Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il vasto movimento di confluenza stilistica che, a partire dall’ultimo terzo degli anni Sessanta, ha determinato la sovrapposizione delle tradizioni jazz e rock è una delle più genuine espressioni di una nuova sensibilità all’origine dei profondi mutamenti antropologici, sociali e politici che hanno investito in quel periodo la società, non solo occidentale. Il jazz-rock segna il momento in cui gli apporti specificamente europei, nella storia del jazz, si pongono sullo stesso piano di quelli americani, contribuendo a determinare i connotati identitari di un nuovo stile.
Nuovi aspetti nel jazz del secondo dopoguerra
L’esigenza di un nuovo tipo di autenticità artistica dal secondo dopoguerra ha prodotto nel jazz l’emergere di nuovi ruoli, radicati in un profondo engagement politico o spirituale, volto a conferire alla musica una specifica qualità sciamanica di rivelazione del reale. La figura di John Coltrane (1926-1967), è in questo senso fortemente emblematica. Questa ricerca di uno spazio acustico tribale comporta l’abbandono delle strutture tonali (con la loro linearità finalistica), per abbracciare la staticità di elementi modali e la centralità del complesso timbrico-fonico, che si va orientando verso le acquisizioni elettroacustiche del rock. Da parte della tradizione originatasi dal rock’n’roll, ciò significa attingere a nuovi livelli di responsabilità etica ed estetica, attraverso l’insorgenza di un virtuosismo sino ad allora inusitato, con l’utilizzo di estese improvvisazioni strumentali, perlopiù chitarristiche – in Gran Bretagna i Cream di Eric Clapton (1945-), negli USA Jimi Hendrix (1942-1970), Frank Zappa (1940-1993), i Grateful Dead di Jerry Garcia (1942-1995) – e la ricerca di una funzione trascendente e conoscitiva del messaggio artistico anche mediante stati coscienziali artificialmente alterati.
La scena jazz-rock inglese
Il jazz-rock segna il momento in cui gli apporti specificamente europei, nella storia del jazz, si pongono sullo stesso piano di quelli americani, contribuendo a determinare i connotati identitari di un nuovo stile. A tale proposito, è significativo che uno dei due leader di uno dei gruppi guida di tale stile, i Weather Report, sia stato l’austriaco Joseph Zawinul e che nelle prime formazioni dello stesso gruppo abbia militato anche il contrabbassista cecoslovacco Miroslav Vitous.
Figura centrale e pionieristica non solo del coté europeo del jazz-rock è il chitarrista e compositore britannico John McLaughlin (1942-). Prima ancora di partecipare negli USA alle esperienze fondamentali del nascente movimento jazz-rock, come gli album In A Silent Way (febbraio 1969), Bitches Brew (agosto 1969) di Miles Davis (1926-1991) ed Emergency! (maggio 1969) del Tony Williams Lifetime, ha già registrato, con il disco Extrapolation (gennaio 1969), una delle primissime prove europee di sincretico approccio di stilemi appartenenti ai due generi. In quest’opera, con John Surman (1944-) al sax baritono e soprano, si persegue una concezione del jazz-rock differente rispetto a quella che sarà abbracciata di lì a poco da Davis. Mentre quest’ultimo utilizzerà essenzialmente la sovrapposizione di processi improvvisativi (di carattere pantonale su strutture di ostinato), ispirati alla specifica modalità di condotta pulsiva funk di James Brown (1933-2006) e Sly and the Family Stone, qui troviamo un approccio debitore dell’estetica progressive rock che, a fine anni Sessanta, si va definendo in Europa, specialmente in Gran Bretagna. Quindi, una concezione formale pensata per strati (come nel brano Extrapolation, 1969), in cui, a passaggi ispirati a Coltrane e al Davis anni Sessanta – con il mantenimento dell’unità pulsiva condivisa, pur in assenza di riferimenti armonici definiti – fanno seguito moduli tematici e ritmico/metrici derivanti dal coevo blues-rock britannico, con la scansione fortemente stagliata del secondo e quarto tempo della battuta. McLaughlin utilizza un attacco sonoro deflagrante e un fraseggio dall’incalzante conduzione pulsiva, radicati nella tradizione della chitarra a plettro europea attraverso la lezione di Django Reinhardt (1910-1953) e del flamenco. McLaughlin adotta, inoltre, una particolare saturazione dinamica del suono chitarristico tecnologicamente amplificato, derivante dalla ricerca timbrica maturata nelle esperienze del blues britannico, in particolare con la militanza nella formazione del sassofonista/organista Graham Bond (1937-1974). Da qui deriva un’originale sintesi fonica dalla inequivoca connotazione rock, quindi nettamente divergente rispetto alla tradizione chitarristica jazz della linea Christian-Kessel-Hall, basata su qualità timbriche vellutate e rotonde. Questa fragranza espressiva del chitarrista troverà una sintonia elettiva con il batterista Billy Cobham (1944-) e la sua ritmica propulsiva, dando luogo ad alcune delle migliori sintesi del jazz-rock, grazie alle opere “classiche” della Mahavishnu Orchestra, The Inner Mounting Flame (1971) e Birds of Fire (1972), tese alla ricerca di un messaggio intriso di misticismo devozionale indiano. Qui afferiscono alle consuetudini del rock l’elevata dinamica sonora della testura elettroacustica – enfatizzata dal tastierista praghese Jan Hammer (1948-) –, la pronuncia ritmica (con suddivisione omogenea dell’unità pulsiva) e la ricerca di moduli espressivi orientali, ispirati all’iteratività del mantra, mentre l’attitudine improvvisativa ha come medium di riferimento la tradizione jazz.
Con i Soft Machine incontriamo un ulteriore esempio britannico di questa commistione intergenere, che trae le proprie motivazioni dalle concezioni formali progressive della scuola rock/sperimentale di Canterbury, anziché dal funk afroamericano. Con Third (1970) abbiamo un modello idiosincratico d’accostamento di concezioni ritmiche sia rock che jazz, soprattutto grazie al gioco sui piatti del batterista e vocalist Robert Wyatt. L’approccio organistico di Mike Ratledge (1943-), è, invece, a un tempo di tradizione classica, futuristicamente rumorista ed hendrixianamente psichedelico (con la timbrica inconfondibilmente nasale dell’organo Lowrey, a volte distorta con il fuzz Shaftesbury). Inoltre, la processualità improvvisativa d’ascendenza coltraniana in Elton Dean (1945-2006), al sassofono contralto e saxello, si abbina allo stile del basso di Hugh Hopper (1945-2009) (1945-), che è invece profondamente radicato nella prassi rock, quanto di più lontano, ad esempio, quest’ultimo nel trattamento di ostinati, dalla tradizione jazzistica. Tale eterogeneo assetto creativo è, infine, improntato a un’attenta ricerca ispirata alle tecniche compositive della musica contemporanea elettronica e concreta, nell’elaborazione sonora delle registrazioni su nastro magnetico, e all’iteratività del Terry Riley di A Rainbow in Curved Air (1968). Dopo il 1971 i Soft Machine subiscono un radicale mutamento d’organico, con l’ingresso del batterista inglese John Marshall (1941-), che dal 1977 diventerà leader del gruppo, ormai senza gli storici fondatori. Gli album Fourth (1970) e 5 (1971-1972) diluiscono lo sperimentalismo d’ascendenza progressive, caratterizzandosi in senso più jazzistico: un tratto che si preciserà grazie all’acquisizione, nel 1973, del chitarrista inglese Allan Holdsworth (1946-), dotato di un vorticoso approccio solistico memore dello stile di John Coltrane (Bundles, 1974).
Sia Marshall sia Holdsworth provengono da un’altra fondante esperienza del jazz-rock britannico, quella dei Nucleus, capitanati dallo scozzese Ian Carr (1933-2009), trombettista dallo stile fortemente influenzato da Miles Davis. Carr, con l’album Elastic Rock (1969), sceglie la via del jazz-rock prima ancora di venire a conoscenza della direzione tracciata da In A Silent Way, come sorta di via di fuga dallo stallo avvertito nelle esperienze del free jazz. Il criterio d’accostamento dei due diversi etimi trova, nei Nucleus, un privilegiato medium nell’utilizzo di complesse strutture metriche, come nel brano 1916 (Dance of Boogaloo, 1970). L’impiego di unità metriche inusuali, specie in chiave eterometrica (We’ll Talk About It Later, 1970; Belladonna, 1972) può, anzi, identificarsi come un apporto specificamente progressive rock comune a tutto il fronte europeo jazz-rock, essendo di per sé elemento costruttivo non particolarmente presente nella tradizione del jazz, che ha preferito conferire complessità alla dimensione metrica attraverso altre proceduralità. Ulteriori esperienze pionieristiche tese a fondere elementi linguistici del jazz con il rock sono quelle del pianista inglese Keith Tippett (1947-), in special modo con l’originalissimo ensemble Centipede, con 50 elementi (Septober Energy, 1971) o la band tutta al femminile She Trinity, guidata dalla sassofonista Barbara Thompson (1944-). Dalla metà dei Settanta altri gruppi si affacciano, come le formazioni dei batteristi Bill Bruford (1949-) o Phil Collins (Brand X), in cui alla decantazione di un virtuosismo a volte esasperato e all’esibizione di testure patinate, sempre meno corrisponde una ricerca estetica veicolante valori innovativi.
Il jazz-rock nel resto d’Europa
In Germania le origini del movimento del jazz-rock fanno riferimento al 1967, con l’esibizione del quartetto del vibrafonista Gary Burton (1943-) al Berliner Jazz Days Festival: l’ambiente musicale tedesco accoglie con grande interesse questi primi fermenti che si stanno elaborando negli USA. In particolare, il chitarrista Volker Kriegel (1943-2003) costituisce di lì a poco, con il vibrafonista David Pike (1938-), un quartetto similmente strutturato (autunno 1968), ponendosi subito come la punta emergente del nuovo stile in Germania. Attorno a lui graviteranno le formazioni jazz-rock più interessanti, come Spectrum nel 1972, Mild Maniac Orchestra nel 1976 o The United Jazz + Rock Ensemble (dal 1975): un nonetto con, tra gli altri Wolfgang Dauner (1935-), pianoforte; Eberhard Weber (1940-), basso; Jon Hiseman (1944-), batteria (già leader dei Colosseum). Altro gruppo tedesco è Passport, del sassofonista tenore Klaus Doldinger (1936-) – Looking Thru e Hand Made, entrambi del 1973 –, che a una sezione ritmica di stretta osservanza rock sovrappone stilemi meloarmonici ispirati ai Weather Report.
Il jazz-rock europeo conta altre notevoli realtà, con una scuola violinistica in Polonia rappresentata da Michal Urbaniak (1943-) – con i Fusion dal 1974 al 1977 assieme alla vocalist Urszula Dudziak (1943-) presenta Fusion III (1975) – e da Zbignew Seifert (1946-1979) – Lift! (1973), con Volker Kriegel, John Marshall, Eberhard Weber –. In Francia l’esponente di maggior spicco è un altro violinista, Jean-Luc Ponty (1942-) a riprova dell’apporto specificamente europeo alla sintesi jazz-rock anche attraverso uno strumento, come il violino, fortemente radicato nella musica d’arte e popolare del Vecchio Mondo, sia pure filtrato attraverso il massivo utilizzo di processori sonori. Dopo le collaborazioni con Frank Zappa e Mahavishnu Orchestra, Ponty dà prove eccellenti in lavori a proprio nome: Upon The Wings of Music (1975) ed Enigmatic Ocean (1977), con Allan Holdsworth, basati sull’utilizzo di strutture modali all’interno di progetti formali ad ampio respiro che ripropongono in primo piano l’approccio compositivo. Meno conosciuto, ma non di minor rilevanza, è il sassofonista nizzardo Barney Wilen (1937-1996), che, con il batterista Aldo Romano (1941-), collaboratore in seguito dei Pork Pie di Charlie Mariano (1923-2009), propone già nel giugno 1968 una delle primissime espressioni (non solo per l’Europa) di jazz-rock, con Dear Prof. Leary. È rimarchevole la lucidità “psichedelica” di quest’opera, in cui è chiaramente anticipata la strada davisiana di spesse testure, qui intessute all’organo da Joachim Kühn (1944-) su ostinati di basso elettrico su cui si muovono, in regioni politonali, i solisti.
Non si può tralasciare la scuola del chitarrismo scandinavo e finnico, improntata a un virtuosismo che non trascura riferimenti epici e ambientazioni folkloriche, con il norvegese Terje Rypdal (Odissey, 1975), il finlandese Jukka Tolonen (Tolonen, 1974) e, sul fronte più orientato sul rock, lo svedese Janne Shaffer (Katharsis, 1977). Nei Paesi Bassi troviamo il già citato gruppo Pork Pie (dal 1973), cui collaborano il tastierista olandese Jasper Van’t Hoff (1947-) e il chitarrista belga Philip Catherine (1942-).
Infine, la scena italiana, che vede in prima linea il Perigeo (Abbiamo tutti un blues da piangere, 1973; Genealogia, 1974), con il pianista Franco D’Andrea (1941-), il sassofonista Claudio Fasoli (1939-), il bassista Giovanni Tommaso (1941-), il batterista Bruno Biriaco (1949-) e Tony Sidney (1952-) alla chitarra. Il gruppo s’inscrive stilisticamente nel solco di una koiné linguistica ormai consolidata, sorretta da capacità improvvisative solistiche radicate nella tradizione jazzistica. Fondamentale è anche l’esperienza degli Area (Arbeit Macht Frei, 1973; Crac, 1975), che si accostano a un modello creativo di tipo jazzistico dal versante progressivo/etnicizzante del prog rock. In questo gruppo, accanto allo sperimentalismo vocale di Demetrio Stratos (1945-1979), ha dato il proprio contributo Giulio Capiozzo (1946-2000), uno dei maggiori batteristi europei, dalla proiezione ritmica assolutamente propulsiva e con un impatto fonico che attinge alle origini della percussività di scuola post-bop, orientandola però verso una personale qualità funky della conduzione pulsiva. Altre interessanti prove, per lo più sottovalutate, sono quelle dei gruppi Arti e Mestieri, Tilt (1974), e Napoli Centrale, Mattanza (1976).
Il messaggio del jazz-rock dalla fine degli anni Settanta si stempera in un manierismo edulcorato che disperde in parte il messaggio di rinnovamento e la forte tensione dei primi sperimentatori, adagiandosi su di un repertorio di espedienti stilistici e moduli formali largamente standardizzati che solo in qualche caso darà luogo a originali sintesi creative.