Il "linguaggio" del politeismo
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Spesso, nei dizionari di mitologia, i ritratti degli dèi si susseguono l’un l’altro, avvalorando la falsa impressione che il divino al plurale consista semplicemente nella giustapposizione di divinità personali dalle identità semplici e dalle competenze ben definite: il politeismo, invece, è innanzitutto articolazione delle divinità tra di loro, di modo che ogni pantheon, ogni configurazione di dèi, si adatti al contesto in cui è inserita. Una divinità possiede innumerevoli aspetti, che si declinano anch’essi secondo i luoghi e le circostanze: una potenza divina, infatti, non si riduce a un solo campo o modo d’azione, ma riproduce a sua volta, all’interno della sua rete di competenze, una sorta di micropantheon.
I Greci non si definivano politeisti: il termine polytheia, da cui deriva "politeismo", è stato coniato dal filosofo giudaico di lingua greca Filone d’Alessandria per opporre l’unicità del Dio d’Israele alla concezione pluralistica del divino che caratterizza la maggior parte delle religioni dell’antichità (tra le eccezioni più significative vi sono appunto il giudaismo post-esilico e in seguito il cristianesimo). Il termine "politeismo" nasce dunque con una connotazione peggiorativa e finisce col tempo per designare null’altro che l’opposto negativo di "monoteismo", costrutto moderno che implica non tanto la fede in un solo dio, ma in un dio "unico" (monos) a esclusione di tutti gli altri. Solo dopo un lungo percorso, e grazie al fondamentale apporto delle discipline antropologiche a partire dal XIX secolo, il termine "politeismo" si è avviato a conquistare una certa neutralità; parallelamente, si è cominciato a riconoscere "dignità" di religione e, in quanto tale, di oggetto di studio, a un insieme di tradizioni mitiche e di pratiche rituali considerate fino ad allora solo come una forma primitiva o degenere di religione.
Prima di delineare i tratti fondamentali della religione greca occorre precisare che noi adoperiamo in modo convenzionale non solo il termine "politeismo", ma anche quello di "religione", che non ha un equivalente esatto in greco antico: ciò non significa che i Greci non avessero una religione, ma che essi hanno elaborato una concezione del divino, e dei rapporti che intercorrono tra il mondo degli dèi e quello degli uomini, ben diversa da quella che si associa comunemente al termine "religione". Per misurare tale differenza, basti pensare che i Greci ignorano il concetto di laicità e non conoscono quindi una separazione netta tra ciò che riguarda esclusivamente la sfera divina, e cioè la religione, e ciò che pertiene esclusivamente al mondo degli uomini. Non esiste insomma, nella Grecia antica, un sacro che si opponga al profano. Ogni aspetto della vita e della società è al tempo stesso affare degli uomini e degli dèi, sicché l’embricatura tra le due sfere è tale che la cultura greca non sembra abbia sentito il bisogno di elaborare una nozione, come quella moderna di "religione", che delimiti l’esperienza e l’ambito del divino rispetto ad altre esperienze o ambiti da cui questo può essere o è escluso.
I Greci hanno dei nomoi, al tempo stesso "usi" e "leggi", e tra i patrioi nomoi, i "costumi ancestrali" di ogni comunità, vi è quello di rendere agli dèi gli onori cultuali che la tradizione riserva loro: nomizein tous theous. Nell’esprimere il loro rapporto con il divino, i Greci hanno posto l’accento non tanto sulla "fede" o sulla "credenza", ma sugli obblighi rituali, la cui esecuzione scrupolosa, nel rispetto della tradizione, garantisce i buoni rapporti con le divinità e ne promuove la manifestazione benefica. Che gli dèi esistano e agiscano sembra un presupposto che non ha bisogno di essere formalizzato: la religiosità greca si esprime piuttosto nel riconoscere gli "onori" (timai) dovuti a ogni divinità attraverso l’azione che ne consegue, l’"onorare" (timan) gli dèi. Nel "prendersi cura" (therapeuein) degli dèi consiste appunto, secondo Platone (Eutifrone, 12e), l’eusebeia, vale a dire l’atteggiamento corretto da tenere nei confronti degli dèi, fatto di ammirazione, rispetto e giusto timore (sebas): l’eusebeia non è una virtù astratta, ma si traduce concretamente nel culto reso agli dèi, espresso di fatti anche con il verbo sebein. La pietas antica non si risolve però in un vuoto ritualismo: famoso è il ritratto sarcastico che traccia il filosofo Teofrasto del superstizioso, a riprova che la deisidaimonia, ossia l’eccessivo timore degli dèi e il ritualismo ossessivo che ne consegue, è altrettanto lontana dall’eusebeia quanto il rifiuto di onorare gli dèi.
Il lessico greco del "sacro" consente di valutare il décalage tra la nozione moderna, che implica l’opposizione al "profano", e quella antica che non la conosce: hieros, "sacro", designa ciò che appartiene alla divinità o che la riguarda, ma non esprime una qualità propria del divino, ragion per cui un dio non è hieros; hieron è invece il "santuario", in quanto luogo consacrato alla divinità, hiereus/hiereia, "il sacerdote" e la "sacerdotessa", in quanto addetti al suo culto, hiereion, l’"animale sacrificale" che le è destinato. Il termine greco hosios, talvolta semplicisticamente tradotto con "profano", non si oppone a hieros: se dikaios designa infatti ciò che è legittimo, e quindi "giusto", secondo la legge umana, hosios designa invece ciò che è legittimo, "consentito", secondo la legge divina; l’espressione ta hiera kai ta hosia non significa dunque "le cose sacre e le cose profane", ma distingue ciò che appartiene agli dèi, ed è quindi sottratto all’uso comune, da ciò di cui gli dèi consentono l’utilizzo; pur se ta hosia designa una sfera in cui l’uomo è libero di agire, non bisogna tuttavia dimenticare che questa sfera è parte integrante di una realtà le cui coordinate sono determinate in ultima istanza dalla volontà degli dèi.
La comprensione del politeismo greco richiede innanzitutto il tentativo di concepire una religione profondamente diversa da quella cui siamo abituati. Essa non si fonda su un testo sacro, non è una religione rivelata o fondata, ma è ereditata, solidale in questo con la lingua e la cultura greca in generale. Senza ortodossia né dogmi, e di conseguenza ignara delle eresie, la cultura religiosa dei Greci impone tuttavia una sorta di ortoprassia, ossia il rispetto scrupoloso dei rituali e delle norme previste in materia di culto.
Come non esiste una sfera del sacro opposta a quella del profano, non esiste nemmeno una casta sacerdotale, depositaria esclusiva delle verità sugli dèi: spesso i sacerdoti sono magistrati, eletti o sorteggiati dalle autorità statali, senza che il loro ruolo di intermediari con il divino necessiti di vocazione o di perizia particolari. Se il culto pubblico, il cui attore umano è la comunità nel suo insieme, richiede la presenza di un sacerdote, vi sono casi in cui il semplice cittadino può compiere gli atti del culto da solo, purché nel rispetto delle regole previste. La comunicazione con gli dèi non è dunque privilegio di pochi.
La vita delle città greche è intrinsecamente legata alla religione: gli dèi non gestiscono soltanto i destini dei singoli, ma anche e soprattutto quello della comunità, profilandosi quindi come garanti dello stato e delle istituzioni politiche. D’altro canto, ogni comunità ha un suo proprio pantheon, diversamente articolato al suo interno, e specifiche tradizioni, sicché l’espressione "religione greca" si riferisce piuttosto a una cultura religiosa generalmente condivisa che non a un insieme definito di credenze e di pratiche che si riprodurrebbe identico di città in città.
Alla varietà dei pantheon locali corrisponde appunto un vincolo particolarmente stretto tra la singola comunità e gli dèi insediati nel suo territorio. Occorre inoltre precisare che la sfera sovrumana comprende, accanto agli dèi più noti, altre potenze, divine (quali daimones, ninfe, fiumi) o eroiche, anch’esse destinatarie di culto e il più delle volte strettamente legate al territorio e alle tradizioni locali.
Lo studio del politeismo greco è stato ostacolato per lungo tempo da una serie di pregiudizi, la cui causa risiede in parte nella difficoltà di accedere a una rappresentazione del mondo non fondata su una reductio ad unum, e in parte nella difficoltà di prendere sul serio gli dèi della Grecia, troppo spesso ridotti a protagonisti sovrannaturali di "favole" considerate tanto affascinanti quanto assurde. Come ha dimostrato Jean-Pierre Vernant, gli dèi non sono personaggi, né vere e proprie "persone" dotate di una precisa identità, ma "potenze divine" che, in quanto tali, agiscono al tempo stesso nella natura, nell’uomo e nella società, attraversando i diversi piani del reale: anche se raffigurate per lo più sotto forma umana, le divinità possono manifestarsi attraverso una moltitudine di segni e sotto varie forme, e tuttavia non si identificano mai del tutto con le loro manifestazioni particolari. Un esempio tratto dalla vita dello storico Senofonte chiarirà la distinzione tra "persona" e "potenza" divina: nel corso della spedizione militare raccontata nell’Anabasi, pur avendo onorato Zeus Basileus ("Re"), Senofonte si ritrova in difficoltà economiche perché ha dimenticato di propiziarsi un altro Zeus, il Meilichios (l’epiteto cultuale evocherebbe la parola "miele"), legato alla fortuna familiare (Anabasi, VII, 8, 1-6). Zeus è una "potenza" divina che si declina in diverse forme e aspetti, non una "persona" divina dotata di una sua identità: per l’uomo greco è possibile infatti concepire al tempo stesso che Zeus sia uno – e quindi riconoscibile nei suoi vari aspetti – e molteplice, al punto che Senofonte è sostenuto da una figura di Zeus, mentre un’altra figura del dio è adirata con lui.
Naturalmente l’immaginario religioso dei Greci non si esprime allo stesso modo nei racconti tradizionali e nelle rappresentazioni del divino legate al culto: quando sono inserite in una trama narrativa, le divinità presentano caratteri più "personali", mentre il loro statuto di potenze divine appare più chiaramente nei pantheon delle varie città, dove un teonimo si ritrova spesso accompagnato da un’epiclesi, ossia un epiteto cultuale, che specifica la figura particolare del dio oggetto di culto. Ma la comprensione del "linguaggio" del politeismo ellenico passa anche attraverso un dialogo a distanza, rispettoso cioè delle differenze, tra rappresentazioni narrative degli dèi e dati del culto: non bisogna infatti sottovalutare la portata religiosa dei racconti tradizionali che chiamiamo "miti", e d’altro canto sarebbe opportuno esaminare con più attenzione l’eventuale portata figurativa, e narrativa in senso lato, degli enunciati rituali e delle pratiche del culto, anch’essi parte integrante della rappresentazione greca del divino.
Un’abitudine inveterata associa alle divinità greche una serie di etichette che fanno ormai parte del nostro bagaglio culturale: Era, dea del matrimonio, Afrodite, dea dell’amore, Poseidone, dio del mare, Atena, dea della saggezza e via di seguito. Queste etichette sono improprie, non solo perché semplificano all’eccesso le competenze di una potenza divina, ma anche perché inducono l’idea erronea che una divinità sia la personificazione "di" un’istituzione, un sentimento, una realtà naturale, una virtù. Secondo lo scrittore e filosofo Plutarco, dire che “Afrodite è l’istinto sessuale, le Muse le belle arti, Ermes l’eloquenza, e Atena la saggezza”, e quindi personificare in ciascuna divinità passioni, sentimenti o virtù, altro non è che una forma di empietà, e più precisamente una negazione degli dèi stessi (Erotico, 13; Moralia, 757B). Significativo al riguardo è il fatto che i Greci antichi non utilizzino per i loro dèi etichette semplicistiche, del tipo "dio di ...", ma preferiscano affidare a un complesso sistema di nominazione, alle descrizioni articolate che accompagnano inni e preghiere, nonché alla narrazione, il compito di rappresentare con parole una potenza divina.
Le etichette prima citate occultano la polivalenza che caratterizza l’azione di una potenza divina, veicolandone un ritratto statico, dedotto per lo più sulla base di singoli documenti e non dell’insieme della documentazione. Ad esempio, anche se nella ripartizione del cosmo tra i figli di Crono Poseidone si vede assegnato il regno marino, le competenze del dio si estendono dagli abissi del mare a quelli della terra, e di conseguenza egli è associato ai terremoti, al sottosuolo, alle fondamenta, aspetti essenziali che l’etichetta "dio del mare" trascura del tutto.
L’integrazione dei dati del culto consente di approfondire la nostra conoscenza del politeismo greco, lasciando emergere la molteplicità di figure che una divinità assume all’interno dei diversi contesti. Se ci si limita al solo testo dell’Iliade, Afrodite può apparire una divinità inadatta al campo di battaglia, confinata al mondo femminile e alle opere di seduzione; eppure questa divinità, nei pantheon delle città greche, manifesta significative competenze in campo politico e si ritrova associata anche alla sfera militare. L’enigma è solo apparente e non si risolve postulando una frattura insanabile tra mito e culto: nei racconti, come nell’iconografia e nei pantheon delle città, Afrodite è la compagna di Ares, un dio legato al furore bellico e allo scontro dei corpi nella battaglia; contrariamente alla vulgata, Afrodite non si oppone ad Ares, come l’amore si opporrebbe all’odio, ma entrambe queste divinità agiscono nella sfera della mixis, sono cioè associate all’incontro/scontro dei corpi e alla pulsione che lo determina: è per questo che una tradizione assegna loro Eros come figlio. La sessualità, la seduzione, la pulsione erotica fanno senz’altro parte delle competenze di Afrodite, ma come spiegare il fatto che altrettanto ben testimoniate sono le prerogative della dea in materia di navigazione? Per i Greci Afrodite è l’Euploia per eccellenza, la potenza divina preposta al "buon viaggio" e in quanto Limenia, "del porto", accoglie i naviganti al termine della traversata. La spiegazione risiede appunto nella polivalenza delle potenze divine.
Una divinità non si identifica con un solo campo o modo d’azione. Demetra non è solo la dea dell’agricoltura, ma anche la divinità che presiede, insieme a sua figlia Kore, ai Misteri di Eleusi (sede di un celebre santuario a 20 km da Atene), rituale che conferisce uno statuto particolare agli iniziati, in questa vita come nell’aldilà.
Il dominio della fecondità e/o della fertilità è ampio e vi intervengono diverse potenze divine, ciascuna a suo modo: Zeus, in quanto sovrano celeste e signore della pioggia, ha un grande potere sulla fertilità dei campi, e così Demetra, che tutela le "belle nascite" tanto nel seno della terra che in quello delle madri; se Afrodite è preposta alla genesi di una nuova vita, il parto è invece sotto la sorveglianza di Artemide e di Ilizia. Sfere come il matrimonio, la funzione tecnica, la politica, la guerra non sono il monopolio di singole divinità, e una stessa divinità può intervenire dunque in sfere distinte.
Per modo d’azione si intende poi la specificità che contraddistingue l’intervento di una potenza divina nei diversi ambiti di sua competenza: è possibile osservare infatti che, all’interno di uno stesso campo d’azione, Atena ricorre di preferenza alla metis ("intelligenza astuta"), Poseidone all’impeto naturale. Associati entrambi al cavallo, il dio è collegato all’irruenza dell’animale, la dea al morso, vale a dire alla tecnica per canalizzare tale irruenza; associati entrambi alla sfera marittima, Poseidone controlla gli elementi, scatenando o placando tempeste, laddove Atena affianca il nocchiero e tiene il timone. Le analogie sono significative, segno che ciascuna divinità avrebbe, per così dire, un suo proprio "stile". Non bisogna credere tuttavia che a ogni potenza divina corrisponda un solo modo d’azione, rivelatore della sua essenza profonda: in altre circostanze, Atena può ricorrere alla sua figura di combattente anziché all’abilità tecnica e Poseidone presiedere alla stabilità del suolo e delle costruzioni anziché alla furia incontrollata. Da quanto precede si evince soprattutto che in un sistema politeista le divinità non sono pensabili l’una separata dall’altra, ma che i diversi aspetti che queste assumono sono funzione, oltre che di uno specifico contesto, anche del pantheon in cui sono inserite e delle divinità cui sono confrontate o associate.
Grazie al fondamentale apporto di Georges Dumézil, seguito da Jean-Pierre Vernant e Marcel Detienne, gli studi sul politeismo antico hanno cominciato a prestare sempre maggiore attenzione alle articolazioni interne al mondo divino e all’organizzazione del reale di cui la struttura del pantheon è solidale. Inteso in questo senso, il politeismo si configura come una sorta di "linguaggio": una potenza divina si declina nelle sue figure particolari in funzione del posto assegnatole in una determinata configurazione, sia essa narrativa o cultuale, e delle sue connessioni con le altre divinità.
La pluralità del mondo divino è iscritta nella stessa topografia cultuale: spesso in un santuario accanto al tempio della divinità titolare sono venerate anche altre divinità; altari sono consacrati a due o più potenze divine; onori cultuali sono rivolti simultaneamente a una configurazione di divinità. Alcune associazioni sono ricorrenti: Apollo è spesso onorato con sua sorella Artemide; Afrodite con il suo compagno Ares; Zeus con la sua sposa Era o con sua figlia Atena. Altre sono rare, ma non per questo meno significative. Consideriamo ad esempio la lista di dèi che i giovani ateniesi prendono a testimoni del loro impegno verso la patria: in occasione dell’addestramento militare cui sono sottoposti, essi giurano per "Aglauro, Estia, Eniò, Enyalios, Ares e Atena Areia, Zeus, Thallò, Auxò, Hegemone, Eracle", e prendono a testimoni anche le frontiere della patria e le sue principali colture. Questo gruppo di divinità non può essere compreso se non in relazione alla comunità ateniese e alla formazione dei suoi futuri cittadini-soldati: all’inizio della lista, Estia, la dea onorata nel Pritaneo e associata al focolare civico, rappresenta la città, laddove Aglauro, un’eroina ateniese legata ad Ares, entra in risonanza con le divinità guerriere menzionate, ossia la dea Eniò in coppia con Enyalios e lo stesso Ares accompagnato significativamente da un’Atena "di Ares"; al centro della lista vi è Zeus, che garantisce il giuramento con la sua autorità sovrana e funge da collegamento con il secondo gruppo di divinità; Thallò porta nel suo nome la "fioritura", Auxò la "crescita", ed entrambe appaiono collegate non solo alla prosperità vegetale, ma anche al fiorire della giovinezza umana; Hegemone è una divinità "conduttrice", che presiede ai rapporti tra comandanti e subordinati: non è un caso che un santuario in onore di un’Afrodite Hegemone sia stato ritrovato all’interno della fortezza attica di Ramnunte; chiude la lista Eracle, l’eroe divenuto dio in virtù della sua forza e del suo coraggio eccezionali. Questa configurazione ateniese illustra il funzionamento del politeismo in quanto modalità specifica di rappresentarsi un mondo divino plurale e di rapportarsi ad esso, e ciò attraverso l’identificazione di una configurazione di divinità appropriata al contesto; essa dimostra al tempo stesso le profonde connessioni tra società, territorio e religione.
Plasticità, flessibilità e duttilità caratterizzano, come abbiamo visto, il politeismo greco. Il mondo divino si riconfigura in funzione non solo dei luoghi e delle circostanze, ma anche dei mutamenti di contesto storico: nel corso del tempo le comunità greche hanno ampliato il loro pantheon, introducendo ufficialmente nuove divinità tra gli dèi della città. Il dio medico Asclepio, per esempio, arriva ad Atene da Epidauro, sede del suo principale culto, nel 420 a.C., dopo la grave peste che aveva decimato la città. In Asia Minore, come nel bacino del Mediterraneo, i Greci sono entrati in contatto con altre culture e con i loro dèi: se le modalità di questo contatto variano sensibilmente dall’epoca arcaica al periodo ellenistico-romano, bisogna comunque sottolineare che il politeismo non ostacola il dialogo interculturale, ma lo riflette. Nel rispetto dei nomoi di ciascuna comunità, gli dèi degli altri non vengono stigmatizzati, né sono oggetto di assimilazione sistematica. Sembra infatti che, in quanto "linguaggio", il politeismo ellenico abbia piuttosto proceduto a "tradurre" o a "interpretare" le divinità straniere comparandole a quelle greche considerate loro affini (si pensi alla greca Afrodite e alla fenicia Astarte), nella prospettiva non di una fusione che annullasse le differenze, ma di una coabitazione tra culture religiose diverse.