Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Età dell’oro per la pittura veneziana, la prima metà del Cinquecento vede attivi sulla scena della Serenissima artisti di tale valore da imporre la scuola veneta come espressione compiuta del Rinascimento maturo accanto a quella tosco-romana, e a essa antagonista per l’importanza attribuita al colore, in opposizione al disegno, come elemento fondante della pittura.
"Venezia città nobilissima et singolare"
All’inizio del secolo, la situazione di Venezia mostra una relativa ambivalenza. In Italia la Repubblica veneziana è lo Stato più forte, e gode di una stabilità politica che la distingue dagli altri, travolti dalle incursioni straniere; tuttavia l’equilibrio economico sul quale la Serenissima ha costruito un’enorme ricchezza si spezza in quegli anni con la scoperta dell’America e di nuove rotte verso le Indie. Venezia saprà reggere a lungo la concorrenza delle flotte europee, e condurrà una lotta serrata contro i Turchi per il controllo del Mediterraneo, ma ai primi del Cinquecento l’abbandono dell’esclusiva vocazione al commercio per mare e la costituzione di uno Stato nella terraferma sono fatti acquisiti.
Risale al 1509 il tentativo di annientare Venezia da parte di una alleanza europea che conta tra gli altri il papa Giulio II, l’imperatore Massimiliano e il re di Francia Luigi XII. La città resiste e, benché in seguito alla sconfitta d’Agnadello perda per intero i suoi domini di terra, entro il 1517 riuscirà a recuperarli. Di questa catastrofe non si trova traccia nell’arte: nessun segno di crisi turba la pittura, anche se le commissioni pubbliche – già numerose nel Quattrocento – subiscono un arresto proprio nella fase in cui la presenza contemporanea di grandissimi talenti – quali l’anziano Giovanni Bellini e i più giovani Giorgione, Sebastiano del Piombo e Tiziano) – fa presagire sviluppi straordinari.
La tendenza a mascherare o ignorare le difficoltà è comunque appropriata alla funzione di instrumentum regni assunta dalle arti visive negli Stati rinascimentali, e in particolare a Venezia. Infatti, superata la crisi acuta del primo Cinquecento, la committenza della Repubblica veneziana riprende forza per rilanciare l’immagine della città. Decisiva in tal senso è la struttura sociale su cui si fonda lo Stato. La società cittadina, ormai da secoli, è basata su due istituzioni che la distinguono dal resto delle realtà italiane: da una parte il potere del patriziato, che nel corso del Cinquecento si viene sempre di più a consolidare, dall’altra il ruolo delle Scuole, che al chiudersi del XV secolo avevano raggiunto un alto grado di importanza proprio nel campo delle committenze artistiche. Venezia, in forza della sua struttura sociale, mantiene un’alta considerazione nei confronti dell’attività pittorica prodotta in laguna, riuscendo negli anni successivi la battaglia d’Agnadello a continuare la sua azione egemonica nel campo della cultura visiva, e allo stesso tempo ad adeguare ai propri interessi il nuovo equilibrio politico degli Stati italiani.
L’arte di Giorgione: soggetti enigmatici e pittura tonale
Per un apparente paradosso, in una città che ricompensa i pittori attivi per lo Stato con favori e stipendi elevati, Giorgione fonda la versione veneziana della maniera moderna realizzando dipinti per committenti privati. Tali committenti, in realtà, appartengono all’oligarchia patrizia che dal Medioevo governa Venezia, e in città l’intreccio tra pubblico e privato è davvero molto stretto, visto che alle collezioni d’arte delle principali famiglie vengono condotti in visita importanti ospiti di Stato e a esse è dedicata una sezione della guida di Francesco Sansovino Venezia città nobilissima et singolare (1581).
Non si conosce nulla riguardo alla formazione artistica di Giorgione. Nato a Castelfranco Veneto, nella Marca trevigiana, il suo arrivo a Venezia e lo sviluppo della sua attività lagunare sono avvolti nel mistero. Certamente dopo esser giunto in città ha meditato a lungo sulle opere di Antonello da Messina, come la pala per la chiesa di San Cassiano (di cui oggi resta il frammento della parte centrale al Kunsthistorisches Museum di Vienna) o il trittico per San Giuliano (lo scomparto centrale con il san Sebastiano è a Dresda), ma ancor più importante punto di riferimento può essere stato Giovanni Bellini, a quel tempo il maggior pittore attivo in città e con cui non si può escludere un diretto apprendistato.
Le novità della pittura di Giorgione sono iconografiche e stilistiche. Le sue tele raffigurano paesaggi, ritratti, gruppi di figure intente a fare musica o che possiamo immaginare immerse in fantasticherie e meditazioni: soggetti elusivi concordati probabilmente con i colti committenti e dotati di significati oggi irrecuperabili, ma anche temi adatti a mettere in risalto le qualità della sua arte. Alla fase iniziale della sua attività appartengono la tavola con Saturno in esilio della National Gallery di Londra e i due pendant rappresentanti La prova di Mosè e Il Giudizio di Salomone degli Uffizi, databili agli ultimi anni del Quattrocento. In queste prime opere si nota la grande attenzione riservata al paesaggio, che si impone alla scena con i suoi caratteri allusivi e simbolici. L’attenzione agli elementi paesaggistici, che definiscono un’atmosfera idilliaca, è una caratteristica che, in termini più aulici, si ritroverà nella produzione successiva.
Tra il 1500 e il 1504 si data la Sacra Conversazione di Castelfranco. A quanto sappiamo, essa è l’unica commissione destinata a essere collocata su un altare che sia stata realizzata dall’artista. L’opera, al di là delle incertezze cronologiche riguardanti la sua realizzazione, raccoglie idealmente l’eredità delle grandi pale veneziane dell’ultimo quarto del Quattrocento, attraverso l’equilibrio compositivo raggiunto grazie all’acquisizione da parte di Giorgione del linguaggio e della tecnica esecutiva diffusi dai maggiori pittori veneziani, in particolare da Giovanni Bellini, che negli stessi anni realizza la Madonna del prato oggi alla National Gallery di Londra. Proprio in tale resa pittorica si manifesta la maturità raggiunta dall’artista, che nella creazione del paesaggio, sul quale si staglia in maniera inconsueta la Vergine in trono col Bambino, ha fatto supporre a diversi studiosi un rapporto con Leonardo, di passaggio in laguna all’inizio del secolo.
Lo stesso Vasari fornisce una convincente descrizione della pittura giorgionesca quando scrive che, rispetto alla “maniera secca, cruda e stentata” degli artisti che lo precedono, Giorgione “cominciò a dare alle sue opere più morbidezza e maggiore rilievo con bella maniera, usando nondimeno di cacciar sì avanti le cose vive e naturali, e di contrafarle quanto sapeva il meglio con i colori [...] secondo che il vivo mostrava, senza far disegno, tenendo per fermo che il dipingere solo con i colori stessi, senz’altro studio di disegnare in carta, fusse il vero e miglior modo di fare [...]”. Così Giorgione inaugura il nuovo corso della scuola veneziana: egli stende il colore non più a campiture distinte ma per velature, sovrapponendo strati molto sottili di materia. Interessato a stabilire nei propri dipinti un’armonia fino ad allora non sperimentata tra sfondo e figure, cerca un accordo anche tra i colori, cosicché ogni tela presenta un impianto cromatico coerente e fuso, giocato sui toni.
Come osserva Vasari, Giorgione è interessato a creare una pittura aderente al vero, ma va osservato che si tratta di un realismo per così dire di atmosfera; Giorgione abbandona cioè la preoccupazione quattrocentesca per la solida costruzione prospettica e sfrutta al massimo le potenzialità della pittura a olio, privilegiando i valori di luce e colore rispetto a quelli di disegno e di composizione. Esemplare della nuova poetica è la Tempesta (1508), il cui soggetto risulta ancora indecifrabile, nonostante i numerosi tentativi di giungerne a capo attraverso indagini iconologiche. L’opera, ricordata già nel 1530 in casa di Gabriele Vendramin, risulta essere una sofisticata sintesi formale di quanto Giorgione poteva cogliere nel contesto veneziano. La costante attenzione alla resa atmosferica della scena bucolica e i riferimenti alla cultura antica e alle suggestioni nordiche si fondono in toni sommessi, ampliando ulteriormente gli interrogativi sull’identità dei soggetti e sul significato complessivo della scena.
Non meno enigmatica è la tela con i Tre filosofi di Vienna, per lungo tempo considerata una rappresentazione dei Magi. In realtà, studi recenti identificano i personaggi come tre sapienti, simbolo delle tre grandi religioni monoteistiche, orientando verso una lettura specificatamente rinascimentale del soggetto, che fa coincidere in un’unica figura i ruoli di filosofo, astrologo e mago. Nell’attività di Giorgione si rileva quindi una presenza costante delle tematiche legate alla tradizione ermetica, che il fregio in monocromo affrescato in casa Marta a Castelfranco e a lui attribuito riassume in maniera efficace.
Sebastiano del Piombo da Venezia a Roma
Il rapporto con l’antichità è presente nell’arte di Giorgione, anche se inteso in modo diverso rispetto alla cultura tosco-romana. L’unica opera pubblica dell’artista, gli affreschi parzialmente perduti nella facciata del Fondaco dei Tedeschi, emporio nei pressi di Rialto (1508), rappresentano forse il momento di maggiore avvicinamento dell’artista alla monumentalità dell’arte classica e di quella centro-italiana. L’opera, di difficile leggibilità a causa dei problemi di conservazione che la compromisero precocemente, è la testimonianza più evidente della posizione nodale assunta da Giorgione nel panorama artistico di Venezia prima della morte avvenuta nel 1510, e della considerazione di cui il pittore godeva presso le maggiori autorità cittadine, che affidarono a lui un compito di prestigio assoluto. Nel dicembre 1508 Vittore Veneziano, Vittore Carpaccio e Lazzaro Bastiani furono incaricati dal governo della Serenissima di stimare l’opera. I tre dovettero apprezzare molto il lavoro di Giorgione, che per questo ricevette centotrenta dei centocinquanta ducati richiesti.
Il suo magistero fu raccolto senza soluzione di continuità da due esordienti che Vasari definisce "suoi creati": Tiziano e Sebastiano del Piombo.
L’opera di Sebastiano, che nel 1511 si trasferisce a Roma dove entra in rapporto con Michelangelo e dove sarà noto come Sebastiano del Piombo, reca in sé una duplice vocazione. Nelle portelle d’organo per San Bartolomeo a Rialto, molto discusse dalla critica e databili intorno al 1508, San Ludovico da Tolosa e San Sinibaldo sono inseriti in nicchie la cui abside dorata rimanda al gusto bizantineggiante della tradizione veneziana e alle nicchie concepite da Giorgione per il Fondaco dei Tedeschi. L’atteggiamento assorto delle figure, come pure la stesura morbida e fusa sono in linea con la pittura dei due maestri di Sebastiano, Bellini e Giorgione.
San Bartolomeo e San Sebastiano, per le ante esterne, sono dipinti con un’attitudine diversa che Sebastiano svilupperà in seguito: accampati con decisione nello spazio, definito da un’architettura classica somigliante a un arco di trionfo, le figure dei santi sono dipinte con un forte senso plastico che, nelle opere mature realizzate a Roma, l’artista coniugherà con sfondi vasti e atmosferici, tipicamente veneziani.
Nel periodo in laguna Sebastiano ebbe modo di mettersi in mostra con altri capolavori capaci di competere con l’attività innovativa di Giorgione e Tiziano. Ne è prova il Giudizio di Salomone di collezione privata, che, per composizione, risulta l’opera più significativa e rivoluzionaria della Venezia del primo decennio del Cinquecento. L’artista infatti mette in scena l’episodio biblico su una tela di grandi dimensioni, caratterizzando i personaggi attraverso un’animosità sconosciuta alle figure composte delle pale e dei teleri veneziani del tempo. La drammaticità che emerge nel Giudizio segna la strada alle soluzioni di tenore simile che Tiziano farà proprie nel corso della sua carriera. L’opera, incompiuta, è caratterizzata da un articolato fondale architettonico, il cui impianto ricorda quello delle portelle dell’organo di San Bartolomeo. Le figure, in alcuni casi ampiamente modificate in corso d’opera, recano suggestioni dalle coeve opere di Giorgione e Giovanni Bellini, ma fanno emergere anche uno stile personale nell’esecuzione dei personaggi femminili: le protagoniste della scena sono infatti le figure più riconoscibili della produzione del Luciani in ragione delle fisionomie ricorrenti, come quella della madre a destra che può essere rintracciata in altre opere di piccolo formato. La grande tela di Sebastiano è anche indicativa dell’interesse del mondo artistico veneziano per le antichità. Piuttosto che riflettere un’immagine generica quanto ideale della classicità, in essa prende corpo un’attenzione specifica ai reperti archeologici che il giustiziere di destra testimonia in maniera eloquente.
Se il Giudizio di Salomone è stato per lungo tempo trascurato dalla critica, la tela con San Giovanni Crisostomo e santi dell’eponima chiesa veneziana è sempre stata tenuta in alta considerazione. Nonostante il Vasari, e diversi altri eruditi e studiosi dopo di lui, la considerasse il risultato di una collaborazione tra Giorgione e Sebastiano, è evidente l’assoluta autonomia di quest’ultimo. Rispetto al maestro di Castelfranco Sebastiano usa colori più brillanti e freddi, che sono stati messi in rapporto con la presenza di Albrecht Dürer a Venezia nel 1506. L’indipendenza di Sebastiano si coglie nella composizione della scena, tanto lontana dall’ambiente bucolico proposto dalle coeve opere del maestro Giorgione, quanto dirompente rispetto alle simmetriche e composte pale del Bellini. Tale forza innovatrice giustifica la fortuna goduta dalla pala nella pittura veneziana seguente, sollecitando gli interessi di Tiziano e di altri pittori nei decenni successivi.
Tra i grandi insegnamenti che Sebastiano apprese da Giorgione, la ritrattistica occupa una posizione di rilievo. Dalla composizione bipartita della superficie al contrasto creato da campiture estese di colore, la lezione dello Zorzi si coglie nella capacità di richiamare l’attenzione di chi guarda sui dettagli, così da innescare un rapporto con lo spettatore che possa rivelare quanto l’effigiato vuole far sapere di sé. Come nella Salomè della National Gallery di Londra, dove il volto dell’effigiata è affiancato da aperture sul paesaggio, in una posa di spalle che avrà ampia fortuna lungo il corso di tutto il Cinquecento veneziano, conferendo fascino al soggetto anche agli occhi degli osservatori dei secoli successivi. Il contributo di Sebastiano del Piombo alla pittura veneziana si concentra in pochi anni, ma il ricordo dell’attività lagunare lo accompagnò anche quando, a Roma, venne a contatto con l’arte di Raffaello e Michelangelo, facendone uno dei protagonisti della scena artistica della città fino al sacco di Roma del 1527.
Lorento Lotto, un veneziano attivo lontano dalla città
Tra gli artisti attivi nel primo decennio del secolo, Lorenzo Lotto si rivela grandissimo talento contemporaneamente o addirittura prima di Giorgione. Il suo stile è altrettanto personale, ma troppo tormentato e rivoluzionario per essere accolto da committenti dediti alla celebrazione di sé, della propria stirpe e dello Stato. Il critico d’arte Roberto Longhi ce ne ha dato un ritratto fulmineo: Lotto “è forse tra quegli spiriti – gli artisti veneziani contemporanei – il più moderno perché il più contrario ai canoni ancora salienti della poetica figurativa rinascimentale. Il Lotto pensa che le proporzioni non esistano. Pensa che la forma, per inquietezza interna, cavilli continuamente secondo un nuovo animismo che non involgerà l’uomo soltanto. La luce stessa, per lui, non è più la chiara regola solare [...] ma soffio discontinuo, vagante”. Tali caratteri e la sua forte partecipazione, evidente nei dipinti di argomento sacro, hanno portato gli studiosi a interrogarsi sui caratteri della religiosità del pittore. La conoscenza della sua corrispondenza e dell’importante Libro di spese diverse ha suscitato un grande dibattito e conclusioni non unanimi. È comunque certo che Lotto è molto sensibile, come tanti uomini di cultura contemporanei, alle necessità di una profonda riforma della Chiesa: come tema di discussione resta se egli rimanga sempre fedele all’ortodossia cattolica o piuttosto inclini verso posizioni protestanti, dovendo poi rientrare, dopo il fallimento di ogni trattativa tra le due confessioni, almeno apparentemente nell’ambito cattolico.
Capolavori affascinanti di Lorenzo Lotto nascono lontano da Venezia, principalmente a Treviso (dove ha inizio la sua carriera), nelle Marche e a Begamo, benché egli sia nato a Venezia intorno al 1480 e in città abbia compiuto il proprio apprendistato. Sulla sua formazione, aspetto che da sempre impegna gli studiosi, non si hanno notizie certe, ma un discepolato presso una delle due grandi botteghe pittoriche veneziane, quelle dei Bellini e dei Vivarini, ne ha profondamente condizionato la prima parte di attività svolta tra la Marca trevigiana e Recanati. Le opere di questo periodo rivelano inoltre una particolare sensibilità per l’arte nordica, con cui poteva essere entrato in contatto sia attraverso Dürer, sia per mezzo del cospicuo numero di stampe di maestri fiamminghi, tedeschi e italiani che circolava tra fondaci e botteghe. Le pale d’altare per Quinto di Treviso, Asolo e il grande polittico di Recanati, realizzati tra il 1505 e il 1508, distinguono l’arte di Lorenzo Lotto da quella di Giorgione e dei suoi allievi. Le scene sono illuminate da una luce rarefatta e da gesti liturgici. In queste prime opere si vede già un maestro di livello, capace di creare composizioni equilibrate e scene di notevole portato espressivo.
Non si può escludere che il lavoro marchigiano nel biennio 1506-1508 sia stato la chiave che ha aperto a Lorenzo la strada per Roma, probabilmente su invito di Donato Bramante. Quest’ultimo infatti è a Loreto alla fine del 1507 e, negli stessi anni, sovrintende ai lavori vaticani per conto di Giulio II. Lorenzo Lotto risulta dunque il primo pittore veneziano a lavorare nella Roma di Raffaello e Michelangelo.
Nel 1509 è all’opera nell’appartamento di Giulio II in Vaticano, ma la sua inquietudine mal si adatta all’equilibrio "apollineo" del classicismo raffaellesco che si va imponendo. Dopo questa esperienza la pittura di Lotto rivela l’influenza di una pittura capace di comporre in grande, caratteristica del pieno Rinascimento romano, ma che conserva comunque una sensibile inclinazione al realismo nordico (Deposizione di Jesi, 1512). Dalle Marche si trasferisce a Bergamo, città che nel 1513 era parte dei domini di terra della Repubblica veneziana tanto da poter essere definita "l’altra Venezia". La prima impresa fu la pala d’altare per Alessandro Martinengo. L’opera, che doveva presentare una notevole cornice ed essere alta oltre otto metri, inaugura il felice decennio bergamasco, ricco di lavori per chiese e di ritratti dal carattere domestico. La pala Martinengo risulta essere uno dei maggiori risultati del connubio unico tra sensibilità veneziana e monumentalismo romano che il Lotto di questo periodo incarnava. Lotto rientra a Venezia tra il 1525 e il 1532, nei primi anni Quaranta e tra il 1545 e il 1549; il gusto dominante in città è estraneo alla ricerca condotta dall’artista, che ottiene pochissime commissioni pubbliche. Nel 1529 dipinge la pala con san Nicola in gloria per la chiesa del Carmine e nel 1542 L’elemosina di sant’Antonino per i santi Giovanni e Paolo: opere controcorrente, dominate da una religiosità sentita e da un naturalismo opposto alle tendenze auliche dell’arte veneziana. Dalla sua bottega veneziana Lorenzo, di conseguenza, lavora ancora molto per vari centri marchigiani, lasciando alcune tra le più intense opere dell’arte italiana degli anni Trenta. La Crocefissione di Monte San Giusto, nel maceratese, è il chiaro e raro riflesso di una sensibilità artistica e spirituale. La regia compositiva è magistrale: sotto l’incupirsi del cielo, in osservanza del racconto evangelico, si svolge il dramma pietoso della crocefissione. La Pala di santa Lucia , datata 1532, è un puntellare di gesti, sguardi e movenze sul filo della narrazione: alla fermezza della santa l’artista affianca animi irrequieti e spaventati così da creare una scena che, basata su tale contrasto, metta in evidenza la storia della santità di Lucia, celebre nella tradizione agiografica per la solidità nella fede. Lorenzo Lotto è un attento indagatore dei moti dell’animo, e allo stesso tempo un curioso ricercatore dei tratti più realistici della varia umanità che lo circonda. Non è un caso che nel Libro di spese diverse sovente annoti l’acquisto di carta per poter eseguire ritratti dal vero. Nei primi anni Quaranta esegue opere destinate a piccoli centri "fuori contesto". Nel 1542 realizza una pala e un polittico dallo stile semplificato, riconducibile a gusti e schemi sorpassati da alcuni decenni, rispettivamente per Sedrina, nel bergamasco, e per il piccolo porto di Giovinazzo in Puglia. Per questa ragione, e per una devozione mai nascosta, Pietro Aretino nel 1548, in una lettera nella quale gli invia i saluti di Tiziano, che ad Augusta sta lavorando per l’imperatore Carlo V, sminuisce la sua attività scrivendo sarcasticamente: “O Lotto, come la bontà buono e come la virtù virtuoso”. Queste parole sono eloquenti per capire di riflesso la scarsa considerazione che la sua sensibilità artistica aveva a quel tempo in città. L’anno dopo Lorenzo abbandona definitivamente Venezia per le Marche. Oltre alle opere a tema sacro Lotto lascia una serie di ritratti indimenticabili: tra questi Andrea Odoni (1527), nel quale la regia luministica e la pennellata gonfiante danno all’ambiente un senso di precarietà che si trasmette alla figura stessa, e il Ritratto di giovane, pressoché contemporaneo, immagine di struggente malinconia dominata dal nero dello sfondo e della veste su cui "staccano" il volto del personaggio e la natura morta in primo piano che cela probabilmente il significato del quadro. Tutta la sua carriera fu comunque costellata dalla realizzazione di ritratti tra i più notevoli del secolo. Anche quando, nelle prime prove trevigiane, rimane lontano dall’esempio di Giorgione, al quale poi sarà sensibile negli anni della maturità, i suoi ritratti suscitano emozione. Nel ritratto del vescovo Bernardo de’ Rossi e ancora di più nel Giovane con lanterna di Vienna il risultato è di un lirismo penetrante.
Questa sensibilità lo accompagna fino alla fine, quando, oramai oblato della basilica della Santa Casa di Loreto e lontano dalla mondanità della vita, esegue la Presentazione al tempio per il coro della basilica mariana.