Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Con l’espressione “cattività avignonese” si definisce il periodo della storia della Chiesa che va dal 1305 al 1376, in cui il papa e la curia si trasferiscono in Francia e risiedono, dal 1309, ad Avignone. Nonostante i contemporanei e i posteri abbiano spesso parlato di “esilio avignonese” o di “cattività avignonese” per definire questo periodo di circa 70 anni, con evidente allusione alla “cattività” in cui fu tenuto il popolo d’Israele dai Babilonesi, la verità storica è che i pontefici mantengono tutti in Francia, tranne Clemente V, una sostanziale libertà di azione nei confronti dei re francesi, pur essendo vero che li favoriscono più di altri sovrani, e che in curia l’elemento francese sia nettamente prevalente. Il periodo del soggiorno avignonese rappresenta comunque un fatto inconsueto nella storia del papato, non tanto perché i papi risiedono fuori Roma (ciò infatti era avvenuto molto spesso anche in precedenza a causa dell’insicurezza della città), bensì per la lunghezza del periodo trascorso fuori dall’Italia.
La politica dei pontefici avignonesi persegue tre obiettivi: la composizione dei conflitti esistenti o affioranti qua e là in Europa esercitando il loro ruolo superiore di arbitri della cristianità, la crociata e il recupero dei territori perduti dello Stato della Chiesa. La loro attività ecclesiastica è indirizzata alla lotta all’eresia e alla dissidenza religiosa, alla riforma degli ordini religiosi e del clero, con ripetuti inasprimenti dell’obbligo di residenza e del divieto di cumulo di benefici, e alle missioni. È durante il soggiorno dei papi ad Avignone che si riformano e si potenziano organi amministrativi e giurisdizionali della curia (Cancelleria, Rota, Penitenzieria) e si compie il processo di accentramento in Curia di tutta la prassi beneficiale, grazie all’avocazione alla Curia della concessione di uffici e prebende a ogni livello (riserve), con il connesso aumento del fiscalismo, unico mezzo per creare le risorse necessarie a far funzionare l’accresciuto apparato curiale (personale sia amministrativo e giudiziario che liturgico e domestico) e a perseguire gli obiettivi religiosi e politici del papato a raggio europeo.
La morte di Bonifacio VIII segue poche settimane dopo l’offesa portata alla sua persona ad Anagni, il 7 settembre 1303, da Sciarra Colonna e Guillaume de Nogaret, inviato del re di Francia Filippo IV il Bello. Questo attentato segna il culmine del contrasto tra il papato e il Regno di Francia. Segue il breve pontificato di Benedetto XI, che, di fronte all’accresciuta influenza francese in Italia, cerca una parziale riappacificazione con Filippo il Bello, ma muore già il 7 luglio 1304 a Perugia. Il conclave lì riunito si prolunga per ben undici mesi, e alla fine, il 5 giugno 1305, grazie alle pesanti pressioni francesi sui cardinali, viene eletto l’arcivescovo di Bordeaux, Bertrand de Got, che non era a Perugia, ma in Francia, che assume il nome di Clemente V. Il 14 novembre 1305 egli si fa incoronare a Lione alla presenza di Filippo il Bello e rimane in terra francese, prima in Guascogna, la sua terra d’origine, poi, dal 1309, ad Avignone, città che viene scelta perché appartenente ai conti di Provenza (cioè dagli Angiò, sovrani di Napoli) fedeli vassalli della Chiesa, e perché vicina alla contea del Venassino, dal 1273 di proprietà della Chiesa. Le ragioni che lo inducono a rimanere in Francia, pur non mettendo mai in dubbio che la vera sede del papato sia Roma, sono diverse: dalla speranza, rivelatasi vana, di dissuadere il re di Francia dall’intentare un processo per eresia alla memoria di Bonifacio VIII, la cui condanna post mortem, comunque, egli a fatica riesce a evitare, alla notoria, scarsa sicurezza di Roma, alla sua salute precaria.
Con la nomina di nove cardinali francesi Clemente V inizia quella prassi, seguita dai suoi successori – da taluni, come Clemente VI, anche preferendo nipoti e parenti – che determinerà a lungo una maggioranza di Francesi nel Sacro Collegio, e quindi il consolidarsi di un partito incline a prolungare il soggiorno della Curia in Francia e contrario al ritorno in Italia. Clemente V, uomo colto e buon canonista, ma di carattere debole, si piega di nuovo al volere del re francese Filippo IV il Bello quando finisce per acconsentire alla feroce persecuzione e alla soppressione, decisa al concilio di Vienna (1311-1312), dell’ordine dei Templari, contro il quale erano state addotte accuse false e infamanti. Le agitazioni seguite in Italia alla discesa verso Roma del re tedesco Enrico VII, e, poi, la malattia, lo indurranno a rimanere ad Avignone.
Ad Avignone Clemente V risiede presso il locale convento dei Domenicani. In quella città rimangono pure sei suoi successori. Quello immediato, Giovanni XXII, eletto a Lione dopo un lungo e combattuto conclave, va a risiedere ad Avignone, nel palazzo vescovile della città, della quale egli è stato vescovo, e lo fa ingrandire e decorare. Giovanni XXII è dotato di un’indole imperiosa, volitiva, energica, austera e pia, ma spietata nel perseguimento dei suoi obiettivi di politica ecclesiastica, intransigente e ostinata; è un brillante canonista e un vero genio dell’amministrazione. A seguito della disputa per il trono tedesco insorta nel 1314 tra Ludovico il Bavaro e Federico il Bello d’Asburgo, Giovanni rivendica il diritto di approvazione dell’elezione regia e di conferimento del vicariato imperiale in Italia, dove l’ambizione del papa è, soprattutto attraverso quest’ultimo strumento, quella di instaurarvi un’egemonia guelfo-francese. Pertanto egli si schiera contro Ludovico che, avendo avuto la meglio sul rivale, contesta la legittimità delle pretese papali, e nel 1324 lo scomunica e lo depone. Ludovico si appella a un concilio generale accusando Giovanni di eresia per la posizione assunta nella questione della povertà assoluta di Gesù e degli Apostoli, che il papa, di contro alle convinzioni degli Spirituali francescani e dei Fraticelli, nega recisamente.
Questo è l’ultimo, aspro scontro tra imperium e sacerdotium, condotto attraverso una vivace attività pubblicistica alla quale partecipano i principali intellettuali del tempo. Nel 1327 Ludovico scende a Roma e si fa incoronare imperatore da Sciarra Colonna, depone Giovanni e nomina un antipapa, Niccolò V, il quale, però, già nel 1330 si sottometterà al papa di Avignone. Per l’intransigenza di Giovanni, che si ostina fino alla fine a rivendicare l’alta mano sulla corona tedesca, e che danneggia molto il prestigio della Chiesa in tutti i territori a est del Reno, rafforzandovi le istanze conciliariste, foriere di future, gravi ribellioni, il conflitto non si sarà ancora risolto quando Giovanni morirà. In questa situazione di estrema tensione con il supremo potere laico della cristianità la residenza ad Avignone garantisce naturalmente al papato una protezione incomparabilmente superiore a quella in qualsiasi luogo nello Stato della Chiesa, e, a maggior ragione, a Roma. E tuttavia, durante il pontificato di Giovanni il soggiorno dei pontefici ad Avignone continua a mantenere un carattere provvisorio. Durante l’ultimo anno di pontificato egli concepisce infatti concretamente il piano di tornare in Italia e trasferirvi di nuovo la curia, se non a Roma, città ritenuta insicura, almeno a Bologna.
Questo progetto non potrà realizzarsi per l’opposizione congiunta dei guelfi e dei ghibellini italiani, e il successore di Giovanni, Benedetto XII, prendendo atto dell’impossibilità di un ritorno a breve termine in Italia, trasformerà, ampliandolo, il palazzo vescovile avignonese in una residenza duratura per i papi e gli uffici curiali.
Prima della sua elezione Benedetto XII, uomo dal carattere austero e pio, era stato un cistercense e la principale attività registrabile durante il suo pontificato è certamente la riforma degli ordini religiosi (Cistercensi e Benedettini). In parte anche per l’opposizione del re di Francia, Filippo VI, non gli riesce di porre termine al conflitto del papato con Ludovico il Bavaro e, così come aveva fatto il suo predecessore, e come faranno i suoi successori Clemente VI e Innocenzo VI, ha un rapporto difficile con i Francescani spirituali e i Fraticelli.
Il successore Clemente VI, antico benedettino, è un eccellente predicatore e teologo, ma ha più indole da politico che da pastore di anime; ha un carattere energico e diplomatico, generoso e magnanimo, mecenate delle arti e delle lettere. Nel 1348 compra Avignone da Giovanna d’Angiò, regina di Napoli. Ingrandisce il palazzo papale aggiungendovi e facendo decorare un nuovo, ampio tratto. Il palazzo di Avignone diviene così un edificio imponente, adatto alle esigenze di una corte brillante e colta, capace di attirare anche letterati e artisti, e di un’amministrazione in continua espansione. Clemente VI non riesce a mantenere quel ruolo di arbitro dei conflitti che qualcuno dei suoi predecessori aveva svolto: in particolare fallisce il suo tentativo di mediazione per porre fine alla guerra tra Francia e Inghilterra scoppiata nel 1337. Egli persevera nello scontro con Ludovico il Bavaro. Dopo aver reiterato il bando nei confronti di quest’ultimo, favorisce, nel 1346, l’elezione di un altro re tedesco, Carlo IV, della Casa di Lussemburgo, che ha la meglio su Ludovico, il quale, peraltro, muore l’anno successivo. Con l’aiuto della nobiltà fuggita da Roma, nel dicembre 1347 al papa riesce di allontanare dalla città Cola di Rienzo, che qualche mese prima con un colpo di Stato si era posto a capo dell’amministrazione del Comune romano. Clemente riduce inoltre a 50 anni la periodicità dei giubilei per gli anni santi, originariamente fissata da Bonifacio VIII a 100 anni.
Nel 1350 si celebra pertanto il secondo jubilaeum anni sancti.
Nel palazzo avignonese abitano pure Innocenzo VI, Urbano V e Gregorio XI. Innocenzo VI, carattere austero, parsimonioso e riformatore, non è però esente da nepotismo e favoritismo verso i suoi connazionali. Intrattiene buoni rapporti con il re tedesco Carlo IV e, nel 1355, sceso questi a Roma, lo fa incoronare imperatore da un suo legato. Non solleva alcuna protesta allorché nel documento emanato da Carlo per riordinare le modalità dell’elezione regia in Germania, la cosiddetta Bolla d’oro (1356), non si fa menzione del diritto papale di conferma dell’elezione del re tedesco e di nomina di un vicario imperiale in Italia. Nella guerra dei Cent’anni (1337-1453) gli riesce di mediare tra i due contendenti la pace di Brétigny (1360).
Naturalmente il prolungato soggiorno in terra francese ha l’effetto di legare molto il papato alla Francia, i cui sovrani cercano in tutti i modi di trattenere la curia papale, offrendo, oltre alla sicurezza di una residenza ben munita, anche il sostegno politico di volta in volta necessario al papato nel perseguimento dei suoi obiettivi temporali e spirituali. Tuttavia, l’idea del ritorno a Roma, sede naturale del papato, non è mai abbandonata. Dopo il progetto fallito di Giovanni XXII, a partire dal 1353 Innocenzo VI affida al cardinale Egidio d’Albornoz il compito di recuperare alla sovranità papale quei territori dello Stato pontificio sottrattisi a essa nel corso dei decenni precedenti. Questo incarico, che Albornoz riesce a svolgere tra il 1357 e il 1358, emanando per l’amministrazione dei territori riconquistati un corpo di leggi dette Costituzioni egidiane, atte a fornire a essa un fondamento giuridico unitario e accentratore, deve naturalmente preludere a un ritorno dei pontefici a Roma in una situazione di maggiore sicurezza politica.
Questo ritorno è tentato da Urbano V. Prima della sua elezione era stato un benedettino. Egli è un uomo giusto, casto, molto pio, il migliore forse dei papi avignonesi, animato da un grande desiderio di riforma della Chiesa, protettore della scienza e delle università. A tornare a Roma è spinto da un lato da correnti spiritualistiche e dalle suggestioni letterarie di intellettuali famosi, araldi delle memorie e dei sentimenti di italianità (Brigida di Svezia e Francesco Petrarca). Dall’altro lato il concretizzarsi della volontà di tornare a Roma nei primi anni Sessanta è anche favorito dalla situazione internazionale: l’indebolimento della monarchia francese causato dal conflitto, allora già più che decennale con l’Inghilterra, contribuisce ad alleggerirne la pressione sul papato, la cui città di residenza, Avignone, è inoltre, a partire dal 1360, attaccata ripetutamente da bande di mercenari licenziati a seguito della pace di Brétigny, e comincia dunque a sembrare un luogo di residenza non più così sicuro e difeso. Nonostante le resistenze dei cardinali e del re di Francia, Urbano V parte da Avignone il 30 aprile 1367 e il 16 ottobre 1367 fa il suo ingresso a Roma. Qui, il 18 ottobre 1369 accoglie nella Chiesa cattolica l’imperatore d’Oriente Giovanni V Paleologo, senza però che ciò porti all’unione della Chiesa occidentale con quella orientale. I continui disordini a Roma, la rivolta di Perugia, l’ostilità manifestata dal signore di Milano, Bernabò Visconti, e l’intenzione di mediare nuovamente nel conflitto riesploso tra Francia e Inghilterra, lo inducono, nel settembre 1370, dopo una permanenza a Roma di neanche tre anni, a rientrare ad Avignone, dove poco dopo, il 19 dicembre 1370, morirà.
Sulla strada aperta da Urbano V è, però, ormai destinato a mettersi anche il suo successore, Gregorio XI, un ottimo canonista, dal carattere pio e casto, che, anch’egli, tenta inutilmente di porre fine alla guerra tra Francia e Inghilterra. Il rientro ad Avignone di Urbano V aveva dato luogo in Italia ad accesi sentimenti di opposizione al papato francese. Nel 1375, sotto la guida di Firenze, vi è una sollevazione contro il papato francese e si minaccia Gregorio con lo spettro di uno scisma, cioè con la prospettiva di eleggere un papa italiano se egli non tornerà a Roma. Spinto da queste pressioni, e incoraggiato anche dagli appelli pressanti di Caterina da Siena, anch’egli decide di lasciare Avignone, da dove parte il 13 settembre 1376 per affrontare il lungo viaggio verso Roma, dove entrerà il 17 gennaio 1377, mentre brutali bande di mercenari al comando del cardinale Roberto da Ginevra reprimono nel sangue le rivolte nell’Italia centro-settentrionale. Questo modo di procedere provoca una reazione molto risentita contro gli Ultramontani da parte della popolazione italiana e tali rancori finiranno per coagularsi l’anno successivo all’elezione del successore di Gregorio XI, Urbano VI, preludio dell’esplodere, di lì a qualche mese, del Grande scisma d’Occidente.