Il paganesimo
Identità e alterità come paradigmi dell’età costantiniana
La libertà religiosa costantiniana, concepita come apertura dello Stato romano al cristianesimo, determinò anche profonde trasformazioni nella stessa concettualizzazione del religioso. In questo frangente storico la religione tradizionale romana assunse la conformazione autonoma di religione e fu denominata paganesimo. Fra III e V secolo le interazioni, le contaminazioni, gli scontri e le sovrapposizioni fra i due orizzonti, quello pagano e quello cristiano, determinarono, a partire dal piano istituzionale e legislativo, l’affievolirsi e poi la scomparsa dei culti tradizionali così come si erano prodotti e conservati nel corso di sei secoli1.
Il termine pagano in accezione religiosa, negativa rispetto al cristianesimo, trova una spiegazione in Agostino, che offre questa definizione: «deorum falsorum multorumque cultores, quos usitato nomine paganos vocamus»2. L’etimologia del nome deriva da pagus, villaggio, e si è discusso, fin dall’Umanesimo, in che modo si sia passati dal senso originario di ‘abitanti dei villaggi’ a quello religioso. Una prima interpretazione individua nei pagani i fedeli del paganesimo, contrapponendoli ai cristiani, in quanto il cristianesimo si diffuse in un primo tempo nelle città e solo dopo anche nei villaggi e nelle campagne3. Una seconda opzione, invece, si rifà all’idea dei cristiani come militia Christi, contrapposti ai pagani come civili, ovvero come non attivi nella militia Christi4?. A questo proposito il riferimento è a Tertulliano, in un passo del De corona (11): «Apud hunc [scil. Cristo] tam miles est paganus fidelis, quam paganus est miles fidelis»: di fronte a Cristo è soldato tanto un civile che ha fede, quanto è civile un soldato che ha fede. Per non essere soldati, i cristiani dovevano essere comunque soldati, ma ‘soldati di Cristo’, cioè milites Christi, ovvero dovevano avere fede. Essere fedeli significava restare ‘civili’, ma incorrere nelle stesse difficoltà di chi fa la guerra. Un soldato che avesse avuto fede sarebbe rimasto immune dalle difficoltà della vita militare, alla stregua di un civile. La relativizzazione di questa dialettica a Cristo (apud hunc) avrebbe appunto fatto divenire i non milites (scil. di Cristo) dei pagani, ovvero degli obiettori (dal punto di vista cristiano: in realtà dei non convertiti) rispetto all’adesione al cristianesimo, creando la dicotomia pagani/Christiani, in cui il primo termine individuò e individua tuttora i non cristiani, sia nella storia dell’Occidente, sia nei rapporti con le culture ‘altre’ in ogni parte del mondo. Con paganesimo o neopaganesimo si definiscono inoltre, in età contemporanea, taluni movimenti religiosi che si ispirano in maniera diretta o indiretta alle religioni non cristiane dell’antichità.
In tempi recenti è stata proposta una lettura che scarta le due ipotesi tradizionali individuando in paganus il termine dialettico che sarebbe emerso alla fine del IV secolo per qualificare i non cristiani: paganus sarebbe stato scelto, allora, per indicare l’alterità sociale dei pagani rispetto ai cristiani, assumendo un senso nuovo, appunto ‘religioso’, rispetto a quello che già aveva, di definizione degli esterni, gli ‘altri’, in relazione a una comunità identitaria5.
Da paganus derivano dei concetti generali, che possono essere identificati come religione solo in contrapposizione dialettica e storica rispetto al cristianesimo: paganitas, che compare per la prima volta nel Codice Teodosiano6?, si contrappone alla civitas, di cui si è virtuosamente appropriato il cristianesimo (la civitas Dei). Paganismus, che si trova in Agostino7, si contrappone, assumendo conformazione e struttura di religione, a Christianismus.
In età costantiniana e teodosiana, in un breve volgere di anni, la religione romana tradizionale muore per decreto8 o viene assassinata9. Contro la retorica del conflitto e dello scontro violento, che in gran parte domina la storiografia, si sta facendo strada una visione più moderata, volta a riconoscere che la scomparsa del paganesimo romano non ebbe la consistenza sonora di un’esplosione, bensì semmai quella di un sospiro: si sarebbe trattato, allora, di morte naturale10.
La stessa idea di rappresentare una religione alla stregua di un organismo vivente, dunque potenzialmente mortale perché in vicenda, ancorché suggestiva e largamente abusata, ha poco senso da un punto di vista storico. Se ancora il Codice di Giustiniano, nel 534, sentiva il dovere di riprendere le costituzioni De paganis sacrificiis et templis11? che fissavano così lo stato di fatto, cristallizzato dal diritto, dell’epurazione dei culti pagani dall’orizzonte politico-religioso dell’Impero cristiano, in qualche misura ciò che chiamiamo religione tradizionale romana, o paganesimo, doveva ancora apparire come qualcosa di vivo e persistente12. Di fatto, la stessa storia del cristianesimo, fino al momento fotografato dalla giurisprudenza giustinianea, si era dipanata in un’interazione costante con il paganesimo e il politeismo, in una dialettica fatta di contrasti e contrapposizioni, di luci e di ombre.
La storia di Roma non può prescindere da una comprensione dell’apparato di simboli, concezioni, azioni e rappresentazioni, narrazioni e personificazioni eroiche e divine che va in generale sotto la definizione di religione e che fa parte integrante della storia culturale e politica della città e dell’Impero. Nella famosa definizione nel De natura deorum di Cicerone, in effetti, i romani si autoproclamano superiori agli altri popoli (externi) per ciò che concerne la religione, ovvero il culto degli dei (religione, id est cultu deorum)13. Tale affermazione significava che alla capacità attiva e operativa di relazionarsi con il divino si poteva attribuire un significato qualitativo e quantitativo: la qualità dell’azione, del gesto, dell’interrelazione con le divinità e gli eroi voleva dire capacità raffinata di stabilire un rapporto proficuo a vantaggio degli uomini e della comunità; la quantità delle personificazioni, delle attribuzioni spazio-temporali (templi e feste), delle occorrenze, dunque della presenza degli dei nella vita pubblica si traduceva in una scansione regolare e costante del rapporto con quel divino, da pensare in maniera ambivalente, come pensiero dell’uomo rispetto alla propria vita individuale e comunitaria dominata da influenze e relazioni con il non umano, e come incasellamento del divino, da parte dell’uomo, entro limiti governabili e umanamente gestibili. La religione romana ha queste componenti come fattori determinanti.
In termini ancora generali, si può anche affermare che essa si cala nel tempo e nello spazio secondo prospettive di continuità. Da una parte, infatti, la durata dei rituali, delle scelte cultuali, delle rappresentazioni simboliche viene proiettata epicamente nelle origini mitiche della città e vista come costante della storia ideologica della repubblica prima, dell’Impero poi, perennemente riattualizzata e resa duratura. Dall’altra, lo spazio civico tanto dell’Urbe quanto degli altri agglomerati cittadini sul territorio conquistato appare dominato dalla presenza di templi, luoghi di culto, rimandi fisici a una pienezza di rapporto e relazione con il divino che si trasforma in atto quotidiano ed eccezionale al tempo stesso14.
Questa relazione pervasiva e condivisa fra umano e divino viene di norma riassunta con il concetto romano di pax deorum, che descriveva l’idea di seguire costantemente e scrupolosamente comportamenti e azioni che garantissero agli uomini il mantenimento di un equilibrio relazionale con la sfera divina15. Tali azioni potevano essere di vario genere e solo con una forzatura possono essere riportate al nostro concetto generale di religione, che si formulerà in epoca posteriore, nella correlazione fra cristianesimo e Stato romano e per affermazione della dialettica fra civico e religioso16. Una celeberrima definizione del giurista Ulpiano («Publicum ius in sacris, in sacerdotibus, in magistratibus consistit»17) mette in comune, sotto la categoria di ius publicum, sacra, sacerdoti e magistrati: ciò impone una ricomprensione e storicizzazione delle categorie fuori di ogni condizionamento successivo. La pax deorum si traduceva in operatività sacrificale, cultuale, performativa e aveva il senso di prospettare forme di solidarietà e reciprocità tra le sfere. Da una parte la pietas consiste nel mantenimento dell’equilibrio di Stato, nella sua difesa e ricostituzione a seguito di mancamenti o deviazioni, anche in rapporto a segni che trasmettono agli uomini il senso dell’infrazione18. Il ristabilimento dell’ordine è funzionale al sostentamento delle due sfere, quella umana e quella divina, nelle rispettive prerogative e funzioni, in una condivisione virtuale della stessa dimensione pubblica (civitas)19. Ciò acquisisce il significato sia di una comunicazione (nella divinazione)20 sia di una compensazione (nel sacrificio)21: la disparità tra le due sfere, quella umana e quella divina, fa sì che, nella corretta e regolamentata assoluzione dei propri doveri, la prima possa corroborare l’esistenza della seconda, traendone benefici sostanziali, sia sul piano pratico sia su quello simbolico. Per quanto concerne la divinazione, tale riequilibrio si individua nella soluzione della crisi determinata dalla manifestazione di un prodigium; nell’azione sacrificale, invece, prende le forme di una transazione con l’extraumano, implicita o esplicita, quale che sia la quantificazione, la specificazione del destinatario, la tipologia di offerta e di richiesta.
Fin dalle origini mitiche e poi in età storica, un compito particolare è stato quello di delega delle funzioni sacrali a un personale specializzato. I massimi esperti delle questioni religiose erano i pontifices, con a capo il pontifex maximus: essi fornivano istruzioni sia per i culti privati sia per quelli pubblici, gestivano e regolavano il calendario, amministravano lo ius divinum, tenevano il registro degli annales. Del collegio facevano parte anche altre figure: rex sacrorum, flamines, vestales. Il rex era la trasposizione rituale, personificata e attualizzata, di talune funzioni sacrali e simboliche che, concepite come attributi degli antichi re, permanevano in maniera controllata e delimitata nell’attualità; i flamines, in numero di quindici tra i quali i tre maiores, ciascuno al servizio di una divinità, rappresentavano le divinità in terra: l’unico di cui abbiamo notizie dettagliate, il flamen di Iuppiter (Dialis), viveva in condizioni festive permanenti, ovvero era sottoposto a imposizioni e interdizioni che vincolavano costantemente la sua vita. Il suo ruolo gli imponeva, in maniera simbolicamente illuminante rispetto alla particolare natura del dio, la presenza continua in Roma, il contatto fisico con il suolo romano e al tempo stesso il legame con il cielo e la necessità di essere sposato per entrare e restare in carica; allo stesso modo valgono i divieti di portare addosso nodi o di assistere in qualsiasi forma ad attività lavorative o di incontrare prigionieri. Le vestales, inizialmente in numero di quattro, poi sei, erano le vergini che sovrintendevano al fuoco sacro e producevano la mola salsa, una rielaborazione del farro per l’uso in ambito sacrificale: erano scelte per sorteggio tra le candidate e poi ritualmente catturate dal pontifex maximus, che ne era anche l’arbitro in caso di mancanza, che poteva essere lo spegnimento del fuoco sacro o la perdita della verginità. Altri collegi sacerdotali erano quelli degli augures e dei decem (quindecim) viri sacris faciundis, collegati a diverso titolo alla divinazione: i primi avevano la funzione di interpretare i segni divini in rapporto agli interessi e alle imprese pubbliche, individuando uno spazio e leggendo in esso le potenzialità delle azioni in questione; i secondi su ordine del Senato e in occasione di prodigia adivano ritualmente i libri Sibyllini, testi concepiti originariamente in ambito culturale ellenico e caratterizzati da contenuto profetico ed estatico, dalla cui lettura e interpretazione razionale ricavavano istruzioni volte a risolvere la crisi individuata dal prodigium. All’area della divinazione afferivano anche gli aruspices, che si occupavano di esaminare gli exta, le viscere delle vittime sacrificali, traendone un ricco repertorio di dati. Altre funzioni sacerdotali erano assolte dai fetiales (dichiarazione di guerra o stipula della pace), dalle sodalitates dei luperci (protagonisti della sequenza rituale in occasione delle feste dette lupercalia), e dei salii, che inquadravano ritualmente l’apertura e la chiusura della stagione di guerra; il collegio dei fratres arvales aveva il compito di vegliare sui campi coltivati22. Accanto alle forme del culto pubblico, la religione romana contemplava inoltre un articolato e consistente complesso di componenti che sono comprese nella categoria del culto domestico o dei sacra privata23.
Un momento di straordinaria importanza della religione romana fu rappresentato dall’opera di Augusto, che al tempo stesso ricoprì un gran numero di cariche sacerdotali, avviò opere di recupero dei templi e degli edifici pubblici più significativi anche da un punto di vista religioso, operò sul piano del ripristino e del rinnovamento dei culti, delle tradizioni, delle mitologie e degli apparati simbolici in senso lato. Se già Giulio Cesare aveva conseguito il pontificato massimo allo scopo di consolidare il proprio potere personale24, Augusto fece convergere su di sé una serie di cariche che andavano da quella, fondamentale, di pontifex maximus a quelle di augur, di quindecemvir sacris faciundis, di septemvir epulonum, di frater arvalis, di sodalis Titius, di fetialis25?. Ciò gli attribuiva, insieme al potere politico, economico e militare, anche la sovrintendenza sulla sfera simbolico-religiosa, senza vincolarlo (come sarebbe stato, ad esempio, nel caso dell’assunzione della carica di flamen Dialis) e al tempo stesso dandogli la possibilità di lavorare costantemente a una riforma complessiva dello stato della religione. Tale riforma ha il significato complessivo di una restaurazione dei rituali più antichi, con cui l’Impero finisce per avere una continuità nel tempo, ma in funzione dell’ideologia e del potere contemporaneo: va in questo senso l’istituzione di nuovi culti pubblici, fra cui quelli del Divus Iulius e del Genius Augusti26?. Similmente l’imperatore si rese protagonista della gestione del tempo, con l’evocazione e la cristallizzazione poetica del tempo sacro delle origini a opera dei poeti di corte, in cui l’attualità si sovrapponeva alle origini e Augusto si connotava come riproduzione nell’attualità del fondatore, con l’instaurazione del saeculum e, dopo la morte, con la fissazione della sua nascita e morte come momenti del calendario27 e con la divinizzazione dell’imperatore stesso, secondo un modello rituale che sarà perpetuato nei secoli successivi28.
La religione degli imperatori aveva la caratteristica di attirare l’attenzione sul ruolo del divus, ancora regnante e futuro oggetto di culto. Ma al tempo stesso era aperta a potenziali innovazioni o a dinamiche di persecuzione. Fra le prime possiamo annoverare, ad esempio, il culto del Sole istituito da Aureliano, che aveva dato luogo alla costruzione di un tempio, purtroppo perduto, all’istituzione di un nuovo collegio pontificale, i pontifices Solis, e di ludi dedicati29.
A questo impianto generale non corrispondevano compresenze religiose alternative nel territorio dell’Impero. Un discorso diverso può essere fatto per i culti così detti misterici, come ad esempio il mitraismo, che però non risultano in contrapposizione rispetto al quadro politico-sociale generale: legati a gruppi di iniziati, talora socialmente omogenei, essi avevano comunque un rimando generale all’impianto politeistico, rispetto al quale potevano privilegiare ora un aspetto ora l’altro dell’esistenza (nel caso del mitraismo, si rimanda in genere agli ambienti militari, in cui il culto derivato dal dio persiano Mithra e ‘romanizzato’ in funzioni gerarchiche e iniziatiche sarebbe stato particolarmente diffuso). Nel caso di una religione dal carattere etnico, come l’ebraismo, a seconda dei momenti storici potevano essere individuati degli spazi di tolleranza e accettabilità di culti particolari (la preghiera Deo aeterno pro salute Augusti, come trasposizione, dunque, dell’obiettivo della richiesta e, di rimando, accettazione di quel culto particolare da parte dell’istituzione centrale), ovvero anche essere applicate specifiche prassi persecutorie, determinate dall’impenetrabilità e incompatibilità del sistema religioso politeista nei confronti di dinamiche cultuali che volessero mantenersi autonome30. Similmente, per gli sviluppi delle persecuzioni anticristiane sarà determinante il rifiuto del sacrificio in onore dell’imperatore, che significava un rifiuto netto di adeguamento all’unico equilibrio socio-culturale e simbolico concepibile in quell’orizzonte. Tale rifiuto, percepito come reato di lesa maestà, provocò una netta presa di posizione delle autorità e dei magistrati in materia di ordine pubblico31.
Questi cenni non possono che mostrare la necessità di immaginare ciò che si definisce ‘religione romana’ come un habitus sociale che non prevedeva alternativa, pur nella mutevolezza delle epoche storiche in relazione alle classi dirigenti e infine agli imperatori e alle rispettive corti. Tale habitus era pervasivo della vita degli individui e dei gruppi e regolava in generale il comportamento quotidiano e la scansione rituale del tempo e delle esistenze in maniera costante e perenne, con ricorrenze, coinvolgimenti di vario genere, specializzazioni, sempre incentrando l’agire umano in funzione dello scrupolo religioso, del corretto relazionarsi al divino, attraverso l’intervento o meno del personale a ciò preposto o con la delega sociale a operatori del sacro di varia concezione e direzione.
Con l’affermarsi, dopo il 313, di un principio di libertà religiosa nell’ambito dell’Impero, dobbiamo immaginare che in maniera variabile, stratificata, molto complessa e con più o meno ramificate differenziazioni su base territoriale il paganesimo abbia ricevuto due tipologie generali di contraccolpi.
Da una parte, per effetto dell’editto, da struttura univoca del pensiero simbolico-religioso il paganesimo veniva ad assumere un impianto autonomo e in prospettiva un’identità propria in quanto religione. Nel liberare i cristiani e la loro devozione nei confronti del loro dio, l’editto di Milano, potenzialmente, agiva di riflesso su altre eventuali istanze religiose presenti nell’Impero, che potevano guadagnare uno spazio proprio e una visibilità prima impensabile. Si sfaldava così non già ancora la tradizione dei culti romani, che restavano operanti, bensì la loro totale identificazione, nell’esistenza dei cittadini dell’Impero, con l’appartenenza stessa alla civitas, che come si è potuto vedere era concepita come communis rispetto alle stesse divinità. Autonomia e identità del paganesimo in quanto religione troveranno spazio nel pensiero e nell’opera dell’imperatore Giuliano, che agirà sul paganesimo secondo uno schema di alternativa fra religioni nell’Impero, dando risalto al revival per cui è rimasto nella storia come ‘apostata’ del cristianesimo e nemico mortale della Chiesa32.
La seconda tipologia di conseguenze riguarda i comportamenti e gli atti, individuali e sociali, locali e generali, costanti e periodici, occasionali e ricorrenti. L’agire cittadino da parte integrante di un apparato univoco generale, coatto e privo di alternativa, si trova a essere potenzialmente obsoleto o decontestualizzato, liberalizzato e reso spontaneo. Al di là delle permanenze cultuali di cui si hanno notizie più o meno durature ancora in piena età romano-cristiana e post-teodosiana, al di là delle commistioni, delle sopravvivenze e delle riplasmazioni, è difficile dire quali potessero essere i sentimenti popolari nei confronti dei culti tradizionali, una volta venuta meno la loro totale identificazione con la vita dell’Impero in senso lato.
A queste conseguenze strutturali generali se ne aggiungono di contingenti, ovvero gli atti persecutori antipagani che gradualmente metteranno fuori legge l’intero apparato religioso tradizionale: se ne parlerà diffusamente in un paragrafo successivo.
Per il piano delle interferenze, delle interrelazioni e delle sfumature dei contatti fra paganesimo e cristianesimo, è emblematico il ruolo di Costantino, sul cui percorso si dispone di un cospicuo, ancorché non univoco, dossier di fonti, documenti e punti di vista. Certo è che il profilo dell’imperatore non si staglia in maniera netta, sul piano religioso, alla stregua di campione esclusivo del cristianesimo, come appare in gran parte delle fonti e come diviene nella tradizione cristiana: all’unidimensionalità dobbiamo contrapporre un pragmatismo proprio del ruolo, dei tempi, della persona33. Al tempo stesso, come osservò Santo Mazzarino, si deve tenere conto della «difficoltà, dopo il 312, di conciliare taluni punti del diritto tradizionale, legge umana, con la ‘legge divina’, cristiana»34: ciò vale, in particolare, per la persona dell’imperatore, che si trovò temporaneamente a incarnare entrambi i ruoli, di garante della legge umana tradizionale e di rielaboratore di quella stessa legge in funzione cristiana.
Il suo permanere pontifex maximus, secondo una tradizione avviata da Cesare e poi perpetuata dagli imperatori a partire da Augusto, lo manteneva stabilmente a capo dell’apparato religioso tradizionale. In questa sua funzione egli continuò, ad esempio, a determinare i giorni fasti e nefasti: nel 321 stabilisce che nel dies solis non si svolgano attività giudiziarie e negoziali, mentre permette che siano svolti lavori campestri e atti di emancipazione e manomissione degli schiavi35.
Era, anzi, una sorta di prerogativa propria dell’imperatore stesso il rimanere punto di riferimento sommo dell’impianto simbolico e cultuale dello Stato. Non si può non affiancare questa prerogativa, che fa sì che egli conservi poteri tramandati dai suoi predecessori e radicati nella religione di Roma arcaica, a quella di nuova concezione che lo spinge ad autodefinirsi vescovo di quelli di fuori o degli affari esterni (epískopos tόn ektós)36. In entrambi i casi Costantino assolve un ruolo di leadership politico-religiosa, nel primo caso come perpetuazione di uno stato di fatto, nel secondo in virtù della posizione di garante del cristianesimo e della Chiesa nascente. Anche il sepolcro, nella chiesa costantinopolitana dei Santi Apostoli, prevede e rappresenta al tempo stesso la simbologia cristiana, che lo vuole isoapostolo, ma anche la divinizzazione della tradizione imperiale, che si traduce in una trasfigurazione divina, in senso cristiano, dell’imperatore. Eusebio descrive la resurrezione dell’imperatore che vince sulla morte e regna come se fosse risorto, in virtù del suo solo nome37: in ciò coincidono l’escatologia cristiana, le dinamiche della regalità tradizionale ed ellenizzante, l’elaborazione di un nuovo orizzonte simbolico del potere teologico-politico specificamente costantiniano.
Anche le tradizioni sulla conversione compiono un doppio passo narrativo rispetto alla posizione individuale di Costantino, ritraendolo nell’atto di intraprendere una scelta religiosa spontanea, dettata dalla sua esperienza personale. Ad esempio il racconto di Zosimo, che scrive nel VI secolo, propone un imperatore intento a valutare se i sacerdoti e i riti pagani possano assolverlo rispetto ai delitti familiari compiuti. Pur essendo una testimonianza importante relativamente alla questione della conversione dell’imperatore38, questa fonte propone una dialettica della scelta che sarà prodotto e conseguenza di una fase storica posteriore all’epoca in cui visse Costantino, perché presuppone la riconoscibilità di religioni e prospettive diverse, la possibilità individualistica di scegliere fra l’una e l’altra, anche l’idea che la religione possa rispondere ad esigenze individuali:
Consapevole di questi crimini e di non avere rispettato i giuramenti, si presentava ai sacerdoti, chiedendo loro sacrifici espiatori per le proprie colpe; ma poiché essi risposero che nessuna purificazione era in grado di cancellare simili empietà, un egiziano, giunto a Roma dall’Iberia ed entrato in familiarità con le donne di corte, incontratosi con Costantino gli assicurò che la religione cristiana annullava qualsiasi colpa e conteneva in sé anche questa promessa, di liberare subito da ogni peccato gli empi che la praticavano39.
Questa fonte viene letta di norma pensando al Costantino divenuto cristiano e alla conversione come atto fondativo del nuovo Stato. Ma deve essere interpretata tenendo conto del fatto che, da un lato, lascia uno scarto rispetto al dato di fatto che l’imperatore non avrebbe avuto bisogno di espiazione né pubblica né individuale, per la prospettiva istituzionale e anche spirituale in cui si trovava a essere in base al ruolo. In secondo luogo il concetto stesso di colpa, insieme a quello di espiazione, non si risolve nei sacrifici pagani, o nell’azione redentrice perpetuata dai sacerdoti: la richiesta, potremmo dire, è irricevibile e giustappunto va in questo senso la risposta che la fonte tramanda. Dunque siamo di fronte a un ‘salto’, un disconoscimento a posteriori di una condizione di fatto ben diversa, in cui l’imperatore in quanto pontifex è lui stesso interprete della condizione corrente dell’essere, in pubblico e in privato, e non ha bisogno di ricorrere a terzi per risolvere una crisi.
In parallelo si può leggere il passaggio relativo alla conversione di Costantino nei Cesari di Giuliano imperatore, in cui, seppure in chiave ironica, Costantino è rappresentato alle prese con un supermarket delle religioni che può essere immaginato solo come trasposizione a posteriori degli eventi, come semplificazione storica, ovviamente polemica40. Si pensi anche solo alle personificazioni divine di Mollezza e Lussuria, che alimentano un pantheon anomalo, sovrabbondante, intitolato ai vizi, proiezione di una dimensione sociale alterata: non è questa la prospettiva politeistica, così come non è quel Gesù che Costantino sceglie.
Analogamente si deve rimarcare, di nuovo, che la scelta non fu così netta, come la scelta di una strada rappresentata nel racconto di Zosimo o l’uscita dall’assemblea degli dei con i suoi figli, cui fa riferimento Giuliano.
Le sue azioni, in questo senso, restano velate da ambiguità su cui gli storici a lungo hanno lavorato. Come pontifex maximus e imperatore egli non avrebbe potuto astenersi dal celebrare rituali propri del ruolo ricoperto. Al contrario, in occasione degli adventus a Roma degli anni 312, 315 e 326, la sua resistenza ad assolvere ai compiti imposti dalla tradizione ingenera un non dissimulato disappunto da parte del Senato e del popolo dell’Urbe. Il primo adventus, immediatamente successivo alla vittoria su Massenzio a ponte Milvio, è raccontato dall’anonimo panegirista del 313, che fa riferimento sia alla laetitia con cui il vincitore del ‘tiranno’ era stato accolto, sia alla delusione del popolo per la fretta con cui egli si sarebbe recato direttamente nel palazzo, evitando, secondo un’ipotesi accreditata, di salire al tempio di Iuppiter Optimus Maximus per le celebrazioni e i sacrifici di rito41. Per contro, nei giorni successivi egli si sarebbe invece offerto alla vista della popolazione nell’ambito dei munera e dei ludi previsti in queste occasioni42. Il silenzio del panegirista del 313, quello del panegirico di Nazario del 321 e la mancata rappresentazione del culto capitolino sull’arco di Costantino43 sono di difficile interpretazione: come ha ricostruito Augusto Fraschetti, nell’eventualità che Costantino sia effettivamente salito sul Campidoglio, dobbiamo immaginare l’imperatore alle prese con un’attività cultuale in netto contrasto con lo spirito cristiano della vittoria di ponte Milvio; al tempo stesso, il silenzio delle fonti può essere letto come rimozione della salita al Campidoglio e, in ogni caso, come evoluzione, quasi immediatamente successiva, delle modalità cerimoniali degli adventus imperiali a Roma. In prospettiva,
si consumava [...] la rottura della connessione indissolubile nella stessa Roma tra esercizio del potere politico e pratica del sacerdozio: quella che era attiva nei magistrati-sacerdoti di età repubblicana, quella che Augusto aveva riassunto nella sua persona nel 12 a.C. con l’elezione al pontificato massimo: pontificato massimo che Costantino conservò, o piuttosto non osò dismettere, ma lontano da Roma e soprattutto dai compiti che quel sommo sacerdozio, per un cristiano semplicemente impraticabile, avrebbe comportato44.
Sta di fatto che nel 315 Costantino tornò a Roma per celebrare i suoi decennali. Eusebio li descrive, non senza compiacimento, come pii festeggiamenti cristiani, in cui l’imperatore avrebbe rivolto al signore universale preghiere di ringraziamento, come alcuni sacrifici senza fuoco e senza fumo45. Dieci anni dopo, in occasione dei vicennali, Costantino programmò quello che sarebbe stato il suo ultimo viaggio a Roma, ma dopo aver iniziato i festeggiamenti per la ricorrenza a Nicomedia, con i vescovi riuniti mentre fervevano i preparativi del concilio di Nicea; nel 323 aveva nel frattempo emanato una costituzione, conservata dal Codice Teodosiano, con cui impediva che in occasione della ricorrenza dell’anno successivo (e dei lustri a seguire) i cristiani fossero costretti a celebrare sacrifici46. L’adventus di Costantino a Roma nel 324 è raccontato in un passo di Zosimo molto discusso47, che mette in connessione questi eventi con l’uccisione del figlio Crispo e della moglie Fausta, con la conversione e con la decisione di lasciare Roma come centro nevralgico e simbolico del suo potere per volgersi altrove. Racconta dunque Zosimo che, durante la festa patria in occasione della quale era necessario che l’esercito ascendesse al Campidoglio e compisse i riti della tradizione, Costantino, per paura dei soldati, avrebbe in effetti partecipato alla festa. Avendo però ricevuto dall’egizio già protagonista della sua conversione, presumibilmente Ossio di Cordova48, un phasma, ovvero un’immagine materializzata, che esprimeva biasimo per l’ascesa al Campidoglio, tale evento lo avrebbe indotto ad allontanarsi dalla cerimonia, attirandosi l’odio del Senato e del popolo di Roma49. Un cenno al demos romano ostile a Costantino in questa circostanza è ricordato da Libanio50, non a caso anche in rapporto alla fondazione di Costantinopoli. Al di là di più specifiche discussioni51, il senso di questi eventi è nella presa di distanza dell’imperatore, ancora pontifex maximus, dalle dinamiche religiose della città, dalle cerimonie e dalle azioni rituali previste per il suo ruolo, in contrapposizione e rottura rispetto a un mondo che a quelle tradizioni continua a essere, nelle sue strutture generali, del tutto ancorato.
Costantinopoli, concepita e edificata senza che si venisse meno all’apporto di spazi e edifici della tradizione simbolica in uso in ambito pagano (si pensi anzitutto al circo, le cui colonne e rovine sono ancora conservate al centro di Istanbul, ma anche al tempio di Tyche, corrispondente alla romana Fortuna, e alla connessa monetazione), nel 330 vide l’inauguratio delle sue mura a opera del filosofo neoplatonico Sopatro e del pontifex Vettio Agorio Pretestato, secondo i riti tradizionali52. Costantino vi ricostruì, accanto alla chiesa della Santa Pace e dei Santi Apostoli, anche alcuni templi che erano andati in rovina. Nel foro eresse una colonna di porfido – ancora presente – con in cima una statua raffigurante sé stesso che rimandava al culto di Sol53.
Il rescritto costantiniano di Hispellum documenta un’altra situazione di margine, in cui alla tradizione si affianca una decisione in linea con il rifiuto dei rituali sacrificali: in base a questa iscrizione si sa che in una fase tarda del suo regno, verosimilmente fra il 335 e il 337, Costantino accettò che a Hispellum (Spello, in Umbria) venisse costruito un tempio dedicato alla gens Flavia, secondo la tradizione del culto imperiale, e che la città stessa si chiamasse Flavia Costante. L’imperatore pose però come condizione che non vi si celebrassero «le frodi della contagiosa superstizione», ovvero i sacrifici tradizionali pagani54: da una parte, dunque, si proseguiva, secondo modalità consolidate, ad accettare e promuovere la celebrazione del culto imperiale, dall’altra si imponevano limiti precisi in relazione alla scelta religiosa dell’imperatore.
L’attività antipagana di Costantino è narrata dalle fonti letterarie e si rintraccia nelle fonti giuridiche di cui si dispone.
Lo storico ecclesiastico Sozomeno racconta che dopo il 324 Costantino avrebbe avviato una vera e propria campagna comunicativa contro i culti e le tradizioni pagane, inviando come emissari cristiani del suo palazzo che recavano lettere dello stesso Costantino. In queste lettere veniva ingiunta la conversione e molti, di fatto, si convertivano, mentre i sacerdoti dei templi consegnavano agli stessi emissari beni di valore. Le statue preziose divenivano argento del fisco, mentre quelle di bronzo venivano portate a Costantinopoli come opere d’arte55.
Eusebio ricorda invece la distruzione di alcuni templi: quelli di Afrodite a Gerusalemme, Eliopoli e Afaca, di un tempio di Asclepio a Ege nell’Anatolia sud-orientale, e di un altare non meglio specificato a Mamre in Palestina, un luogo sacro a ebrei, cristiani e pagani.
Il Codice Teodosiano ha conservato tre costituzioni, risalenti agli anni 319-321, in cui Costantino prende posizione contro l’aruspicina. Nella prima l’imperatore impedisce agli haruspices di entrare nelle case private, per motivi legati o meno all’esercizio della propria arte. Si tratta di una legislazione fortemente dissuasiva, che si traduce nel potenziale isolamento, anche nell’ambito delle relazioni personali. Sul piano penale, condanna alla morte sul rogo l’haruspex che sia stato sorpreso a entrare in una casa privata; mentre il padrone di casa, privato dei beni, sarebbe stato mandato in esilio in insulam. Al contrario, in pubblico i riti possono continuare a essere esercitati: significa che alla luce del sole, laddove possono essere sottoposti a un controllo diretto o indiretto delle autorità, gli haruspices possono continuare a esercitare; in privato, potenzialmente fuori controllo, viene interdetta loro l’azione56. In una costituzione di poco successiva il divieto viene esteso in maniera generica a tutti coloro che esercitano arti divinatorie: agli haruspices si affiancano sacerdotes in senso lato; in ogni caso il divieto consiste nell’esercizio in privato, nel chiuso delle case, della divinazione57. Con una costituzione del 321 si esplicitano altri aspetti del divieto: il controllo, immaginato come promanante dall’imperatore stesso in relazione a particolari condizioni, ovvero laddove un fulmine abbia colpito un edificio pubblico; e il divieto di sacrifici animali. In questo modo da una parte si sottraeva all’aruspicina la materia prima, cioè la possibilità di sacrificare, da cui scaturiva la lettura degli exta; dall’altra si accentuava il controllo da parte dell’autorità, che corrispondeva a esigenze di ordine pubblico, ma anche a un ridimensionamento complessivo di un’attività invisa ai cristiani58.
Erano le prime avvisaglie di una legislazione antipagana di più ampio respiro, che tornerà in auge dopo la breve parentesi del regno di Giuliano l’Apostata.
La legislazione antipagana inaugurata da Costantino ebbe un seguito nel 341 con una nota costituzione di Costanzo II che si rifaceva espressamente all’opera del suo predecessore, dichiarando che a partire da quel momento si sarebbero dovuti interrompere definitivamente i sacrifici59. L’incipit della costituzione lascia intendere che da prescrizioni parziali e mirate, quali erano state le norme costantiniane contro l’aruspicina, si passasse ora a un disegno complessivo: cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Il rimando a una lex divi principis parentis nostri può essere variamente interpretato come un rimando alle norme restrittive nei confronti dei sacrifici animali e alla lotta contro il politeismo e l’idolatria di cui parla Eusebio60, o a una continuità con le norme già viste, contenute nel Teodosiano. Non si possono intendere queste norme come immediatamente efficaci sul territorio, almeno per due motivi. Il primo è che in sequenza, negli anni 346, 354 e 356, Costanzo promulgò ancora tre costituzioni con cui: 1) si ordinava la chiusura dei templi e si vietava l’accesso ad essi, pena la morte e il trasferimento delle sostanze familiari al fisco, promettendo anche la destituzione ai governatori delle province che non avessero perseguito come dovevano queste nuove tipologie di reato61; 2) si abolivano i sacrifici notturni voluti da Magnenzio, evidentemente venendo a intrecciarsi in quel frangente lotta politica con contrapposizione religiosa62; 3) si condannavano a morte coloro che avessero compiuto sacrifici o venerato statue63. Da una parte si intende, da questa sequenza, il carattere dissuasivo della legislazione; dall’altra si può dedurre anche che le norme promulgate da Costantino prima e da Costanzo poi restavano in varia misura disattese, addirittura dalle autorità pubbliche che avrebbero dovuto curarne l’applicazione. Il secondo motivo è dato dal fatto, del tutto implicito in questo discorso, che il paganesimo, con tutti gli apparati di azioni, credenze, abitudini sociali che esso comprendeva e cui sia le istituzioni sia il popolo erano accostumati da secoli, non poteva venire meno da un giorno all’altro. La stessa corte imperiale doveva esserne consapevole, se si legge in questa luce una norma precedente rispetto a quelle appena viste, del 342, con cui al cesset superstitio di due anni prima si aggiungeva un’importante distinzione:
Benché ogni superstizione debba essere distrutta fino in fondo, vogliamo tuttavia che gli edifici dei templi, quelli che sono posti fuori dalle mura, restino in piedi intatti e incorrotti. Infatti, poiché alcuni di loro traggono le loro origini dai giochi, dagli spettacoli del circo e dagli agoni, non bisogna distruggere quanto è offerto al popolo romano dalla consuetudine dei piaceri64.
L’indicazione riguarda la città di Roma e i templi fuori dalle mura aureliane: lascia intendere che determinate attività dal carattere rituale avevano anche un coinvolgimento tale che le autorità non avrebbero avuto i mezzi per contrastarle; oppure, che i pagani facevano sentire la loro voce e riuscivano a ottenere aree di rispetto delle proprie prerogative, profondamente radicate nella storia della città.
D’altra parte Costanzo, anch’egli, è bene ricordarlo, pontifex maximus, mostrò tutta la sua intransigenza personale nei confronti degli oggetti tradizionali del culto e delle consuetudini quando, in occasione del suo adventus del 357, dopo aver sconfitto Magnenzio, si trovò, secondo i consueti cerimoniali, a dover visitare la curia. Qui egli ritenne insopportabile la vista dell’ara della Vittoria, in oro, che Augusto aveva collocato lì dopo la fine delle guerre civili, e la fece rimuovere65, inaugurando una polemica che si sarebbe riaperta con la massima gravità di lì a qualche decennio, con Graziano, e che avrebbe avuto come protagonisti il pagano Quinto Aurelio Simmaco, da una parte, e Ambrogio dall’altra66. La curia, come altri importanti edifici pubblici, era un templum, ritualmente inaugurato: il Senato, garante, fra l’altro, della religione tradizionale, vi si riuniva e le sue decisioni erano garantite dal giuramento sacro qui stipulato. La disputa sulla statua colpiva al cuore la struttura stessa del paganesimo e ne violentava profondamente l’immaginario. Peraltro, nel racconto di Ammiano Marcellino Costanzo, arrivando nel 357 a Roma, ne aveva ammirato la grandiosità, apprezzando in particolare i templi, che si preparavano a divenire, da luoghi di culto, potenziali monumenti67.
Sta di fatto che il successore di Costanzo, il nipote Giuliano, unico sopravvissuto alla strage della famiglia imperiale ordinata dopo la morte di Costantino (e continuata con l’uccisione del fratellastro, Gallo, nel 354), trovò templi e luoghi di culto abbandonati o in rovina e avviò un ambizioso programma di restaurazione della religione tradizionale. Questo programma va sotto l’etichetta ormai consolidata di reazione pagana e valse all’imperatore il titolo dispregiativo permanente di ‘apostata’.
Sarebbe impossibile tracciare in poche battute il percorso formativo e umano di Giuliano. Nato cristiano, passato attraverso formazione filosofica e letteraria classica, nutrito di letture ad ampio raggio sia fra i classici sia nei testi cristiani, egli poté giovarsi dell’incontro con le grandi personalità della cultura dell’epoca. In un’età, come abbiamo visto, di sovrapposizioni e contrapposizioni, di sincretismi e di drastiche prese di distanza, in cui il cristianesimo stesso cercava un’identità univoca in dispute teologiche interminabili, alla religione tradizionale si affiancavano gnosi, rituali iniziatici, filosofie di varia ascendenza, esoterismi. Giuliano elaborò egli stesso una filosofia religiosa, che traeva insegnamenti e ispirazione dal cristianesimo e dal giudaismo, dagli studi filosofici, dalla dottrina del potere, oltre che, ovviamente, dall’ideologia dello Stato e dalla tradizione religiosa che aveva vissuto in varie parti dell’Impero.
Nei due discorsi Alla Madre degli dèi e A Helios re egli esprime alcune delle sue idee programmatiche in materia religiosa, fra ispirazione neoplatonica, motivi esoterici e preghiera espressamente rivolta alla concettualizzazione di una prospettiva salvifica che accomuna il destino individuale dell’imperatore orante e sacerdote a quello della collettività, identificata nell’Impero romano. Al centro del primo, composto di getto in una notte fra il 22 e il 25 marzo del 362 per i festeggiamenti in occasione dell’equinozio di primavera, è la vicenda della Magna Mater e di Attis, di cui Giuliano racconta e ripercorre esegeticamente il mito in funzione escatologica e salvifica, utilizzando l’idea di caduta e mediazione fra l’umano e il divino e quella di ascesa e ricongiungimento dell’anima umana con la propria fonte divina. Nel secondo, anch’esso composto per un’occasione ben precisa, la festa del Sole del 25 dicembre del 362 (dies natalis Solis invicti), Giuliano parte dall’esperienza personale e dal rapporto con il dio – anche nella sua veste di iniziato ai misteri di Mitra – e tratteggia una visione del tutto personale, con idee che gli derivano tanto dal neoplatonismo quanto dal cristianesimo stesso. A Giamblico deve la distinzione in tre mondi, uno intelligibile, uno intelligente e uno visibile, al cui centro è Helios re, che coordina e unifica l’universo. La contemplazione del cielo e del sole è il mezzo che conduce alla verità68.
In questi discorsi, emerge in maniera marginale quanto ferma la critica contro i cristiani: un aspetto importante della preghiera alle divinità consiste nella richiesta di sostenere l’opera di annichilimento del cristianesimo per ristabilizzare l’equilibrio dello Stato. Ma gli attacchi più diretti sono nel coevo Contro i Galilei, in cui l’ostilità di Giuliano contro i cristiani si manifesta con strali che vanno dalle motivazioni personali (il perdono impartito a Costantino e Costante, assassini dei familiari) alla riflessione teologica, sempre mediata da una vivace conoscenza delle Scritture. I cristiani sono colpevoli di empietà e incoerenza, sono eretici galilei, né ebrei né greci; apostati dalla fede in Mosè, raccolsero da ogni religione i peggiori difetti, sì che da questa commistione scaturì «un’invenzione messa insieme dalla malizia umana. Non avendo essa nulla di divino, e sfruttando la parte irragionevole dell’anima nostra che è incline al favoloso e al puerile, riuscì a far tenere per veritiera una costruzione di mostruose finzioni»69.
La prima fase del programma politico giulianeo, più improntata alla tolleranza, alla ricerca di confronto, ma anche all’intervento diretto nelle questioni ecclesiastiche e nelle polemiche interne alla Chiesa, vide il verificarsi, in varie parti dell’Impero, di scontri, distruzioni, violenze reciproche. Con riforme amministrative e organizzative, Giuliano cercò di ripristinare i templi – iniziativa cui si aggiunse anche il progetto di ricostruzione del tempio di Gerusalemme –, di rilanciare il ruolo e l’opera dei sacerdoti pagani, di immaginare una Chiesa pagana, che potesse fiorire in funzione dell’Impero contrapponendosi al ruolo assunto dal cristianesimo, che ne sarebbe stato scalzato. L’entusiasmo di Giuliano subì un duro colpo ad Antiochia, dove egli si recò a metà del 362: qui trovò una città compattamente cristiana, in cui i templi erano sostanzialmente abbandonati, i sacerdoti isolati, e in cui lo slancio religioso della sua politica si scontrò con l’indifferenza generale. Se Antiochia non può essere considerata come paradigma diffuso, lo spostamento da Occidente a Oriente, da ambienti in cui gran parte dell’aristocrazia, del potere e dell’intelligencija era più o meno diffusamente pagana, l’arrivo in una città quasi totalmente cristiana e il verificarsi di alcuni incidenti (dall’episodio delle reliquie di san Babila all’incendio del tempio di Apollo a Dafne) fecero sì che Giuliano partisse per la spedizione in Persia con l’idea di tornare e avviare una politica repressiva diffusa. Come è noto, durante la spedizione trovò la morte e non poté dare seguito al progetto.
Per entrare più nello specifico di alcuni aspetti dell’opera di Giuliano, particolarmente significativi in relazione al ruolo, alle potenzialità e alle difficoltà del paganesimo in questo frangente, ci soffermeremo su due punti chiave della sua politica religiosa e culturale: i sacrifici e la scuola70.
È stato notato che l’epoca in cui Giuliano avviò la riapertura dei templi e il rilancio dell’attività sacrificale non era intesa, dai contemporanei, in maniera generalizzata, come incontrovertibilmente cristiana71. Per certo, a posteriori, l’avventura dell’imperatore, non a caso marchiato con il titolo di ‘apostata’, è stata descritta dalla storiografia cristiana come un incidente di percorso. Quando dunque Giuliano si mise a celebrare i sacrifici in prima persona, suscitando ira, disprezzo, stupore e ammirazione, non faceva che rinfocolare una tradizione molto forte, che solo in alcune parti dell’Impero era venuta meno o quasi scomparsa. Certo una competenza di base, una conoscenza degli atti anche pratici rendeva possibile che egli, come racconta a lungo Libanio, non se ne stesse a contemplare i sacrifici dall’alto del suo trono, ma si occupasse dei preparativi, di raccogliere la legna, di affilare il coltello, di squartare gli uccelli e di osservare le interiora. Il senso di questa scelta aveva un fondo filosofico teologico: non adorare gli dei per mano di altri, assolvere ai propri doveri nei loro confronti in prima persona72. Ma questo attivismo sacrificale di Giuliano portava con sé anche altri significati. Anzitutto, nel compiere attività che non spettavano al pontifex maximus, che avrebbe dovuto semplicemente assistere, egli si disponeva in una sfera di azione particolare, quella mitica, in cui, al tempo dei re, il sacrificio stesso, come strumento di comunicazione ordinata fra uomini e dei, tramite l’azione tecnica di personale specializzato, non era ancora stato fondato. Come Numa, che a sua volta, prima di definire la giusta regola sacrificale, aveva sacrificato in continuazione, in prima persona, senza seguire la regola che lui stesso avrebbe stabilito73, analogamente nel farsi victimarius Giuliano si identifica con quella dimensione. D’altra parte il suo scopo è quello di rifondare il sacrificio e con esso la religione tradizionale; così facendo assimila sé stesso al mitico re sacerdote per tornare in quell’illud tempus, a quella condizione da cui ripartire, in una fase ancora totalmente scevra di cristianesimo. Un secondo significato è dato dal valore immediato attribuito al sacrificio, anche sul piano dell’efficacia bellica: il sacrificio viene assunto, in via teorica, come strumento per rendere vincente l’esercito, per incutere timore nei nemici, per rappresentare e rinforzare la forza simbolica e militare. La credenza nel sacrificio – con le conseguenze che poteva portare sul piano della relazione con il divino – era maggiore della mera valutazione delle obiettive forze in campo74. Si può notare, ancora, che al sacrificio Giuliano attribuisce anche un significato di purificazione, di riappropriazione dello spazio. All’amico filosofo Massimo scrive: «Noi adoriamo gli dèi, il grosso dell’armata che mi ha seguito è pieno di pietà. Immoliamo buoi in pubblico: abbiamo reso grazie alle divinità con numerose ecatombi. Queste mi ordinano di purificare tutto finché posso, ed io obbedisco con zelo»75. D’altra parte egli pensava a una sorta di riconversione che passasse attraverso pubbliche preghiere per l’anima e purificazioni rituali per il corpo, nonché operasse decontaminazioni e riconsacrazioni per gli spazi pubblici76. Al tempo stesso, nel sacrificio si raccoglievano anche significati mediati dal cristianesimo: a partire dalla relazione diretta dell’orante e dell’officiante con la divinità, senza intermediazione sacerdotale. Il revival ha dunque il significato di un ritorno, di una riconversione al paganesimo: ma si tratta di qualcosa di diverso rispetto a quanto tramandato nei secoli, riplasmato in funzione della realtà del tempo77.
Fra gli atti di governo più odiati dalla pubblicistica cristiana è sicuramente da annoverare una legge, che come tale non è pervenuta, con cui Giuliano avrebbe vietato l’accesso alle scuole da parte dei cristiani. Di fatto, si possiede documentazione certa di una costituzione imperiale78, con cui venivano diramate le istruzioni per il reclutamento dei maestri, sottoposto, in ultima istanza, alla ratifica dell’imperatore stesso. Una lettera di Giuliano senza destinatari viene invece considerata, di solito, come circolare applicativa del decreto79. Secondo Giuliano, chiunque voglia essere educatore non deve essere contrario, in linea di principio, a ciò che professa. Poiché gli autori della tradizione pagana sono stati ispirati dalle divinità, il nesso fra gli uni e le altre è un punto essenziale, non secondario, del loro ruolo. I cristiani non consideravano l’immanenza delle divinità nelle lettere come dimostrabile e dunque i testi della tradizione pagana, privati della loro funzione religiosa, potevano a buon diritto entrare nelle scuole cristiane e far parte della cultura generale che vi era insegnata. Proprio questa sovversione delle appartenenze non viene accettata da Giuliano: i maestri non impartiscono lezioni solo di espressioni verbali, ma anche di costumi e di valori. Il principio affermato dalla lettera è un principio di libertà e al tempo stesso di identità: ognuno – ogni comunità religiosa – può professare la propria religione – e costruire la cultura delle generazioni a venire – basandosi sui propri autori di riferimento. I cristiani, per difendere i propri mores, devono narrare e studiare la propria storia sacra, e non utilizzare quella altrui, rivendicando al contempo la costruzione di valori identitari propri. La costituzione del 362, dunque, nell’avocare all’imperatore il riconoscimento ultimo della funzione dei docenti, rendeva possibile la verifica di questo principio di coerenza, cui i maestri, tanto cristiani quanto pagani, devono attenersi. Una persecuzione vera e propria, di cui non si ha esplicita notizia, non sembra esserci stata. Il caso di Proeresio, che da cristiano aveva ricevuto l’autorizzazione imperiale a insegnare, si risolve nel suo abbandono della scuola per sua autonoma scelta80. In ogni caso, le decisioni in questo ambito non risultarono bene accette allo stesso Ammiano Marcellino, che vi dovette vedere un’incertezza del diritto – nella prerogativa imperiale, eventualmente fallibile – o una restrizione della libertà e delle potenzialità dell’insegnamento81.
Al fine di intendere gli sviluppi e le relazioni fra cristianesimo e paganesimo nel IV secolo, tuttavia, questa vicenda è esemplare: gli intrecci erano tali da determinare ormai una società mista, sul piano religioso, non solo nelle relazioni fra persone e ruoli. Nello stesso apparato formativo e educativo si era a un tempo avviati alla conoscenza delle lettere classiche e di quelle cristiane. Solo la visione giulianea poteva pensare di distinguere, districare e avviare secondo percorsi paralleli e internamente coerenti ciò che era inscindibilmente ormai destinato a costituire in senso generico la cultura complessiva delle nuove generazioni dell’Impero.
La parabola di Giuliano rappresentò per le gerarchie ecclesiastiche un momento importante di riflessione. Da una parte doveva risuonare il memento di Giuliano, che aveva rinfacciato ai vescovi come durante il regno dei suoi predecessori le divisioni interne alla Chiesa si fossero tradotte in esili e violenze82: ne scaturiva una sollecitazione alla coesione interna che a lungo sarebbe rimasta disattesa. Dall’altra, il paganesimo era ora individuato quale un’alternativa, una religione potenzialmente strutturata e nemica, da considerare come tale, e contro la quale assumere anche iniziative politiche. Anche dall’interazione fra Ambrogio e Teodosio sarebbe nata una serie di provvedimenti che avrebbero smantellato il paganesimo nelle sue strutture portanti. Al tempo stesso si introducevano concetti sociali nuovi, con risvolti penali gravi: è il caso del reato di apostasia dal cristianesimo, nel senso della ricaduta nel paganesimo, sul quale in breve volgere di tempo venne ideata una legislazione complessiva.
Dopo la morte di Giuliano divenne imperatore Gioviano, morto nel febbraio del 364. Gli succedette Valentiniano, militare di umili origini, che scelse come secondo Augusto il fratello minore Valente. A Valentiniano, nel 375, succedettero i figli Graziano e Valentiniano II. Dopo la morte di Valente ad Adrianopoli nel 378, Graziano decise di nominare Augusto, per la parte orientale dell’Impero, un generale spagnolo, Teodosio.
Graziano nel 379 rinunciò al pontificato massimo, facendo cadere una tradizione ormai secolare83. Revocò alcune sovvenzioni e immunità di cui godevano i collegi sacerdotali, incluse le vestali. Ma soprattutto rimosse di nuovo la statua della Vittoria dalla curia romana, scatenando le ire di parte pagana e riaprendo una questione che rappresenta emblematicamente questo frangente. Queste iniziative erano ispirate da Ambrogio, vescovo di Milano, che si contrapporrà duramente alla reazione pagana. Alla guida di una delegazione presso Arcadio si trovava uno dei massimi rappresentanti dell’aristocrazia senatoria cittadina, Quinto Aurelio Simmaco. Da praefectus urbi, qualche anno dopo, egli fu autore della famosa relazione sull’altare della Vittoria, con cui chiedeva a Valentiniano II il ripristino dell’ara. Le motivazioni di Simmaco sono prettamente religiose, oltre che politiche: nell’ara risiede la praesentia numinis84?, che garantisce il giuramento e interdice la falsa testimonianza, massima garanzia del rapporto di sacra fiducia fra il Senato e gli imperatori85. Nel simbolo religioso, dunque, risiedeva anche una ragione politica. Le ragioni avanzate da Ambrogio sono invece prima politiche e poi religiose: si trattava di sottrarre al paganesimo il riconoscimento formale e sostanziale dello Stato, che restava quale garanzia sacra delle riunioni del Senato in un templum. Ne scaturiva una specifica ideologia politica, in base alla quale o l’imperatore e l’Impero erano cristiani, o non lo erano affatto, non essendo possibile alcun compromesso con la fede pagana e i suoi simboli: il potere imperiale discende da Dio, che è unico; il potere politico, dunque, deve essere analogamente univoco, ovvero esclusivo e intollerante86. Si confrontavano due visioni diametralmente opposte, in cui alla tolleranza prospettata da Simmaco (la conciliabilità del permanere dell’ara accanto al dilagare dei simboli cristiani) si contrapponeva l’intransigenza teologico-politica di Ambrogio, che ebbe la meglio.
Il christianissimus princeps Teodosio, cui si attribuisce l’elevazione del cristianesimo niceno a religione di Stato, oltre a occuparsi costantemente di questioni riguardanti l’eresia prese anche alcune drastiche posizioni nei confronti del paganesimo. Se l’editto di Tessalonica, infatti, è da vedere, anzitutto, come deliberazione di portata locale, volta a dirimere un principio identitario interno al cristianesimo, e solo in un secondo tempo, con la cristallizzazione nelle codificazioni scritte e nella storiografia, diverrà il simbolo del nuovo nesso fra cristianesimo e Stato romano, le decisioni in materia religiosa coeve contribuiscono a elaborare il senso generale di una metamorfosi graduale ma implacabile.
A Milano, nel 391, viene promulgata una costituzione che vieta qualsiasi tipo di cerimonia pagana: le vittime sacrificali sono concepite come contaminanti, la contaminazione come potenzialmente rischiosa per gli individui e per la collettività87; ne segue un’altra di tenore analogo nel giugno88. Una costituzione di carattere più generale, ma con alcune specifiche che riguardavano anche i sacrifici ai lares familiares, viene promulgata nel 392 a Costantinopoli. Agli uomini di qualsiasi condizione sociale, ovunque essi siano, vengono interdetti i sacrifici di qualsiasi tipo e in particolare quelli ai lares, onde estirpare i sacra gentilicia, che erano trasmessi per via esclusivamente maschile89. Accanto ai sacrifici veniva anche ribadita la condanna della divinazione: di nuovo nel 381, una legge data da Teodosio a Costantinopoli dichiarava vesanus ac sacrilegus chiunque avesse cercato di conoscere il futuro tramite sacrifici diurni o notturni90; seguivano, nel 38591 e nel 39292, due costituzioni di materia analoga, anche se con alcune precisazioni significative, che al tempo stesso documentano la difficoltà di vedere applicate queste leggi, ma anche la continua tensione del legislatore nello sradicare i culti pagani.
Più complessa è la situazione per quanto concerne i templi. In una orazione pro templis (30), Libanio ne illustra il significato profondo per le città e le campagne, nella storia, e con riferimento al frangente culturale complesso in cui la loro stessa esistenza viene messa in discussione. Il IV secolo vede scontri violentissimi fra cristiani e pagani intorno ai luoghi di culto, in ogni parte dell’Impero. Il legislatore aveva avocato a sé, in Cod. Theod. XVI 10,4 (del 346), le decisioni in merito ai templi; nel 382, Teodosio invia a Palladio, dux Osroenae, una costituzione conservata dal Codice Teodosiano, in cui consente che venga tenuto aperto il santuario di Edessa, i cui beni possono essere apprezzati per motivi artistici e non per il loro significato religioso. Il tempio potrà dunque essere visitato dalle folle, e l’imperatore permette anche che si continui a consultarne l’oracolo. Esso, dunque, può continuare a costituire un punto di aggregazione, ma senza che ciò autorizzi in qualsiasi modo la celebrazione di sacrifici.
Questa legislazione rappresenta le posizioni della corte e degli imperatori: pur nella lungimiranza delle indicazioni che in essa troviamo, gli eventi andavano spesso in direzioni diverse, fuori del controllo delle autorità. Nel 391 in Egitto venne ad esempio distrutto il Serapeo, che dopo il Campidoglio era considerato il tempio più maestoso e importante del mondo antico93. Questo evento suscitò grande scandalo, ma mise anche in luce le opposte visioni che in quel frangente si fronteggiavano e contrapponevano drammaticamente. Eunapio di Sardi scrisse: «Senza una ragione plausibile, senza il minimo rumore di guerra, venne distrutto il tempio di Serapide. Furono rapite le statue e le offerte votive; il solo pavimento del tempio non venne asportato, perché le pietre erano troppo pesanti. E ciò nonostante si vantavano di aver vinto gli Dei»94. La pubblicistica cristiana approvò la distruzione, come un momento simbolico importante dell’affermazione del cristianesimo95.
Di lì a poco il confronto si sarebbe spostato anche sul piano militare. Nel 392, dopo la morte di Valentiniano II, era stato proclamato Augusto, a Lione, Eugenio, retore di professione, cristiano, controllato dal magister militum di Valentiniano II, il franco Arbogaste. Al suo arrivo in Italia, Eugenio fu raggiunto da Nicomaco Flaviano, uno dei principali rappresentanti, insieme a Simmaco, dell’aristocrazia senatoria pagana. Per l’influenza di Arbogaste e dello stesso Nicomaco Flaviano sembrò potersi riaccendere, al seguito di Eugenio, un’ulteriore fiamma del paganesimo. Eugenio, in effetti, avrebbe ripristinato – come aveva fatto Giuliano – alcune disposizioni pubbliche a favore dei templi e dei culti pagani, e alcuni edifici di culto furono restaurati e riaperti (fra cui il tempio di Venere a Roma e quello di Ercole a Ostia)96. Nel settembre 394, presso il fiume Frigido, a nord di Aquilea, si verificò uno scontro fra gli eserciti di Eugenio e di Teodosio, che viene rappresentato dalla storiografia antica97 come l’ultima contrapposizione militare fra paganesimo e cristianesimo. La battaglia fu preceduta, da parte pagana, da sacrifici e consultazioni degli exta; da parte cristiana, da preghiere e digiuni. Teodosio schierò le truppe dietro lo stendardo con la croce, rievocando Costantino e la battaglia di ponte Milvio. Eugenio, per parte sua, usò come effige, per i suoi soldati, l’immagine di Ercole; mentre una statua di Giove, piazzata su un monte, minacciava le armate cristiane98. Vinsero queste ultime. Eusebio fu ucciso, Nicomaco Flaviano e Arbogaste si diedero la morte. La battaglia, presa a simbolo della definitiva vittoria del cristianesimo già in antico, non finisce di far discutere gli storici99.
In questo frangente, insieme alla ridefinizione degli spazi, dei cicli festivi, delle relazioni interreligiose, dei comportamenti leciti e illeciti, si vanno affermando, per motivi religiosi, anche nuove tipologie di reati. Il XVI libro del Codice Teodosiano ha conservato, insieme alle altre disposizioni in materia religiosa, una serie di costituzioni che riguardano da vicino il paganesimo per un aspetto specifico della sua liminarità rispetto al cristianesimo. Si tratta delle norme sull’apostasia, che riguardavano coloro che, da cristiani, fossero ricaduti nelle forme della religione tradizionale, comportandosi, appunto, alla stregua di apostati.
Si tratta di una legislazione limitata ma molto chiara, che parte tutta in epoca postgiulianea (ovvero mancano costituzioni del tempo di Costantino, invece presenti in tutta la documentazione di cui si dispone per altre tipologie di norme e di reati). La prima legge è del 381, emanata dalla segreteria di Graziano, Valentiniano e Teodosio a Costantinopoli100. Agli stessi imperatori sono attribuite altre statuizioni del 383101 e del 391102. In queste leggi si introduce il problema dell’abbandono del cristianesimo. Chi si renda colpevole di questa pratica viene isolato, segregato, condannato, con sempre maggiore severità. Viene concepito alla stregua di animale, di folle, di dissennato. La colpa poteva essere individuata nella conclamata apostasia o nel fatto di continuare a seguire, da cristiani, abitudini pagane. Dopo la serie di colpi inferta dalla legislazione, dopo la sequenza di incidenti e contrapposizioni violente che avevano percorso tutto il secolo, i divieti di praticare la religione tradizionale non avevano ancora fissato in maniera netta il limite fra cristianesimo e paganesimo. La legislazione sull’apostasia, che sarà tramandata nel Codice di Giustiniano, rappresenta una sorta di limite rispetto alla fuoriuscita dal cristianesimo e intende affermare l’impossibilità di osmosi culturale e religiosa con culti, comportamenti, azioni che continuarono a lungo a essere diffusi nel territorio dell’Impero.
La religione tradizionale era così, nel suo insieme, attaccata nelle strutture fisiche, ma anche delimitata in maniera drastica dalla legislazione in relazione alle dinamiche sociali.
Non che mancassero elementi importanti di continuità, ancora, in fase di ristrutturazione e di graduale plasmazione del cristianesimo.
Sul piano culturale e intellettuale si registra l’opera di Macrobio Ambrogio Teodosio, i Saturnalia, verosimilmente databile verso il 430. L’autore immagina una serie di conversazioni che sarebbero avvenute a Roma dal 17 al 19 dicembre, in occasione delle feste in onore di Saturno, in cui era uso riunirsi fra amici. L’opera ha un carattere enciclopedico e tratta questioni disparate, soprattutto incentrate sui culti arcaici e sulla letteratura pagana (in particolare Virgilio). Fra gli interlocutori compaiono alcuni dei ‘campioni’ del paganesimo dell’ultima fase del secolo precedente: Vettio Agorio Pretestato, nobile romano di rango senatoriale, grande conoscitore e fautore del paganesimo, attivo politicamente, il quale coprì varie cariche che gli diedero anche la possibilità di agire concretamente a favore della sua religione (fra l’altro, nel 367 come praefectus urbi fece restaurare il tempio degli dei Consenti nel foro); Quinto Aurelio Simmaco, una delle maggiori personalità del tempo, interlocutore di Ambrogio e Teodosio in occasione della disputa sull’altare della Vittoria; Virio Nicomaco Flaviano, altro nobile, parente di Simmaco, che ricoprì numerose cariche pubbliche e infine passò dalla parte di Eugenio, finendo per darsi la morte alla sconfitta dell’usurpatore, e che fu tra l’altro esperto e studioso di arte divinatoria. Compare, fra gli altri, anche Servio, il futuro commentatore dell’opera virgiliana, che è però immaginato ancora come troppo giovane per poter parlare. I Saturnalia fotografano un’epoca in cui la conoscenza del mondo religioso arcaico non era ancora venuta meno e si guardava alle grandi personalità pagane del secolo precedente con molto rispetto.
Nei primi anni del V secolo il Senato diviene in maggioranza cristiano e soprattutto sembra connotarsi per una maggiore intransigenza nel professare la nuova fede. Nel 408 una costituzione di Onorio escludeva dal Palatium tutti i non cattolici e, anche se fu abrogata poco dopo per ragioni militari, ebbe comunque un suo grave significato103.
Nel 423 Teodosio II, in una delle ultime leggi che sarebbero confluite nel Codex, pubblicato nel 438, considera i pagani ormai come uno sparuto numero di sopravvissuti, se mai ancora ce ne fossero104. La legislazione antipagana, tuttavia, continuò a essere promulgata, fu raccolta nel Teodosiano e confluì nel Codice di Giustiniano. Il grande artefice del progetto giustinianeo, il giurista Triboniano, fu accusato ancora un secolo dopo di paganesimo105.
Il titolo di pontifex maximus, rifiutato da Graziano, si trasmetterà gradualmente al vescovo di Roma, con l’affermazione della corrispondenza fra Cristo Summus Pontifex e il vescovo, già pontifex nel Teodosiano106?, e ora pontifex consacratus107?: doveva passare ancora un secolo perché Gregorio Magno fosse individuato quale pontifex maximus. Cambia gradualmente il calendario – ovvero la gestione del tempo108 –, cambia il paesaggio – ovvero la gestione dello spazio. Al di là dei conflitti, degli scontri, delle distruzioni cui abbiamo sommariamente fatto riferimento nei paragrafi precedenti, prevalse a un certo punto l’idea della conservazione e del riuso, della riconsacrazione e rifunzionalizzazione, che salvò i monumenti pagani dalla distruzione e dall’oblio109. Teodoreto così descriveva questa metamorfosi:
I templi degli dèi sono talmente distrutti che non ne rimangono nemmeno le forme e i nostri contemporanei non ne riconoscono più le are. Il materiale, invece, di questi è stato dedicato, per farci le memorie dei martiri. Infatti, il Signore Dio nostro introdusse i suoi morti nei templi, invece dei vostri dèi che rese inutili e vani; e attribuì i loro onori ad essi. Al posto delle Pandie, delle Diasie, delle Dionisie e di altre vostre feste, si celebrano le solennità di Pietro, di Paolo, di Tommaso, di Sergio, di Marcello, di Leonzio, di Antonia, di Maurizio e di altri Martiri; invece delle antiche e turpi pompe e delle frasi oscene, noi celebriamo modeste festività, senza ubriachezze, senza buffonate ridicole, ma con canti divini, con l’ascolto di sacri discorsi e con preghiere mescolate con lacrime lodevoli110.
Gli ultimi sacerdoti pagani della classe senatoriale sono attestati nel 390; le ultime iscrizioni nel santuario della Magna Mater nell’area vaticana sono databili al 390; così risale al 391 l’ultima iscrizione mitraica; il santuario dei fratres arvales fu smantellato verso la fine del secolo; a questo frangente risalgono le ultime offerte votive rinvenute di recente nella fontana sacra di Anna Perenna. Al volgere del secolo si datano due episodi significativi: la distruzione dei libri sibyllini e dei pignora imperii da parte di Stilicone111; e l’assedio della città di Roma da parte del re goto Alarico, nel 408. Mentre la peste infuriava, di fronte all’inefficacia delle preghiere un gruppo di cittadini originari della Tuscia propose al praefectus urbi di celebrare dei rituali che erano risultati altrove efficaci. Il praefectus si rivolse al papa, il quale diede il suo consenso, a patto che i riti si svolgessero di nascosto: seguì l’inevitabile obiezione, da parte pagana, che così i rituali non sarebbero stati efficaci e che sarebbe stato necessario il coinvolgimento del Senato. Ma quando si trattò di individuare chi potesse recarsi al Campidoglio e nelle piazze per celebrare tutto quanto era necessario celebrare, non si trovò nessuno, fra i senatori, che avesse il coraggio di fare quanto veniva richiesto112. Le fonti non lo dicono, ma quali potevano essere i timori dei senatori? Nei confronti dell’autorità religiosa, che a posteriori avrebbe potuto ritrattare e condannarli? Del popolo, che in caso di fallimento dei rituali avrebbe potuto insorgere contro di loro? Di sé stessi, dei propri dubbi? O era un timor Dei, a trattenerli? Timore nei confronti del Dio cristiano, per un’apostasia d’azione e di pensiero; o nei confronti dei demoni che si andavano a sollecitare, potenzialmente pericolosi o di difficile gestione? Oppure: erano tanto presi dalla paura per il pericolo incombente da non riuscire ad agire? Nelle Retractationes Agostino racconta che proprio di fronte allo sfacelo del sacco di Roma trovò l’ispirazione per il De civitate Dei: sarebbe stata l’opera della sublimazione cristiana dell’idea di città.
L’ultima notizia letteraria che testimonia la presenza di vestales riguarda un episodio di disprezzo nei confronti della religione pagana che coinvolse Serena, moglie di Stilicone e nipote di Teodosio, la quale, entrata nel tempio della Magna Mater, ne oltraggiò la statua privandola della collana; per questo fu maledetta da una vestale113. L’episodio mostra una situazione che porta i segni di un tempo in divenire, di difficile decifrazione: il fatto che non si trovasse nell’Atrium Vestae fa pensare che, sebbene questo non fosse più in uso, la donna si ostinasse a difendere gli ultimi luoghi sacri alla sua religione114.
Si può rintracciare la sopravvivenza di antichi rituali della religione pagana in alcune pratiche cultuali del cristianesimo così come nell’articolazione del calendario liturgico. Tuttavia, questi residui sembrano essere stati privati ben presto di qualsiasi significato pagano o semplicemente non riconosciuti come pagani dai contemporanei, anche se continuamente fatti oggetto di un interesse antiquario. Gli studi sulla storia religiosa del periodo non mancano di concentrarsi sulle similarità intercorrenti tra rituali pagani e cristiani. Flamines e sacerdotales sono attestati nel V secolo inoltrato in Nordafrica, mentre la presenza a Roma di augures e pontifices è attestata solo fino al 390/395, anche se la loro importanza permarrà intatta persino nel VI secolo, in occasione delle procedure di consacrazione di spazi o edifici sacri, come attestano fonti giuridiche dell’epoca115.
Ancora alla metà del V secolo d.C., gli imperatori cristiani continuavano a sovvenzionare giochi e circostanze festive dal carattere semipagano. Si registra ancora, inoltre, il persistere della divinazione aruspicale, che storici della Chiesa ancora nel V-VI secolo tentavano di riassorbire nel sistema interpretativo del nuovo provvidenzialismo cristiano.
Fra gli ultimi momenti simbolici dell’epilogo del paganesimo si annoverano di solito una lettera di papa Gelasio, che alla fine del V secolo rimprovera ai cristiani di celebrare ancora i lupercalia, e la notizia della chiusura della scuola di Atene da parte di Giustiniano, nel 527.
1 Opere di sintesi e saggi generali sulla religione romana: G. Wissowa, Religion und Kultus der Römer, München 19122; N. Turchi, La religione di Roma antica, Bologna 1939; F. Altheim, Römische Religionsgeschichte, Baden-Baden 19512; J. Bayet, Histoire politique et psychologique de la religion romaine, Paris 19732 (trad. it. La religione romana, Torino 1992); G. Dumézil, La religion romaine archaïque, Paris 1966 (trad. it. La religione romana arcaica, Milano 20073); D. Sabbatucci, La religione di Roma antica: dal calendario festivo all’ordine cosmico, Milano 1988; M. Beard, J. North, S. Price, Religions of Rome, 2 voll., Cambridge 1998; J. Scheid, La religion des romains, Paris 1998 (trad. it. La religione a Roma, Roma-Bari 2001); J. Rüpke, Die Religion der Römer: Eine Einführung, München 2001 (trad. it. La religione dei Romani, Torino 2004). Selezione di saggi classici (e non) su paganesimo e cristianesimo: J. Geffcken, Der Ausgang des griechisch-römischen Heidentums, Heidelberg 1920; P. de Labriolle, La Réaction Païenne. Étude sur la polémique antichrétienne du Ier au VIe siècle, Paris 1934; A. Alföldi, The Conversion of Constantine and Pagan Rome, Oxford 1948 (trad. it. Costantino tra paganesimo e cristianesimo, Roma-Bari 1976); A.D. Nock, Conversion. The Old and the New in Religion From Alexander the Great to Augustine of Hippo, London 1933 (trad. it. La conversione. Società e religione nel mondo antico, Roma-Bari 1974); E.R. Dodds, Pagan and Christian in an age of anxiety, Cambridge 1965 (trad. it. Pagani e cristiani in un’epoca di angoscia: aspetti dell’esperienza religiosa da Marco Aurelio a Costantino, Firenze 1997); The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, ed. by A. Momigliano, Oxford 1963 (trad. it. Il conflitto tra paganesimo e cristianesimo nel IV secolo, Torino 1975); P. Brown, The World of Late Antiquity: AD 150-750, London 1971 (trad. it. Il mondo tardo antico: da Marco Aurelio a Maometto, Torino 19873); G. Lanata, Gli atti dei martiri come documenti processuali, Milano 1973; R. Lane-Fox, Pagans and Christians, London 1986 (trad. it. Pagani e cristiani, Roma-Bari 1991); F. Ruggiero, La follia dei cristiani. Su un aspetto della “reazione pagana” tra I e V secolo, Milano 1992; G. Rinaldi, La Bibbia dei pagani, 2 voll., Bologna 1998; La maschera della tolleranza, a cura di I. Dionigi, M. Cacciari, A. Traina, Milano 2006; P. Athanassiadi, Vers la pensée unique: la montée de l’intolerence dans l’Antiquité tardive, Paris 2010. Selezione di opere miscellanee recenti sul periodo in questione: Società romana e impero tardoantico, a cura di A. Giardina, 4 voll., Roma-Bari 1986; L’intolleranza cristiana nei confronti dei pagani, a cura di P.F. Beatrice, Bologna 1990; Pagani e cristiani da Giuliano l’Apostata al sacco di Roma, Atti del Convegno internazionale di studi (Rende 12-13 novembre 1993), a cura di F.E. Consolino, Soveria Mannelli-Messina 1995; The Archaeology of Late Antique ‘Paganism’, ed. by L. Lavan, M. Mulryan, Leiden-Boston 2011; Pagans and Christians in the Roman Empire: The Breaking of a Dialogue (IVth-VIth Century A.D.), Proceedings of the International Conference at the Monastery of Bose (Bose 20-22 October 2008), ed. by P. Brown, R. Lizzi Testa, Münster 2011. Su Costantino legislatore nella dialettica cristianesimo-paganesimo: A. Ehrhardt, Constantin d. Gr. Religionspolitik und Gesetzgebung, in Zeitschrift der Savigny-Stiftung für Rechtsgeschichte (Rom. Abt.), 72 (1955), pp. 127-190 (ora in Konstantin der Grosse, hrsg. von H. Kraft, Darmstadt 1974, pp. 388-456); L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, Napoli 1977 (edizione più recente: Costantino imperatore e il mondo pagano, Napoli 2003); F. Amarelli, Vetustas/Innovatio. Un’antitesi apparente nella legislazione di Costantino, Napoli 1978; S. Bradbury, Constantine and the Problem of Anti-pagan Legislation in the Fourth Century, in Classical Philology, 89 (1994), pp. 120-139. Legislazione in materia religiosa da Costantino a Teodosio II: M.P. Baccari, Cittadini popoli e comunione nella legislazione dei secoli IV-VI, Torino 1996; L. De Giovanni, Chiesa e Stato nel Codice Teodosiano. Alle origini della codificazione in tema di rapporti Chiesa-Stato, Napoli 19974; A. Di Mauro Todini, Aspetti della legislazione religiosa del IV secolo, Roma 1990; F. Zuccotti, «Furor haereticorum». Studi sul trattamento giuridico della follia, Milano 1992; G. Bonamente, Sviluppo e discontinuità nella legislazione antipagana: da Costantino il Grande ai figli, in Istituzioni, carismi ed esercizio del potere (IV-VI sec. d.C.), Atti del Convegno internazionale (Perugia 25-27 giugno 2008), a cura di G. Bonamente, R. Lizzi Testa, Bari 2010, pp. 63 segg.; R. Lizzi Testa, Legislazione imperiale e reazione pagana: i limiti del conflitto, in Pagans and Christians, cit., pp. 467-491.
2 Aug., retract. II 43,1.
3 Questa tesi è attribuita a Cesare Baronio (1538-1607), cardinale e bibliotecario pontificio, autore di una storia della Chiesa in 12 volumi.
4 Il primo a proporla fu un giureconsulto lombardo, Andrea Alciato (1492-1550).
5 Al. Cameron, The Last Pagans of Rome, Oxford 2011, pp. 14-32. Lo studioso parte da una critica delle teorie tradizionali: quella di Baronio viene rigettata per il fatto che sarebbe stato un paradosso che nell’Occidente latino fossero definiti tramite un termine che indicava povertà culturale coloro che nell’Oriente greco venivano chiamati elleni, con un termine simbolo per antonomasia della cultura stessa; contro la tesi che fa capo ad Alciato, egli sostiene che non abbia senso individuare i civili (pagani) come nemici dei soldati di Cristo (p. 15). A partire da un’analisi terminologica delle occorrenze di paganus, che sono concentrate fra il 360 e il 420 – circa 600 per cinquanta autori, ma con 476 occorrenze nel solo Agostino –, egli arriva a dimostrare che paganus nel senso di ‘non cristiano’ non ha a che fare «with either rustics or soldiers of Christ» (24). Alan Cameron segue C. Mohrmann, Encore une fois: paganus, in Vigiliae Christianae, 6 (1952), pp. 109-121 (ora in Étude sur le latin des chrétiens, III, Latin chrétien et liturgique, Rome 1965, pp. 277-289)
6 Cod. Theod. XV 5,5 (del 425).
7 Ad esempio Aug., c. Faust. XVI 10.
8 J. Bayet, Histoire politique et psychologique, cit., p. 277: «Théodose a mis fin à l’ancienne religion romaine. Mort par décret».
9 A. Fraschetti, Principi cristiani, templi e sacrifici nel Codice Teodosiano, in Diritto romano e identità cristiana. Definizioni storico-religiose e confronti interdisciplinari, a cura di A. Saggioro, Roma 2005, p. 134.
10 Al. Cameron, The Last Pagans, cit., p. 12: «Roman paganism petered out with a whimper rather than a bang»; p. 131: «Roman paganism was not extinguished on the field of battle or even by imperial laws. It died a natural death, and was already mortally ill before Theodosius embarked on his final campaign».
11 Cod. Iust. I 11.
12 Si veda, ad esempio, K.W. Harl, Sacrifice and Pagan belief in Fifth- and Sixth- Century Byzantium, in Past & Present, 128 (1990), pp. 7-27.
13 Cic., nat. deor. II 8: «C. Flaminium Coelius religione neglecta cecidisse apud Trasumenum scribit cum magno rei publicae vulnere. Quorum exitio intellegi potest eorum imperiis rem publicam amplificatam qui religionibus paruissent. Et si conferre volumus nostra cum externis, ceteris rebus aut pares aut etiam inferiores reperiemur, religione, id est cultu deorum, multo superiores».
14 Liv., V 52,2: «Urbem auspicato inauguratoque conditam habemus; nullus locus in ea non religionum deorumque est plenus; sacrificiis sollemnibus non dies magis stati quam loca sunt in quibus fiant».
15 E. Montanari, Il concetto originario di pax e pax deorum, in Le concezioni della pace, VIII Seminario internazionale di studi storici «Da Roma alla Terza Roma» (Roma 21-22 aprile 1988), Roma 1988, pp. 49 segg. (ora in Id., Tempo della città e pax deorum: l’infissione del clavus annalis, in Id., Mito e storia nell’annalistica romana delle origini, Roma 1990, pp. 85 segg.).
16 D. Sabbatucci, La prospettiva storico-religiosa. Fede, religione, cultura, Milano 1990; M. Sachot, Quand le christianisme a changé le monde: La subversion chrétienne du monde antique, Paris 2007 (che riprende e sintetizza, fra altri studi, Id., Comment le christianisme est-il devenu religio?, in Revue des Sciences religieuses, 59 [1985], pp. 95-118; e Id., Religio/superstitio. Histoire d’une subversion e d’un retournement, in Revue de l’histoire des religions, 208 [1991], pp. 355-394); A. Saggioro, La religione e lo Stato. Cristianesimo e alterità religiose nelle leggi di Roma imperiale, Roma 2011.
17 Dig. I 1,1,2.
18 R. Turcan, Religion romaine, II, Le Culte, Leiden-New York-København-Köln 1988, p. 4.
19 Cic., leg., I 23. P. Catalano, Una civitas communis deorum atque hominum: Cicerone tra temperatio reipublicae e rivoluzioni, in Studia et Documenta Historiae et Iuris, 61 (1995), pp. 723-730.
20 D. Sabbatucci, Divinazione e cosmologia, Milano 1989; S. Montero, Politica y adivinación en el Bajo Imperio Romano: emperadores y harúspices (193-408), Bruxelles 1991; C. Santi, Sacra facere. Aspetti della prassi ritualistica divinatoria nel mondo romano, Roma 2008, pp. 94-95.
21 I. Chirassi Colombo, s.v. Hostia, in Enciclopedia Virgiliana, II, Roma 1985, p. 862.
22 M. Beard, J. North, Pagan Priests. Religion and Power in the Ancient World, London 1990.
23 A. Maiuri, Sacra privata. Rituali domestici e istituti giuridici in Roma antica, Roma 2012.
24 Svet., Iul. 13.
25 Res gestae divi Augusti VII; Svet., Aug. 31.
26 W. Pötscher, Numen e numen Augusti, in ANRW, II,16,1, pp. 355-392.
27 Svet., Iul. 100.
28 Le culte des souverains dans l’empire romain, éd. par W. den Boer, Vandoeuvres-Genève 1973; I. Gradel, Emperor Worship and Roman Religion, Oxford 2002; G. Bonamente, Dall’imperatore divinizzato all’imperatore santo, in Pagans and Christians, cit., pp. 339-370.
29 A. Watson, Aurelian and the Third Century, London 1999, pp. 183-202.
30 A.M. Rabello, The Legal Condition of the Jews in Roman Empire, in ANRW, II 13, pp. 662-762, in partic. 704 nota 171, per la documentazione relativa alla formula Deo aeterno pro salute Augusti.
31 F. Millar, The Imperial Cult and the Persecutions, in Le cult des souverains, cit., pp. 143-165.
32 O. Nicholson, The «Pagan» Churches of Maximinus Daia and Julian the Apostate, in Journal of Ecclesiastical History, 45 (1994), pp. 1-10.
33 G. Filoramo, La croce e il potere. I cristiani da martiri a persecutori, Roma-Bari 2011, p. 143.
34 S. Mazzarino, Il Basso Impero. Antico, tardoantico ed èra costantiniana, I, Bari 1974-1980, p. 466.
35 Cod. Theod. II 8,1 e Cod. Iust. III 12,2.
36 Eus., v.C. IV 24; J. Straub, Kaiser Konstantin als ᾿Επίσϰοπος τῶν ἐϰτός, in Studia Patristica, 2,1 (1957), pp. 678-695.
37 Eus., v.C. IV 71.
38 Fra le numerose opere disponibili sulla complessa questione conversione-battesimo si veda, ad esempio, M. Amerise, Il battesimo di Costantino il Grande. Storia di una scomoda eredità, Wiesbaden 2005.
39 Zos., II 29,3 (Zosimo, Storia nuova, a cura di F. Conca, Milano 2007, p. 221).
40 Iul., Caes. 336A-B.
41 Paneg. 9(12),19,3: «Ausi etiam quidam ut resisteres poscere et queri tam cito accessisse Palatium et, cum ingressus esses, non solum oculis sequi, sed paene etiam sacrum limen inrumpere». Sulla publica laetitia ancora Zos., II 17.
42 Paneg. 9(12),19,6.
43 A. Giuliano, L’arco di Costantino come documento storico, in Rivista Storica Italiana, 112, (2000), pp. 444-474.
44 A. Fraschetti, La conversione. Da Roma pagana a Roma cristiana, Roma 20042, p. 63.
45 Eus., v.C. I 48.
46 Cod. Theod. XVI 2,5. F. Heim, Les auspices publics de Constantin à Théodose, in Ktema, 13 (1988), pp. 41-53; M.R. Salzman, «Superstitio» in the Codex Theodosianus and the Persecution of Pagans, in Vigiliae Christianae, 41 (1987), pp. 172-188, in partic. 177 segg.
47 Zos., II 29,1-5. In A. Fraschetti, La conversione, cit., pp. 87 segg., discussione con F. Paschoud, Zosime, 2, 29 et la versione payenne de la conversion de Constantin, in Historia, 20 (1971), pp. 334-353 (ora in Id., Cinq études sur Zosime, Paris 1975); e con G. Bonamente, Eusebio, «Storia ecclesiastica», IX, 9 e la versione cristiana del trionfo di Costantino ne1 312, in Scritti sul mondo antico in memoria di F. Grosso, a cura di L. Gasperini, Roma 1981, pp. 55 segg.
48 Per questa identificazione V.C. de Clercq, Ossius of Cordova. A Contribution to the History of the Constantinian Period, Washington 1954, pp. 52-56, 285-287.
49 Zos., IV 29,5.
50 Lib., Or. 19,19 e 20,24.
51 Su cui si veda, ad esempio, critico nei confronti di Fraschetti, P.P. Onida, Il divieto dei sacrifici animali nella legislazione di Costantino. Una interpretazione sistematica, in Poteri religiosi e istituzioni: il culto di San Costantino imperatore tra Oriente e Occidente, a cura di F. Sini, P.P. Onida, Torino 2003, pp. 88-104. Probante il riferimento a CIL VIII 9356: A. Mastino, A. Teatini, Ancora sul discusso “trionfo” di Costantino dopo la battaglia del Ponte Milvio. Nota a proposito di CIL VIII 9356 = 20941 (Caesarea), in Varia epigraphica, Atti del Colloquio internazionale di epigrafia (Bertinoro 8-10 giugno 2000), a cura di M.G. Angeli Bertinelli, A. Donati, Faenza 2001, pp. 273-327.
52 L. Cracco Ruggini, Vettio Agorio Pretestato e la fondazione sacra di Costantinopoli, in ‘Philias Charin’. Studi in onore di Ettore Manni, Roma 1979, pp. 595-610.
53 G. Dagron, Naissance d’une capitale: Constantinople et ses institutions de 330 à 451, Paris 19844, pp. 14 segg. (trad. it. Costantinopoli. Nascita di una capitale (330-451), Torino 1974, rist. 2012); E. La Rocca, La fondazione di Costantinopoli, in Costantino il Grande. Dall’antichità all’umanesimo, Colloquio sul cristianesimo nel mondo antico (Macerata 18-20 dicembre 1990), a cura di G. Bonamente, F. Fusco, II, Macerata 1993, pp. 553-583.
54 CIL XI 5265 = ILS 705: Nam civi / tati Hispello aeternvm vocabvlvm nomenq / venerandvm de nostra noncvpatione conces / simvs, scilicet vt in postervm praedicta vrbs Flavia Constans voceretur; in cvivs gremio / aedem qvoque gentis Flaviae, hoc est nostrae gen / tis, vt desideratis, magnifico opere perfici / volvmus, ea observatione praescripta, ne ae / dis nostro nomini dedicata cuivsqvam con / tagiose svperstitionis fravdibus pollvatvr. J. Gascou, Le rescrit d’Hispellum, in Mélanges de l’École Française de Rome. Antiquité, 79 (1967), pp. 609-659; K. Tabata, The Date and the Settings of the Constantinian Inscription of Hispellum (CIL XI, 5265 = ILS 705), in Studi Classici e Orientali, 45 (1995), pp. 369-405; G. Forni, ‘Flavia constans Hispellum’. Il tempio ed il pontefice della gente flavia costantiniana, in I problemi dell’appartenenza dei beni nella società e nel diritto del tardo impero, IX Convegno internazionale (Spello, Perugia, Città di Castello 2-5 ottobre 1989), Napoli 1993, pp. 401 segg.; P.P. Onida, Il divieto dei sacrifici animali, cit., p. 125, fa notare che in questo modo, pur nell’ambiguità del riferimento alla superstitio che poteva non essere inteso univocamente come critica alla religione tradizionale, tuttavia l’imperatore procedeva al divieto di sacrificare in pubblico, che era un’evoluzione ulteriore rispetto a quello, già promulgato, di sacrificare in privato. Si veda, in questa opera, il contributo di G.L. Gregori, A. Filippini, L’epigrafia costantiniana. La figura di Costantino e la propaganda imperiale nella comunicazione epigrafica.
55 Soz., h.e. II 5.
56 Cod. Theod. IX 16,1: «[Imp. Constantinus A. ad Maximum p.u.] Nullus haruspex limen alterius accedat, nec ob alteram causam, sed huiusmodi hominum quamvis vetus amicitia repellatur, concremando illo haruspice qui ad domum alienam accesserit, et illo qui eum suasionibus vel praemiis evocaverit, post ademptionem bonorum in insulam detruendo: superstitioni enim suae servire cupientes poterunt publice ritum exercere. Accusatorem autem huius criminis non delatorem esse sed dignum magis praemio arbitramur. Pp. Kal. Feb. Romae, Constantino V et Licinio Conss.».
57 Cod. Theod. IX 16,2: «[Idem ad populum] Haruspices et sacerdotes et eos qui huic ritui adsolent ministrare ad privatam domum prohibemus accedere, vel sub praetextu amicitiae limen alterius ingredi, poena contra eos proposita si contempserint legem. Qui vero id vobis existimatis conducere, adite aras publicas atque delubra et consuetudinis vestrae celebrate sollemnia; nec enim prohibemus praeteritae usurpationis officia libera luce tractari. Dat. Id. Mai. Constantino A. V et Licinio Conss.». Per l’analisi di queste costituzioni e la contestualizzazione nell’ambito della concezione dell’aruspicina e della divinazione in questa epoca: F. Lucrezi, Costantino e gli aruspici, in Atti dell’Accademia di Scienze morali e politiche di Napoli, 97 (1987), pp. 171-198; per il maggiore controllo esercitato dall’autorità pubblica sull’aruspicina tramite questo tipo di legislazione: P. Siniscalco, Il cammino di Cristo nell’Impero Romano, Roma-Bari 1983, p. 171. Sul rapporto fra cristianesimo e aruspicina: D. Briquel, Chrétiens et haruspices. La religion étrusque, dernier rempart du paganisme romain, Paris 1997, in partic. pp. 161-164.
58 Cod. Theod. XVI 10,1: «[Imp. Constantinus A. ad Maximum]. Si quid de palatio nostro aut ceteris operibus publicis degustatum fulgore esse constiterit, retento more veteris observantiae quid protendat, ab haruspicibus requiratur et diligentissime scribtura collecta ad nostram scientiam referatur, ceteris etiam usurpandae huius consuetudinis licentia tribuenda, dummodo sacrificiis domesticis abstineat, quae specialiter prohibita sunt. Eam autem denuntiationem adque interpretationem, quae tactu amphiteatri scribta est, de qua ad Heraclianum tribunum et mag(istrum) officiorum scribseras, ad nos scias esse perlatam. Dat. XVI Kal. Ian. Serdicae; acc(epta) VIII Id. Mar. Crispo II et Constantino II CC. Conss.». L. De Giovanni, Costantino e il mondo pagano, cit., pp. 32 segg.; Id., Mondo tardoantico e formazione del ‘diritto romano cristiano’. Riflessioni su CTh. 9, 16, 1-2, in Nozione formazione e interpretazione del diritto. Dall’età romana alle esperienze moderne. Ricerche dedicate al professor Filippo Gallo, I, Napoli 1997, pp. 171 segg.; T.D. Barnes, Constantine’s Prohibition of Pagan Sacrifice, in American Journal of Philology, 105 (1984), pp. 69 segg.
59 Cod. Theod. XVI 10,2: «[Imp. Constantius A. ad Madalianum agentem vicem P(raefectorum) P(raetori)o]. Cesset superstitio, sacrificiorum aboleatur insania. Nam quicumque contra legem divi principis parentis nostri et hanc nostrae mansuetudinis iussionem ausus fuerit sacrificia celebrare, conpetens in eum vindicta et praesens sententia exeratur. [Acce(pta) Marcellino et Probino Conss.]».
60 Eus., v.C. II 44; II 45,1; l.C. 8,1-9.
61 Cod. Theod. XVI 10,4.
62 Cod. Theod. XVI 10,5.
63 Cod. Theod. XVI 10,6.
64 Cod. Theod. XVI 10,3: «Idem AA. ad Catulinum P(raefectum) U(rbi). Quamquam omnis superstitio penitus eruenda sit, tamen volumus, ut aedes templorum, quae extra muros sunt positae, intactae incorruptaeque consistant. Nam cum ex nonnullis vel ludorum vel circensium vel agonum origo fuit exorta, non convenit ea convelli, ex quibus populo Romano praebeatur priscarum sollemnitas voluptatum. Dat. Kal. Nov. Constantio IIII et Constante III AA. Conss.».
65 Ne parlava ancora Simmaco nella disputa che si riaccese nel 384: Symm., rel. III 4. Sull’adventus di Costanzo II: T.D. Barnes, Constans and Gratian in Rome, in Harvard Studies in Classical Philology, 79 (1975), pp. 325-333; R.O. Edbrooke, jr., The Visit of Constantius II to Rome in 357 and its Effect on the Pagan Roman Senatorial Aristocracy, in American Journal of Philology, 97 (1976), pp. 40-61.
66 D. Vera, Commento storico alle “Relationes” di Quinto Aurelio Simmaco, Pisa 1981.
67 Amm., XVI 10,13-17.
68 Giuliano Imperatore, Alla madre degli dei e altri discorsi, a cura di J. Fontaine, C. Prato, A. Marcone, Milano 1987.
69 Giuliano Imperatore, Contro i Galilei, a cura di E. Masaracchia, p. 163.
70 Rimandando però anche a M. Mazza, Giuliano o dell’utopia religiosa, in Id., Tra Roma e Costantinopoli. Ellenismo Oriente Cristianesimo nella Tarda Antichità. Saggi scelti, Catania 2009, pp. 217-244 (già in Id., Giuliano imperatore: le sue idee, i suoi amici, i suoi avversari, in Rudiae: ricerche sul mondo classico, Atti del Convegno internazionale di studi [Lecce 10-12 dicembre 1998], Galatina 1998, pp. 19-42).
71 I. Tantillo, L’imperatore Giuliano, Roma-Bari 2001, p. IX.
72 Lib., or. 12,82.
73 Plut., Num. VII 1,8,3; XV 7-10.
74 Lib., or. 12,79; 16,2.
75 Iul., Ep. 26.
76 Iul., Ep. 114,436D; Soz., h.e. V 5,1.
77 S. Bradbury, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in Phoenix, 49 (1995), pp. 321-356; A. Saggioro, Il sacrificio pagano nella reazione al cristianesimo: Giuliano e Macrobio, in Annali di Storia dell’Esegesi, 19 (2002), pp. 237-254.
78 Cod. Theod. XIII 3,5.
79 Iul., Ep. 61C. L’esistenza di un nomos esplicito in materia è molto discussa. Si veda da ultimo, per un quadro sistematico, E. Germino, Scuola e cultura nella legislazione di Giuliano l’Apostata, Napoli 2004.
80 Hier., chron. a. 363.
81 Amm., XXV 4,19-20.
82 Iul., Ep. 60,436AB (contr.): «Io pensavo che i capi dei galilei dovessero essere più riconoscenti a me che non a colui il quale mi precedette alla guida dell’Impero. Avvenne infatti sotto di lui che la maggior parte di loro fu esiliata, perseguitata, incarcerata; che, inoltre, molti gruppi di cosiddetti eretici furono massacrati, come a Samosata, a Cizico, in Paflagonia, in Bitinia, in Galazia; che tra molte altre popolazioni vi furono dei villaggi saccheggiati e completamente devastati; sotto di me è invece avvenuto il contrario».
83 V. Messana, La politica religiosa di Graziano, Roma 1988, pp. 82-91; T.D. Barnes, Ambrose and Gratian, in Antiquité Tardive, 7 (1999), pp. 165-174.
84 Symm., rel. III 5.
85 Symm., rel. III 4.
86 Ambr., epist. 17 e 18.
87 Cod. Theod. XVI 10,10.
88 Cod. Theod. XVI 10,11.
89 Cod. Theod. XVI 10,12. Cfr. A. Fraschetti, Principi cristiani, cit., p. 133 e nota 38.
90 Cod. Theod. XVI 10,7.
91 Cod. Theod. XVI 10,9.
92 Cod. Theod. XVI 10,12.
93 Amm., V 16,12; Rufin., hist. XI 23.
94 Eunapius, Vitae Sophistarum, ed. Boissonade, p. 421.
95 Sofronio scrisse un opuscolo intitolato De Subversione Serapis. Hier., epist. 107,2; Paul. Nol., carm. XIX 109; Rufin., hist. XI 23; Socr., h.e. V 16,1; Thdt., h.e. V 22,3.
96 H. Bloch, The Pagan Revival in the West at the End of the Fourth Century, in The Conflict between Paganism, cit., pp. 193-217, in partic. 199-200.
97 A partire da Rufin., hist. XI 33.
98 Thdt., h.e. V 24,4; Aug., civ. V 26,1.
99 Da ultimo: S. Ratti, Polémique entre païens et chrétiens, Parigi 2012, pp. 111-114; contra Al. Cameron, The Last Pagans, cit., pp. 93-131.
100 Cod. Theod. XVI 7,1.
101 Cod. Theod. XVI 7,2-3.
102 Cod. Theod. XVI 7,4-5.
103 S. Mazzarino, Il Basso Impero, I, cit., pp. 378 segg.
104 Cod. Theod. XVI 10,22.
105 T. Honoré, Tribonian, London 1978.
106 Cod. Theod. XVI 1,2 (pontifex Damasus).
107 R. Schilling, Á propos du Pontifex Maximus. Dans quelle mesure peut-on parler d’un ‘réemploi’ par les chrétiens d’un titre prestigieux de la Rome antique?, in Diritto e religione da Roma a Costantinopoli a Mosca, Rendiconti dell’XI Seminario internazionale di studi storici «Da Roma alla Terza Roma» (Roma 21 aprile 1991), a cura di M.P. Baccari, Roma 1994, pp. 75-90.
108 Alla questione della cristianizzazione del tempo si è dedicato, in una serie di studi, A. Di Berardino: La cristianizzazione del tempo nel IV secolo: il caso della celebrazione della Pasqua, in Ecclesiae memoria. Miscellanea J. Metzler O.M.I., prefetto dell’Archivio Segreto Vaticano, a cura di W. Henkel O.M.I., Roma-Freiburg-Wien 1991, pp. 133-147; La cristianizzazione del tempo nei secoli IV-V: la domenica, in Augustinianum, 42 (2002), pp. 97-125; Liturgical Celebrations and Imperial Legislation in the Fourth Century, in Prayer and Spirituality in the Early Church, III, Liturgy and Life, ed. by B. Neil, G.D. Dunn, L. Cross, Sydney 2003, pp. 211-232; Tempo sociale pagano e cristiano nel IV secolo, in Diritto romano e identità cristiana, cit., pp. 95-121. Cfr. M. Bianchini, Cadenze liturgiche e calendario civile fra IV e V secolo. Alcune considerazioni, in Politica ecclesiastica e legislazione religiosa dopo l’editto di Teodosio I del 360 d.C., VI Convegno internazionale (Spello, Perugia, Acquasparta, Tuoro, Orvieto 12-15 ottobre 1983), Città di Castello 1986, pp. 241-263.
109 L’analisi archeologica intorno a molti siti santuariali ha dimostrato le nuove strategie di ‘sopravvivenza’ dei culti tradizionali, fenomeno recentemente definito ‘criptopaganesimo’. Si vedano: L. Foschia, Shifting Pagan and Christian Cult Places in Late Antiquity: from Monumentalization to Cryptocult and vice versa, in Symposium on Mediterranean Archaeology. Proceeding of the Fifth Annual Meeting of Postgraduate Researchers (Liverpool, 23-25 February 2001), ed. by G. Muskett, A. Koltsida, M. Georgiadis, Oxford 2002, pp. 105-111; From Temple to Church: Destruction and Renewal of Local Cultic Topography in Late Antiquity, ed. by J. Hahn, S. Emmel, U. Gotter, Leyden 2008; B. Caseau, Le crypto paganisme et les frontières du licite: un jeu de masques?, in Pagans and Christians in the Roman Empire, cit., pp. 541-751.
110 Thdt., affect. VIII 69.
111 Rut. Nam., II 41-42: «Quo magis est facinus diri Stilichonis acerbum, / proditor arcani quod fuit imperii».
112 Zos., V 41,1-3. A. Fraschetti, La conversione, cit., pp. 270-293.
113 Zos., V 38,3-4.
114 S. Conti, Tra integrazione ed emarginazione: le ultime Vestali, in Studia Historica. Historia Antigua, 21 (2003), pp. 209-222.
115 Inst. I 2,8; cfr. R. Lizzi Testa, Augures et pontifices: Public Sacral Law in Late Antique Rome (Fourth-Fifth Centuries A.D.), in The power of religion in late antiquity, ed. by A. Cain, N. Lenski, Farnham-Burlington (VT) 2009, pp. 251 segg.