Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il Quattrocento è un secolo di transizione, nel corso del quale la profonda compenetrazione tra la dimensione civile e la dimensione religiosa, tipica delle società del passato, appare condizionata da alcuni determinanti fattori: un’aspra e complessa dialettica fra il papato e le alte gerarchie ecclesiastiche, la nascente configurazione della moderna forma “Stato” in Europa, un sempre più tangibile divario fra la Chiesa e le esigenze etico-spirituali dei fedeli, le cui aspirazioni frustrate danno spesso luogo a dispersione, dissensi, travisamenti, insoddisfazione.
La fine del Grande Scisma e la “rinascita” del papato
La cattività avignonese (1309-1376), segnata dall’abbandono della sede romana e dalla sostanziale soggezione dei pontefici alla monarchia francese, e lo scisma che ne è derivato (1378-1417), contraddistinto da una profonda spaccatura al vertice della Chiesa cattolica, hanno inferto un colpo durissimo all’istituzione e, soprattutto, al suo sommo rappresentante. Dopo la decisione di riportare la curia pontificia a Roma, le contestate successioni al soglio di Pietro hanno pericolosamente incrinato l’autorità del vicario di Cristo, palesando agli occhi della cristianità occidentale l’inadeguatezza di una Chiesa dall’assetto monarchico accentrato e la necessità di un’opzione di governo ecclesiastico di tipo collegiale, quindi conciliare.
La soluzione alla destabilizzante crisi scismatica d’Occidente sembra, dunque, offerta dal riemergere della latente teoria conciliarista, che, riconoscendo come “ascendente” il potere papale, ritiene che esso venga delegato al pontefice dalla Chiesa universale, rappresentata dal concilio. Nel concilio di Costanza (1414-1418) prevale l’assunto che l’assemblea sia espressione della Chiesa universale suprema rappresentante di Cristo in terra, in controtendenza rispetto all’ispirazione monarchica che era andata attestandosi a partire dalla riforma gregoriana dell’XI secolo. Il frutto immediato dell’affermazione conciliarista di Costanza è la ricomposizione delle lacerazioni post-avignonesi e il ritorno all’incontestata unicità dell’elezione pontificia nella persona di Oddone Colonna che assume il nome di Martino V, ponendo termine alla contrapposizione tra papi contemporaneamente eletti da differenti schieramenti.
Proprio dal concilio di Costanza e da Martino V parte il riscatto del papato e la progressiva restaurazione del suo primato, che tra XV e XVI secolo giunge a configurarsi come una realtà consolidata. Il percorso si svolge prevalentemente sulla direttrice del rafforzamento del potere temporale, sul ripristino dell’ormai precario controllo territoriale del patrimonio di San Pietro, sul potenziamento degli uffici e delle funzioni dell’apparato curiale.
Il graduale esautoramento dell’organismo conciliare procede di pari passo con la ristrutturazione dello Stato pontificio, che si avvia a essere, in concomitanza col processo intrapreso dalle coeve monarchie europee, un’entità giuridico-territoriale fondata sull’accentramento, sul principio della sovranità assoluta, sul disciplinato rapporto tra centro e periferie.
Per consolidare questo itinerario il papato deve attraversare un’ulteriore fase critica nella dialettica con le alte gerarchie ecclesiastiche: il concilio di Basilea (1433-1449) sembra dare nuovo vigore al conciliarismo, ma Eugenio IV (Gabriele Condulmer), deposto e sostituito da Amedeo di Savoia col nome di Felice V, riesce a riguadagnare l’appoggio delle monarchie europee, preoccupate che nella Chiesa non prevalga la dottrina conciliarista la quale, prospettando un potere sovrano proveniente da un organismo assembleare, si ispira a un modello monarchico di stampo “parlamentare” fortemente avversato dai principati quattrocenteschi, ormai proiettati decisamente verso l’accentramento. Gli esiti del concilio di Basilea – con la deposizione dell’antipapa Felice V e la conferma dell’elezione di Niccolò V (Tommaso Parentucelli) – rappresenta la definitiva vittoria del primato papale nella Chiesa occidentale.
Umanesimo, cultura e corte papale
Nel corso del Quattrocento si assiste a una svolta: il papato perde l’universalismo di cui si era ammantato nel periodo medievale, per convertirsi eminentemente al rango di potenza regionale, puntando sull’evoluzione statale del proprio dominio temporale, sulla promozione della cultura e delle arti in piena consonanza con lo spirito rinascimentale, sull’accentuazione degli aspetti “mondani” della vita di corte.
La città di Roma, recuperata la sua centralità quale cuore della cristianità occidentale, diventa uno dei principali nuclei propulsori della cultura umanistica, meta ambita per artisti e intellettuali, luogo privilegiato di concentrazione e irradiazione della temperie rinascimentale. In un’epoca ancora non condizionata dai rigori della Controriforma, che impronterà con il suo spirito disciplinante le forme della cultura, della religione e della politica dei secoli successivi al concilio di Trento (1545-1563), la curia papale si presenta come una vivace corte principesca, sede ideale per la circolazione delle idee, l’incontro degli eruditi, la sperimentazione di espressioni artistiche. I pontefici quattrocenteschi si rivelano munifici patrocinatori di attività culturali, generosi mecenati, animatori dei fermenti dell’umanesimo trionfante, e sovente essi stessi intellettuali raffinati. È il caso di Niccolò V, apprezzato erudito, cultore e fondatore di biblioteche, artefice di un piano articolato per la riqualificazione urbanistica e architettonica della Roma capitale dello Stato ecclesiastico e faro della religione cattolica; di Pio II (Enea Silvio Piccolomini), noto scrittore e poeta; di Sisto IV (Francesco della Rovere), solerte promotore di monumentali opere pittoriche e architettoniche, convinto sostenitore di dotti studiosi.
Allo stesso modo, anche le corti dei cardinali, veri principi della Chiesa, generalmente provenienti dai ranghi dell’aristocrazia, offrono protezione e opportunità di affermazione a intellettuali di vario spessore, più o meno integrati nell’ambiente cortigiano, luogo simbolo della civiltà rinascimentale.
Il papa, le gerarchie e la ristrutturazione dello Stato
Lo Stato pontificio rinascimentale intraprende, al pari delle coeve monarchie, la strada dell’assolutismo regio, esaltando la bidimensionalità della sovranità papale, che racchiude la supremazia del capo della cristianità e l’autorità del principe territoriale.
L’umanista Enea Silvio Piccolomini, futuro papa col nome di Pio II, pone in evidenza la straordinaria prerogativa pontificia di coniugare la instructio del sacerdote e la praeceptio del re.
In questa fase il rapporto tra il papato e le gerarchie ecclesiastiche, contraddistinto dalla netta e incalzante affermazione del primato pontificio e dal conseguente esautoramento dell’organismo conciliare, tende a inserirsi nel quadro di riorganizzazione amministrativa perseguita dal moderno Stato della Chiesa. Il collegio cardinalizio e l’alto clero si trasformano progressivamente da elementi antagonisti al sovrano pontefice a potenti organismi di governo, i cui componenti si configurano come “funzionari” competenti in ambito civile e pastorale, in virtù dell’ambivalente caratterizzazione in spiritualibus et in temporalibus del potere papale.
I prelati, integrati nel processo di ristrutturazione della curia e dello Stato, si dispongono a costituire l’ossatura fondamentale della burocrazia pontificia, avviando quella “clericalizzazione” degli apparati di governo che diventerà un tratto saliente dell’amministrazione dello Stato ecclesiastico nei secoli successivi. La tendenza al potenziamento del dominio temporale da parte del papato rinascimentale è favorita, assecondata e testimoniata dall’ascesa al soglio pontificio di personaggi di prevalente formazione giuridica, i quali, più che vantare una solida esperienza pastorale, provengono dalle fila dei funzionari curiali, dai ranghi dell’amministrazione statale, dalla carriera diplomatica. La riorganizzazione dello Stato su nuove e salde basi si realizza attraverso la razionalizzazione dell’amministrazione provinciale, il contenimento delle tendenze centrifughe, la repressione di fenomeni di ribellismo da parte di comunità e vassalli dei domini ecclesiastici, l’irrobustimento della curia e degli apparati di governo.
D’altronde, il consolidamento del potere temporale appare una strategia idonea a garantire la libertà della Chiesa dai condizionamenti delle altre potenze e a consentire al papa di esercitare pienamente la sua autorità sovrastatale in ambito spirituale. La “duplice anima” del sovrano pontefice (Paolo Prodi, Il sovrano pontefice. Un corpo e due anime: la monarchia papale nella prima età moderna, 1982) se da un lato rappresenta un atipico elemento di forza per la monarchia papale, dall’altro non è sufficiente, tuttavia, a colmare le intrinseche debolezze derivanti dalla sua natura elettiva e non ereditaria e dall’intronizzazione di sovrani dall’età media avanzata, che provoca un loro frequente avvicendamento. La connaturata discontinuità del papato è bilanciata dalla stabilità dell’organismo curiale e dalle generalizzate manovre dei pontefici atte a radicare la propria famiglia nelle dinamiche di assegnazione dei titoli e negli ingranaggi dello Stato. È come se all’impossibilità della trasmissione dinastica della sovranità si ovviasse, da parte dei papi, attraverso l’elevazione dei propri congiunti ai più alti gradi della nobiltà, delle onorificenze, degli incarichi di governo. Il dilagante fenomeno, noto col termine di nepotismo, costituisce una delle principali fonti di critica all’istituzione ecclesiastica, ma, mediante la creazione di “dinastie di porporati” proiettate alla gestione di trame politiche e schieramenti, risulta funzionale ai complessi e precari equilibri inerenti all’elezione papale.
Un altro fenomeno che viene concepito come strumentale alla conservazione dell’autonomia della Chiesa è individuabile nell’“italianizzazione” del papato e della curia, che prende avvio proprio nel XV secolo con l’ascesa del romano Martino V Colonna e – con le sole eccezioni dei catalani Callisto III (Alonso Borgia) e Alessandro VI (Rodrigo Borgia) e del tedesco Adriano VI (Adriano Florisz) – perdura ben oltre l’età moderna, fino al 1978. La scelta di pontefici italiani dovrebbe preservare la Chiesa dalla soggezione alle monarchie europee, tutelandola dal riemergere di situazioni degradanti come quelle che hanno caratterizzato il drammatico periodo avignonese e post-avignonese. Solo un papa italiano, e un collegio cardinalizio prevalentemente italiano, sembra possano mantenersi alieni da suggestioni “nazionalistiche” e influenze subordinanti. Al medesimo scopo appare, di contro, funzionale proprio la frammentarietà politica della penisola italiana, la cui sostanziale debolezza sul piano internazionale non desta le preoccupazioni delle altre potenze, finendo per assicurare l’intangibilità dello Stato pontificio e del suo sovrano.
La Chiesa nella società
Il Quattrocento è segnato da un’intensa critica alla decadenza morale delle istituzioni ecclesiastiche, all’inadeguatezza pastorale e alla scarsa spiritualità dei loro membri, la maggior parte dei quali appare lontana dalla ieratica povertà della Chiesa delle origini.
Accorati appelli a un’indifferibile riforma dei costumi, a un imprescindibile recupero dei principi evangelici, a un soffocamento degli insani interessi mondani di un papato totalmente proiettato verso esigenze meramente temporali si erano levati invano sia all’esterno sia all’interno della Chiesa stessa, spesso incanalandosi in correnti religiose presto fuoriuscite dall’alveo dell’ortodossia e bollate come ereticali: gli emblematici casi delle teorie propugnate dai seguaci di John Wycliffe in Inghilterra o di Jan Hus in Boemia rappresentano esempi significativi del travaglio storico-dottrinale di istanze di rigenerazione che permeavano da tempo l’orizzonte socio-religioso.
La profonda crisi si manifesta con un generalizzato disinteresse del clero per la cura d’anime, per la gestione del patrimonio ecclesiastico, per l’assolvimento dei compiti pastorali e liturgici. Il rilassamento dei costumi, la noncuranza per la dimensione spirituale della propria missione, l’adozione di stili di vita mondani, la passione per la ricchezza e i beni materiali sono aspetti ampiamente riscontrabili nella Chiesa rinascimentale, in particolare all’interno del clero secolare, la cui trascuratezza e inidoneità all’incarico contrastano con la spiritualità e la dedizione di un clero regolare spesso più aderente alla sua vocazione.
Il malessere delle istituzioni ecclesiastiche è attribuibile ad alcune cause fondamentali: in primo luogo, l’attuazione di logiche nepotistiche che prescindono da valutazioni meritocratiche e rispondono a esigenze eminentemente politico-economiche e di ascesa sociale; in secondo luogo, la netta separazione tra lo svolgimento dell’ufficio e il godimento del beneficio, che – con la diffusa attuazione della prassi del vicariato – genera un sostanziale abbandono delle funzioni e dei beni affidati. L’attestata pratica di cumulare più incarichi, per fruire delle rendite annesse, tende a creare un alto clero prevalentemente assenteista, figure di vescovi solitamente non residenti che affidano la gestione pastorale e patrimoniale delle diocesi a vicari spesso incompetenti. Il basso clero non è, a sua volta, esente da critiche, poiché si mostra caratterizzato da impreparazione dottrinale, inosservanza degli obblighi pastorali e liturgici, malcostume e stili di vita che, invece di fungere da modello, si conformano spudoratamente a quelli dei laici. Questi, d’altro canto, non potendo contare su un confacente supporto spirituale, sono esposti al rischio di travisamenti e contaminazioni delle esperienze di fede. L’evidente decadenza ecclesiastica presta il fianco alle molteplici accuse di corruzione, simonia, dissolutezza, immoralità, che serpeggiano nel popolo dei fedeli, ma albergano anche nel richiamo dei più avveduti religiosi del tempo a un’improcrastinabile riforma in capite et in membris, che riporti la Chiesa alla purezza originaria.
Il diffondersi della cultura umanistico-rinascimentale, proiettata verso la rivalutazione dell’individuo e delle sue potenzialità, suscita il bisogno di un rapporto più diretto con Dio, meno mediato dall’istituzione ecclesiastica che, nel suo vertice curiale e papale quattrocentesco, finisce per non affrontare in modo sistematico ed efficace la spinosa questione della rigenerazione morale, concentrandosi – come già detto – sul processo di consolidamento della struttura statale. Sarà il papato del XVI secolo – incalzato dalla riforma protestante – a dover inevitabilmente promuovere un complessivo rinnovamento spirituale, etico e istituzionale che, dopo il concilio di Trento, impronterà per secoli la Chiesa e la società.