Il palazzo di Mari
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Dalla fine del III millennio a.C., i palazzi reali diventano il fulcro della vita economico-politica delle grandi città vicino orientali a discapito dei templi. Costruiti in mattoni crudi, si estendono per centinaia di metri quadrati. Il più noto e meglio conosciuto fra questi è il Palazzo di Mari, il cui splendore desta ammirazione anche fra i suoi contemporanei.
Dopo secoli di fioritura, a metà del XVIII secolo a.C., il regno di Mari è sconfitto da Hammurabi di Babilonia, che ne saccheggia ed incendia il palazzo. Come spesso accade in archeologia, l’infausto evento diventa, millenni dopo, la fortuna degli studiosi moderni e il Palazzo di Mari rappresenta il miglior esempio conosciuto di architettura palatina mesopotamica. Le sommità dei muri crollate durante l’incendio, infatti, hanno coperto le parti inferiori della struttura, proteggendola nel corso del tempo dalle intemperie e mantenendola nello stesso stato in cui era al momento della distruzione.
Come la maggioranza degli edifici del Vicino Oriente antico, il Palazzo di Mari è costruito con mattoni crudi, fabbricati con argilla e paglia, un legante naturale che ne evita la rottura mentre essiccano al sole. Gli stessi materiali sono impiegati anche per preparare l’intonaco con il quale sono coperti gli alzati, mentre molti pavimenti sono di terra e i tetti sono costruiti con travi di legno e canne. In tutta la regione, l’uso della pietra, materiale più raro dell’argilla, è relegato alle fondazioni dei muri o a particolari elementi strutturali, come basi di colonne e bacini.
Già ai tempi di Zimri-Lim, il suo ultimo re, il Palazzo di Mari è antico: la costruzione è iniziata almeno nel XXII secolo a.C., all’epoca della III Dinastia di Ur, quando a governare la città ci sono gli shakkanakku, i governatori militari. Nel corso del tempo, l’edificio continua ad ampliarsi e a modificarsi e la sua fama è tale che perfino il sovrano della ricca città costiera di Ugarit, distante oltre 500 km da Mari, esprime il desiderio di visitarlo.
Visto dall’esterno il palazzo doveva avere un aspetto compatto, poiché i tetti erano piatti e terrazzati e gli spessi muri perimetrali avevano solo qualche piccola apertura per dare luce agli ambienti interni. In più zone esisteva un secondo piano, crollato durante l’incendio, ma la cui esistenza è dimostrata dalle scale scoperte in alcune aree del Palazzo. Le oltre 260 stanze del piano terra coprono una superficie di circa due ettari e mezzo dalla forma quadrangolare, con una protuberanza irregolare a sud. Una serie di quartieri ben differenziati fra loro, spesso organizzati attorno ad una corte centrale, forma la sua struttura interna.
Le uniche due entrate sono a nord: la principale conduce agli ambienti di rappresentanza, mentre l’altra, nell’angolo orientale, porta direttamente ai quartieri posteriori, mediante un lungo corridoio che costeggia l’edificio.
Dopo aver attraversato le due porte dell’ingresso principale, il visitatore è costretto ad attraversare due atri e a cambiare più volte la sua direzione di marcia, prima di giungere alla Grande Corte (131), lo spazio più ampio del Palazzo (32x48 metri). Sul lato opposto della corte, una scala semicircolare e una larga porta introducono alla Cappella palatina (132). Al suo interno, circondata da pitture antiche, doveva trovare posto una statua della dea Ishtar. A lato della sala si trova l’accesso al Santuario palatino, la cui pianta si dice essere rimasta immutata per secoli; è in quest’area che, al secondo piano, si trovavano gli appartamenti reali.
Il vero centro cerimoniale e di rappresentanza si trova ad ovest della Grande Corte ed è raggiungibile percorrendo un lungo corridoio ad angolo. Il passaggio dal buio corridoio alla Corte delle Palme (106), inondata dall’accecante sole della Mesopotamia, doveva destare ammirazione e deferenza nel visitatore. La corte quadrata era decorata da splendidi dipinti e al suo centro sorgeva una palma realizzata in bronzo e argento su supporto di legno. A lato della corte si trova un grande archivio di stato (115), mentre di fronte all’entrata, sotto un portico, si apre una grande porta. Da qui un tempo si vedeva il trono, collocato su un massiccio basamento in calcare nell’oblunga stanza adiacente (64). Riprendendo uno schema tipico dell’architettura mesopotamica, dietro la corte e la prima stanza, si trova una lunga sala (65). Qui un secondo trono era collocato sul lato breve, sotto un baldacchino, e nella parete opposta si apre un piccolo anfratto (66), molto rialzato rispetto al pavimento della sala. Sulla sommità della scalinata che ne permette l’accesso, erano collocati tre basamenti di statue, una delle quali, al momento dello scavo, giaceva ancora a terra. Le pareti ai lati della porta erano decorate da rilievi, dei quali è stato trovato un frammento raffigurante una dea con vaso zampillante. Il pavimento di fronte alla celletta era coperto di bitume ed era attraversato da canalette per il deflusso delle acque. È evidente che il complesso formato dalle due sale doveva avere una valenza sacrale e che in esso si svolgevano rituali nei quali era previsto l’uso di acqua.
Dalla Sala del Trono si accede alla Sala dei Banchetti (1), dotata di panche in mattoni e collegata con le cucine, poste a sud e sviluppate attorno ad un cortile (70) nel quale si trova un grande forno circolare, dove si cuoceva il pane negli stampi d’argilla dalle forme più disparate trovati nella stessa area. A sud delle cucine, varie stanze disposte su due file ai lati di un lungo corridoio erano forse gli alloggi della servitù, mentre a nord si trovava l’area amministrativa del palazzo e una seconda area residenziale.
I dipinti Pochi degli oggetti preziosi che un tempo affollavano le stanze sono stati lasciati al loro interno dopo il saccheggio e molte statue sono state portate come bottino di guerra a Babilonia, dove sono state ritrovate millenni dopo. A testimoniarci l’opulenza del Palazzo sono soprattutto i testi, che il re babilonese, evidentemente non ritenendoli un bottino interessante, lasciò in loco.
Altra cosa che non poteva essere portata via da Hammurabi è rappresentata dai dipinti, fortunosamente sopravvissuti allo scorrere dei secoli. Le pitture murali dovevano essere abbastanza diffuse all’epoca, ma poche si sono conservate, poiché i muri in mattoni crudi sui quali erano realizzate, se non sono periodicamente rinnovati, sono destinati a erodersi in breve tempo a causa del vento e della pioggia.
Le pitture di Mari, oggi visibili al Louvre, sono importanti sia perché ci offrono una visione del mondo cultuale e cerimoniale della città, sia perché ci documentano la tecnica e lo stile utilizzati nei dipinti dell’epoca. Le figure, dipinte a secco, sono contornate da una spessa linea nera e i colori utilizzati, prodotti mischiando vari elementi ad un collante naturale come l’albume o la caseina, sono il rosso (ottenuto dall’ossido di ferro), l’ocra (dalla terra), il blu (dall’ossido di rame), il nero (dal bitume), il bianco (dal gesso) e il grigio.
La Cappella di Ishtar I primi dipinti che s’incontravano entrando nel Palazzo erano probabilmente i più antichi, coevi alla costruzione del Palazzo, ed erano disposti su almeno cinque registri di diversa dimensione sulla parete ovest della Cappella di Ishtar, raggiungendo un’altezza che superava i tre metri. Nella bassa fascia inferiore si assiste ad una sfilata di portatori di pesce, mentre nel registro centrale, più alto, è raffigurata la dea Ishtar, con indosso una lunga veste e una mazza e un’ascia che le emergono dalle spalle. Altre due dee la servono e una di esse le porge una coppa. Una terza dea è ritta di fronte ad una figura di cui rimane solo la parte inferiore della lunga veste. Seguono due personaggi che lottano e un terzo che regge un’ascia. Alle estremità ci sono due sfingi alate che volgono simmetricamente lo sguardo verso l’esterno. La prima parte della scena dipinta è un tema comune, visibile anche su molti sigilli, mentre è originale l’aggiunta dei lottatori, il cui collegamento con il resto della rappresentazione non è chiaro. Questa giustapposizione di scene diverse è una novità per il XXII secolo a.C., ma diventerà una componente regolare dei rilievi storici assiri.
Nel registro inferiore si vede il re davanti al dio lunare Sin, riconoscibile per la tipica tiara a luna crescente. Il re indossa un classico copricapo a calotta e una veste a balze, uguale a quella della dea Ishtar, e offre una libagione al dio, vestito invece di un abito regale. La divinità è seduta su un trono a scaglie, rappresentazione delle montagne, che formano anche la base sulla quale poggia i piedi il sovrano. Una dea benedicente e un personaggio con un corto gonnellino, che regge in mano un aryballos, un vaso da libagioni, assistono alla scena. Dietro di loro, da un secondo aryballos sospeso, fluiscono fiotti di acqua. La scena è incorniciata a sinistra da un toro, ritto sui monti, e a destra da un inquietante demone che emerge dal cielo stellato. È chiaro l’intento di celebrazione del re, che diventa il tramite umano con la divinità e, di conseguenza, portatore di fecondità al paese, simboleggiata dall’acqua della vita.
Anche la Corte delle Palme era in buona parte decorata da dipinti e al suo interno sono stati trovati vari frammenti, più recenti dei precedenti, appartenenti a una scena di vittoria e a una processione, con i personaggi disposti su due registri e il re, grande il doppio degli altri, a guidarla.
Di fianco alla porta che conduce alla Sala del Trono si trovava una complessa composizione, la meglio conservata, nota come l’Investitura di Zimri-Lim, racchiusa fra bordi frangiati dipinti che la fanno sembrate un grande arazzo. Al centro, in un quadrato circondato da una cornice a strisce policrome, trova posto una scena bipartita. Nella metà superiore, ad altezza occhi, la dea Ishtar, con le armi che le emergono dalle spalle e un piede posato su un leone accovacciato, è raffigurata con il torso frontale ma gli arti e il viso di profilo, volti verso il re, nell’atto di porgergli i simboli del comando, il cerchio e il bastone. Due divinità femminili con le braccia alzate in preghiera stanno dietro i due personaggi, mentre nell’angolo di destra appare un dio. Nella scena sottostante altre due dee dalle lunghe vesti ondulate sono raffigurate simmetricamente di profilo, mentre reggono ciascuna un vaso zampillante, dal quale escono quattro flutti d’acqua, nei quali nuotano pesci. Un flusso sovrasta le dee e ridiscende alle loro spalle, due scendono a terra, mentre il quarto, prima di cadere verso il suolo, si biforca, andando ad unirsi a quello della dea contrapposta e formando una cornice al centro della composizione. Tornano ancora i simboli visti nel dipinto della cappella: il re investito del potere dal dio e l’acqua, fonte di vita, che sgorga copiosa. La composizione è completata da due pannelli simmetrici laterali più alti. In ciascuno è raffigurata una dea orante, con il copricapo a quattro paia di corna, posta vicino al margine esteriore. Davanti ad essa si trova una palma, minuziosamente rappresentata, sulla quale si arrampicano due uomini, per raccogliere i datteri che crescono abbondanti, simbolo di prosperità. Fra la palma e un secondo albero dalle fronde lotiformi ci sono tre animali mitologici, una sfinge, un grifone alato dalla strana coda ad elica, nell’atto di toccare l’albero, e un toro che posa la zampa su un monte. Il realismo della raffigurazione non è narrativo e anche se può riferirsi alla riconquista del potere da parte del re, dopo il periodo di dominio assiro, a prevalere è il suo valore simbolico. Tutto tende a glorificare il re e soprattutto, attraverso di lui, gli dèi, che concedono fertilità e abbondanza alla città: quella di questi dipinti, più che un’arte regale, è un’arte religiosa.
Un rito simile a quello raffigurato nel dipinto poteva effettivamente avere luogo nella città, nella lunga sala dal pavimento parzialmente bitumato. La testa con la tiara cornuta di una delle poche statue rimaste nel palazzo è stata trovata nella Corte delle Palme, mentre il corpo giaceva nella Sala del Trono. La statua rappresenta una dea che regge, poggiato sul ventre, un vaso. Un condotto parte dalla base della statua e la percorre fino al vaso, rendendo possibile far zampillare realmente l’acqua. I flutti che ne uscivano trovavano riscontro anche nella veste ondulata, sulla quale sono scolpiti dei pesci.