Il nuovo delitto di tortura
Ottemperando agli obblighi di tutela penale di matrice sovranazionale, e in particolare a quelli declinati dalla Corte di Strasburgo nelle sentenze Cestaro c. Italia e Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, la l. 14.7.2017, n. 110 ha introdotto nell’ordinamento penale interno il delitto di tortura, declinandolo come una fattispecie a disvalore progressivo, estremamente ricca di elementi costitutivi sul piano oggettivo. Il contributo che segue affronterà i numerosi problemi interpretativi posti dalla complessa (e per molti versi infelice) formulazione del nuovo art. 613 bis c.p., cercando laddove possibile di risolverli attraverso il ricorso ai canoni ermeneutici dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali e dell’interpretazione sistematica.
A distanza di oltre trent’anni dalla ratifica della Convenzione ONU del 1984, l’Italia ha finalmente introdotto nell’ordinamento penale il delitto di tortura, ottemperando così anche all’obbligo di incriminazione sancito, a livello nazionale, dall’art. 13, co. 4, Cost. Il travagliato iter parlamentare che ha condotto all’approvazione della l. n. 110/2017 ha subito una brusca accelerazione a seguito della sentenza Bartesaghi, Gallo e altri c. Italia, resa dalla C. eur. dir. uomo il 22.6.2017 nell’ambito di una vicenda verificatasi durante il G8 genovese del 2001, proprio mentre la Camera dei deputati era chiamata ad esprimersi sul testo approvato dal Senato il 17.5.2017. La pronuncia ha ribadito il principio di diritto già affermato nel leading-case Cestaro c. Italia del 7.4.2015, rendendo, così, evidente che, laddove il legislatore non avesse ottemperato agli obblighi derivanti dall’art. 46 CEDU, il nostro Paese sarebbe andato incontro ad ulteriori condanne, dato l’ampio numero di ricorsi proposti dalle vittime delle violenze e delle sevizie avvenute all’interno della scuola Diaz-Pertini e della caserma di Bolzaneto. Il 5.7.2017, pertanto, ha fatto ingresso nel codice penale il nuovo art. 613 bis c.p., del quale conviene, a questo punto, riportare il testo: «Chiunque con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti. Se dai fatti di cui al primo comma deriva una lesione personale le pene di cui ai commi precedenti sono aumentate; se ne deriva una lesione personale grave sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo».
Il complesso (e per molti versi infelice) legal drafting della norma in parola impone di analizzarla in maniera approfondita, dando conto delle possibili opzioni interpretative e prescindendo dalle considerazioni critiche, cui verrà lasciato spazio nel paragrafo conclusivo. Giova sottolineare fin d’ora, ad ogni modo, come il legislatore abbia inteso configurare il nuovo art. 613 bis c.p. come una fattispecie a disvalore progressivo1, che incrimina tanto le ipotesi di tortura cd. comune – perpetrata, dunque, nell’ambito dei rapporti “orizzontali”, tra privati – quanto quelle di tortura cd. di Stato, che si riscontra invece nei rapporti “verticali”, tra State agents e normali cittadini, e che, almeno secondo la definizione fornita dall’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura, può, a sua volta, declinarsi in tortura giudiziaria, punitiva o discriminatoria2.
Il primo comma dell’art. 613 bis c.p. descrive una fattispecie di reato comune, che può essere quindi commesso non solo da coloro che ricoprano una particolare qualifica o si trovino in una particolare relazione con la vittima, ma da chiunque. La descrizione del soggetto passivo come «una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa» non pare invero idonea a relegare l’ambito di operatività della norma in parola ai contesti nei quali sia apprezzabile un rapporto qualificato tra questi e il soggetto passivo (declinato, a seconda dei casi, come custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza): anche al di fuori di essi, infatti, la norma pare conservare un residuo margine di applicabilità laddove la vittima sia, appunto, una persona privata della libertà personale o si trovi in condizioni di minorata difesa. Poiché l’art. 613 bis c.p. non richiede espressamente che la privazione della libertà personale consegua ad un provvedimento lato sensu giurisdizionale (come accade laddove il soggetto passivo sia sottoposto a misure cautelari o precautelari, o a una pena o a una misura di sicurezza di natura custodiale), la norma deve poter trovare applicazione anche nel caso in cui la vittima del reato sia stata illegittimamente privata della libertà personale dall’autore del reato, resosi preventivamente responsabile di una delle condotte punite dagli artt. 605, 630 o 289 bis c.p. o da altre che si basano su uno schema analogo: ritenere il contrario significherebbe introdurre surrettiziamente un ulteriore requisito di fattispecie, restringendo l’ambito di operatività di una norma che già presenta numerosi elementi tipizzanti. La giurisprudenza di merito, d’altra parte, ha spesso registrato ipotesi di tortura ante litteram commesse ai danni delle vittime di un sequestro di persona3: adottando un’interpretazione formalistica non richiesta dalla norma in parola si rischierebbe, pertanto, di escludere la punibilità ai sensi dell’art. 613 bis c.p. di alcuni tra i fatti di tortura che si mostrano maggiormente meritevoli di punizione, anche in ragione del fatto che, in simili ipotesi, il rapporto non occasionale tra il soggetto attivo e la vittima – che, dopo essere stata privata della libertà personale, è di fatto alla mercé del suo sequestratore – consente più agevolmente la reiterazione delle condotte. Attraverso il riferimento alle condizioni di minorata difesa del soggetto passivo del reato, invece, il legislatore sembra aver inteso richiamare la circostanza aggravante comune di cui all’art. 61 n. 5) c.p., affidando all’interprete il compito di verificare – sulla scorta degli orientamenti giurisprudenziali sviluppatisi sul punto – se la vittima possa o meno definirsi particolarmente vulnerabile, alla luce delle sue caratteristiche personali (quali l’età o le condizioni fisiopsichiche) o del contesto in cui l’azione è stata posta in essere4. Poiché molte delle categorie di persone vulnerabili – quali i malati, i bambini, gli anziani, i portatori di handicap, i carcerati, e così via – rientrano tra quelle tipicamente affidate alla potestà, alla vigilanza, alla custodia, al controllo, alla cura o all’assistenza del soggetto attivo, occorre nondimeno domandarsi se l’espressione in commento sia pleonastica o se sia, invece, in grado di intercettare ulteriori condotte penalmente rilevanti. A parere di chi scrive, potrebbe versarsi in questa seconda eventualità tutte le volte in cui l’autore delle condotte non sia la persona legata alla vittima da un rapporto qualificato (l’insegnante, il medico, lo psichiatra, il direttore del carcere, e così via), ma un altro soggetto che si trovi in condizioni analoghe a quelle della vittima medesima (un altro paziente psichiatrico, un altro malato, un altro ospite di una casa di cura per anziani, e via dicendo) o un terzo che sia venuto occasionalmente a contatto con essa (come, ad esempio, un visitatore esterno). Si tratta di ipotesi indubbiamente marginali, ma di non impossibile verificazione. Passando all’analisi della condotta, il legislatore richiede, in alternativa, che vengano usate «violenze o minacce gravi» o che il soggetto attivo agisca «con crudeltà», precisando poi che il fatto dev’essere commesso con più condotte, a meno che lo stesso non comporti «un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona». Non pone particolari problemi interpretativi il riferimento alla violenza e alla minaccia, comune a molte fattispecie di parte speciale, e in particolare a quella di violenza privata di cui all’art. 610 c.p. Il legislatore richiede, però, che le stesse siano “gravi”, con ciò escludendo dall’alveo di applicabilità della norma in parola le condotte che si caratterizzano per la loro (particolare) tenuità. In assenza di un riferimento espresso ad una determinata tipologia di violenza, deve ritenersi che la stessa possa essere esercitata sulle cose, e non necessariamente sulle persone: si pensi, ad esempio, alla condotta di chi distrugga o disperda sotto gli occhi della vittima un bene di grande valore affettivo per quest’ultima (la fede nuziale, un cimelio di famiglia, l’urna cineraria di un parente defunto, solo per fare alcuni esempi). In alternativa, l’azione deve connotarsi per la sua “crudeltà”: un concetto già utilizzato dal legislatore del 1930 nell’ambito dell’aggravante di cui all’art. 61 n. 4) c.p., che secondo le Sezioni Unite «è di natura soggettiva ed è caratterizzata da una condotta eccedente rispetto alla normalità causale, che determina sofferenze aggiuntive ed esprime un atteggiamento interiore specialmente riprovevole»; atteggiamento interiore la cui sussistenza deve essere accertata «alla stregua delle modalità della condotta e di tutte le circostanze del caso concreto, comprese quelle afferenti alle note impulsive del dolo»5. Come si è detto poc’anzi, l’art. 613 bis c.p. richiede la sussistenza di almeno due condotte – violente, minacciose o crudeli che siano –, salvo che il fatto non comporti un trattamento inumano o degradante per la dignità della persona. In questa seconda ipotesi, anche una sola condotta potrà dunque assurgere a “tortura” (sempre che, ovviamente, sussistano gli altri requisiti oggettivi e soggettivi di fattispecie): il delitto in commento si configura, pertanto, come un reato solo eventualmente abituale. Si tratta, nondimeno, di comprendere quale sia il significato dell’espressione or ora menzionata, che costituisce un novum per l’ordinamento penale nazionale e che riecheggia, nemmeno troppo velatamente, il dictum dell’art. 3 CEDU (il quale, come noto, prevede che «nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti»). Secondo l’elaborazione dottrinale sviluppatasi sull’analisi della giurisprudenza di Strasburgo, nell’ipotesi di pene/trattamenti degradanti verrebbero in rilievo essenzialmente elementi di natura emotiva, mentre la nozione di pene/trattamenti inumani verrebbe a coprire le condotte che si caratterizzano per l’inflizione di una sofferenza fisica o psicologica di particolare intensità6. Giova, peraltro, evidenziare che le più recenti sentenze della Corte di Strasburgo utilizzano l’espressione “trattamento inumano e degradante” quasi si trattasse di un’endiadi7, sicché i due aggettivi sembrano, in definitiva, aver perso la loro autonomia concettuale. In ragione di ciò, pare di dover sensibilmente ridimensionare i timori espressi in sede di primo commento della norma sulla scorta delle parole del Commissario per i diritti umani Muiznieks8, il quale rilevava che, a differenza dell’art. 3 CEDU, il nuovo art. 613 bis c.p. utilizza la congiunzione “e”, invece che “o”, e paventava pertanto l’inapplicabilità della suddetta norma incriminatrice rispetto a condotte rilevanti ai sensi dell’art. 3 CEDU. Per altro verso, occorre evidenziare che, secondo la giurisprudenza della C. eur. dir. uomo, fra le tre categorie di mistreatments contemplate dall’art. 3 CEDU sussiste un rapporto di continenza, oltre che di progressione scalare: non vi è trattamento inumano che non sia, al tempo stesso, anche un trattamento degradante; e non vi è tortura che non sia, al tempo stesso, un trattamento inumano e degradante9. Se così è, è giocoforza concludere che il riferimento al concetto di «trattamento inumano e degradante» non abbia alcuna reale capacità selettiva, e come tale non determini un’indebita restrizione dell’ambito di operatività della norma: non è inverosimile che il legislatore lo abbia inserito nel tentativo – con ogni probabilità inidoneo – di ottemperare all’obbligo di incriminazione espresso dalla C. eur. dir. uomo nella sentenza Cestaro e altri c. Italia, che come si ricorderà richiedeva che anche i trattamenti inumani e degradanti ricevessero un’adeguata risposta punitiva da parte dello Stato. Il nuovo art. 613 bis c.p. prevede poi come eventi alternativi le «acute sofferenze fisiche» o l’insorgenza di «un verificabile trauma psichico», espressioni da intendersi, entrambe, come un quid minus rispetto alla nozione cd. funzionalistica di lesioni, adottata dalle Sezioni Unite nella nota sentenza Giulini del 2009. Al di là dell’evidente margine di discrezionalità applicativa insito in tali concetti – inevitabile, ad avviso di chi scrive, ma senz’altro suscettibile di riduzione grazie al formante giurisprudenziale –, la scelta del legislatore sembra qui in linea con gli obblighi di tutela penale di fonte sovranazionale e con le indicazioni della dottrina, dal momento che – come noto – molte delle nuove forme di tortura non lasciano segni sul corpo della vittima, e non sempre danno origine a vere e proprie patologie psichiatriche: si pensi al cd. waterboarding, o alla tecnica della privazione prolungata del sonno, o ancora agli effetti che anche una singola minaccia di tortura, quale quella oggetto del celebre caso Gäfgen10, potrebbe avere sulla psiche di una persona accusata di un crimine e sottoposta ad un interrogatorio finalizzato ad estorcerle una confessione. Che il legislatore non abbia richiesto la causazione di lesioni appare, del resto, ancor più evidente ad una lettura complessiva della norma: il co. 3 prevede, infatti, un’aggravante ad hoc per il caso in cui la vittima riporti vere e proprie lesioni. Non essendo espressamente previsto che il trauma psichico sia durevole, può certamente essere inquadrato come tale il disturbo post-traumatico da stress, che per sua natura ha carattere transeunte. A differenza di quanto sostenuto da alcuni dei primi commentatori11, non pare di dover drammatizzare il significato del termine “verificabile”, che alla luce di quanto si è detto appare del tutto pleonastico, rimandando in definitiva alla necessità che la sussistenza del trauma venga provata nel corso del giudizio (come del resto tutti gli altri elementi di fattispecie): il legislatore pare aver ancora una volta ceduto all’impulso di circoscrivere l’ambito di operatività della norma, preoccupato che condotte bagatellari, o comunque non meritevoli di un trattamento sanzionatorio così severo, ne venissero attratte. Potrebbe, dunque, essere recepita anche a proposito dell’art. 613 bis c.p. la giurisprudenza sviluppatasi in tema di art. 612 bis c.p., secondo la quale la prova del «grave e perdurante stato di ansia e di paura» deve essere ancorata ad elementi sintomatici ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere e anche da quest’ultima12.
Sul versante dell’elemento soggettivo, l’art. 613 bis c.p. si configura quale reato a dolo generico e non a dolo specifico: il legislatore non ha, pertanto, recepito la tripartizione in tortura giudiziaria, punitiva e discriminatoria fatta propria dall’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, alla quale si è accennato nel paragrafo introduttivo. Non occorre, dunque, che il soggetto agente sia animato da alcuna particolare finalità, ben potendo egli agire senza alcun apparente scopo, per vendetta, per spirito di rivalsa o per puro sadismo. Non richiedendo espressamente che la condotta sia sorretta dal dolo intenzionale, la norma sembra pacificamente ammettere che le acute sofferenze fisiche o il verificabile trauma psichico possano essere semplicemente accettati dal soggetto attivo, secondo lo schema del dolo eventuale13.
La tortura “di Stato” è descritta dal combinato disposto del primo e del secondo comma del nuovo art. 613 bis c.p., e non esclusivamente da quest’ultimo, come si potrebbe erroneamente pensare a una lettura superficiale della norma. Il richiamo ai «fatti di cui al primo comma» con cui si apre il comma successivo, infatti, chiarisce che i requisiti oggettivi e soggettivi che si sono fin qui descritti devono essere presenti anche nel caso in cui la tortura sia posta in essere nei rapporti “verticali”. In aggiunta ai medesimi, nondimeno, la norma richiede la sussistenza di ulteriori elementi tipizzanti, che afferiscono alle caratteristiche del soggetto attivo e alle modalità della condotta. In particolare, l’agente deve ricoprire la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio (secondo le definizioni degli artt. 357 e 358 c.p.), e i fatti devono essere commessi «con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio», secondo una formulazione del tutto analoga a quella dell’aggravante comune di cui all’art. 61 n. 9) c.p. In virtù del canone dell’interpretazione sistematica, dunque, potrà (e dovrà) trovare applicazione l’orientamento giurisprudenziale consolidato secondo cui l’abuso dei poteri o la violazione dei doveri sono configurabili anche quando il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio abbiano agito al di fuori dell’ambito delle loro funzioni, essendo sufficiente che le loro qualità abbiano comunque facilitato la commissione del reato14.
Al di là di quanto potrebbe prima facie apparire, deve senz’altro ritenersi che il secondo comma dell’art. 613 bis c.p. assurga a fattispecie autonoma di reato e non a mera circostanza aggravante. A suggerirlo è, in primo luogo, un’esegesi complessiva della fattispecie di reato in commento, che al quarto comma contempla delle autentiche circostanze aggravanti – con la conseguenza che sarebbe insostenibile, dal punto di vista dogmatico, ipotizzare la sussistenza di un’aggravante dell’aggravante15 – e che al terzo comma prevede una causa di esclusione della tipicità del solo reato commesso da un soggetto qualificato, con ciò evidentemente escludendone la natura circostanziale16. Pur nell’assenza di una clausola di riserva, la formulazione della norma riecheggia poi, a ben vedere, quella di altre disposizioni dell’ordinamento della cui natura di fattispecie autonoma di reato non è dato dubitare, tra le quali l’art. 73, co. 5, d.P.R. 9.10.1990, n. 309, come riformulato dalla l. 17.4.2014, n. 79. Ancora, non può che evidenziarsi come le istanze avanzate a livello sovranazionale fossero in primo luogo rivolte alla penalizzazione delle forme di tortura poste in essere da State agents, sicché una qualificazione della norma come aggravante speciale sarebbe in netto contrasto con gli input di tutela penale promananti dalla Convenzione ONU del 1984 e dal diritto di Strasburgo, oltre che con l’intenzione del legislatore storico (che ha introdotto nell’ordinamento penale il nuovo art. 613 bis c.p. proprio in ragione delle suddette pressioni). Quanto all’inciso di cui al terzo comma – a tenore del quale «il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti» –, si tratta, ad avviso di chi scrive, di una mera trasposizione dell’ultimo paragrafo dell’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura, che espressamente esclude che il dolore e le sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate possano integrare “tortura”. Tale disposizione non ha, dunque, alcun apprezzabile significato, se non quello di escludere expressis verbis la rilevanza penale – sub specie di “tortura” – del sovraffollamento carcerario e di altri trattamenti inumani o degradanti connessi alle condizioni della detenzione. Alla luce della scelta del legislatore di declinare il nuovo art. 613 bis c.p. come una fattispecie a forma vincolata, nondimeno, l’inciso appare del tutto pleonastico, posto che l’uso di violenze e minacce gravi e reiterate o l’agire con crudeltà – che la norma necessariamente richiede anche quando ad agire sia un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio – già di per sé travalicano la mera sottoposizione della vittima a misure privative o limitative dei diritti, ancorché foriere di sofferenze (salvo, forse, il poco verosimile caso del direttore del carcere che agendo con crudeltà assegni a un detenuto il posto in una cella sovraffollata).
Come si è anticipato, il quarto comma dell’art. 613 bis c.p. ricollega alla causazione di lesioni personali aumenti di pena fino a un terzo se si tratta di lesioni lievi, di un terzo nell’ipotesi di lesioni gravi e della metà in caso di lesioni gravissime. Occorre, peraltro, evidenziare che – come suggerito nei lavori preparatori – l’aggravante in esame si perfeziona solo laddove la condotta di cui al primo comma si sia estrinsecata attraverso una pluralità di azioni; ciò che si evincerebbe dal riferimento letterale “ai fatti” (e non “al fatto”) descritto dall’art. 613 bis, co. 1, c.p. Non potrà configurarsi l’aggravante in parola, dunque, nell’ipotesi in cui l’autore del reato abbia agito con crudeltà, ponendo in essere una condotta che valga di per sé a integrare un trattamento inumano e degradante. Ma vi è di più. Sulla base di un’interpretazione sistematica che valorizzi le differenze tra la formulazione dell’art. 613 bis, co. 4 e quella dell’art. 613 bis, co. 5, c.p., deve ritenersi che le lesioni derivanti dagli atti di tortura debbano costituire una conseguenza non voluta della condotta del soggetto agente, secondo lo schema tipico dei delitti aggravati dall’evento, comune a molte norme di parte speciale (quali quelle previste dagli artt. 572 e 588 c.p., solo per fare alcuni esempi). L’aggravante non si applicherebbe, pertanto, laddove l’autore dei fatti di tortura abbia intenzionalmente cagionato lesioni al soggetto passivo. Quanto al significato da attribuirsi al termine “lesioni”, l’interpretazione sistematica impone di adottare la nozione cd. funzionalistica dell’evento “malattia” quale «processo patologico evolutivo necessariamente accompagnato da una più o meno grave compromissione dell’assetto funzionale dell’organismo», che ha peraltro ricevuto l’avallo delle Sezioni Unite nella già menzionata sentenza Giulini17: la fattispecie aggravata prevede infatti un quid pluris rispetto a quella descritta dal primo comma della norma, che già fa riferimento ad «acute sofferenze fisiche» o a un «verificabile trauma psichico»; sicché deve escludersi che semplici graffi o ecchimosi possano integrare la circostanza in commento18. Il quinto comma del nuovo art. 613 bis c.p. detta invece una singolare disciplina per l’ipotesi in cui alla tortura segua la morte del soggetto passivo, tanto nel caso in cui la stessa sia una conseguenza non voluta quanto nel caso in cui l’agente l’abbia volontariamente causata. Il legislatore ha stabilito per il primo caso la pena della reclusione di anni trenta – con ciò evidentemente discostandosi dalla disciplina generale dell’art. 586 c.p., rispetto alla quale ha previsto un trattamento sanzionatorio più severo – e per il secondo quella dell’ergastolo (pena che, comunque, si sarebbe dovuta applicare in ragione della configurazione di tale condotta come omicidio volontario, eventualmente aggravato dall’art. 61 n. 4 c.p.)19. Si tratta dell’unica ipotesi in cui il legislatore ha espressamente richiesto che l’evento aggravatore debba essere sorretto dal coefficiente psicologico del dolo, e non meramente della colpa; ciò che ha indotto parte della dottrina a ritenere che, in realtà, sarebbe improprio in questo caso far riferimento al paradigma dei delitti aggravati dall’evento, dovendosi più correttamente affermare che la norma sia un’applicazione dell’art. 84 c.p., che disciplina il reato complesso20. In virtù dell’orientamento giurisprudenziale che qualifica l’evento aggravatore come circostanza, e in assenza di clausole che impongano divieti di bilanciamento o un bilanciamento vincolato, deve inevitabilmente concludersi tanto le circostanze descritte dal co. 4 quanto quelle descritte dal co. 5 possano soccombere a fronte di circostanze attenuanti alle quali il giudice attribuisca maggior peso, ivi comprese le attenuanti generiche di cui all’art. 62 bis c.p.
Le considerazioni espresse nel paragrafo precedente portano inevitabilmente a interrogarsi sui rapporti del nuovo art. 613 bis c.p. con le altre fattispecie codicistiche.È, anzitutto, pacifico che il delitto di percosse venga assorbito da quello in commento in tutti i casi in cui quest’ultimo trovi espressione nella sua variante cd. violenta: tale conclusione discende non solo dall’art. 581, co. 2, c.p., ma anche dalla lettera dell’art. 613 bis, co. 1, c.p., che come si è detto richiede in tal caso il compimento di violenze gravi, tali da determinare acute sofferenze fisiche. Lo stesso è a dirsi per il delitto di minaccia, nell’ipotesi in cui la tortura venga in rilievo nella sua variante cd. minacciosa. Più problematico il rapporto della fattispecie in esame con quella di lesioni volontarie. Come si è detto, il quarto comma dell’art. 613 bis c.p. prevede un aggravamento di pena nel caso in cui, a seguito dei fatti previsti dal co. 1, il soggetto passivo del reato riporti, quale conseguenza non voluta dall’agente, lesioni personali. Restano, dunque, fuori dall’ambito di applicazione dell’aggravante or ora citata – con conseguente ipotizzabilità del concorso tra gli artt. 613 bis c.p. e 582 ss. c.p. – le lesioni sorrette dal coefficiente psicologico del dolo, così come quelle che discendano da un solo atto di tortura, commesso con crudeltà e di per sé integrante un trattamento inumano e degradante21. Potrebbe intravedersi uno spazio per la contestazione autonoma del delitto di lesioni, eventualmente aggravato ai sensi degli artt. 583 ss. c.p., anche laddove il rapporto di causa/effetto richiesto dall’art. 613 bis, co. 4, c.p. non vi sia: ciò potrebbe accadere, ad esempio, nel caso in cui la tortura sia stata perpetrata esclusivamente attraverso condotte minacciose e il soggetto passivo abbia riportato, invece, una malattia di tipo organico. Considerazioni diverse valgono invece rispetto alla fattispecie di omicidio volontario. Il dettato dell’art. 84 c.p. – espressione del principio del ne bis in idem sostanziale – impone di escludere che l’art. 575 c.p. possa trovare applicazione autonoma, dal momento che la causazione volontaria della morte è prevista come una specifica circostanza aggravante dall’art. 613 bis, co. 5, c.p., con tutte le conseguenze che tale conclusione – ineludibile in sede interpretativa – determina in punto di trattamento sanzionatorio. La prima parte dell’art. 613 bis, co. 5, c.p. – che prevede la pena di 30 anni di reclusione per il caso in cui dai fatti descritti dal primo comma discenda la morte del soggetto passivo come conseguenza non voluta dall’agente – sembra poi precludere, in linea di principio, la possibilità di contestare in modo autonomo l’omicidio preterintenzionale e l’ipotesi residuale di morte come conseguenza di altro reato, salvo che: a) non sia apprezzabile alcun rapporto di derivazione causale tra gli atti di tortura e la morte; oppure b) la condotta di tortura sia stata posta in essere attraverso una sola azione caratterizzata da crudeltà e integrante un trattamento inumano e degradante, atteso che anche l’art. 613 bis, co. 5, c.p. fa riferimento «ai fatti» (e non “al fatto”) di cui al primo comma. Potrebbero, ancora, registrarsi alcune interferenze fra il delitto in commento e quello di istigazione al suicidio di cui all’art. 580 c.p., nell’ipotesi in cui la morte avvenga non per mano del torturatore, ma della vittima medesima, laddove questa non regga il peso delle violenze e delle minacce subite. In questo caso, ferme le precisazioni di cui sopra, ad avviso di chi scrive dovrebbe comunque trovare applicazione l’aggravante di cui all’art. art. 613 bis, co. 5, c.p., nella sua prima o nella sua seconda parte a seconda del fatto che l’evento suicidio sia o meno sorretto dall’elemento psicologico del dolo, quantomeno nella forma del dolo eventuale. È, tuttavia, il delitto di maltrattamenti la norma di parte speciale rispetto alla quale è dato immaginare le sovrapposizioni più frequenti, anche in ragione della natura di reato eventualmente abituale del nuovo art. 613 bis c.p. e del rapporto qualificato tra soggetto attivo e soggetto passivo che lo stesso in alcuni casi contempla. Ad avviso di chi scrive, sarebbe del tutto velleitario tentare di stabilire il discrimen tra le due disposizioni facendo leva sul contesto in cui la condotta viene posta in essere, atteso che la giurisprudenza sovranazionale e quella di merito hanno di frequente registrato ipotesi di veri e propri atti di tortura commessi in ambito familiare22. Pare più utile individuarlo, piuttosto, alla luce delle singole condotte che, considerate unitariamente, sono suscettibili di integrare le ipotesi delittuose di cui all’art. 613 bis c.p. e all’art. 572 c.p., sul filo della distinzione dottrinale tra reato abituale cd. proprio e improprio: mentre nel secondo caso possono assumere rilievo anche fatti non penalmente rilevanti, o comunque non gravi, nel primo dovranno necessariamente considerarsi solo fatti che costituiscano di per sé reato (a seconda dei casi, minaccia, percosse, lesioni, violenza privata), e che si caratterizzino per la loro gravità e per la loro idoneità a produrre acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico. Mutuando il linguaggio della giurisprudenza di Strasburgo, in sintesi, ciascuno dei singoli atti che concorrono ad integrare la fattispecie di tortura deve necessariamente superare una soglia minima di gravità che non è richiesta, invece, per i maltrattamenti.
Una delle maggiori critiche alla formulazione del nuovo art. 613 bis c.p. attiene alla configurazione del delitto di tortura come reato comune, che ad avviso di molti commentatori e dello stesso Commissario europeo per i diritti umani rischia di frustrare le esigenze di penalizzazione della tortura cd. di Stato. Le cronache e la giurisprudenza nazionale e sovranazionale hanno spesso registrato, nondimeno, episodi di tortura interprivati senz’altro meritevoli di adeguata stigmatizzazione da parte dell’ordinamento; e tanto la giurisprudenza di Strasburgo in tema di art. 3 CEDU quanto altri strumenti di diritto internazionale pattizio – quali la Convenzione ONU sull’eliminazione della discriminazione razziale del 1965 e la Dichiarazione sull’eliminazione della violenza nei confronti della donna del 1993 – richiedono che la proibizione della tortura sia garantita anche nei rapporti orizzontali. Poco importa, a questo proposito, che la Convenzione ONU contro la tortura circoscriva l’obbligo espresso di incriminazione agli atti commessi da un pubblico ufficiale o con il consenso o l’acquiescenza di quest’ultimo, dato che la stessa – come esplicitato dal secondo paragrafo del suo art. 1 – si preoccupa di dettare esclusivamente uno standard minimo di tutela, che ben può essere innalzato dal legislatore nazionale ampliando l’ambito di applicazione della norma introdotta in ottemperanza all’input di penalizzazione. D’altra parte – come è stato acutamente rilevato in dottrina – la necessità di reprimere le condotte realizzate da un privato con l’acquiescenza o il consenso di un pubblico ufficiale, derivante dall’obbligo di incriminazione posto dalla stessa Convenzione ONU, imporrebbe di inserire nella norma una clausola di estensione della punibilità di difficile formulazione e destinata a restare lettera morta tutte le volte in cui la pubblica accusa non riesca a dimostrare in giudizio la connivenza del pubblico ufficiale23. I dubbi espressi da commissario Muiznieks e dai primi commentatori potrebbero, viceversa, assumere una qualche consistenza laddove la prassi applicativa non riconoscesse al secondo comma dell’art. 613 bis c.p. natura di fattispecie autonoma di reato, ma di mera circostanza aggravante, come tale suscettibile di bilanciamento con eventuali attenuanti. A questo proposito, specie in considerazione dell’infelice legal drafting della norma in commento, è bene ricordare che il canone dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali non è uno tra i possibili canoni ermeneutici a disposizione dei giudici nazionali, ma deve necessariamente prevalere su questi ultimi in virtù dei normali criteri di gerarchia delle fonti (esattamente come accade per l’interpretazione costituzionalmente conforme)24. Laddove una norma nazionale sia suscettibile di interpretazioni diverse, il giudice interno dovrà dunque accordare la prevalenza a quella che appaia maggiormente rispettosa del diritto sovranazionale, in ossequio all’art. 117, co. 1, Cost. e alle norme internazionali che di volta in volta vengono in rilievo. In considerazione di ciò, dovranno necessariamente essere evitate interpretazioni restrittive dell’art. 613 bis c.p. che ne circoscrivano indebitamente l’ambito applicativo, poiché le stesse si porrebbero in contrasto con l’art. 1 della Convenzione ONU e, soprattutto, con l’art. 3 CEDU e con il diritto vivente di Strasburgo. A fronte dell’ambiguità della formulazione del secondo comma dell’art. 613 bis c.p., ad esempio, dovrà essere preferita l’interpretazione che vede in esso una fattispecie autonoma di reato, e non una mera circostanza aggravante. Allo stesso modo, andrà senz’altro scartata un’interpretazione formalistica che, in riferimento ai casi in cui la vittima sia privata della libertà, presupponga l’esistenza di un provvedimento giurisdizionale, che di fatto relegherebbe l’ambito applicativo dell’art. 613 bis c.p. nell’alveo dei soli rapporti cd. verticali. Per contro, è legittimo attendersi dalla giurisprudenza nazionale un significativo contributo nella specificazione del significato di espressioni quali “sofferenza”, “trauma psichico”, “crudeltà”, “minorata difesa”, “trattamento inumano e degradante”, mutuandolo ove possibile da quello attribuito a locuzioni analoghe presenti in altre norme dell’ordinamento, nazionale o sovranazionale (in ossequio al canone dell’interpretazione sistematica e, nella seconda ipotesi, anche a quello dell’interpretazione conforme alle fonti sovranazionali). Sono fin d’ora prefigurabili, nondimeno, alcune vistose incongruenze che non potranno essere superate se non attraverso un intervento del legislatore. L’attuale formulazione del quinto comma, ad esempio, porta a risultati a dir poco inaccettabili, se sol si considera che l’aggravante della causazione intenzionale della morte potrebbe soccombere o venire neutralizzata nell’ambito del giudizio di bilanciamento con eventuali circostanze attenuanti, con la conseguenza che un omicidio volontario perpetrato a seguito di atti di tortura verrebbe punito con la pena base prevista dal primo o dal secondo comma dell’art. 613 bis c.p. (in entrambi i casi, di gran lunga inferiore a quella di ventun anni di reclusione indicata come minimo edittale dall’art. 575 c.p.). Più in generale, la mancata previsione di un divieto di bilanciamento o di obbligo di bilanciamento vincolato in relazione alle aggravanti del quarto e del quinto comma dell’art. 613 bis c.p. appare foriera di risposte sanzionatorie del tutto inadeguate alla gravità dei fatti (e come tali suscettibili di nuove stigmatizzazioni in sede europea); e lo stesso è a dirsi in relazione alla durata del tempo necessario a prescrivere il reato e all’omessa esclusione dell’ambito di applicabilità di cause estintive quali l’amnistia e l’indulto, specie se si considera che, nella sentenza Cestaro, la C. eur. dir. uomo aveva espressamente posto a carico dello Stato italiano l’obbligo di adottare «strumenti giuridici idonei a sanzionare in maniera adeguata i responsabili di atti di tortura o di altri trattamenti vietati dall’art. 3 e ad impedire che costoro possano beneficiare di benefici incompatibili con la giurisprudenza della Corte», al fine di porre rimedio alle conseguenze dell’accertata violazione (cfr. il par. 246 della sentenza). Va, da ultimo, evidenziato che la l. n. 110/2017 ha introdotto una norma incriminatrice ad hoc (l’art. 613 ter c.p.) per il caso di istigazione del pubblico ufficiale a commettere tortura, ma non ha disciplinato l’ipotesi – ben più comune nella prassi – della responsabilità del superiore per omesso impedimento colposo e/o per agevolazione colposa, e dunque per difetto di vigilanza o di controllo sull’operato dei suoi sottoposti. Sarebbe stata, viceversa, oltremodo opportuna la previsione di una disposizione analoga, per struttura e regola di imputazione dell’evento, a quella dell’art. 57 c.p., caratterizzantesi altresì – esattamente come avviene in tema di reati commessi col mezzo della stampa – per una congrua riduzione di pena rispetto all’ipotesi “base”.
1 Così, condivisibilmente, Marchi, I., Prime riflessioni a margine del nuovo art. 613bis c.p., pubblicato il 31.7.2017 in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 78.
2 Per tale ricapitolazione si veda ancora Marchi, I., Prime riflessioni, cit.
3 Cfr. Trib. Monza, 10.6.2016, n. 2312, pubblicata il 3.11.2016 in www.penalecontemporaneo.it, e Trib. Como, 27.4.2017, n. 738, in corso di pubblicazione in www.penalecontemporaneo.it.
4 Cfr. in proposito Viganò, F., Sui progetti di introduzione del delitto di tortura in discussione presso la Camera dei Deputati. Parere reso nel corso dell’audizione svoltasi presso la Commissione giustizia della Camera dei Deputati il 24 settembre 2014, in www.penalecontemporaneo.it in data 25.9.2014.
5 Così Cass. pen., S.U., 23.6.2016, n. 40516.
6 Cfr. Cassibba, F.Colella, A., Proibizione della tortura, in Ubertis, G.Viganò, F., a cura di, Corte di Strasburgo e giustizia penale, Torino, 2016, 67.
7 Sia consentito il riferimento a Cassibba, F.Colella, A., Proibizione della tortura, cit., 67.
8 Il testo integrale della lettera è reperibile sul sito del Consiglio d’Europa.
9 Ci si permette di rinviare, ancora una volta, a Cassibba, F.Colella, A., Proibizione della tortura, cit., 67.
10 C. eur. dir. uomo, grande camera, 1.6.2010, Gäfgen c. Germania.
11 Cfr. in proposito Cancellaro, F., Tortura: nuova condanna dell’Italia a Strasburgo, mentre prosegue l’iter parlamentare per l’introduzione del reato, in Dir. pen. cont., 2017, fasc. 6.
12 Cfr. in proposito Cass. pen., sez. V, 25.1.2017, n. 12799 condivisibilmente citata da Trianni, M., Tortura (art. 613 bis c.p.), in Garofoli, R., a cura di, Compendio di diritto penale-parte speciale, 2017, in corso di pubblicazione.
13 Ritiene meramente sufficiente l’accettazione, da parte dell’agente, della possibilità che i propri atti reiterati o crudeli cagionino sofferenze fisiche o un trauma psichico nella persona offesa, Trianni, M., Tortura (art. 613 bis c.p.), cit. Non si condivide, viceversa, l’opinione contraria di Marchi, I., Prime riflessioni, cit.
14 Cfr. ex multis Cass. pen., sez. I, 28.5.2009, n. 24894 e, più di recente, Cass. pen., sez. V, 7.11.2013, n. 50586.
15 Di quest’avviso Viganò, F., Sui progetti di introduzione del delitto di tortura, cit.
16 Così Marchi, I., Prime riflessioni, cit., e Cancellaro, F., Tortura: nuova condanna dell’Italia a Strasburgo, cit., la quale condivisibilmente rileva che l’esclusione di tale circostanza nei casi di pena legittima lascerebbe comunque in piedi la fattispecie base di cui al primo comma, frustrando la portata pratica dell’art. 613 bis, co. 3, c.p.
17 Il riferimento è a Cass. pen., S.U., 18.12.2009, n. 2437, imp. Giulini, la quale ha peraltro precisato che «la semplice alterazione anatomica non rappresenta, in sé, un presupposto indefettibile della malattia, giacché ben possono ammettersi processi patologici che non si accompagnino o derivino da una modificazione di tipo anatomico, così come, all’inverso, una modificazione di quest’ultimo tipo che non determini alcuna incidenza sulla normale funzionalità dell’organismo si presenta, secondo tale condivisibile impostazione, insuscettibile di integrare la nozione di “malattia”».
18 Come pure vorrebbe l’indirizzo tradizionale (fatto proprio dal legislatore storico nella Relazione di accompagnamento al codice penale), secondo il quale per “malattia” doveva intendersi “qualsiasi alterazione anatomica o funzionale dell’organismo”, anche se di lieve entità e tale da non compromettere le condizioni fisiche generali (cfr. ex multis Cass. pen., sez. V, 2.2.1984, n. 5258, imp. De Chirico), ivi compresi dunque i graffi e le ecchimosi.
19 In questo senso Marchi, I., Prime riflessioni, cit.
20 Così, Trianni, M., Tortura (art. 613 bis c.p.), cit.
21 Per le ragioni che si sono già evidenziate nel paragrafo precedente.
22 In ambito nazionale, si veda da ultimo la già citata Trib. Monza, 10.6.2016, n. 2312, in www.penalecontemporaneo.it.
23 Cfr. in proposito Viganò, F., Sui progetti di introduzione del delitto di tortura, cit.
24 Cfr. in proposito Viganò, F., Il giudice penale e l’interpretazione conforme alle norme sopranazionali, in Corso, P. Zanetti, E., a cura di, Studi in onore di Mario Pisani, Piacenza, 2010, 617679.