Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Vengono qui esaminate le proposte del Living Theatre, di Grotowski, di Kantor, di Brook e di Barba, le pratiche dell’ happening e del teatro di gruppo americano, la neoavanguardia italiana di Bene, Quartucci, Scabia, Ricci, de Berardinis, per analizzare il territorio della ricerca di un radicale ripensamento del teatro rispetto alle convenzioni della scena ufficiale. Si tratta dell’insieme delle esperienze teatrali che, a partire dagli anni Cinquanta, ha dato vita al fenomeno del Nuovo teatro.
Il Living Theatre e l’opera teatrale di Jerzy Grotowski
Carmelo Bene
Pinocchio, Prologo
Rispettabile pubblico ed inclita guarnigione dell’uno e dell’altro sesso essendo di passaggio per questa illustre Metropolitana mi sono voluto procreare il bene il piacere l’onore e il vantaggio di presentarvi davanti agli occhi un noto burattino sconosciuto finora in questi paesi e del quale forse avrete veduto il compagno ma non il simile.
C. Bene, Opere, con l’autografia di un ritratto, Milano, Bompiani, 2002
Quella del Nuovo teatro del secondo Novecento è storia policentrica, composta da tante variazioni quante sono le personalità artistiche che la animano. Per trattare delle individualità protagoniste conviene disegnare un atlante di riferimento, a partire dai poli opposti in cui questa storia inizia. Polarizzazione anche geografica quella che indicheremo, poiché gli estremi vengono a trovarsi a New York e in Polonia: da una parte il Living Theatre e dall’altra Jerzy Grotowski. Da loro si innesca un moto di accelerazione del ripensamento della scena che avrà portata epocale.
Quando Judith Malina e Julian Beck, appena ventenni, fondano il Living Theatre a New York, nel 1947, immaginano un teatro che si ponga in strenua opposizione al sistema di Broadway e alle sue logiche mercantili, ispirandosi da un lato alla tradizione anarco-pacifista e dall’altro alle avanguardie artistiche del dopoguerra. Nel loro progetto il Living deve essere, letteralmente, un "teatro vivente", che "combini vera musica, danza, pittura e poesia", concentrandosi sulla messa in scena di opere contemporanee, vicine allo spirito e alle questioni del proprio tempo. La professione di povertà che il Living decide di seguire è un modo radicale per prendere le distanze dal teatro come prodotto, fondato su una mercificazione dell’arte. L’avventura dei coniugi Beck ha effettivo inizio nel 1951 nel loro appartamento, al 789 di West End Avenue, con uno spettacolo inaugurale composto da atti unici di Paul Goodman, Gertrud Stein, Brecht e García Lorca.
In quegli stessi anni Grotowski studia a Cracovia, presso la Scuola Superiore di Arte Teatrale. Una formazione solida, che prosegue con un perfezionamento a Mosca. Tornato in Polonia, il giovane regista viene incaricato della direzione di una piccola sala di provincia, il "Teatro delle 13 File" di Opole. Siamo nel 1959, data cruciale sia per Grotowski sia per il Living, che in quell’anno mette in scena lo spettacolo della sua consacrazione, The Connection, tratto dall’opera prima di Jack Gelber.
Grotowski compone intanto le tappe del suo teatro di regia – dal Faust di Goethe al Caino di Byron, dal majakovskiano Mistero buffo alla Sakuntala di Kalidasa (350?-420?), tutte prove del 1960 – esaurendone presto la parabola: dal 1962, infatti, la ricerca si appunta su quello che egli stesso chiamerà "teatro povero". Qui il riferimento a una realtà pauperistica non ha niente a che vedere con l’autogestione economica scelta dal Living; nel caso di Grotowski si vuole marcare la distanza verso il "teatro ricco", quello dell’ happening e dei "mezzi misti", opponendogli risolutamente l’essenza scarnificata del fare teatro: la relazione tra attore e spettatore, in cui riposa la qualità essenziale della scena. Grotowski si trova cioè sull’opposta sponda del Living, laddove questo si organizza attorno a una "sintesi di discipline creative disparate", sebbene riguardo al ruolo da assegnare allo spettatore a alla centralità dell’attore le due ricerche presentino molti punti di convergenza.
Tanto il Living che Grotowski tentano – seppur declinandola secondo modalità proprie – la strada del coinvolgimento fisico del pubblico: per il maestro polacco si tratta di fare dello spettatore un soggetto drammaturgico attivo, fornendogli un ruolo predeterminato all’interno dello spettacolo, mentre per il Living folgorante è l’incontro con il pensiero visionario di Artaud, con la necessità di aggredire totalmente lo spettatore, coinvolgendolo in modo efficace. Laddove però il Living procede verso la radicalizzazione di questa prassi, approdando alla fase della partecipazione attiva del pubblico, Grotowski se ne distacca ben presto a favore di un’ipotesi di "spettatore-testimone".
Di qui il discorso sfocia naturalmente nella questione dell’attore. Per il Living la sua preparazione viene prepotentemente in primo piano con l’allestimento di The Brig (1963, ispirato al regolamento dei Marines), costato lunghe prove e fondato su una ferrea disciplina. The Brig mira a rendere l’orrore di una condizione condivisa da prigionieri e aguzzini, e le sfiancanti sedute a cui si sottopongono gli interpreti sono necessarie a vivere uno stato di reale oppressione per poterne restituire il segno e il senso al pubblico, chiamandolo a un’auspicata azione diretta nella vita reale. Le esperienze successive porteranno il gruppo alla fase della creazione collettiva e dell’improvvisazione totale, inaugurata nel 1964 con l’allestimento di Mysteries and smaller pieces (fondamentalmente un collage di esercizi), in cui si tenta di fomentare una condizione di reale egualitarismo, sia tra i membri della compagnia che con il pubblico coinvolto: il teatro come rito collettivo.
Pur condividendo l’idea della centralità dell’attore e della sua relazione con lo spettatore, in una direzione molto diversa evolve il lavoro di Grotowski, pioniere nell’affrontare sistematicamente il problema dell’allenamento (training) costante come percorso di autopenetrazione volto a edificare una consapevolezza superiore dell’agire scenico da parte dell’interprete. Per far ciò il maestro polacco rivoluziona la prassi della produzione teatrale, rivendicando la necessità di una distensione nel ritmo degli allestimenti. Nasce così, nel 1965, il Teatr-Laboratorium di Wroclaw, un laboratorio permanente dell’attore, che pone in primo piano il ruolo svolto dalla pedagogia teatrale. Questo significa proiettare il teatro in una dimensione che privilegia il processo al prodotto, insistendo sulla centralità assegnata all’interprete, il quale, per Grotowski, deve assurgere allo stato di attore-santo, qualcuno che "non vende il suo corpo ma lo offre in sacrificio". Hanno origine da qui gli esiti più significativi della produzione spettacolare grotowskiana: Kordian (1962), Akropolis (orchestrato in cinque variazioni tra il 1962 e il 1967), La tragica storia del dottor Faust (1963), Il principe costante (tre varianti tra il 1965 e il 1968), Apocalypsis cum figuris (1968-1969).
Frattanto il Living abbandona l’America e sbarca in Europa. È il 1964 e il gruppo si trasforma, da compagnia tutto sommato stabile, in un grande teatro nomade di esuli, una comunità di vita e di lavoro prima che un progetto artistico. Nella peregrinazione europea il Living produrrà, fra l’altro, Frankestein (1965) e Antigone (1967), da Brecht, fino a giungere, sotto l’urto della congiuntura del Maggio francese, a Paradise now, spettacolo che sancisce la sua definitiva consacrazione, determinandone però, nello stesso tempo, la crisi.
Gli happening, Tadeusz Kantor, Peter Brook e il Théâtre du Soleil
Per affrontare quel panorama del Nuovo teatro che si muove fra gli estremi fin qui trattati, conviene iniziare da ciò che si coagula attorno ai poli esaminati, insistendo sul binomio tra la scena nordamericana e quella dell’Europa dell’Est.
Innanzitutto bisogna segnalare che, sempre nell’anno chiave 1959, compare per la prima volta il termine happening riferito a una nuova forma d’arte. Figura nel titolo di un’opera che Allan Kaprow, scultore americano, presenta alla Reuben Gallery di New York: 18 happenings in 6 Parts. L’espressione, che avrà vasta eco nelle esperienze artistiche successive, designa un modo di concepire e di proporre l’opera, sottolineandone il carattere di evento irripetibile e – almeno in parte – imprevedibile – in questa direzione, la sperimentazione era stata inaugurata dal musicista John Cage all’inizio degli anni Cinquanta. L’ happening si avvale di una pluralità di mezzi espressivi e propone una serie di interventi simultanei o in successione, non legati diegeticamente tra loro, distinguendosi dalla rappresentazione teatrale per il tentativo dichiarato di abbattere il confine tra finzione e realtà, tra arte e vita.
Sempre negli Stati Uniti esplode, tra il 1964 e il 1968, il fenomeno del Nuovo teatro: la San Francisco Mime Troupe fondata da Ronnie Davis, il Bread and Puppet Theatre di Peter Schumann, l’Open Theatre creato da Joseph Chaikin, un ex attore del Living, El Teatro Campesino di Luis Valdez, il Performance Group di Richard Schechner, per limitarci solo ai casi più rilevanti.
Generalizzando, le linee comuni che marcano queste esperienze possono essere rintracciate: nell’"espropriazione" del ruolo del regista e del testo drammatico scritto "a priori", a favore del lavoro collettivo della compagnia; nel rifiuto del naturalismo e del realismo psicologico in campo attorico; nella crescente attenzione per le tecniche di improvvisazione; nella mobilitazione politica (in area radicals) che caratterizza i lavori dell’epoca, diventandone spesso, non senza lacerazioni interne, la finalità primaria. In sintesi, la sovversione formale che questi gruppi operano nel linguaggio teatrale veicola, sulla scorta del Living, un messaggio di rivolta contro il sistema (l’imperialismo americano, le discriminazioni razziali, la guerra del Vietnam).
Guardando al polo orientale della nostra ricognizione e tornando a Opole, presso il Teatr-Laboratorium, vi troviamo un giovane studente pugliese che assiste, tra il 1961 e il 1964, al lavoro di Grotowski. Si chiama Eugenio Barba e il teatro che fonderà a Oslo, nel 1964, l’Odin Teatret, rappresenta una delle vicende fondamentali del secolo.
Sempre in Polonia, un discorso a parte va fatto per Tadeusz Kantor. Dopo una formazione all’Accademia di Belle Arti e una carriera da pittore e scenografo, nel 1955 fonda la compagnia Teatro Cricot 2, composta da giovani attori, pittori e poeti d’avanguardia. I primi lavori condividono una decisa predilezione per i testi di Witkiewicz – La piovra, Nel piccolo maniero, Il pazzo e la monaca, Gallinella acquatica, I calzolai, Le bellocce e i cercopitechi – assieme a posizioni avanguardistiche mutuate dalle arti visive. Va in questo senso il Manifesto del Teatro informale, la pratica degli imballaggi e quella dell’ happening fino al cricotage, azione vicina a "procedimenti propri all’arte visuale quali collage, assemblaggio e altri". L’esito maggiore del periodo Kantor lo raggiunge con la Classe morta (1975), forse il suo capolavoro, una macabra danza di vecchi (o di defunti?) che tornano nella scuola in cui furono allievi, recando ciascuno la spoglia di cera del bambino di un tempo. Lo spettacolo sostanzia il discorso sul Teatro della morte, definitivo approdo della ricerca kantoriana, e vale al regista il riconoscimento (tardivo) delle platee internazionali.
Doppiati i due capi del nostro tragitto resta da vedere cosa abiti il mezzo: qui spicca la figura di Peter Brook, centro geografico e ideologico di questo atlante del Nuovo teatro. Centro geografico, perché la carriera di Brook si sviluppa tra Londra e Parigi; ideologico, poiché fondamentale sarà per il suo lavoro la conoscenza dell’ happening, del lavoro del Living Theatre e delle ricerche di Grotowski, elementi assunti (assieme a molti altri) da una personalità artistica incredibilmente ricettiva, capace di coniugare, in una sintesi efficace, elementi tanto dissimili. Il percorso di Brook è, in apparenza, meno radicale di quelli fin qui affrontati. Oggetto sin dagli esordi (debutta nel 1946, appena ventunenne, con Pene d’amor perdute delle attenzioni di pubblico e critica, Brook giunge ancora giovane a dirigere la Royal Shakespeare Company, istituita nel 1961. Artista prolifico e versatile, non disdegna di frequentare, nei primi anni della carriera, la scena del teatro commerciale, affiancando a essa le prove più impegnative degli allestimenti shakespeariani (da menzionare sono, almeno, Misura per misura, del 1950, e Tito Andronico, del 1955).
È all’interno del percorso shakespeariano che, progressivamente, Brook opera una torsione della materia teatrale giungendo, nel 1962, a un innovativo King Lear riletto in chiave beckettiana e, dopo qualche anno, al Sogno di una notte di mezza estate (1970), spettacolo-manifesto di una ricerca tesa a scardinare l’impianto della scena realistica.
Ma la vera "rottura" rispetto all’establishment viene operata nel 1963, quando Brook dà vita con i suoi attori a un laboratorio sul teatro della crudeltà, licenziando l’anno successivo un memorabile Marat-Sade, dal testo di Peter Weiss. È il suo ingresso trionfale nel teatro di ricerca e sperimentazione, come confermano i lavori successivi, debitamente politicizzati, in particolare US (1966).
Dal 1970 Brook si stabilisce a Parigi, dove crea il Centre International de Recherche Théâtrale (CIRT), coinvolgendo attori di differenti nazionalità. L’attività del CIRT (poi CICT) inizia, nel 1971, con Orghast, una rivisitazione del mito di Prometeo composta in una lingua immaginaria, che esplora le possibilità evocative del suono e quelle della comunicazione transculturale. Nel 1972 Brook coinvolge il gruppo nel primo dei molti viaggi antropologici: tre mesi nell’Africa nera che porteranno a ridiscutere i fondamenti del teatro occidentale e a produrre uno spettacolo, Les Iks (1975), in cui la ricerca etnografica su una comunità africana destinata all’estinzione diventa occasione per spogliarsi di pregiudizi e tentare una reale comprensione dell’alterità, ma soprattutto per muovere sempre più risolutamente nella direzione di un linguaggio teatrale "universale", capace di scavalcare differenze linguistiche e culturali. Si tratta di principi a cui Brook rimarrà fedele nel corso del suo lungo cammino artistico.
Ancora nel 1975, e sempre a Parigi, un altro spettacolo si impone come un canto festoso e dolente insieme contro l’emarginazione razziale: L’Age d’or del Théâtre du Soleil, tentativo di un teatro che abbia una "presa diretta sulla realtà sociale". Il gruppo, guidato sin dalla sua fondazione (1964) da Ariane Mnouchkine, si era segnalato in precedenza per un dittico sulla Rivoluzione francese significativamente abitato dallo spirito del Sessantotto: 1789. La Révolution doit s’arrêter à la perfection du bonheur (1970) e 1793. La cité révolutionnaire est de ce monde (1972). Quello del gruppo della Mnouchkine è un teatro edificato attorno al ruolo dell’attore, alla creazione collettiva del testo, concepito anche come deposito di quanto sviluppato in sede di improvvisazione, alla libera rielaborazione della tradizione teatrale – in specie Shakespeare, Molière, la Commedia dell’Arte e la tragedia classica –, anche, e sempre di più, in chiave interculturale.
La scena italiana: Carmelo Bene, Mario Ricci, Carlo Quartucci, Leo de Berardinis
Abbiamo rintracciato nel 1959 un anno particolarmente significativo tanto per il Living Theatre che per Grotowski. Lo è anche per il caso Italia dove, al Teatro delle Arti, debutta con un Caligola di Camus lo "scandalo" di Carmelo Bene.
L’attore – ma presto si dovrà parlare di attore-autore-regista, o meglio, di artifex – si impone per la cifra stilistica della recitazione oltre che per coltivare un gusto della provocazione attorno a cui edifica il mito della sua personalità. Pressoché ignorato da pubblico e critica fino alla metà degli anni Sessanta, Bene è però sostenuto da una ristretta cerchia di intellettuali che seguono le sue prove di allora: Spettacolo Majakovskij (1960), Lo strano caso del Dott. Jekyll e del Sig. Hyde, Pinocchio e Amleto (tutti del 1961), la clamorosa blasfemia di Cristo ’63, Edoardo II e Salomé (1964). Già da questi primi anni si intravede il profilo di un repertorio edificato su alcune ossessioni ricorrenti: quella per Majakovskij – riproposto nel 1968 e, in veste diversa, per la televisione, nel 1977; quella per Amleto, concertato tra Shakespeare e Laforgue – tre diverse versioni tra il 1967 e il 1975, più un’edizione televisiva nel 1978; quella per gli elisabettiani, da Marlowe all’anonimo autore di Arden of Feversham, fino al lavoro sulla pagina, sulla scena e per il cinema del suo Nostra Signora dei Turchi. È una soggettività, quella di Bene, che giunge a divorare tutta l’opera, invadendo e sperimentando più mezzi: dal teatro al cinema alla letteratura, con incursioni nella radio e nella televisione.
Sono gli anni delle "cantine romane", sorta di incubatrici in cui il nuovo teatro può sperimentare, con relativa indipendenza, le sue forme.
L’alternativa alle platee ufficiali era stata indicata da Mario Ricci che, nel 1964, aveva inaugurato il Teatro delle Orsoline, primo caso di teatro-club italiano. Ricci era approdato alla scena dopo un passato da pittore e scultore e una formazione presso il Marionettentheater di Stoccolma. Le sue prime prove teatrali recuperano fascinazioni da Gordon Craig e dalla Bauhaus, collocandosi nella direzione di un teatro d’animazione, con una radicale predilezione verso la componente visuale. A partire da Varietà e Tanto fragili non si entra nell’ufficio del capitano (1965) il lavoro di Ricci attinge a una dimensione compiutamente teatrale grazie all’introduzione, sulla scena, dell’attore in carne e ossa, presenza costante anche nei successivi spettacoli. Tra questi vanno almeno citati, per il modo in cui compongono felicemente il motivo del viaggio e quello del gioco-rito, I viaggi di Gulliver (1966), Il barone di Münchhausen (1969), Moby Dick (1971) e Il lungo viaggio di Ulisse (1972).
Facciamo un passo indietro e torniamo ancora una volta al 1959: Carlo Quartucci, un altro dei pionieri del Nuovo teatro italiano, affronta il suo primo Beckett, un Aspettando Godot di cui è regista e interprete. L’interesse per la "drammaturgia dell’assurdo", e segnatamente per l’autore irlandese, permette a Quartucci di elaborare uno stile recitativo astratto, formalizzato e geometrizzante, originale tentativo di un radicale rinnovamento del linguaggio da opporre alla "totale insufficienza del vecchio naturalismo e dell’imitazione realistica che il teatro ufficiale aveva sviluppato fino al parossismo".
Nel 1961, tra il pubblico de Le sedie di Ionesco, messo in scena da Quartucci, c’è Leo de Berardinis. Il sodalizio tra i due nasce di lì a poco con la costituzione di un gruppo, la Compagnia della Ripresa, che in quattro anni di attività si segnalerà principalmente per gli allestimenti beckettiani, fino a giungere, nel 1965, alla prova di Zip Lap Lip Van Mam Crep Scap Plip Trip Scrap & la grande Mam. Il testo è di Giuliano Scabia, primo tentativo di drammaturgia "aperta" all’intervento del gruppo (seguiranno, nella stessa direzione, All’improvviso, Scontri generali, Commedia armoniosa del cielo e dell’inferno e Fantastica visione, per rimanere nell’arco di tempo compreso tra il 1965 e il 1973) dove la scrittura germina da un rapporto ravvicinato con la scena e con lo spazio, sulla base soprattutto di suggestioni delle avanguardie storiche russe, Majakovskij in testa, ancora una volta. Zip debutta sul palcoscenico internazionale del Festival della Prosa della Biennale di Venezia, provocando una sorta di "battaglia d’ Hernani" tra i sostenitori e i detrattori del Nuovo teatro. A questo punto la strada di Leo, rimasto scettico rispetto alle modalità di un lavoro "collettivo" sul testo, si biforca da quella di Quartucci. Lo ritroviamo a Roma in coppia con Perla Peragallo, nell’aprile del 1967, alle prese con La faticosa messinscena dell’Amleto di William Shakespeare, spettacolo determinante per la fisionomia che l’avanguardia teatrale italiana sta assumendo, per quella pretesa di sintesi cineteatrale che ricorda da vicino le esperienze del Living e dell’ happening.
Qualche mese più tardi l’ Amleto sarà presentato a Ivrea, nell’ambito del "Convegno per un Nuovo teatro", l’occasione che passerà alla storia come "gli Stati Generali dell’avanguardia italiana". Lì s’era dato appuntamento il teatro degli outsider convocato da un infuocato "proclama", apparso sulla rivista "Sipario", che in apertura recitava: "La lotta per il teatro è qualcosa di molto più importante di una questione estetica". Ne erano firmatari, tra gli altri, Franco Quadri, Giuseppe Bartolucci, Carmelo Bene, Emanuele Luzzati, Corrado Augias, Carlo Quartucci, Luca Ronconi, Giuliano Scabia e, appunto, Leo de Berardinis.
Il censimento del Nuovo teatro registra decine di presenze le più eterogenee, concordi tuttavia nella determinazione a consumare lo strappo con la generazione dei "padri". Siamo alla vigilia del 1968, la sfida dei tempi appare come una grande chance di rinnovamento sostanziale, il clima è quello di una compressione esplosiva da cui il nuovo può germinare. A Ivrea si vogliono vibrare colpi poderosi contro l’edificio simbolico del teatro borghese: al di là della polemica contro il versante produttivo, il ruolo e le funzioni del "teatro stabile pubblico", ciò significa contestare la stagione della "regia critica", principalmente quella di Visconti , Strehler e Squarzina. I nuovi protagonisti della scena teatrale italiana si dichiarano orfani del passato prossimo, rigettano il rispetto per la superficie verbale del testo, la ricostruzione degli ambienti che evita la trasfigurazione, gli stilemi illusionistici, l’incapacità di far ricorso a traslati metonimici. La stagione della contestazione organizzata, tuttavia, ha vita breve: tanto Bene che de Berardinis ne avvertono presto i limiti e, prima di abbandonare la scena romana, firmano un lavoro a quattro mani: un Don Chisciotte che doveva essere un film e poi, per carenza di fondi, fu uno spettacolo. Doveva essere un film perché, in pieno 1968, forte era l’esigenza di uscire dal teatro, esiliarsi in un linguaggio diverso, ibridarsi. Non a caso entrambi gli artisti producono, quell’anno, un’opera cinematografica: Nostra Signora dei Turchi, per Bene, A Charlie Parker, per de Berardinis.
Dal "teatro dell’ignoranza" al Granteatro di Carlo Cecchi
I momenti di estrema tensione, com’è noto, hanno normalmente breve corso, e già nel 1972 in Italia si comincia a discutere di fallimento dell’avanguardia. Non si può parlare tuttavia di occasione mancata: sebbene i protagonisti di Ivrea non siano stati in grado di indicare una praticabile alternativa al sistema teatrale, è utile sottolineare che la scena di cui erano i cavalieri getta le basi per le esperienze più avanzate degli anni a venire. Mentre la voce di Bene si esilia volontariamente dalla scena per indagare le possibilità del cinema, de Berardinis scopre nella provincia campana, a Marigliano, il luogo d’una extraterritorialità e di un confino che è polemica tanto verso l’implosione della sperimentazione da cenacolo quanto verso una sinistra politica che ha perso il contatto con la base. Gemmerà in questo ambiente la fase del "teatro dell’ignoranza", con straordinarie contaminazioni tra alto e basso, Shakespeare e la sceneggiata partenopea (tra gli spettacoli più rappresentativi del periodo figurano ’O zappatore, del 1972, e King lacreme Lear napulitane, del 1973).
A fronte di un teatro che rivede profondamente i principi su cui si è fondato, esaurendo o modificando sostanzialmente i suoi tratti peculiari, dei soggetti inediti fanno ora la loro comparsa, ponendosi sull’onda lunga delle esperienze fin qui descritte. È il caso del Granteatro di Carlo Cecchi, fondato nel 1971, che rimprovera all’avanguardia italiana la sostanziale indifferenza verso il pubblico, mentre riconosce nella ricerca e nella sperimentazione i sintomi di un teatro vivente ed efficace. La posizione di Cecchi è peculiare pure per il recupero che egli opera della tradizione teatrale (anche dialettale), con un’attenzione privilegiata verso quella napoletana di Petito, Scarpetta e De Filippo, a cui si rivolge per rigenerarsi in quanto attore. Il pubblico che il Granteatro designa come elettivo è quello "di base", in specie operaio, raccolto nelle Case del Popolo in cui il gruppo di Cecchi predilige esibirsi, con spettacoli come Il bagno (1971), Tamburi nella notte (1972), Woyzeck (1973) e La cimice (1975).
Verso il Terzo teatro
Se il 1959 era stato un anno eccezionale per la genesi dell’avanguardia, il 1970 lo è per la sua, almeno temporanea, estinzione. Nel gennaio, infatti, il Living rappresenta per l’ultima volta Paradise now, prima di frantumarsi in quattro cellule e portare a definitivo compimento il processo di "deteatralizzazione" a lungo praticato dal gruppo.
Grotowski intanto, dopo un soggiorno in India, annuncia in quello stesso anno la volontà di abbandonare il teatro degli spettacoli per dedicarsi a una ricerca incentrata sulla comunicazione e sulle dinamiche di gruppo. Nasce così la fase del "parateatro" che, attraverso vari progetti, si articolerà lungo tutto il corso degli anni Settanta.
Il 1970 è però anche l’anno in cui l’Odin presenta Ferai, assurgendo a punto di riferimento imprescindibile nel panorama del teatro internazionale. Spettacolo per un pubblico ristretto, Ferai rappresenta un primo tentativo di quella "rottura dell’involucro teatrale", che l’Odin realizzerà infine con Min Fars Hus (La casa di mio padre, 1972), superando l’orizzonte del teatro di rappresentazione. Dal 1974 il gruppo si "spaeserà" in un lungo viaggio attraverso il Sud Italia (tra Sardegna e Salento), inaugurando la stagione dei laboratori aperti e dei baratti, "del teatro nelle regioni senza teatro, del teatro oltre il teatro".
In questo modo l’Odin apre la via delTerzo teatro, così definito per differenziarlo dal primo, quello tradizionale, e dal secondo, quello delle avanguardie. Il Terzo teatro, nell’accezione di Barba, è costituito dai gruppi che "sono cultura" prima di essere "produttori di cultura", dagli attori che hanno fatto della scelta teatrale una questione esistenziale e politica prima e più che artistica. Sotto il segno del Terzo teatro, gli anni Settanta vedranno l’emersione di pratiche sceniche molteplici, a partire da quelle dei "gruppi di base", mentre già si cominciano a registrare le prove iniziali della postavanguardia.