe a confronto, e nel vol. II (1835) anche lo slavo. Le lingue celtiche furono riconosciute come parenti del sanscrito dallo stesso Bopp in altra sede. L'armeno appare nel lungo titolo della Vergleichende Grammatik a cominciare dalla 2ª. ed. (1857-61), ma come lingua distinta dalle iraniche, con le quali veniva confuso, fu riconosciuto soltanto più tardi da H. Hübschmann. Più tardi ancora fu dimostrata da Gustav Meyer la posizione indipendente dell'albanese entro la famiglia indoeuropea. Il tocario, i cui documenti cominciarono a essere noti verso la fine del secolo XIX, si rivelò come lingua indoeuropea, e nettamente distinta da ogni altra fino allora nota, soltanto nei primi anni del sec. XX, per merito specialmente di E. Leumann. Il deciframento dei testi hittiti scoperti da H. Winckler negli anni 1906-07 e il riconoscimento del hittito come lingua indoeuropea, per quanto fortemente mescolata di elementi alloglotti, per opera del Hrozný, datano soltanto dal 1915, e dovettero passare ancora alcuni anni prima che la maggioranza degli studiosi convenisse nell'accogliere sostanzialmente le conclusioni dell'orientalista cèco.
Non è un caso che il Bopp abbia inaugurato la grammatica comparata indoeuropea con un'analisi della coniugazione del verbo, poiché nel verbo meglio che in altre categorie grammaticali si manifesta il sostanziale accordo fra le varie lingue. Consideriamo il presente indicativo attivo dei verbi cosiddetti "tematici" in sanscrito, greco, latino, gotico e paleoslavo, e il corrispondente imperfetto sanscrito e greco (che nelle altre lingue europee non ha riscontro). Prendiamo un verbo che si ritrova nella maggior parte delle lingue indoeuropee; dal latino però scegliamo un altro esempio per evitare certe peculiarità di quel verbo in alcune forme.
La somiglianza generale salta all'occhio. Per valutare il preciso rapporto fra le singole forme nelle diverse lingue è necessario conoscere le cosiddette leggi fonetiche, ossia quelle formule che indicano le corrispondenze dei suoni tra lingua e lingua nonché le eventuali alterazioni dei singoli suoni in ciascuna lingua. Così soltanto quando si sappia che il sanscrito confonde nell'unico suono espresso dal simbolo a le tre vocali originarie e, o, a (che il greco mantiene distinte) e che in fine di parola non tollera più d'una consonante e che d'altra parte in greco le originarie medie aspirate (bh, dh, gh) diventano tenui (ph, th, kh) e la m finale si modifica in n e la finale t sparisce, si può riconoscere la perfetta identità di ἔϕερον, ἔϕερες, ἔϕερε, 3ª pl. ἔϕερον con abharam, abharas, abharat, abharan (da *abharant). Talora la fonetica rivela contrasti tra forme che a prima vista non mostrano divergenze più gravi di quelle apparenti in altre forme che essa dichiara conciliabili (essa dimostra, p. es., che ϕέρεις, ϕέρει non sono riducibili al tipo rappresentato da bharasi baíris bereši, bharati baíripberetû).
Del resto anche la declinazione del nome offre esempî di concordanze che - con le stesse riserve fatte per il verbo - si possono dire perspicue. Valga come esempio il paradigma, alquanto semplificato, d'un tema nominale consonantico in tre lingue:
Dal vocabolario - eliminati i casi nei quali la somiglianza tra parole di lingue diverse dipende da prestito - ricaviamo esempî abbondanti di concordanze che attestano esistito un patrimonio lessicale indoeuropeo di cui ciascuna lingua conserva una parte. Però la concordanza non sempre si estende a tutta la struttura del vocabolo; molto spesso la connessione tra parole appartenenti a lingue diverse si rivela soltanto nella radice.
Ecco alcuni gruppi di vocaboli tra i quali il nesso parentale è chiarissimo: Gr. ἀγρός, ind. ajras, lat. ager, got. akrs. Gr. ζυγόν, ind. yugam, lat. iugum, got. juk, slavo igo. Gr. γένος, ind. janas, lat. genus, got. kuni. Gr. πατήρ, ind. pitā (tema pitar-), lat. pater, got. fadar. Dorico μêτηρ, ind. mātā (tema mātar-), lat. māter, ant. irl. māthir, ant. ted. muoter, sl. mati (gen. matere). Dor. πώς, ind. pāt, lat. pēs, got. jotus. Gr. νέος, ind. navas, lat. novus, sl. novŭ. Gr. δέκα, ind. daśa, arm. tasn, lat. decem, got. taíhun, lit. dẽšimt, sl. desétĭ. Gr. ἐστί, ind. asti, lat. est, got. ist, ant. lit. ẽsti. Gr. δίδωμι, ind. dadāmi, lit. dúoti. Gr. δῶρον, arm. tur, sl. darŭ. Ind. dānam, lat. dōnum. Gr. οἶδα, ind. veda, lat. vīdī, got. wait, sl. vědě. In molti casi (γένος, janas, genus; οἶδα, veda, wait, ecc.) l'equazione è perfetta. Talora un vocabolo assume forme diverse nelle diverse lingue (così πώς e pēs concordano nella declinazione ma presentano gradi vocalici differenti: v. apofonia; fotus, che estende a tutto il paradigma il grado ō, segue una declinazione diversa da πώς, pāt, pēs). In δίδωμι dadāmi la differenza è nel raddoppiamento (v.), mentre le coppie δῶρον darŭ, dānam dōnum variano nel suffisso che si unisce alla comune radice.
La ricostruzione dell'indoeuropeo. - Il concetto d'una lingua madre comune al sanscrito e alle lingue classiche, già espresso da W. Jones, era implicito nella comparazione istituita dal Bopp tra lingue ormai dimostrate sorelle; ma il primo a tentare la ricostruzione della madre lingua indoeuropea fu A. Schleicher. Dopo lo Schleicher tutti i comparatisti hanno cercato e cercano di risalire dalle forme storicamente attestate all'archetipo indoeuropeo. Naturalmente la ricostruzione riflette le idee dominanti in epoche e scuole diverse. Così, mentre lo Schleicher dall'equazione ἀγρος ajras ager akrs risaliva a un *agras, noi postuliamo un *aøros; e mentre nelle forme verbali sanscrite bharāmi, bharasi, bharati egli credeva di scorgere le forme primitive rimaste inalterate, noi impostiamo un paradigma indoeur. *bherō, *bheresi, *bhereti. È lecito chiedersi se la ricostruzione sia veramente possibile nonché utile ai fini della scienza. È ovvio che essa, nella migliore delle ipotesi, può essere soltanto approssimativa. Ma, ammesso pure che sia rigorosamente esatta, non ne viene che tutte le forme ricostruite spettino a una medesima età e che il loro complesso renda un'immagine fedele della lingua parlata in un dato momento storico. J. Schmidt giustamente notava che una frase indoeuropea da noi costruita risica di somigliare a un versetto della Bibbia in cui stessero pacificamente allineate parole di Ulfila, del traduttore medievale di Taziano, e di Lutero (Die Verwandtschaftsverhältnisse d. indog. Zprachen, Weimar 1872, p. 30). Bisogna aggiungere che persino due sillabe, anzi due lettere d'una stessa parola da noi ricostruita possono riflettere momenti diversi dell'evoluzione linguistica. Tuttavia, come osserva H. Hirt (Indogerm. Grammatik, I, Heidelberg 1927, p. 103), questo non è un gran male, dal momento che la ricostruzione ha soltanto lo scopo di aiutarci a spiegare le forme storicamente documentate. Però tra i linguisti viventi A. Meillet dimostra a proposito della ricostruzione della madre lingua un grande riserbo. La sola realtà - egli dice - di cui dispone la grammatica comparata delle lingue indoeuropee consiste nelle corrispondenze tra le lingue attestate. Le corrispondenze suppongono una realtà comune, ma questa ci sfugge. Non si può restituire per mezzo della comparazione una lingua scomparsa. Per essere concisi possiamo valerci d'un simbolo a definire una data corrispondenza. Così dalle equazioni (1) ind. adhāt, arm. ed, greco ἔϑηκε, got. gadēps, e (2) ind. bharāmi, arm. berem, gr. ϕέρω, got. baíra restano provate le corrispondenze fonetiche (1) ind. dh = arm. d = gr. th = germ. d e (2) ind. bh - arm. b = gr. bh = germ. b. Si può convenire d'esprimerle per mezzo dei simboli dh e bh "poiché senza dubbio si tratta di occlusive sonore, dentale l'una, labiale l'altra, seguite o accompagnate da un'articolazione glottale; ma le corrispondenze sono i soli fatti positivi, e le "restituzioni" non sono che i segni coi quali si esprimono le corrispondenze" (Introduction, ecc., 4ª ed., Parigi 1915, p. 24 segg.). Forse la prudenza del Meillet è eccessiva. Tutto considerato, possiamo concludere con B. Delbrück che la ricostruzione è utile sotto due rispetti: anzitutto perché le forme ricostruite sono formule comode e intuitive con le quali si enuncia quello che altrimenti non si potrebbe esprimere senza un lungo giro di parole; e poi anche perché l'impostazione d'una formula precisa costringe lo studioso a chiedersi ogni volta se la data forma sia da considerare come originaria o come nuovamente foggiata e a non quietarsi prima d'avere superato tutte le difficoltà fonetiche o d'altra natura (Einleitung in das Studium der indogerm. Sprachen, 6ª ed., Lipsia 1919, p. 161).
Relazioni fra le lingue indoeuropee. - Riconosciuta l'esistenza e la consistenza della famiglia indoeuropea, si presentò la questione se fra due o più lingue o gruppi linguistici in essa compresi sussistano legami più stretti; in altre parole, se tra l'originaria comunità linguistica indoeuropea e gl'individui linguistici dei tempi storici si debbano pensare esistite unità intermedie. Lo stretto legame tra indiano e iranico apparve chiaramente non appena si poterono confrontare le più antiche forme dei due linguaggi, sicché indiano e iranico si possono ben considerare come dialetti d'una medesima lingua. V'è discrepanza d'opinioni nell'interpretare storicamente le concordanze tra slavo e baltico (v. baltiche, lingue, e ultimamente V. Pisani, in Studi baltici, II, 1932); che tali concordanze sussistano, non si può impugnare. L'unità italo-celtica, generalmente ammessa dai glottologi, benché non intesa da tutti allo stesso modo, è stata recentemente contestata da G. Devoto (Silloge linguistica Ascoli, Torino 1929) e da C. Marstrander (Norsk Tidsskrift f. Sprogvidenskab, III, 1929). Il concetto d'una particolare affinità greco-italica è ormai definitivamente superato. Tra due o più gruppi indoeuropei è sempre possibile scoprire alcune somiglianze a cui non partecipano gli altri gruppi; ma tali somiglianze non autorizzano ad affermare l'esistenza di parziali comunità linguistiche entro la grande famiglia. Giustamente G. Bonfante, che di recente riesaminò a fondo la questione (I dialetti indoeuropei, Napoli 1931), concludeva che le varie lingue "pur presentando molti gradi di trapasso, sono unità ben distinte, consacrate dalla storia oltre che dalla linguistica" e che fra loro hanno "rapporti un poco più e un poco meno stretti; ma non possono essere mai ridotte a sotto-unità di gruppi più vasti". Le concordanze limitate ad alcuni gruppi si sogliono considerare come riflessi di variazioni dialettali che senza dubbio esistevano nel primitivo indoeuropeo, come in ogni lingua antica e moderna. Però le aree su cui si stendono le varie concordanze non sono coincidenti, sicché noi possiamo tracciare i limiti di alcuni "fatti dialettali", ma non siamo in grado di delimitare e definire i "dialetti indoeuropei".
Tra le presunte caratteristiche dialettali dell'indoeuropeo le più importanti riguardano il trattamento dei suoni palatali (ê, ø) e labiovelari (qu, gu). Queste due serie sono rappresentate in alcune lingue (greco, italico, celtico, germanico) da k, g risp. qu, gu (o da suoni che si dimostrano derivati da questi), in altre (indo-iranico, baltico, slavo, albanese) da š, ž risp. k, g (o da suoni svoltisi da questi). Da tale contrasto si volle inferire la divisione dell'indoeuropeo in due grandi zone dialettali, di cui l'una si stendeva a oriente, l'altra a occidente. E poiché il numerale 100 è una delle parole in cui si rivela il contrasto (gr. ἑ-κατόν, lat. centum, ant. irl. cēt, germ. hund, contro ant. ind. śatam, avest. satəm, lit. šim???tas) si dissero "lingue centum" quelle uscite dalla zona occidentale, lingue satam" le altre. Ma le scoperte del tocario, che all'estremità orientale del mondo indoeuropeo mostra i caratteri del tipo centum (toc. dial. A: känt, 100) e del hittito, che pur non avendo del resto alcunché d'occidentale presenta forme come kuiš, kuit (lat. quis, quid), scossero le fondamenta geografiche della teoria e confermarono il concetto, suggerito da altre considerazioni, che lo stato fonetico espresso dalla formula centum era lo stato primitivo indoeuropeo e che perciò le "lingue centum" hanno di comune soltanto il fatto negativo d'essere sfuggite alle alterazioni che caratterizzano le "lingue satəm". Insomma, la distinzione Ira "lingue centum" e "lingue satəm" non ha il valore che per molto tempo le fu attribuito.
Il problema delle relazioni tra i gruppi indoeuropei è strettamente connesso col problema della loro origine e formazione. A. Schleicher, che poco dopo la metà del secolo scorso diede per primo una classificazione delle lingue indoeuropee, pensò che il loro svolgimento dalla lingua madre avvenisse per successive scissioni o filiazioni. La dottrina da lui esposta più volte con lievi modificazioni, può essere espressa nella forma definitiva per mezzo dell'annesso diagramma, il quale significa che nella lingua madre, secondo lo Schleicher, anzitutto si delinearono due varietà - una settentrionale o nordeuropea, e una meridionale o asiatico-sudeuropea - e che poi dall'una e dall'altra, per ulteriori suddivisioni, derivarono le lingue che troviamo in età storica. Alcuni glottologi (specialmente A. Fick), concordi con lo Schleicher nel rappresentarsi il processo differenziativo sotto la forma di albero genealogico, mettevano però all'inizio del processo la divisione del ceppo originario in un ramo europeo e in un ramo asiatico, basandosi su certi caratteri che secondo la dottrina allora corrente apparivano come novità acquisite dalle lingue europee in contrasto con le sorelle asiatiche. Nel 1872 un eminente discepolo dello Schleicher, J. Schmidt, nell'opera sopra citata, contrapponeva alla Stammbaumtheorie del maestro una nuova dottrina (Wellentheorie "teoria delle onde") con la quale cercava di spiegare il fatto che ogni lingua indoeuropea ha qualche tratto che la collega ad altre sì che tutte insieme ci appaiono come anelli d'una catena chiusa. Secondo lo Schmidt le innovazioni sorte in alcuni punti del primitivo dominio linguistico indoeuropeo si propagavano in tutte le direzioni come onde attorno a un centro. Se indichiamo con altrettanti circoli i limiti dei singoli fenomeni - che cei. tamente non coincidevano -, ognuno dei segmenti prodotti dalla loro intersezione definisce un territorio linguistico (ossia un dialetto) che ha in comune con i territorî (dialetti) limitrofi uno o più caratteri. Allora è chiaro che non esistono confini dialettali netti, poiché da un dialetto si passa gradatamente a un altro; se in età storica appaiono differenze notevoli tra le varie lingue indoeuropee, ciò si deve alla scomparsa di dialetti intermedî. La dottrina dello Schmidt risponde alla realtà nel caso d'una lingua che si propaga per espansione sopra un territorio continuo: la storia di molte lingue lo conferma. Ma la storia insegna pure che altre lingue si formarono in conseguenza del fatto che un gruppo umano si staccò dal nucleo etnico di cui faceva parte e migrando perdette il contatto con esso e con altri gruppi da esso staccatisi. Entrambi i processi dunque possono creare nuovi individui linguistici; in qual modo e misura ciascuno abbia contribuito alla formazione delle lingue indoeuropee, sfugge alla nostra indagine. D'altra parte v'è il fattore cronologico, su cui molto opportunamente il Meillet ha richiamato la nostra attenzione (nella 2ª ed. di Esquisse d'une histoire de la langue latine, Parigi 1931). È un concetto fecondo sul quale si deve insistere. Dobbiamo assuefarci all'idea che due lingue indoeuropee possono rappresentare lo sviluppo non tanto di due varietà locali della lingua madre quanto di due distinte fasi storiche di essa, forse molto distanti e perciò notevolmente differenziate l'una dall'altra. In sostanza si tratta di applicare nel campo indoeuropeo la nota dottrina del romanista G. Gröber. Si poté obiettare al Gröber che la conquista romana si svolse entro limiti di tempo relativamente ristretti, sì che il latino importato nelle varie provincie non poteva avere differenze molto grandi e che d'altra parte i rapporti intensi e mai interrotti fra metropoli e provincia dovevano rinsaldare l'unità linguistica. Al contrario l'espansione indoeuropea certamente richiese un tempo ben più lungo di quello trascorso fra la conquista della Sardegna e quella della Dacia; e nessuno crederà sia esistita una metropoli indoeuropea capace d'esercitare sulle sue lontane colonie un'azione culturale e linguistica unificatrice.
Presunte relazioni con altre lingue. - Che la famiglia indoeuropea abbia relazioni prossime o remote con altre famiglie linguistiche è un postulato per chi ammette la monogenesi del linguaggio, e per chi professa la dottrina contraria è un'ipotesi che merita discussione. L'idea di collegare geneticamente alle lingue indoeuropee le semitiche si presentò presto alla mente degli studiosi. Uno dei primi a propugnarla fu G. I. Ascoli (Del nesso ârio-semitico, Milano 1864-65, e Studi ârio-semitici, Milano 1867), di poco preceduto da R. v. Raumer (Sprachwiss. Abhandlungen, Francoforte 1863). Tra gli studî più recenti in questo campo sono specialmente importanti quelli di H. Möller (v. bibl.), che fondandosi sopra un materiale estesissimo cercò di ridurre a leggi precise le corrispondenze fonetiche tra le due famiglie. Però neanche le sottili indagini del glottologo danese hanno ottenuto il generale consenso. A. Trombetti, che ammetteva il nesso originario di tutte le lingue del mondo, era giunto alla convinzione che l'indoeuropeo è molto più affine all'ugrofinnico che al semitico (Elementi di glottologia, Bologna 1923, p. 103). Ora il concetto di un'antica parentela fra le nostre lingue e le ugrofinniche, esposto per la prima volta da N. Anderson (Studien zur Vergleichung d. ugro-finn. u. indog. Sprachen, Dorpat 1879) con argomenti che in buona parte non resistono alla critica, ha il consenso di parecchi cultori dell'uno e dell'altro campo. E invero tra le lingue di queste due famiglie si notano concordanze non soltanto di vocabolario, ma anche di grammatica, che, se non sono puramente casuali, sarebbe difficile spiegare come effetto d'imprestiti. Però anche chi ammette come certa o probabile la connessione tra le due famiglie riconosce che il loro sviluppo dal ceppo comune risale a un'età così remota che si sottrae alla nostra indagine e rende vano ogni tentativo di ricostruirne il processo. A talune delle concordanze rilevate fra indoeuropeo e ugrofinnico partecipa anche il samoiedo, che forma con l'ugrofinnico il gruppo "uralico"; perciò qualche linguista parla addirittura di parentela "uralo-indoeuropea". H. Pedersen, allargando i raffronti a tutto il vasto complesso "uralo-altaico" e mantenendo d'altra parte la connessione col semitico, giungeva a stabilire l'esistenza di una grande famiglia "nostratica", di cui però lasciava imprecisati i confini (Zeitschr. d. D. Morgenl. Ges., LVII, 1903, e Indog. Forschungen, XXII, 1908). I tentativi di collegare l'indoeuropeo con altri gruppi linguistici, oltre i suddetti, non sono stati fortunati. È noto che il Bopp cercò invano di provare la parentela delle lingue maleo-polinesiache con le nostre (Abhandlungen dell'Accademia di Berlino, 1840) e d'inserire nella famiglia indoeuropea le lingue caucasiche (ivi 1842 e 1845). Recentemente si è cercato d'istituire raffronti col sumerico (C. Autran, Sumérien et Indo-Européen, Parigi 1925) e persino con alcune lingue africane (A. Drexel e A. Gau, in Bibliotheca Africana, II, 1927).
Sedi primitive degl'Indoeuropei. - Dall'avere riconosciuto che le lingue da noi dette indoeuropee non sono che altrettante modificazioni di una forma linguistica anteriore (Ursprache) deriva la necessità di ammettere l'esistenza d'un popolo (Urvolk) possessore di quella lingua; e il popolo presuppone non meno necessariamente la regione (Urheimat) che, in epoca non precisabile, gli fu stanza e che si può quindi considerare come il luogo di formazione del tipo linguistico indoeuropeo, o almeno come il punto di partenza della sua diffusione nel mondo. Che il nucleo primitivo di quel popolo sia pervenuto in quella regione da un'altra più antica e più vera Urheimat, è un'ipotesi che s'impone alla nostra mente, ma non si può verificare, almeno con i mezzi di cui attualmente dispone la nostra scienza.
La ricerca della Urheimat indoeuropea costituisce un problema di cui si sono occupati anche archeologi e antropologi, geografi e sociologi; ma è soprattutto un problema linguistico, poiché linguistica essenzialmente è la nozione di "indoeuropeo". E i linguisti, pur non disdegnando il soccorso di altre discipline, si sono sforzati di risolverlo soprattutto con argomenti ricavati dal campo delle proprie esperienze, principalmente cercando di desumere dal ricostruito patrimonio lessicale della lingua madre il patrimonio culturale dei primitivi Indoeuropei - nonché le condizioni dell'ambiente fisico, vegetale e faunistico in cui si svolse la loro vita - e quindi ricercando entro i confini dell'Eurasia la regione che meglio risponde a quelle condizioni. Il problema ha ormai una lunga storia, che è stata più volte narrata (p. es., sobriamente e limpidamente da S. Reinach, L'origine des Aryens, Parigi 1892, e con larghezza di discussione e abbondanza di particolari da E. De Michelis, L'origine degli Indo-Europei, Torino 1903), e che si arricchisce continuamente di nuove pagine.
Si è detto che non è possibile fissare i limiti cronologici dell'età primitiva indoeuropea. Infatti le opinioni espresse dagli studiosi a tal riguardo sono assai discordanti. Ad esempio, mentre Hirt (op. cit., p. 96) colloca verso gli anni 1800-2000 a. C. le migrazioni di popoli indoeuropei di cui la storia serba il più antico ricordo, T. E. Karsten (Die Germanen, Berlino 1928, p. 51) non dubita di affermare che il processo di separazione fra le varie stirpi del nostro ceppo dovette iniziarsi almeno 4-5000 anni a. C. Entrambi però si riferiscono a dati storici, o storico-letterarî, sorpassati. Poiché verso il 2000 a. C. - forse anche prima - è documentata la presenza di elementi indoeuropei in Asia Minore, crediamo di non eccedere i limiti della verosimiglianza se facciamo risalire all'inizio del III millennio le prime migrazioni di nuclei umani propagatori di dialetti indoeuropei.
Nel campo linguistico le opinioni più diffuse attualmente circa la sede primitiva degl'Indoeuropei sono quelle di O. Schrader, H. Hirt, S. Feist e P. Giles. La dottrina elaborata dallo Schrader in varie opere, dal 1890 in poi, fu da lui stesso poco avanti la sua morte (1919) formulata press'a poco così: il teatro dei più antichi movimenti dei popoli indoeuropei, accessibili alla nostra indagine, va cercato nell'Europa orientale, lasciando però imprecisata la sua estensione così nella direzione dell'Europa centrale come in quella delle terre bagnate dal Caspio e dal lago d'Aral (Reallexikon, 2ª ed., II, p. 585). Hirt, che da oltre quaranta anni medita e scrive su questo argomento, è giunto alla conclusione che l'Urheimat si deve cercare nei bassipiani dell'Europa settentrionale dal Weser, o dal Reno, verso oriente fino ai monti Urali (Indog. Grammatik, I, p. 95). S. Feist serba fede alla dottrina della provenienza asiatica degl'Indoeuropei, professata fino alla metà del sec. XIX da quasi tutti gli studiosi; però, mentre prima egli mirava all'Asia centrale, sia pure non fissando una determinata regione (Kultur, p. 526), ultimamente dichiarava che il materiale linguistico non fornisce indicazioni sicure e che soltanto un grado maggiore di probabilità conforta l'opinione che il movimento degli Indoeuropei sia partito dall'Asia anteriore (presso Ebert, Reall. d. Vorgesch., VI, 1926, p. 58). P. Giles ritiene che le condizioni ambientali e culturali postulate dalla paleontologia linguistica si verifichino meglio che altrove nella regione danubiana ossia, press'a poco, in quello che fu il territorio della monarchia austro-ungarica (Encycl. Brit., 14a ed., XI, p. 263). Si può ricordare anche l'opinione di A. Trombetti, il quale, considerando le relazioni dell'indoeuropeo con altri gruppi linguistici, riteneva che le primitive sedi di quello non si potessero cercare a troppa distanza dalla regione del Caucaso (op. cit., p. 139); opinione che si concilia con quella a cui era pervenuto nell'ultimo periodo della sua vita A. Fick (Zeitschr. f. vergl. Sprachf., XLI, 1907).
Concludendo, i glottologi sono concordi nell'escludere dall'area della formazione e della più antica diffusione del linguaggio indoeuropeo l'India e le tre penisole balcanica, italica e iberica; probabilmente, d'accordo con lo Schrader e con il Feist, sarà da escludere anche l'Europa settentrionale e occidentale.
Quando si fece strada l'opinione che la sede originaria degl'Indoeuropei fosse l'Europa, gli archeologi, etnografi, antropologi che aderirono ad essa cercarono di specificare quale fosse la regione europea. Per primo L. Geiger ritenne che la regione d'origine fosse la Germania centrale e occidentale. L. Lindenschmidt, K. Penka, Rendall, L. Wilser lo seguirono. Th. Pösche, K. Penka, L. Wilser cercarono la sede primitiva ancora più al Nord, nella Scandinavia. Questi studiosi svolsero la teoria dell'identità dei primitivi Indoeuropei (Indogermani) con la razza nordica, cioè col tipo umano biondo, a pelle chiara, occhi azzurri, alta statura, dolicocefalico. Ma soprattutto G. Kossinna negli ultimi tempi ha insistito assai su questa veduta, indicando ancora che l'origine della razza nordica è da cercare nel tipo paleolitico di Cro-Magnon. Va qui osservato come la passione con cui partigiani e avversarî discutono questa teoria è fondata sopra un presupposto erroneo: che cioè in Germania la razza nordica rappresenti un elemento prevalente, onde detta dottrina sarebbe la giustificazione di un orgoglio nazionale, come una sorta di diploma di nobiltà. Ma in realtà la razza nordica è in Germania in assoluta minoranza. Essa in Europa è ormai rappresentata bene solo in Svezia; anche in Norvegia e in Danimarca, è in minoranza. Ma vi è di più: come hanno dimostrato le ricerche di G. Retzius e C. Fürst, nella stessa Svezia si trova allo stato relativamente puro solo in alcune provincie centrali (Dalsland, Södermanland, Häriedalen, Dalarne). Anche qui il contrasto si verifica per motivi illusorî.
H. Hirt attribuisce la sede primitiva alle bassure boscose del nord della Germania. Il geografo W. Tomaschek invece, già nel 1888, poneva la patria degl'Indoeuropei nella regione del Danubio e affermava che essi non costituirono una razza pura, ma una miscela di razze, in cui elementi dolicocefalici, brachicefalici e mesocefalici entravano in proporzioni varie da distretto a distretto nell'interno della regione danubiana. E certamente quest'ultima è una conseguenza logica del porre la patria degl'Indoeuropei nel cuore dell'Europa e in tempi relativamente recenti, come il terzo millennio a. C. Ma a questo proposito occorre ricordare che l'aspetto delle lingue indoeuropee in confronto con gli altri gruppi linguistici, con i quali mancano relazioni manifeste e ben sicure (salvo che con le lingue ugro finniche, con le quali certo è discutibile se le relazioni siano veramente assai remote, protoarie, o tardive) fanno pensare a una lunga evoluzione indipendente, in un luogo relativamente ben isolato. E. De Michelis espresse un'opinione simile a quella del Tomaschek, in quanto egli ritiene che la patria primitiva deve essere cercata in una zona avente per confini il Danubio verso sud, i Carpazî verso nord, il Dnepr verso est. Ivi, in seno a una popolazione i cui antichi elementi dolicocefalici andavano via via cedendo il posto a gruppi sempre più evoluti di brachicefali, di lontana origine asiatica, si sarebbe formato il linguaggio protoario, che nell'età del bronzo si sarebbe poi esteso oltre i primitivi confini. Secondo il De Michelis, civiltà e linguaggio ariani sarebbero sorti da una mescolanza di tipi, in cui però la parte dei brachicefali sarebbe maggiore. Il De Michelis ammette l'idea di G. Sergi che i brachicefali provenissero dall'Asia e ammette che fossero dapprima mongoleggianti e solo col tempo acquistassero i caratteri europei. Il Sergi invero ammette la prima origine asiatica degli Arî europei, ma mentre fa gli Arî asiatici di tipo eurafricano e dolicocefali, ritiene gl'Indoeuropei europei, brachicefali mongoleggianti. L'arianesimo, secondo il Sergi, sarebbe stato portato in Europa dai brachicefali mongolici affini a quelli che ora sono i Galcia, i Tagicchi dell'Asia centrale. Sennonché, né questi né i brachicefali europei, fino dai primi rappresentanti, negli ultimi stadî del Paleolitico, presentano caratteri mongolici. La scoperta di Ofnet ha posto ciò fuori di ogni dubbio. Del resto questa idea del Sergi è la persistenza d'una vecchia idea cara ai primi antropologi, che credevano la brachicefalia un esponente mongolico. Questa idea è ormai assolutamente superata (C. Ujfalvy, V. Giuffrida-Ruggeri, G. Sera, M. Reicher). I veri autori, tuttavia, dell'arianesimo sarebbero, secondo il Sergi, gli asiatici dolicocefali, dai quali i brachicefali avrebbero attinto lingua e civiltà, abbandonando la loro propria, mongolica. Il Sergi perciò non sostiene, come taluno ha creduto, che i brachicefali siano i creatori dell'arianesimo, ma solo i veicoli di esso, e attribuisce l'arianesimo al ramo dei mediterranei che si trovò nell'Asia centrale, da cui provennero Indiani e Iranici. La stirpe mediterranea sarebbe perciò la produttrice delle due più grandi civiltà, la mediterranea, nelle sue tre fasi, egizia, babilonese e minoica e l'ariana. L'opinione del Sergi, perciò, riguardo alle affinità del popolo primitivo indoeuropeo è molto diversa da quella del De Michelis, sebbene in apparenza simile. Il più noto sostenitore di un luogo d'origine nell'Europa sud-orientale è O. Schrader alla dottrina del quale si è già accennato. Il De Michelis ha fatto notare tutte le probabilità che militano in favore della dottrina dello Schrader, contro la quale però è da ricordare l'obiezione, assai grave, del Penka, il quale dice che l'uomo non poté prendere stanza nelle steppe della Russia meridionale, che allorquando si fu formata la cosiddetta "Terra nera" e cioè nella seconda metà del Neolitico, mentre la formazione della stirpe protoaria e della sua lingua e civiltà richiedono un inizio assai più remoto. Ma, negli ultimi anni, la scoperta del tocario, lingua del gruppo centum, come le indoeuropee occidentali (celtico, italico, greco, ecc.), ha dato nuovi argomenti alla teoria asiatica (ancora difesa - come si è detto - da S. Feist) in quanto solo questa può render conto della singolare distribuzione delle lingue centum. È opportuno notare come E. Meyer, il quale aveva aderito alla ipotesi europea, divenne poi più favorevole all'asiatica. Una conciliazione fra le due teorie - asiatica ed europea - sembra possibile, nel senso di ammettere un'origine asiatica al popolo indoeuropeo, in una prima fase corrispondente al gruppo centum; in questa fase avrebbe avuto luogo un'emigrazione verso l'Europa, probabilmente, per mezzo della via a oriente del Caspio. Le prime sedi europee, perciò, sarebbero state nell'Oriente, e forse in vicinanza del Baltico. Di qua il popolo si sarebbe spostato in buona parte nella zona proposta dallo Schrader, ove avrebbe avuto luogo l'evoluzione alla fase satəm; di là avrebbe avuto inizio un movimento di riflusso verso l'Asia. Il Sera crede che vi sono troppi documenti linguistici e storici, per negare del tutto questo movimento, come fanno i difensori esclusivi della tesi asiatica.
Caratteri morfologici degl'Indoeuropei. - La questione dei caratteri morfologici degl'Indoeuropei è una delle più spinose e delicate dell'antropologia. È una di quelle questioni, in cui occorre allo studioso grande critica e indipendenza di giudizio, per sperare di avvicinarsi a una soluzione provvisoriamente soddisfacente. Giacché in questo campo si sono creati dei veri miti scientifici, di origine e di finalità diverse, prodotti così dall'entusiasmo per le scoperte della linguistica indoeuropea, come dalle passioni nazionali: miti che hanno annebbiato e annebbiano la visione della realtà dei fatti. È naturale che parlando di antropologia degl'Indoeuropei non possiamo intendere altra cosa che quella del popolo primitivo che creò il linguaggio ariano e la civiltà ariana. Non possiamo perciò intendere l'antropologia dei popoli che ora parlano indoeuropeo, giacché questo significherebbe l'antropologia di tutta l'Europa e d'una parte dell'Asia. Ma taluni hanno persino negato e negano la possibilità d'una ricerca tecnica sui primitivi Indoeuropei. Così Max Müller, passando da un giovanile ottimismo a uno scetticismo radicale, disse: "Per me un etnologo che parla di razza ariana, sangue ariano, occhi e capelli ariani pecca nella stessa maniera di un linguista che parli di vocabolario dolicocefalico o di grammatica brachicefalica". Anche ammettendo che non si possa parlare di razza, ma di popolo, è ormai convinzione comune che è legittimo cercare i componenti d'un popolo di così alta importanza culturale. E del resto questa ricerca hanno tentato di fare molti degli stessi glottologi e etnografi, malgrado che essa non fosse di loro stretta pertinenza, riconoscendo che per la natura stessa delle cose, le due sfere d'indagine sono strettamente connesse, e che un aspetto della questione richiama necessariamente l'altro. È infatti indubbio che la questione del luogo d'origine del linguaggio primitivo indoeuropeo sia di competenza del glottologo, ma questo deve cercare di farsi un'idea di quali uomini fossero i Protoarî o a quale gruppo umano attuale più somigliassero, per non dire che alcuni elementi di questo giudizio sono di sua competenza. Viceversa versa l'antropologo, in questa questione particolare, deve far punto partenza proprio della determinazione più probabile del luogo d'origine del linguaggio ariano, perché questo dato può orientare in una direzione, invece che in un'altra, le ricerche di sua competenza specifica ed è perciò assolutamente necessario che egli si faccia un'idea il più possibile esatta del valore delle diverse opinioni intorno al problema delle sedi originarie.
Il metodo più scientifico di risolvere la questione sarebbe quello di accertarsi dei caratteri dei resti ossei che accompagnano le tracce archeologiche più antiche che possano essere attribuite agli Indoeuropei. A tale metodo però occorre fare un'osservazione preliminare, a parte le obiezioni d'ordine più tecnico sulla possibilità di determinazione del tipo antropologico sui resti ossei. Questo metodo cioè presuppone risolta una questione: quale è l'apporto indoeuropeo in una data cultura, trovata in terreno indoeuropeo? Questa non è cosa piccola, giacché è logico pensare che, partendo da forme più diffuse sulla superficie terrestre e in comune con altre culture, l'ergologia indoeuropea si differenziò specificatamente certo in un periodo relativamente tardo. Questo metodo perciò tende certo a ringiovanire la presenza dell'elemento indoeuropeo. Comunque, questo metodo è stato applicato da molti autori negli ultimi tempi, soprattutto dal Kossinna in Germania a sostegno della tesi dell'identità degl'Indoeuropei con la cosiddetta razza nordica; più recentemente il Kern se ne è valso allo stesso scopo. Ma con la dimostrazione che in Germania, o in altro qualsiasi territorio ristretto, si abbia un determinato tipo insieme con le più antiche tracce di cultura non si è data la dimostrazione che esso fosse il tipo primitivo indoeuropeo: giacché non è escluso che in altri territorî le più antiche tracce possano essere accompagnate da altri tipi e, nell'incertezza della regione della sede primitiva, solo una ricerca estesa a tutto il territorio degli attuali Indoeuropei potrebbe dare la sicurezza. È chiaro che una dimostrazione diretta in questo senso è molto lontana, a meno che uno scavo fortunato in una regione assicuri una tale remota antichità dell'unione di un certo tipo morfologico con oggetti archeologici indoeuropei, da troncare, con relativa probabilità, la questione almeno dell'associazione suddetta, giacché quella della sede primitiva rimarrebbe sempre meno sicuramente decisa. Ma in attesa di ricerche in cui archeologi, linguisti, antropologi collaborino in scavi estesi a più vasti territorî, soprattutto dell'Asia centrale, è lecito all'antropologo fare alcune induzioni, movendo dalle conclusioni a cui è arrivata l'indagine linguistica, che si sono più sopra riassunte, e dalle poche indagini strettamente antropologiche che sinora si hanno, veramente utili a una soluzione della questione.
I fatti di distribuzione geografica dei tipi etnici in Scandinavia, in Danimarca, in Prussia, studiati da G. Sera, escludono la primitività spaziale in queste regioni della razza nordica. Per la Scandinavia risulta dalle ricerche del Sera la provenienza orientale, dall'altra sponda del Baltico, del tipo nordico. In tutta questa zona nordica è una stratificazione brachiplaticefalica più antica e una brachiortocefalica più recente. Le deduzioni che permettono le estese ricerche dei coniugi K. e A. Schreiner sui Norvegesi confermano questa veduta. Riguardo all'identificazione del tipo antropologico dei Protoarî con la razza nordica, la questione si presenta assai più complicata di quanto non credano i sostenitori tedeschi della dottrina. Anzitutto vi è un'obiezione metodica da presentare, ed è che i caratteri discriminativi della razza nordica da altre razze dolicocefaliche, sul cranio, non sono molto evidenti, né, cosa più seria, sono stati oggetto di ricerca preventiva molto profonda, da parte dei suddetti autori. J. A. Ecker, al quale dobbiamo la prima distinzione del tipo nordico, fondò la sua distinzione più intuitivamente che analiticamente, sicché l'opinione prevalente è che il tipo nordico non sia che una varietà del cosiddetto "mediterraneo". Ciò non è esatto, come vedremo. Ma anche supposto che la diagnosi dei resti umani trovati insieme con le prime culture certamente indoeuropee sia esatta, per potere affermare perentoriamente che il tipo nordico sia il tipo dei Protoarî, bisognerebbe dimostrare che in precedenza il tipo nordico non esisteva su un territorio, ma che vi sia venuto portandovi nuova cultura o che esso sia una trasformazione di un tipo precedente, trasformazione accompagnata dalla creazione della nuova cultura. Questo secondo punto, genericamente parlando, cioè non soltanto nel nostro caso, è di difficilissima dimostrazione; riguardo al primo, Sera ritiene che il cosiddetto tipo nordico si riscontri o puro o mescolato in tutto il Neolitico europeo. I cranî della razza cosiddetta di Genay o d'Avigny, detta anche dei dolicocefali neolitici, sono essenzialmente dello stesso tipo dei cranî dei Reihengräber, dati come tipici nella razza nordica. Questo dato di fatto, indubitabile, secondo il Sera, è da mettere in relazione con l'asserzione di molti autori e specialmente dello Schrader, che la cultura indoeuropea è essenzialmente una cultura neolitica; in altre parole, il Neolitico classico dei paletnologi, quale la scienza è venuta stabilendo, non è altro che una forma di cultura creata dagl'Indoeuropei? Sarebbero cioè gl'Indoeuropei arrivati in Europa con il primo Neolitico? È ciò che non si può affermare con certezza per il momento, perché appunto non pare ancora evidente la identificazione del tipo protoario col tipo nordico, sebbene essa appaia già l'ipotesi più verosimile. Una nuova difficoltà è creata dalla circostanza che recentemente F. Paudler e K. Saller hanno scisso in due razze l'unità del tipo nordico. Ancora una nuova occasione di dubbio è l'autorizzato sospetto che il biondismo non sia un fenomeno prodottosi una sola volta e in una sola sede, né in modo rapido. È da ricordare ancora che recentemente S. Poniatowski obiettò appunto che i Pitti, della Scozia, popolazione non aria, erano biondi. Ma l'ipotesi che i creatori o i veicoli dell'arianesimo siano stati i brachicefali europei o asiatici appare ancora meno verosimile dell'altra. L'origine asiatica dell'arianesimo, che abbiamo visto ormai più probabile, esclude i brachicefali europei dalla sua creazione. In primo luogo la loro apparizione in Europa è assai più precoce che non sia l'arianesimo, almeno secondo i sostenitori della dottrina; ma ciò non sarebbe ancora sufficiente a negare l'ipotesi. La dottrina dell'immigrazione dei brachicefali, in genere, in Europa dall'Asia è assai scossa (Giuffrida-Ruggeri-Bloch) e si tende a credere alla loro origine locale. L'ipotesi poi d'un avvento dall'Asia in Europa di brachicefali mongolici è assolutamente da escludere. È ugualmente da escludere la singolare idea avanzata da S. Poniatowski, il quale vede i Protoarî nel cosiddetto tipo preslavico dello Czekanowski, tipo misto, ma i cui caratteri arî sarebbero: statura bassa, pigmentazione scura, brachicefalia, faccia larga, naso largo, vale a dire caratteri gerarchicamente bassi. È da temere che anche qui preconcetti nazionali abbiano oscurato la ricerca.
Procedendo a un esame più schiettamente morfologico, cioè non morfometrico, ma descrittivo, del cranio della razza nordica, quale è dato tipicamente dal cranio dei Reihengräber, il Sera crede di poterlo fare rientrare, per i suoi caratteri facciali, nel suo tipo melanesoide (v. fisionomia) e staccarlo completamente dal cosiddetto tipo mediterraneo. Ma quest'ultimo il Sera crede un tipo solo apparentemente unitario e risultato illusorio di una insufficiente analisi dei suoi elementi, che si possono ridurre a tre: l'atlanto-indico, l'etiopico-caucasiano, il negritoide. Nella parte orientale e settentrionale della regione circummediterranea predominerebbero i due ultimi tipi nella mescolanza, ma con certo accesso del tipo nordico; nella parte occidentale e meridionale (Spagna e tutta l'Africa settentrionale) predominerebbe il primo dei ricordati, con accessi sporadici del nigrizio. Ma, se ciò è giusto, nell'appartenenza del tipo nordico al tipo melanesoide si avrebbe una ragione assai importante per cercare verso l'Asia l'origine del tipo nordico e quindi una ragione di più, data l'origine asiatica del protoario, per ritenere veramente il tipo nordico il creatore e portatore dell'arianesimo in tutto il regno indoeuropeo.
Certamente un esame di ricche serie craniensi della regione centrale dell'Asia potrebbe portare a conclusioni importanti, ma disgraziatamente il materiale che si ha di queste regioni nei musei europei è di una straordinaria scarsezza. Un esame, invero sommario e preventivo, del materiale dei musei di Londra e Parigi, ha dato al Sera la convinzione della relativa rarità di questo tipo melanesoide. Esso però è presente e forma un costituente della popolazione persiana e della zona indo-afgana. Esiste però una serie craniense di una singolarissima importanza per il nostro oggetto e illustrata da H. Klaatsch in un lavoro in cui egli riafferma, si può dire per il primo nei tempi moderni, l'importanza dello studio dei caratteri facciali, per la diagnosi dei tipi etnici; importanza che J. F. Blumenbach e poi F. Pruner avevano ben vista. Disgraziatamente la morte non ha consentito al Klaatsch di portare molto innanzi l'analisi fisionomica del cranio e del vivente. La serie in parola è proveniente da Turfan, cioè precisamente dalla regione del tocario. Tralasciando certe determinazioni del Klaatsch, che non sembrano sicure, egli distinse in questa serie, sopra i 13 cranî di adulti, due casi che dimostrano tipi frequenti in Europa. Orbene uno di questi è, secondo il Sera, da attribuire al tipo melanesoide. Per tutti gli altri ciò è escluso. Anche dunque in questa serie la presenza di questo tipo è assai limitata. Ma bisogna fare una considerazione assai importante. Molto probabilmente l'imposizione della lingua indoeuropea in tutto il territorio attuale avvenne in buona misura per invasioni, più che per passaggi culturali. Data l'enorme estensione del territorio d'espansione, è naturale pensare che il tipo protoario debba essersi straordinariamente diluito. Non è perciò in reperti sempre di scarsa antichità, come sono quelli di Turfan, che possiamo sperare di trovare largamente rappresentato il tipo protoario. Ma v'è di più: dobbiamo infatti pensare che se fu veramente costume, come sembra, dei Protoarî l'esposizione dei cadaveri all'aria aperta, invece dell'inumazione, le prospettive di reperti abbondanti, anche nel territorio d'origine, sono piuttosto scarse. Comunque, prove di un predominio passato d'un tipo etnico appartenente al tipo fisionomico melanesoide in qualche territorio dell'Asia centrale, bisogna riconoscerlo, non esistono ancora. Concludendo, possiamo dire: che è verosimile che il popolo protoario fosse costituito da una razza predominante, se non addirittura praticamente pura, d'origine asiatica; che l'ipotesi che questa razza fosse la nordica è la più probabile di tutte, ma che ancora non si può dire scientificamente dimostrata.
Bibl.: Storia della linguistica indoeuropea: W. Streitberg (e altri), Geschichte der indogerm. Sprachwissenschaft, Strasburgo 1916-17 e Berlino 1927 segg.; Th. Benfey, Geschichte der Sprachwissenschaft u. orientalischen Philologie, ecc., Monaco 1869; B. Delbrück, Einleitung in das Sprachstudium, Lipsia 1880 (6ª ed., 1919, col titolo: Einl. in das Studium d. indog. Sprachen); V. Thomsen, Geschichte der Sprachwissenschaft bis zum Ausgang d. 19. Jahrhundert, Halle 1927; H. Pedersen, Linguistic Science in the 19.th century, Cambridge Mass. 1931; F. Bechtel, Die Hauptprobleme der indog. Lautlehre seit Schleicher, Gottinga 1892. Carattere storico e programmatico insieme ha il volume di varî autori: Stand und Aufgaben der Sprachwissenschaft, Heidelberg 1924. Contiene molto più di quanto indica il titolo: L. Renou, Bibliographie védique, Parigi 1931. Per seguire il progresso degli studî indoeuropei dal 1890 in poi sono indispensabili: Anzeiger f. indog. Sprach-u. Altertumskunde, Strasburgo 1892-1917 e Berlino 1920-26; Indogermanisches Jahrbuch, Strasburgo 1913-17 e Berlino 1918 segg. Sono altresì da vedere gli organi bibliografici delle singole filologie indoeuropee.
Opere introduttive: A. Meillet, Introduction à l'étude comparative des langues indo-européennes, Parigi 1903; 5ª ed., 1922; J. Schrijnen, Einführung in das Studium der indog. Sprachwissenschaft, Heidelberg 1921; A. Pagliaro, Sommario di linguistica arioeuropea, Roma 1930; P. Kretschmer, Die indog. Sprachwissenschaft, Gottinga 1925.
Grammatiche comparative: K. Brugmann-B. Delbrück, Grundriss der vergleichenden Grammatik d. indog. Sprachen, Strasburgo 1886-1900 (opera del solo Brugmann è la 2ª ed. 1897-1916 col vol. integrativo: Die Syntax des einfachen Satzes im Indogermanischen, Berlino 1925); K. Brugmann, Kurze vergleich. Grammatik d. indog. Sprachen, Strasburgo 1904. Non sostituisce il Brugmann, ma sotto diversi rispetti lo completa: H. Hirt, Indogermanische Grammatik, Heidelberg 1921-29. Da lungo tempo la Vergleichende Grammatik di F. Bopp, Berlino 1833-49; 3ª ed., 1868-71, e il Compendium di A. Schleicher, Weimar 1861; 4ª ed., 1876, non hanno più che un valore storico.
Dizionarî comparativi: A. Fick (e altri), Vergleichendes Wörterbuch d. indog. Sprachen, Gottinga 1891-1909; A. Walde-J. Pokorny, Vergleichendes Wörterbuch d. indog. Sprachen, Berlino 1927-32.
Sulle relazioni delle lingue indoeuropee tra loro (oltre le opere citate nel testo): A. Fick, Die ehemalige Spracheinheit der Indogermanen Europas, Gottinga 1873; K. Brugmann, in Int. Zeitschr. f. allgem. Sprachwissenschaft, I, 1884; A. Meillet, Les dialectes indo-européens, Parigi 1908; 2ª ed., 1922; H. Pedersen, Le groupement des dialectes indo-européens, Copenaghen 1925.
Sulle presunte relazioni con altre famiglie linguistiche (oltre le opere cit.): H. Sweet, The history of language, Londra 1902; K. B. Wiklund, in Le Monde Oriental, I, 1906, e in M. Ebert, Reallex. d. Vorgesch., III, 1925 (s. v. Finno-Ugrier); J. Szinnyei, Finnisch-ugrische Sprachwissenschaft, Lipsia 1910; H. Jacobsohn, Arier und Ugrofinnen, Gottinga 1922, tratta principalmente dei prestiti indoeu. alle lingue ugrofinniche; H. Möller, Semitisch und Indogermanisch, Copenaghen 1906; id., Vergleich. Indogerm.-sem. Wörterbuch, Gottinga 1911; id., Die sem.-vorindog. laryngalen Konsonanten, Copenaghen 1917; A. Cuny, Études prégrammaticales sur le domaine des langues indo-européennes et chamito-sémitiques, Parigi 1924; id., La catégorie du duel dans les langues indo-eur. et ch.-sémitiques, Bruxelles 1930; P. Meriggi, in Festschrift Meinhof, Amburgo 1926.
Sulle origini indoeuropee: O. Schrader, Sprachvergleichung und Urgeschichte, Jena 1883; 3ª ed., 1906-07; Reallexikon d. indogerm. Altertumskunde, Strasburgo 1901; 2ª ed. rifatta da A. Nehring, Berlino 1917-29; id., Die Indogermanen, Lipsia 1910; 3ª ed., 1919; P. Kretschmer, Einleitung in die Geschichte d. griech. Sprache, Gottinga 1896; H. Hirt, Die Indogermanen, Strasburgo 1905-07; J. Hoops, Waldbäume u. Kulturpflanzen im germ. Altertum, Strasburgo 1905; S. Feist, Kultur, Ausbreitung u. Herkunft der Indogermanen, Berlino 1913; id., Indogermanen u. Germanen, Halle 1914; 3ª ed., 1924; P. Giles, in Cambridge History of India, I, 1922; G. Ipsen, in Stand u. Aufgaben (v. sopra); J. Charpentier, in Bull. of School of Or. Studies, IV, Londra 1926; V. Pisani, Studi sulla preistoria delle lingue indeuropee, Roma 1933. Hanno carattere informativo: A. Carnoy, Les Indo-Européens, Bruxelles 1921, e H. H. Bender, The Home of the Indo-Europeans, Princeton 1922. Tra le opere meno recenti: A. Kuhn, Zur ältesten Geschichte d. indog. Völker, Berlino 1845; A. Pictet, Les origines indo-européennes ou les Aryas primitifs, Parigi 1859-63; 2ª ed., 1877; V. Hehn, Kulturpflanzen u. Hausthiere, ecc., Berlino 1870; 8ª ed. curata da O. Schrader, 1912; P. v. Bradke, Über Methode u. Ergebnisse der arischen Altertumswissenchaft, Giessen 1890; Y. Ziya, Arier u. Turanier, Lipsia 1932 (che presume di dimostrare l'origine turca della lingua e della civiltà indoeuropea).
Delle opere che trattano o toccano il problema indoeuropeo dal punto di vista archeologico o storico e antropologico notevoli specialmente: Ujfalvy, Les Aryens au Nord et au Sud de l'Hindou-Kouch, Parigi 1896; E. De Michelis, L'origine degli Indoeuropei, Torino 1903; G. Sergi, Europa, Torino 1908; S. Zaborowski, Les Aryens d'Asie et d'Europe, Parigi 1908; H. Klaatsch, Morphologische Studien z. Rassendiagnostik der Turfanschädel, in Anh. Abhand. K. preuss. Akad. Wissensch., Berlino 1913; C. Schuchhardt, Alteuropa in seiner Kultur- u. Stilentwicklung, Berlino 1919; 2ª ed., 1926; G. Sera, La successione spaziale e cronologica dei tipi etnici nell'Europa settentrionale e orientale, in Archivio per l'antropologia e l'etnografia, I (1920); G. Kossinna, Die Indogermanen, Lipsia 1921; F. Paudler, Die hellfarbigen Rassen, Heidelberg 1924; J. de Morgan, La Préhistoire Orientale, Parigi 1925; V. Gordon Childe, The Aryans, Londra 1926; K. Saller, Die Entstehung d. Nordischen Rasse, in Zeitsch. Anat. Entwick., I, 1927; G. Kossinna, Ursprung u. Verbreitung der Germanen in vor- u. frühgeschichtl. Zeit, Lipsia 1928; S. Poniatowski, Die Arier u. die nordische Rasse, in Institut intern. Anthrop. Congrès d'Amsterdam, 1930.