Il governo del territorio: l’ambiente urbano e la laguna
Due ordini di problemi giungevano a maturazione nel corso del Settecento, per quanto atteneva il controllo di ciò che costituiva il cuore dello Stato veneziano, la laguna e il porto realtino, nelle loro interazioni con la fascia costiera (il Dogado) e la Terraferma. Da un lato cioè la scienza «delle acque» veniva ad arricchirsi dell’apporto e della confluenza di altre prospettive di indagine, quali quelle che concernevano i boschi, le rilevazioni meteorologiche, le precipitazioni, la temperatura, la pressione atmosferica, l’umidità. Dall’altro questo approccio idraulico in senso lato si intrecciava a problemi ambientali più vasti, quali la qualità dell’aria, gli interventi di igiene pubblica, la raccolta delle immondizie, la sicurezza degli abitanti (incendi, terremoti, controllo dell’ordine pubblico), la lotta contro le malattie infettive, le sepolture, la regolamentazione delle produzioni industriali nocive. A ognuno di questi problemi Venezia si era rivelata sensibile da tempo, intervenendo precocemente nel corso della sua lunga storia legislativa e amministrativa, raggiungendo risultati di rilievo.
Il giudizio storico, seppur largamente positivo sul controllo del territorio da parte della Venezia settecentesca, deve tuttavia tener conto di due aspetti non meno essenziali: la distinzione da farsi tra la situazione quale si registrava nel bacino lagunare propriamente detto da un lato e la Terraferma a ridosso della capitale dall’altro, nonché lo iato tra attività legislativa, molto intensa nello Stato veneziano, e le effettive realizzazioni, talvolta non del tutto conseguenti all’impegno profuso. Vero è infatti che la deviazione e la regolamentazione dei maggiori fiumi che sfociavano nel bacino lagunare (il Brenta, il Piave, il Sile), con il conseguente rischio di insabbiamenti e impaludamenti, intraprese nel corso del Cinque e Seicento, permettevano ora alle autorità veneziane di guardare con maggiore serenità al raggiunto equilibrio lagunare, funzionale agli interessi economico-marittimi. Ma è altrettanto vero che il dissesto idraulico di molti consorzi di bonifica a ridosso della gronda lagunare; gli allagamenti periodici che si registravano in Terraferma in prossimità dei principali fiumi e canali; l’andamento tortuoso dei fiumiciattoli (lo Zero, il Dese, il Marzenego) che gravitavano ancora nel bacino veneziano, carichi di materiale alluvionale; l’apertura di canali scolmatori, i diversivi, che non sempre avevano sortito i risultati migliori, anzi avevano talvolta aggravato gli squilibri idrogeologici; tutti questi rimasero punti importanti all’ordine del giorno della politica del territorio (1).
La centralità della politica lagunare restava evidente nel corso del Settecento. Non aveva forse annotato Geminiano Montanari, a proposito del Sile, sul finire del Seicento, ma poi testualmente ripreso da Giovanni Poleni nel 1740, che «non si crede doversi anteporre questi danni delle innondazioni, nascenti dal Sile, al pubblico interesse, importantissimo della laguna e de’ porti» (2)? Per quanto lc campagne a nord, ancora una volta del Sile, risultassero densamente abitate — nel momento in cui il Poleni cercava di dare sistemazione idraulica a quell’area —, «si rivolgeva maggior attenzione ai problemi della laguna [...] che non ai disagi della popolazione locale» (3).
Uno sviluppo interessante, per quanto insufficientemente studiato, conoscevano certo i canali di navigazione che confluivano a Venezia, dalla quale partivano bisettimanalmente, secondo Carlo Goldoni, cinque barche per cinque destinazioni diverse (Ferrara, Bologna, Modena, Mantova, Firenze). «Ma si trattava [conclude Carlo Poni] di un’efficienza relativa. Durante i mesi estivi la navigazione (almeno nell’area emiliano-romagnola) era frequentemente sospesa per mancanza d’acqua» (4). Si intravvedevano i vantaggi economici che si sarebbero potuti ottenere, se si fosse incrementato il traffico portuale lungo l’Oglio, l’Adige, il lago di Garda, il Bacchiglione — vie d’acqua che avrebbero avvicinato le ricche province d’Oltre Mincio a quelle orientali e a Venezia stessa. Ma allo stesso tempo si dovevano registrare le carenze della navigazione in Friuli (dove l’acqua che mancava costituiva un limite allo stesso sviluppo economico della regione) o annotare come le acque del Brenta fossero frequentemente innavigabili e le strade, rifiutando i carreggi, non facilitassero i trasporti, «tanto che il Padovano sembra quasi un’isola» (5).
D’altro canto l’approccio interdisciplinare alla politica del territorio poteva fondarsi sempre più su rigorose premesse scientifiche, sostenute dagli studi di carattere matematico-sperimentale che venivano condotti nella vicina Università di Padova. Basti ricordare che una cattedra di astronomia e di meteorologia era stata istituita a Padova sin dal 1583 e che la serie di osservazioni meteorologiche (le precipitazioni, le altezze massime e minime della marea, i fenomeni singolari, la pressione atmosferica e la temperatura), raccolte da Bernardino Zendrini a Venezia a partire dal 1727, erano state precedute da quelle raccolte a Padova da Giovanni Poleni alcuni anni prima (dal 1725) (6). Premesse quanto mai necessarie nella comprensione degli elementi naturali, e pur sempre insufficienti, se si considera la lentezza con cui si avanzava nello studio dell’azione del vento o dell’umidità, settori che progredivano con maggiore speditezza nei coevi Paesi Bassi (7).
Elementi che venivano ad interagire non solo in laguna, ma in tutta quella fascia costiera che si allungava alle spalle della laguna stessa e che rappresentava un’entità morfologica non meno labile e dinamica. Qui facevano sentire il loro influsso e agivano prepotentemente forze naturali come le correnti marine, il moto ondoso, i fiumi con i loro materiali alluvionali — modellando la costa, ora erodendola ora allargandola — e il vento, che spingeva la sabbia ed erigeva quelle protezioni naturali, le dune, che una volta consolidate dalla vegetazione, rappresentavano una difesa efficace contro l’erosione marina. Non è un caso che le magistrature veneziane, consapevoli dello stretto rapporto che legava la laguna al cordone terrestre che la cingeva, avessero stabilito sin dal 1562 che tale frangia dovesse estendersi almeno per cinque miglia dalla laguna stessa. Sicuramente fu quello un impegno di grande rilievo sotto il profilo ambientale, mirante a salvaguardare un ecosistema e un’area umida la quale coinvolgeva non solo paludi, barene, specchi lagunari periferici, come quello di Caorle, ma tutta una serie di laghi che si estendevano tra il Piave e il Livenza (8). Questi ultimi («stili water sources» sui quali la più recente geografia storica giustamente richiama l’attenzione, invitando a non guardare alle sole acque correnti, come solitamente avviene (9)), non solo offrivano tutta una serie di attività economiche alternative a quelle che si svolgevano nell’area urbana, come la pesca, la caccia, la raccolta di canne ed erbe palustri, alcune lavorazioni artigianali (10), ma rappresentavano delle aree di espansione fluviale preziose nei momenti di piena, a tutto vantaggio degli equilibri lagunari.
Una funzione non meno essenziale svolgeva il bosco, per quanto concerneva «la protezione del suolo, la regimazione delle acque, la stabilità delle terre acclivi», tutelando l’ambiente e rappresentando al contempo una risorsa economica di non trascurabile importanza (11). In effetti, sebbene il connubio esistente tra boschi e laguna fosse già stato individuato nel corso del Cinquecento e approfondito nel secolo successivo, allorquando ci si accorse che la deforestazione indiscriminata alterava gli equilibri idraulici dell’intero bacino lagunare non meno dell’apporto detritico dei fiumi (12), fu solamente nel corso del Settecento che tale rapporto avrebbe conosciuto un indubbio approfondimento. Per quanto il problema degli svegri, delle colture agricole che aggredivano la montagna, degli squilibri ambientali che ne derivavano non fosse certo prerogativa della sola Repubblica di Venezia. Quando Paolo Frisi denunciava che a causa di tale pericoloso processo, riflesso a sua volta dell’incremento demografico settecentesco, «le acque piovane trasportano entro gli alvei dei fiumi materie più copiose di quelle che vi arrivavano anticamente», si riferiva a un quadro geografico ben più vasto e ad altre realtà regionali, italiane ed europee (13). D’altro canto le scritture di governo e le relazioni dei periti se denunciavano periodicamente come il taglio indiscriminato di migliaia di tronchi, alberi, rami, ingombrando il letto dei fiumi, ne provocasse l’innalzamento del livello a un pur minimo incremento delle precipitazioni, non sembravano in grado di indicare delle efficaci misure per contrastare alla radice un trend siffatto. E se questa era la situazione quale andava evolvendosi nei bacini idrografici nel loro insieme, non del tutto soddisfacente appariva la politica forestale seguita a ridosso della laguna. Per quanto si fosse stati consapevoli da tempo della necessità di perpetuare il bosco, l’azione legislativa era risultata contraddittoria e vanificata da disposizioni contrastanti, che obbedivano alla necessità di approvvigionarsi di legname e di incrementare le colture agricole. La conseguenza fu che, pur avendo i principali boschi della regione — dal Montello al Cadore, dal Cansiglio alla Carnia e al bosco di Montona in Istria — assolto al loro compito principale, che era stato quello di fornire il legname necessario al fabbisogno dello Stato veneziano (la marina in primo luogo (14)), lungo la fascia costiera le pinete, che pure avevano contraddistinto il paesaggio lagunare nei secoli precedenti, risultavano completamente distrutte nel corso del Settecento (15).
Nonostante questi limiti — sul versante dei delicati rapporti tra ambiente lagunare e Terraferma, nell’ambito dei quali l’azione dell’uomo svolgeva una funzione fondamentale e necessaria, al fine di avversare una natura talvolta non meno malefica di tanti dannosi interventi dell’uomo stesso — probabilmente più efficace e originale risultò l’azione di governo per quanto atteneva l’ambiente urbano di per sé, di una città complessa quale fu Venezia. E se non vi era stato campo di intervento pubblico nel quale la Repubblica non avesse legiferato sin dal Medioevo, affrontando tematiche che saranno comuni ad altri stati settecenteschi, essa partecipava ora al grande movimento di idee che si sviluppava nel corso del secolo e che mirava a far fronte, sotto il profilo ambientale, a ben più profonde trasformazioni della società e dell’economia.
Peraltro, se da un lato la Repubblica venne affinando le tradizionali linee di intervento che aveva seguito nel passato, approfittando delle esperienze acquisite, essa appariva toccata solo marginalmente da quello che risultava il fenomeno storico fondamentale nella storia dell’ambiente, la «rivoluzione industriale». In effetti, se è vero che quest’ultima ha avuto una gestazione — come ci indica la letteratura più recente (16) — più lenta di quanto l’interpretazione tradizionale ci abbia voluto proporre, è altrettanto vero che sul finire del Settecento si ponesse la problematica tradizionale del controllo della produzione industriale su basi nuove e in un certo senso più drammatiche. La Venezia settecentesca era toccata solo marginalmente da questo fenomeno innanzitutto perché era stata costretta da tempo ad allontanare dall’ambito lagunare, e relegare in Terraferma, le manifatture più nocive. In secondo luogo, se alcune aree dello Stato veneziano avevano conosciuto i primi avvii di una «rivoluzione industriale», o alcune forme di attività «protoindustriali», esse erano ben lontane dal territorio veneziano (17). La città lagunare appariva dunque, e sarebbe rimasta a lungo, almeno sotto questo profilo, un’oasi felice rispetto alla forte crescita demografica, al rapido inurbamento, alle drammatiche condizioni igienico-sanitarie che le città industriali europee incominciavano a conoscere sul finire del Settecento (18). Ovviamente la riflessione storica corre subito alla città di Londra, la quale già un secolo prima appariva, per l’inquinamento dell’aria, una delle città più insopportabili al mondo (19). Ma non aveva dovuto anche Venezia affrontare il problema sanitario dell’aria, per quanto riferito prevalentemente a un altro contesto, quello lagunare, come ebbe a riflettere il medico Andrea Marini già sul finire del Quattrocento (20)? Il rovescio della medaglia è che la città lagunare tradiva una certa lentezza nelle trasformazioni socio-economiche che conoscevano invece le altre città europee e in ciò che ne derivava quanto a governo del territorio in senso lato: legislazione industriale, regolamentazione del mercato, protezione del consumatore, diritti di proprietà, avvio verso una società borghese (21).
Per il resto Venezia aveva condiviso da tempo con le città europee più popolose i problemi che un elevato numero di abitanti provocava e che nel corso del Settecento erano all’ordine del giorno nelle pratiche sanitarie e nelle politiche riformatrici, là dove queste si manifestavano. Le grandi città come Parigi, Londra, Roma, Venezia erano paragonate da alcuni a dei grandi ospedali o, secondo altri, alle tombe dell’umanità, in quanto non vi era modo di sfuggire alla mescolanza fisica, al contatto, alla circolazione confusa e indistinta, dove l’acqua e l’aria rappresentavano gli strumenti nella propagazione della malattia. Si calcolava che il tasso di mortalità nei grandi agglomerati fosse di un individuo ogni ventotto/trenta, mentre nei centri minori era di uno a trentasei e nelle campagne scendeva ancora a uno a quaranta (22). Gli studi medici che si moltiplicavano (fondamentale l’istituzione della Società reale di medicina, creata a Parigi nel 1776 e divenuta poi Académie royale de médecine) si proponevano di individuare i legami che potevano esistere tra la successione delle stagioni e le epidemie; di stilare un catalogo delle particolarità geografiche che potevano rinviare a una cartografia patologica; di accertare infine in quale misura le epidemie si diffondessero fra determinate classi di cittadini e come i ceti più abbienti potessero difendersene. Come avrebbe messo in evidenza Michel Foucault, sebbene con qualche radicalismo, il nesso tra architettura-urbanismo e controllo sociale ne era la logica conseguenza. Tuttavia, i principi cardine di questa politica sociale («sorvegliare e punire», «circoscrivere spazialmente», «confinare» (23)) potevano anche non trovare corrispondenza con la realtà veneziana dove, come vedremo meglio più avanti, i lazzaretti veneziani, essendo fondazioni di vecchia data, considerata la natura dell’urbanismo veneziano, superavano la contrapposizione di ceti e sestieri.
Ad ogni modo, per quanto la corrente aerista continuasse ad occupare degli spazi essenziali in Olanda e in Inghilterra, i fenomeni epidemiologici venivano studiati ora in un ambito più largo, che comprendeva sia la qualità del suolo, il clima, le precipitazioni, i focolai pestilenziali che le penurie alimentari (24). In Francia almeno, era la stessa disciplina scientifica dell’igiene pubblica che veniva ad essere istituzionalizzata, tra il 1770 e il 1840, grazie all’azione congiunta di scienziati e amministratori pubblici. Il nuovo approccio era da un lato l’espressione diretta del dibattito illuministico sui diritti naturali, nonché sul ruolo svolto dai governi nel preservare e favorire questi stessi diritti, dall’altro rispecchia la fiducia, tutta illuministica, che la società potesse e dovesse essere riformata e amministrata secondo pratiche scientifiche (25). Un terzo principio, che sarebbe risultato sotteso agli interventi ambientali nell’Europa e nella Venezia settecentesca, riconducibile anch’esso alla cultura e allo spirito illuministico, era rappresentato dalla volontà di allontanare la morte, vista non più come ineluttabile, ma al contrario «scandalo» da evitare, impedimento alla realizzazione della felicità, verso la quale l’umanità aveva il diritto di tendere (26).
Tutto ciò ebbe senz’altro la conseguenza di porre all’ordine del giorno interventi urbani più incisivi quali l’asportazione delle immondizie e del fango dalle pubbliche vie, la pavimentazione delle strade e la pulizia delle stesse, la distribuzione dell’acqua, il risanamento dei cimiteri, l’illuminazione pubblica, l’organizzazione dei mercati, la cura dell’arredo urbano e specialmente dell’edilizia minore, la classificazione degli immobili, in funzione di una precisa tassonomia sociale e destinazione d’uso (abitazioni civili, ma anche sviluppo di un’edilizia turistica e studentesca) (27). Certo, in tutto questo Venezia non era certo l’ultimo organismo statuale ad intervenire, né essa perdeva il contatto con le innovazioni che si sviluppavano altrove (vedi l’introduzione dell’illuminazione pubblica). D’altro canto, la coeva letteratura sulla Francia, l’Inghilterra o il Belgio registrava un forte dinamismo nella legislazione di questi paesi, soprattutto a partire dagli anni ’60 del Settecento e parallelamente alle trasformazioni di carattere industriale: orari di lavoro, rispetto della quiete pubblica, pulizia delle strade, controlli e sanzioni amministrative (28).
In un certo senso Venezia, considerato il suo originalissimo, ma non per questo non problematico, assetto urbanistico, risultava svantaggiata rispetto a città più «comuni». Un esempio forse significativo: la pulizia delle strade e l’allestimento di un sistema fognario. L’assenza di corsi d’acqua che attraversassero la città rendeva più laboriosa la pulizia delle strade, mentre l’unico sistema fognario possibile a Venezia risultò quello che potesse correlarsi ai canali esistenti (29). In altre città e metropoli coeve l’edificazione delle abitazioni in funzione del possibile approvvigionamento idrico o dello smaltimento dei rifiuti domestici (piccoli corsi d’acqua al centro o ai bordi delle strade) avrebbe facilitato nel tempo l’igiene pubblica (30). A Venezia tutto risultava più complesso, per quanto nel corso del Settecento la situazione restasse senz’altro sotto controllo. Come è stato osservato, l’uomo interagisce sempre con due sfere diverse: quella fisica (città e laguna) e quella culturale (assetto sociale e capacità politico-amministrative) (31). La civiltà veneziana apparve, sino alla caduta della Repubblica, fondamentalmente, in sintonia sia con l’una che con l’altra.
I problemi e pericoli di carattere ambientale continuarono in effetti a sollecitare nel corso del Settecento l’intervento delle magistrature. Queste ultime rispondevano alla solita maniera, vale a dire secondo i loro stretti ambiti di competenza, mediati dall’intervento, di maggiore significato politico, del senato. Ingiusto chiedere alla politica veneziana del Settecento delle istanze «ecologiche», una visione cioè globale delle relazioni (biologiche, climatiche, economiche, sociali) dell’individuo e dell’organismo umano con il mondo esterno, quando tale visione stenta ancor oggi ad essere intesa nella sua fondamentale importanza (32). Quello che continuò ad esistere fu il senso della protezione, dalle minacce di vario genere, della città e del suo territorio intesi come patrimonio comune. Del resto la configurazione della città spingeva ad intenderla — come osservava Pompeo G. Molmenti, il più attento fra gli storici di Venezia a questi aspetti — quasi fosse «una grande abitazione, in cui il popolano viveva senza uscir di casa [...]: le calli e i canali erano i corridoi, i campielli le anticamere, i campi saloni; da una casa all’altra si litigava [...] a quel modo che si sarebbe fatto dentro una casa sola, abitata da parecchie famiglie» (33).
Tale «casa» andava protetta dagli incendi: lungo il Settecento se ne contarono ben cinquantasette, un po’ in tutta la città. I terremoti, per quanto di non eccezionale gravità, non cessarono per questo di manifestarsi con una certa periodicità: particolarmente grave quello del 10 luglio 1776. Il controllo del livello dell’acqua nei canali e il fenomeno delle acque alte, con le loro pesanti conseguenze economiche, restavano all’ordine del giorno: alte maree particolarmente gravi, secondo le notizie raccolte dal Gallicciolli sul finire del Settecento, si sarebbero verificate nel 1727, 1746, 1750 e 1792 (34). I periodi di siccità, che potevano durare anche alcuni mesi, vennero a incrociarsi con gelate intense, come quella del 1709, la quale provocò il congelamento della laguna per ben diciotto giorni, durante i quali le merci furono portate a Venezia per mezzo di carri invece che con le tradizionali imbarcazioni (35). I congelamenti avvenivano solitamente in concomitanza di venti intensi e freddi, anche se solo al momento in cui cessavano di soffiare, come con la gelata del 1755, oppure in occasione di abbondanti nevicate, come avvenne, per limitarsi al solo Settecento, nel 1788 (36).
Tuttavia, a parte questa cronachistica, fondamentalmente non drammatica, Venezia era descritta da un osservatore francese come «la ville d’Italie où l’on vit à meilleur compte». Le condizioni atmosferiche restavano buone nel complesso, le stagioni si susseguivano regolarmente e, per quanto alcuni biasimassero l’esalazione dei canali durante l’estate, le visite alla città venivano ricordate come un soggiorno relativamente salubre (37).
Né si può dimenticare che se la popolazione veneziana non crebbe in modo travolgente come avveniva nelle altre città europee (Londra, Parigi o Berlino), ciò nonostante rimaneva numerosa (38) e senz’altro godette di elevate condizioni di vita, celebrate da tempo immemorabile. I consumi di generi alimentari rimanevano sostenuti, il fabbisogno di carni, indicatore significativo del tenore di vita delle popolazioni urbane, si era accresciuto rispetto alle stesse possibilità dell’allevamento veneto di sostenerlo (39). La rigida normativa che presiedeva alla circolazione dei generi alimentari non sempre riusciva a controllare efficacemente la distribuzione dei prodotti, e delle carni nella fattispecie (40). Ma queste smagliature (contrabbando all’interno delle città, mancato rispetto di un sistema vincolistico che imponeva l’acquisto delle carni in «poste» determinate, secondo i prezzi fissati dal calmiere) non riuscivano a nascondere una realtà sostanzialmente positiva, costituita da una domanda urbana che continuava a crescere. Nel 1775 Si calcolava che fossero necessari a Venezia 14.885 buoi da macello, mentre l’obbligo per chi ne deteneva l’appalto si limitava a soli 13.500 capi. Ciò significava che almeno 1.385 buoi erano macellati al di fuori dei calcoli ufficiali. La dipendenza dall’estero rimaneva pesante. Se nel 1783 erano necessari 45.000 manzi, solamente un terzo, secondo le valutazioni più ottimistiche, poteva giungere dalla Terraferma (41).
Persino le risorse della pesca, svolta in laguna, sembravano, nella seconda metà del secolo, dover essere integrate da prodotti ittici provenienti da altre aree esterne. Vero è comunque che lo sfruttamento delle risorse lagunari rimase in larga misura congiunto alle valutazioni delle potenzialità produttive della laguna stessa, assicurando la conservazione — purché non si cada tuttavia nel mito di una politica ambientale veneziana sempre coerente, priva di limiti e imperfezioni — degli «equilibri autoriproduttivi delle varie forme di pesce» (42).
L’azione di governo sapeva concentrarsi su interventi che giustamente non considerava di minore importanza, quali la manutenzione di strade e ponti, la raccolta delle immondizie, la pulizia e lo scavo dei canali, l’organizzazione dei cimiteri, degli ospedali, delle prigioni. Le stesse considerazioni si possono trarre per il sistema di trasporto interno, in continuo rinnovamento, che aveva visto da un lato i primi divieti di accesso al centro per i cavalli (1291), con la loro definitiva messa al bando, dall’altro l’introduzione al loro posto di migliaia di gondole (9-10.000), molte delle quali «stavano a traghetti, o andavano a guadagno per la città» (43). La rete viaria rifletteva la progressiva funzione a prevalente uso civile. Dal 1676 Antonio Grimani, proweditor di comun, iniziava a lastricare progressivamente tutte le strade, con un selciato costituito da larghi macigni, destinati a sostituire definitivamente la pavimentazione tradizionale costituita da quadrelli posti o di taglio o in piano (44). D’altro canto la pavimentazione di piazza S. Marco, rifatta una prima volta nel 1626, conosceva un secondo riadattamento ben più significativo nel 1723, su disegno dell’architetto Andrea Tirali. Impiegandovi la trachite euganea e la pietra d’Istria, distendendovi larghe strisce di pietra bianca, grazie alla «regolarità degli intarsi a duplice corsia [...] sul fondo di masegna», si sarebbe dato vita a «uno dei primi esempi di pavimentazione di piazza in Europa» (45).
Del resto fu il restauro che caratterizzò l’edilizia urbana della Venezia settecentesca, la quale conosceva più l’incremento dell’edilizia minore che la costruzione di nuovi palazzi, in linea con tutto un pullulare di attività artigianali e un formicolio umano presenti in città (46). La riprova è data dai numerosi esempi di edilizia popolare, la quale assumeva «pari dignità dell’architettura patrizia» (47), sviluppandosi in sestieri che ricordavano tante piccole città, dove case, palazzi e palazzetti costituivano un unicum difficilmente disaggregabile (48).
L’attenzione all’arredo urbano includeva il disciplinamento delle attività economiche e il rispetto degli spazi pubblici, proibendo l’ingombro delle strade con le merci tenute al di fuori delle botteghe, l’abbandono di immondizie, obbligando coloro che tenevano bottega a tenere sgombre dalla neve o dal ghiaccio le strade adiacenti. I capi-contrada avrebbero dovuto sorvegliare che ponti e strade fossero sempre transitabili (49), e al contempo impedire che si asportassero le pietre dalle «fondamente» (quegli spazi interposti tra i canali e gli edifici, che costituivano le vie di transito necessarie al movimento urbano(50)) o si gettassero le immondizie nei pubblici pozzi (51).
Fondamenta, ponti, pontili, pozzi, calli e campi, in tutta la loro nota articolazione (salizade, rii interrati, campielli, corti, rughe, ecc.) erano sorvegliati occhiutamente sia dai savi alle acque che dai provveditori di comun. Per quanto si sia parlato di una crisi nel ramo delle costruzioni nella seconda metà del Settecento (52), gli interventi straordinari rimasero all’ordine del giorno, come nel 1759, sulle Fondamenta Nuove, riparate con «pietre vive» e «salizzi» (il selciato, costituito dapprima da mattoni e sempre più spesso da pietre di Lispida) (53). Anche la lunga fondamenta della Giudecca non versava in migliori condizioni nel 1763 (54).
I ponti, come quello di S. Giuseppe a Castello all’inizio del secolo, pericolante a causa del continuo afflusso di persone, necessitavano ugualmente di puntellature e rifacimenti della muratura, al fine di assicurarne la stabilità (55). Al pari di altri settori, i magistrati badavano a che i costi degli interventi fossero divisi tra privati e pubblico. Osservava il celebre architetto Tommaso Temanza nel 1774 che, certo, occorreva riattare con urgenza le Fondamenta Nuove, e sicuramente si sarebbe potuto chiedere un contributo ai privati. Tuttavia restavano a carico del bilancio della magistratura gli interventi sul selciato delle strade, le balaustre verso la laguna, il parapetto dei ponti (56))
A far data almeno dall’inizio del secolo, coloro che avessero posseduto beni in rovina, sia liberi che sottoposti a fidecommesso, dovevano porre mano direttamente al loro restauro, affinché il patrimonio edilizio non andasse in rovina. In caso contrario avrebbero dovuto presentarsi presso i magistrati (57). Per interventi globali ad interi sestieri, come a quello di S. Marco, di S. Polo o di Cannaregio, si affidavano i lavori a un unico appaltatore. Ad esempio la polizza di incanto per il sestiere di S. Polo prevedeva per l’appaltatore — che doveva in aggiunta depositare una cauzione — l’obbligo di restaurare «tutti i ponti sì di pietra che di legname» (rispettivamente venticinque e quattro), oltre che tutte le pubbliche strade, cioè calli, corti, campielli, «gattoli», che servivano per lo scolo dell’acqua piovana nei canali contigui (58).
L’illuminazione della città cadde decisamente sotto il controllo pubblico, superando da un lato alcuni limiti urbanistici, che avevano caratterizzato il periodo precedente (l’illuminazione dei soli sestieri più centrali), dall’altro abbattendo il privilegio che aveva permesso sino a questo secolo solo ai ceti sociali più abbienti l’uso di accompagnatori (i «codega») per rischiarare le calli più buie. In effetti, se lanterne rimanevano accese sino alle quattro di notte nell’area di Rialto — e questo sin dalla metà del Quattrocento — gran parte della città rimaneva affidata ai «codega» e ai loro padroni. E ciò non poteva non favorire aggressioni e pericoli, per quanto Venezia non avesse fama di essere una città insicura (59).
Nel 1719 i bottegai incominciarono a tenere accesa una lanterna al di fuori delle loro botteghe, mentre alcune calli apparivano rischiarate da un lanternino. Dal 1732 era decretata l’illuminazione di tutta la città, alla quale avrebbero dovuto contribuire peraltro tutti gli utenti. Le lanterne, alimentate ad olio, il quale non mancava certo a Venezia, per tutta una serie di usi (60), sarebbero state a cinque vetri, quattro laterali e uno di base, così da permettere l’illuminazione della strada sottostante. Un altro viaggiatore avrebbe avuto modo di osservare (l’abate Coyer nel 1763) che le vie erano bene illuminate a Venezia, «ce qui n’est pas commun en Italie». Il «codega» sarebbe stato, se non definitivamente sostituito, almeno accompagnato dall’«impizzaferaio», il lumaio pubblico (60).
Una popolazione numerosa (anche se pressoché stagnante), il miglioramento delle condizioni di vita e l’incremento dei consumi provocavano a Venezia, come nelle altre città europee, un fenomeno che si sarebbe aggravato nel tempo e che non avrebbe mancato di imporre soluzioni nuove e in ogni caso difficilmente gestibili: l’accumulo e lo smaltimento dei rifiuti. Non si diceva forse di Parigi che, certo, la città rappresentava «le centre des sciences, des arts, des modes et du goût», ma anche «le centre de la puanteur» (62)? In effetti, ad evitare simili conseguenze, le città settecentesche non dovettero solo espellere i rifiuti urbani di una popolazione che durante il XVII e il XVIII secolo, esaltò il concetto di «conspicuous consumption» (63), bensì dovettero debellare i miasmi che si levavano da fognature a cielo aperto, da canali maleodoranti, da immondezzai fuori controllo, da mattatoi troppo vicini alle abitazioni. Risultava sempre più necessario impedire l’ammorbamento dell’aria provocato da lavorazioni artigianali inquinanti, da ospedali, da prigioni, da cimiteri urbani sovrappopolati. L’ultimo quarto di secolo avrebbe visto incrementare notevolmente gli interventi legislativi in questa direzione e in tutta Europa (64).
Problemi di non poco conto poneva a Venezia lo smaltimento dei rifiuti urbani, oltre che apparirci alquanto primitivo e antigienico. Né sembra che i tentativi volti a migliorarlo raggiungessero dei risultati di rilievo. All’inizio del secolo era il sistema di ammassare i rifiuti domestici in alcune aree della città, negli angoli dei campi più spaziosi, le cosiddette «caselle», ad essere seguito dalle autorità competenti (provveditori alla sanità, savi ed esecutori alle acque, provveditori di comun). Nel 1724 i savi registravano trentadue «caselle», distribuite in tutta la città, alcune in condizioni deprecabili, ma altre, commentavano i magistrati, forse in modo troppo ottimistico, «in stato perfetto» (65). In seguito le «caselle» si erano ridotte a ventotto e, alla fine del secolo, nel 1790, a solo undici (66). Fra queste due date limite la situazione andò degradandosi progressivamente (67). Tommaso Temanza denunciava come ormai le «scoazzere», questa antica forma di raccolta dei rifiuti, non funzionassero più e rappresentassero solo dei focolai di infezione dannosi alla salute. Tanto valeva chiuderne alcune, concentrando le proprie cure sulle altre, visto che molti Veneziani ricorrevano sempre più frequentemente a dei Chioggiotti che, passando casa per casa, li liberavano dei loro rifiuti (68). Oppure, ultima e negligente risorsa dei Veneziani, tutto andava a scaricarsi nei canali, i quali rimanevano ostruiti dall’accumulo di immondizie, aumentando così le loro esalazioni pestilenziali (69). I magistrati erano costretti a ribadire che dalle finestre non si dovessero gettare né acqua sporca né immondizie. Altro fenomeno, non meno stigmatizzato, era quello rappresentato dai resti della macellazione, che venivano gettati senza cura alcuna lungo le fondamenta, come accadeva con un mattatoio che sorgeva vicino alla Riva degli Schiavoni, alla fine peraltro allontanato definitivamente (70).
Non sembra dunque che l’aver affidato a degli appaltatori privati il compito di raccogliere i rifiuti, nonché di tenere sgombri tombini e fognature, con lo scopo ultimo di chiudere definitivamente le «caselle pubbliche», risolvesse l’annoso problema (71). I parroci, che dovevano informare i savi, se ne lamentavano apertamente (72). D’altro canto l’appaltatore si difendeva argomentando, spostando, a dire il vero, i termini del problema, che in base al contratto sottoscritto a suo tempo con le autorità era tenuto a trasportare i rifiuti urbani, ma non ogni sorta di materiale, come ad esempio i calcinacci, che invece venivano ad ammassarsi nei luoghi destinati alla raccolta delle immondizie (73).
Le scorie di alcune produzioni manifatturiere non preoccupavano in misura minore. Vero è infatti che Venezia a partire dalla fine del Cinquecento aveva convertito la sua economia industriale, limitandosi a quelle produzioni che avessero un minor impatto ambientale (74). Tuttavia lavorazioni chimico-industriali di una certa complessità continuarono ad essere svolte nel centro storico, a fronte di una domanda urbana che imponeva prodotti alla moda nei più diversi settori, i quali vennero moltiplicandosi nel corso del Settecento, conoscendo innovazioni tecnologiche anche di rilievo. Si pensi alla lavorazione del vetro, della cera, dei saponi, delle scarpe, dei pettini d’osso, di balena e di elefante, delle miscele frigorifere con tutto il loro strascico di sostanze inquinanti. Su queste ultime vegliavano tradizionalmente le magistrature, concedendo esse di volta in volta le opportune autorizzazioni, bilanciando le loro decisioni tra le esigenze di carattere economico — necessità di sostenere la produzione manifatturiera in città — e le considerazioni di carattere ambientale, che non erano assenti e anzi ci appaiono meritevoli nel giudizio storico che dobbiamo esprimere. Ad esempio l’attività dei fonditori di piombo, a S. Lio e presso la chiesa di S. Agostino, non poteva certo essere soppressa, per quanto delicata: si imponevano quindi stretti controlli, soprattutto quanto a tempi di lavorazione, limitando questi ultimi alle ore notturne (75). I magistrati chiedevano, con molto impegno, a medici e speziali se il sublimato (di mercurio), lavorato a vasi chiusi, come avveniva nella fabbrica Bianchi, arrecasse o no danno alla salute degli abitanti vicini (76). Precedentemente, alla fine del Seicento, ci si era chiesti se le scorie della lavorazione dell’osso di balena non fossero egualmente pregiudizievoli all’ambiente urbano (77). Con maggiore decisione si vietava l’uso del carbon fossile che proveniva dall’isola di Pago, sia a Venezia che nel resto dello Stato (78). Mentre i laboratori che avessero iniziato nuove produzioni a base di triaca e di mitridati, composti dalle molteplici utilizzazioni, guardati con crescente sospetto dai magistrati, avrebbero dovuto esporre un’insegna che li distinguesse dai precedenti (79).
La lavorazione della cera, del sapone, la tintoria stessa, svolte tradizionalmente in città, con una ricaduta non indifferente sull’economia urbana, esigevano una regolamentazione non meno severa. Relegate alla Giudecca e al Lido le colorazioni più pesanti, ad evitare l’inquinamento delle acque, non per questo la tintoria cessò di essere praticata nel centro della città, come testimoniano i periodici interventi delle magistrature (80). Cere e saponi, ultime voci delle esportazioni veneziane ancora fiorenti nel corso del Settecento, imponevano un complesso processo di purgatura, utilizzando a tal fine l’acqua dei canali. Non a caso si era ricorso, lungo il canale della Carbonera, dirimpetto al Lazzaretto nuovo, alla cosiddetta «cavana delle cere», dove le cere rimanevano sommerse sino a che non fossero completamente purgate. Un processo simile si seguiva per i saponi, profondità dei canali permettendo — circostanza che non sempre si verificava —, obbligando di conseguenza i magistrati a scavarli periodicamente (81).
Sempre nell’acqua dei canali erano immerse le cere, ma anche le spugne, per almeno quarantott’ore, nel momento in cui erano considerate merci infette e sospette, in quanto trasportate da navi obbligate a restare al largo dalla città in quarantena. In tal senso l’acqua, se rappresentava l’elemento naturale attraverso cui si propagavano malattie e pestilenze, costituiva allo stesso tempo lo sbarramento fisico naturale al diffondersi delle stesse. Eguale funzione svolgeva l’aria, nel momento in cui lane, cotoni, lini e gli altri filati e tessuti, nonché pelli, parrucche, penne, feltri, coperte, libri, carta, cartapecora erano esposte all’aria aperta, sino a quaranta giorni, per una completa disinfestazione (82).
I canali ancora, da tempo immemorabile, difendevano la comunità degli uomini sani dagli appestati, dai malati cronici, dai pazzi. L’esistenza delle numerose isole in laguna aveva offerto una preziosa opportunità alle autorità di relegarvi i lebbrosi (nell’isola di S. Lazzaro, sin dal 1262) o gli appestati (dal 1423 nell’isola in cui sorgeva il convento di S. Maria di Nazareth, il quale avrebbe trasmesso alle lingue europee il termine stesso, spurio, di «lazzaretto»). Quest’ultima isola sarebbe divenuta il Lazzaretto vecchio, distinguendola dal Lazzaretto nuovo, che sarebbe stato organizzato alcuni decenni più tardi, nel 1468, in un’altra isola posta di fronte a S. Erasmo, sino ad allora chiamata «Vigna murata». In tale dilatarsi e moltiplicarsi degli spazi preposti ad accogliere gli ammalati di peste, si è voluto dunque proporre un legame tra l’evoluzione della malattia e le strutture ospedaliere. Non è un caso perciò che nel momento in cui la lebbra scompariva gradualmente dall’Europa, non costituendo più il pericolo immanente di un tempo, il governo veneziano decideva di reinserire nel contesto urbano l’antico lebbrosario eretto nell’isola di S. Lazzaro, convertendolo in una nuova struttura destinata ad accogliere i mendicanti (83). I Lazzaretti vecchio e nuovo avrebbero continuato invece a svolgere la loro tradizionale opera di prevenzione, almeno formalmente, sebbene la stessa peste nel corso del Settecento cessasse di essere un male endemico. In effetti, alleggerendosi la pressione sanitaria, trasferendosi «l’anatomia della peste e del contagio [...] nella dimensione e nelle misure preventive della città igienistica», il Lazzaretto nuovo sarebbe stato oggetto di un’attenzione minore da parte delle autorità, le quali non avrebbero effettuato con la solita diligenza le opere di manutenzione e di restauro dei locali, né lo scavo dei canali che circondavano l’isola, sempre più impantanati e mefitici (84).
Non per questo si guardò con non minore preoccupazione durante il Settecento ad altri pericoli, come quelli rappresentati dai possibili contagi provocati dalla presenza di cadaveri e sepolture in città. Indubbiamente la sensibilità veneziana partecipava al movimento di idee e all’immaginario collettivo che si esprimeva in Francia come nel resto d’Europa e che vedeva in «cimetières, hôpitaux, prisons, tueries, autant de sources de contagion qu’il convenait d’exiler de la cité» (85). Inoltre, se le teorie miasmatiche guardavano al ruolo svolto dall’aria malsana, dagli odori e dalla putredine nella diffusione delle malattie, dall’altro esse si coniugavano alla volontà di rimuovere l’immagine stessa della morte e della malattia dallo spazio urbano. Ipotesi minima, se proprio questi edifici dovevano rimanere all’interno delle mura urbane, si auspicava di estendere gli spazi che separavano le abitazioni dagli stessi, anteponendo questi interventi, nella gerarchia delle preoccupazioni igieniche, alle tradizionali cure rivolte agli interni delle stesse abitazioni (86). E se non si può essere sicuri che a Venezia l’elevata concentrazione urbana permettesse una distanza ottimale tra un edificio e l’altro, è anche vero che le numerose isole favorirono un decentramento igienico-sanitario persino ideale.
L’analisi della purezza dell’aria divenne altrettanto fondamentale negli studi di igiene urbana, i quali venivano a superare le concezioni mediche di origine ippocratica, legate a una genesi fisico-umana della malattia, e si aprivano a considerazioni che guardavano al ruolo dell’ambiente, del suolo, delle acque, del clima (87). Grazie agli studi di Marsilio Landriani, Felice Fontana e Alessandro Volta, si misero a punto strumenti scientifici in grado di misurare la composizione chimica dell’aria in luoghi diversi: lo stesso Landriani formulò il nome della nuova scienza, l’eudiometria (88).
Fu su queste basi, scientifiche e culturali, che i miasmi che si levavano dai corpi in putrefazione non potevano non destare serie preoccupazioni in quanti già consideravano intollerabili «les exhalations que fournit une classe d’êtres animés par rapport à une autre, [...] les vapeurs de leurs immondices jointes aux miasmes variés [...] que fournissent les arts et métiers qu’on exerce dans les villes» (89). E se nel caso di Parigi questo movimento di pensiero sarebbe sfociato nella chiusura del Cimitero degli Innocenti nel centro della città, tra il 1785 e il 1787, e nel suo definitivo trasferimento al di fuori della cerchia urbana (90), nel caso di Venezia si sarebbe giunti, durante il periodo napoleonico, alla concentrazione della maggior parte delle tombe e sepolcri in un cimitero di maggiori dimensioni, creato nell’isola di S. Michele. Sino ad allora la politica seguita era stata quella di distribuire le sepolture nelle arche delle chiese veneziane e in una serie di cimiteri (nel 1791 erano quattro i cimiteri più estesi in città) (91).
Fu con questo spirito che la Repubblica attese per tutto il secolo a un’opera, le sepolture, che rinviava a tutta una serie di valori, di politiche culturali e di visioni della morte che conoscevano in questo secolo dei mutamenti di rilievo (92). Le varie comunità trovavano nelle isole della laguna un loro spazio, a suggello dello spirito tollerante e cosmopolitico della Repubblica. Sin dal 1386 ad esempio era stato concesso agli Ebrei un tratto di terreno a S. Nicolò del Lido per la sepoltura dei loro correligionari, destinato ad estendersi ulteriormente nei secoli successivi (93). Nel 1764 parte del Lazzaretto nuovo venne disposto ad area preposta ad accogliere i resti di persone decedute a Venezia ma originarie dei Cantoni barbareschi. Il decretato cimitero, per quanto di non grande estensione, sarebbe dovuto sorgere a non grande distanza dall’area dove venivano tumulati i Turchi (94).
Un corpo di funzionari e delle maestranze specifiche vegliavano a tali compiti. Dal 1738 un proto dei provveditori alla sanità avrebbe controllato le tombe presenti nelle chiese e nei cimiteri. Gli scopacamini avrebbero vuotato le fosse biologiche, mentre i pizzigamorti (i monatti), tre, sempre alle dipendenze dei provveditori, andavano raccogliendo corpi e oggetti infetti in tempo di peste (95). Né le funzioni del personale sanitario si limitavano alle situazioni eccezionali. Anzi, durante il Settecento, a causa del rarefarsi delle grandi pestilenze, si misero in campo delle strategie sanitarie più complesse, miranti a porre sotto controllo un più ampio spettro di malattie e a intervenire in misura più articolata negli interstizi della società. Un’intensa campagna di prevenzione contro il vaiolo (il quale com’è noto si sostituì nel corso del Settecento alle tradizionali pestilenze) (96) era stata ad esempio intrapresa da parte del governo veneziano nel 1768, a seguito della recrudescenza di quella epidemia: ben 582 decessi erano stati registrati nel 1763. Il problema delle morti per annegamento era all’ordine del giorno, colpendo tali sciagure l’immaginario collettivo molto più dei condannati a morte, delle persone incarcerate o degli appestati (97).
Correlato logico, si guardava agli intrecci che esistevano tra la difesa della salute pubblica e il controllo della popolazione urbana nel quadro di una problematica complessiva che includesse il computo della popolazione (le anagrafi divennero molto più elaborate rispetto al passato), oltre che la lotta contro la mendicità, il vagabondaggio, la criminalità, la pazzia. Era in questo quadro che il senato nel 1703, di fronte al problema dei molti giovani che risultavano privi di ogni assistenza ed educazione, incaricava i provveditori alla sanità di occuparsi del loro impiego sulle navi dello Stato (98). D’altro canto, solo due anni dopo, lo stesso senato doveva ammettere che il disarmo di molte pubbliche galere aveva fatto aumentare il numero degli inabili e dei galeotti (99). Ancora una volta sarebbero dovuti intervenire i provveditori alla sanità, i quali rappresentavano l’istituzione chiave su cui gravavano molteplici compiti. Non ultimo risultava quello di sorvegliare coloro che per motivi mentali e sociali si escludevano, o dovevano essere esclusi, dalla comunità. Ancora una volta era l’acqua a coadiuvare le autorità in quest’opera di scissione tra malattia e igiene pubblica, tra sani e pazzi, tra mendicanti-vagabondi e cittadini inseriti nel mercato del lavoro. Nel caso dei folli una sorta di nave fantasma, la pubblica fusta, perennemente ormeggiata di fronte al palazzo Ducale, come sospesa nel tempo e nello spazio, garantiva «l’emarginazione punitiva dei comportamenti devianti» (100). Doveva esserci tuttavia un che di macabro compiacimento nel collocare tale triste carico proprio nel bel mezzo del bacino di S. Marco. Ma tant’è: non costituivano le esecuzioni, per le folle dell’Ancien Régime, un momento giocoso a cui non rinunciare?(101)
Elemento naturale alle basi delle fortune economico-commerciali della città, strettamente intrecciato al concetto stesso di civiltà veneziana, l’acqua non mancava di offrire una serie di contraddizioni e di problematiche che accompagnarono la vita in laguna. Probabilmente nulla di meglio della famosa espressione di Marin Sanudo «Veniexia è in acqua et non ha aqua» (102) dipinge quella particolare situazione di una città commerciale, che vive del suo mare ma che necessita al contempo di assicurarsi un approvvigionamento idrico sufficiente, indispensabile a sostenere le proprie attività economiche e lo stesso sviluppo urbano e demografico.
Come giudizio storico conclusivo si può dire che la città riuscì in questo intento, mettendo a punto una serie di misure che le permisero di avere molto presto la sua acqua. Esse erano incentrate sostanzialmente sull’impiego dei pozzi «alla veneziana», che raccoglievano l’acqua pluviale, integrati ben presto dall’apporto dell’acqua dolce che giungeva dal Brenta. I pozzi «erano costituiti fondamentalmente da una vasca ripiena di sabbia», con al centro un condotto, la canna, «nella quale filtrava l’acqua piovana» (103). È facilmente immaginabile che un sistema di approvvigionamento idrico siffatto, relativamente semplice ma allo stesso tempo delicato, si fondava su un’attenta sorveglianza, svolta da tutta una serie di artigiani che si specializzarono nella costruzione e manutenzione delle diverse parti costituenti il pozzo. Il sistema di protezione sia della vasca che della canna, considerato che esso doveva impedire sia le infiltrazioni di acqua marina che le perdite di acqua dolce ivi depositatasi, costituiva fonte di continue preoccupazioni per il personale tecnico-amministrativo. In particolare era necessario assicurarsi che uno spesso strato di argilla, anche di mezzo metro, agisse in modo efficace come isolante evitando che l’argilla si disperdesse, lasciando così penetrare l’acqua salata, o si frantumasse a causa dell’eccessivo calore, come avveniva durante l’estate, causando la fuoriuscita dell’acqua dolce raccoltasi. In quest’ultimo caso si interveniva immettendo direttamente nel pozzo altra acqua, trasportata dai vicini corsi d’acqua di Terraferma, integrandone il livello. Molto più grave risultava l’invasione di acqua salata nel pozzo, a causa dell’innalzamento dell’acqua della laguna o della perdita di capacità isolante dell’argilla (104).
Non è un caso quindi che la cronachistica tramandataci dagli archivi amministrativi di provveditori alla sanità, provveditori di comun e capi-contrada (i primi erano preposti agli aspetti igienico-sanitari, i secondi a quelli tecnico-edilizi, gli ultimi vegliavano sulle «due aperture giornaliere, segnalandole al suono della campana», custodendo non solo simbolicamente le chiavi dei coperchi (105)) riflettesse la diuturna preoccupazione di sorvegliare scrupolosamente la manutenzione dei pozzi. Quest’ultima garantiva sia il rifacimento «delle crete» che della canna, sia del selciato — nel momento in cui l’acqua piovana non scivolava più spontaneamente verso il pozzo — che delle pietre vive necessarie alla costruzione delle vere da pozzo. Scrivevano in proposito i provveditori di comun nel 1768: «occorrerebbe ancora obbligare i Padri di Lispida [nel Padovano] a non fornire le pietre che per pubblico servizio», al fine di impedire che una struttura fondamentale come il pozzo avesse da soffrire della mancanza di un materiale, la pietra di Lispida, che in quei decenni non era meno apprezzata, per la sua durezza ed efficacia, della tradizionale pietra d’Istria (106).
Tuttavia, sin dagli inizi del XIV secolo, il comune veneziano avvertì l’urgenza di allargare le proprie fonti di approvvigionamento idrico, integrando il sistema dei pozzi, il quale manifestamente rivelava i propri limiti. A tal fine si cercò di accertare quale dei vicini corsi d’acqua in Terraferma avrebbe potuto rispondere al meglio a tali esigenze, la scelta cadendo in un primo tempo sul Bottenigo, in seguito, con sempre maggiore convincimento, sul Brenta. Com’è noto non si volle prendere in considerazione il progetto di approntare un vero e proprio acquedotto, pena una pericolosa dipendenza dallo stesso durante un ipotetico assedio armato. Alla fine, dopo ripetuti tentativi, i lavori definitivi furono portati a compimento nel 1611, ricavando dal Brenta un canale specifico, deputato a fornire l’acqua dolce alla città, la Seriola. Questa scelta non avrebbe mancato di far sentire i suoi effetti positivi, permettendo a Venezia di contare su quantità maggiori di acqua dolce proveniente dalla Terraferma. In effetti, se agli inizi del Cinquecento l’acqua immessa nei pozzi e portata dalla Seriola assommava a circa il 20% dell’acqua disponibile a Venezia, nel Settecento si è calcolato che tale percentuale fosse salita a un terzo del totale (107). Una flottiglia di burchi assicurava il trasporto in città: sul finire del Settecento sedici-diciassette burchi, carichi ognuno di duecentoquaranta mastelli, facevano ogni giorno la spola tra la Seriola e il centro urbano. Gli stessi burchieri da acqua o acquaroli si erano costituiti in Arte sin dal 1471, ed erano stati coinvolti dal governo veneziano nella sorveglianza dei pozzi pubblici, ad evitare prelievi abusivi (108).
Gli stessi consumi e controllo dell’acqua all’interno della città obbedivano a un regime misto. Da un lato lo Stato interveniva nel garantire delle quantità minime nella distribuzione dell’acqua a tutti i ceti sociali, nonché agli istituti ospedalieri e caritativi della città. A questa volontà regolatrice non sfuggivano neppure gli Ebrei, ai quali si impediva di acquistare l’acqua portata eventualmente «a bigollo» all’interno del Ghetto: lo Stato come corrispettivo si impegnava a tenere i pozzi sempre funzionanti (109). D’altro lato l’esistenza di un settore privato, con i vari pozzi gestiti dalle singole famiglie, assicurava una buona tenuta del sistema. In effetti si erano contati nel 1795 ben 5.800 pozzi privati contro solo 157 cisterne pubbliche, con un incremento di circa il 50% rispetto al potenziale sia privato che pubblico della Venezia di primo Cinquecento (110). In incremento anche le disponibilità idriche annue totali, che salirono a circa 340.000 mc alla fine del Settecento, contro i circa 200.000-220.000 mc dell’inizio del Cinquecento (111). È vero anche che i magistrati non cessarono per tutto il Settecento di favorire la costruzione di nuovi pozzi e di curare la manutenzione degli esistenti, per quanto si trattasse pur sempre di una struttura (i pozzi) estremamente vulnerabile, sottratta al degrado grazie ad interventi continui e impegnativi sotto il profilo finanziario. Nel 1711 ad esempio il senato decideva uno stanziamento straordinario di 500 ducati «a sollievo della povertà», considerata la cattiva tenuta di molti pozzi (112). Sulla base delle indicazioni dei provveditori alla sanità il senato stimava nel 1768 che su 124 pozzi sparsi nelle diverse contrade solo 47 potevano considerarsi perfettamente funzionanti, altri risultavano passabili e 36 apparivano strutturalmente mal ridotti. L’urgenza del problema spinse verso la convocazione di una apposita conferenza, ma i problemi rimasero (113). Nel 1792 a causa dell’escrescenza dell’acqua salata i pozzi di S. Antonino, S. Lio, S. Felice e S. Margherita non furono più in grado di fornire acqua dolce agli abitanti di quelle parrocchie (114). Nel 1795 si metteva in rilievo come fosse necessario procedere per alcuni pozzi a un loro totale riattamento, non essendo più in grado di far fronte alle tracimazioni dell’acqua salata (115).
In effetti, se guardiamo al consumo pro capite giornaliero esso era aumentato di solo un litro nell’arco cronologico che va dall’inizio del Cinquecento alla fine del Settecento: 6,8 contro 5-6 litri (116). È vero d’altra parte che tale cifra va riferita a una media calcolata sui consumi totali, i quali, se tengono in conto la distinzione che esisteva tra pozzi privati e cisterne pubbliche, ci dipingono una realtà alquanto diversa. Per quanto sia questo un dato indicativo, si è calcolato che la parte più affluente della popolazione veneziana potesse godere di ben 12-13 litri d’acqua al giorno, mentre le fasce sociali meno abbienti dovevano limitarsi a un solo litro e mezzo nell’arco di una giornata(’";). Sembra dunque legittimo concludere che il mancato allargamento dei consumi in termini popolari continuasse a fare dell’acqua un bene raro e limitato, di cui si doveva disporre con parsimonia, soprattutto per scopi igienici e usi personali. Le tecniche, che sostennero l’organizzazione sociale data, oltre ai limiti dell’ambiente e dello stesso sviluppo scientifico-tecnologico, non permisero alla fin fine l’avvio di un’autentica trasformazione sociale e urbanistica che si differenziasse da quella che caratterizzò l’Ancien Régime. Per tutto questo si dovette attendere l’Ottocento e sinanco il Novecento, allorquando venne approntato un acquedotto moderno. Ma se si guarda a questa problematica in una prospettiva più ampia, ci si accorge che non erano poche le città europee che si dibattevano nelle stesse difficoltà. Marsiglia ad esempio, che si assicurò il proprio approvvigionamento idrico scavando un canale dalla Durance solamente nell’Ottocento, dopo un lungo travaglio politico e ingegneristico, rappresentò un caso paradigmatico, ma non fu il solo (118). Sotto il profilo opposto la grande espansione urbanistica e demografica di città come Parigi e Londra fu resa possibile proprio dopo aver approntato un sistema idrico adeguato (119).
Non meno complessa e continua risultò l’azione nella direzione opposta, vale a dire la difesa della città dall’acqua, lotta che si estrinsecò almeno in tre direzioni diverse. Da un lato si dovette assicurare la tenuta dei canali interni e dei fondali lagunari dalla minaccia incombente rappresentata dal fango e dai detriti alluvionali. Agli occhi dei Veneziani il declino commerciale di un porto come Anversa, fra Sei e Settecento, provocato dalle mancate opere di scavo del letto della Schelda, per le note vicende politiche e rivalità tra Paesi Bassi del Nord e del Sud, doveva apparire una sciagura da evitarsi a ogni costo e pur sempre incombente. Seconda direttrice erano le bocche di porto, attraverso le quali penetrava il flusso commerciale, e i cordoni sabbiosi, che delimitavano la laguna, a dover essere protetti dall’azione del mare. Infine, sulle tracce della politica idraulica generale, intrapresa con decisione nei primi decenni del Cinquecento, si doveva conservare il confine preciso tra l’area lagunare vera e propria, soggetta al normale gioco delle maree, e quelle attività economiche e agricole che potevano mettere a repentaglio il fragile equilibrio lagunare. La «conterminazione» della laguna — la costruzione cioè di una lunga barriera protettiva, costituita sia da un lungo argine che da una serie di canali e alvei naturali che si succedevano gli uni agli altri, e che andavano dalla laguna di Chioggia a quella settentrionale — aveva rappresentato la realizzazione di quest’ultima finalità. Era stato il taglio della Brenta novissima a condurre a una più precisa delimitazione degli incerti spazi terra-acqua, fissando come inalterabile il confine della laguna sull’argine sinistro della Brenta novissima. I lavori, iniziati nel 1610, si sarebbero prolungati per circa due secoli, a causa della complessità dei problemi che il governo veneziano dovette di volta in volta affrontare, concludendosi solo nel 1783 (120). Caricandosi la conterminazione di molteplici significati economici, essa avrebbe riflettuto il perenne contrasto tra interessi agricoli e salvaguardia degli spazi acquei, oltre che i conflitti che potevano accendersi con altre attività economiche, come la pesca o la raccolta di erbe e canne palustri. Le stesse barene (quelle parti del fondo marino che emergevano periodicamente nei momenti di bassa marea) sarebbero state interdette a ogni coltivazione, temporanea che fosse (121). Né meno avrebbero avuto a soffrire i proprietari coltivatori — già danneggiati dalla sottrazione di terreni sino ad allora adibiti agli usi agricoli — per la chiusura dei canali di scolo che gravitavano sulla laguna, e per l’eccesso di salinità dei suoli conseguente all’allontanamento delle acque dolci.
La lotta mossa da tempo a ogni forma di interramento della laguna — bonifiche, saline, erezione di mulini (122) — se trovava in tal modo una più serrata organicità, si accompagnava tuttavia a una serie di contrasti economici con proprietari, valligiani, pescatori danneggiati da tali interventi. L’azione pubblica riuscì di norma ad aver ragione degli interessi particolari, per quanto non mancassero nella legislazione di preservazione alcuni elementi di apertura. Possibilità di deroga erano in effetti sempre concesse, per cui «usi normalmente vietati potevano essere consentiti o non [...] a seconda delle situazioni concrete», salvo il principio che non si impedisse il «libero movimento delle acque. Emblematico è, al riguardo, il caso della chiusura delle valli da pesca consentita o negata in modo differenziato nelle diverse zone della laguna» (123).
Ciò spiega perché continuassero i colpi di mano — brecce negli argini, irregolarità nella conduzione dei fanghi (124) — a causa di quella che era definita la «malizia dei privati», non sempre disponibili a riconoscere l’interesse generale (125). Quest’ultimo continuò comunque ad essere difeso da una classe dirigente che espresse, secondo una interpretazione, una capacità di governo super partes oppure, secondo un’altra lettura, la capacità di salvaguardare i propri stessi interessi di ceto, difesi anche da un non meno necessario equilibrio ambientale-territoriale.
Non meno difficili e costosi apparivano gli interventi atti ad assicurare una manutenzione ordinaria. Tommaso Temanza ricordava ai savi, nel 1746, come le porte erette quindici anni prima e che servivano ad impedire l’afflusso dell’acqua dolce al di là della linea di conterminazione (quella che i Veneziani chiamavano il Bondante) risultassero in «grande rovina, tanto che non potevano più chiudersi» (126). Nel 1788 si preventivava una spesa di 8.000 ducati per ovviare agli ultimi danni inferti all’arginamento lagunare. Il fatto è che il Bondante appariva sempre più la chiave di volta degli equilibri lagunari, una linea di frontiera delicata e complessa da difendere con il massimo impegno dai mille pericoli che la minacciavano. In effetti, gli scavi effettuati in tutto il bacino lagunare ponevano il grave e periodico problema di dove depositare il fango estratto. A nulla infatti sarebbero valse tali costose operazioni (troppo spesso ci si lamentava della trascuratezza con cui si depositavano i fanghi) se dopo il materiale fosse riprecipitato in laguna. A metà Settecento sembra che ben sessanta burchi potessero raggiungere contemporaneamente il Bondante (con la corrente di marea favorevole). Tuttavia, poiché il trasporto pesava non poco sulle casse del magistrato oppure risultava oggettivamente difficoltoso — come accadeva allorquando la laguna si ghiacciava —, ci si poneva il problema di dove reperire località alternative e adeguate ad accogliere il fango di risulta (127). Solitamente quest’ultimo era depositato alla punta di S. Antonio, a Castello, località strategica perché le navi lo potevano in tal modo prelevare come zavorra (128), per quanto la vicinanza al popoloso sestiere di Castello avesse destato qualche preoccupazione agli inizi del secolo (129). Tuttavia la ricerca di nuovi spazi da destinare a discarica era divenuta così urgente, che si giungeva a sottoscrivere dei contratti particolari con dei singoli proprietari, purché accogliessero sul loro terreno quel materiale ingombrante (130). Nel 1779, nel momento in cui si era proceduto allo scavo del canale che conduceva all’isola di S. Adriano, impiegata come cimitero, si decideva di distendere il fango sull’isola stessa, allo scopo di risparmiare sui costi di trasporto, che sarebbero risultati maggiori rispetto alle stesse operazioni di scavo (131). Ragioni igieniche e la preoccupazione di non aggravare ulteriormente condizioni sanitarie già precarie rendevano questa problematica ancor più complessa. Lamentele continue si levavano in proposito dai diversi sestieri della città, dalla Giudecca alla Riva degli Schiavoni, da Castello a S. Lazzaro e Mendicanti, per le esalazioni «insopportabili e fetide» (132). Ma erano le isole, come S. Erasmo e soprattutto il Lido e Malamocco, ad apparire particolarmente esposte, essendovi scaricati sempre più spesso i fanghi scavati in città (133). I militari dislocati al Lido oltre che gli abitanti stessi ne avevano a soffrire (134). Ancor più drammatica la situazione a Malamocco, in quanto solo raramente — annotavano i magistrati nel 1767 — i canali apparivano ricoperti d’acqua. Il protomedico dipingeva una realtà duramente segnata sotto il profilo sanitario e direttamente riconducibile alle condizioni ambientali e dei canali in particolar modo. Vi si scatenavano non a caso «epidemie di morbi putredinosi e maligni», che provocavano numerosi decessi nello spazio di pochi giorni, tanto che nella parrocchia di Malamocco la popolazione si era ridotta di ben un terzo (da mille-cinquecento abitanti a soli mille) (135).
Gli abitanti dell’intero comprensorio lagunare d’altro canto, se da un lato non risultavano trascurati dagli organi di governo che legiferavano in questa materia, dall’altro venivano coinvolti sotto il profilo fiscale a sostenere, almeno in parte, i costi di manutenzione dei canali stessi. Alcune volte tuttavia era il governo a farsene completamente carico, come ad esempio nel 1703, allorquando il senato, nel porre mano allo scavo del rio dei Vetrai a Murano, resosi necessario per ragioni ambientali e sanitarie, riconosceva che quella comunità non era probabilmente in grado di partecipare alle spese contributive, acconsentendo ad accollarsi per intero i costi dell’intervento (136). Nel caso invece di uno scavo coevo che si stava incominciando ad effettuare nella contrada di S. Vio, si deliberava di raddoppiare per il momento la quota contributiva a carico dei riveranei, salvo intervenire in un secondo momento se essi non fossero stati in grado di sopportarne il peso (137). Tassare d’altra parte i proprietari degli immobili che si affacciavano sui canali non appariva sempre operazione scontata né tanto meno facile. Molti cercavano di sfuggire al contributo che avrebbero dovuto versare, tanto che a causa dei «maliziosi raggiri» le casse delle magistrature perdevano la metà dei versamenti che ci si sarebbe attesi (138). A fronte di tali difficoltà finanziarie, che si aggiungevano a quelle ambientali, non desta dunque meraviglia che alcuni canali risultassero talmente insabbiati da non permettere il transito delle merci (139); che i lavori procedessero a rilento; che ci si chiedesse in ogni circostanza quali fossero le soluzioni più vantaggiose; che i magistrati fossero costretti a calcolare sino all’ultimo ducato i costi dell’intervento (140).
Le tecniche risultavano per lo più quelle tradizionali, vale a dire draghe, zattere, badili e una forza lavoro numerosa che rimaneva irrinunciabile. A partire dagli inizi del Seicento lo sguardo era costantemente rivolto a ciò che avveniva in questo campo nei Paesi Bassi, dove andò sviluppandosi «un’industria del fango» che divenne punto di riferimento per gran parte dei paesi europei. Venezia avrebbe confermato in questo la sua tradizionale capacità di assimilare la lezione altrui (tecnologica o legislativa che fosse) e adattarla alle sue proprie esigenze ambientali (141). Tuttavia i canali della città, stretti e tortuosi, non sempre consigliavano l’utilizzazione di draghe eccessivamente sofisticate e ingombranti, azionate da energia animale, in grado certo di raggiungere profondità maggiori rispetto alle semplici zattere e realizzare una più elevata produttività del lavoro, ma al contempo costose per gli scopi che ci si prefiggeva. Negli estesi bassi fondali che circondavano il porto di Amsterdam tali considerazioni andavano evidentemente rovesciate e così il rapporto uomo-macchina, investimenti fissi-economie di scala. Ne conseguiva che se si poteva caldeggiare l’impiego del «pubblico edificio cavafango» (una draga azionata da cavalli) nello scavo del rio dell’Arsenale in occasione del quale si realizzava un exploit di tutto rispetto, anche nei confronti di tanti lavori pubblici contemporanei — riuscendo a ripulire quel canale in soli otto giorni ed estraendo ben trentanove burchi di fango (142), su soluzioni e tecniche più semplici ripiegavano i magistrati in altre situazioni. Nello scavo ad esempio di una pur importante sezione del Canal Grande, il proto alla laguna Matteo Lucchesi suggeriva l’impiego di zattere piuttosto che della draga a cavalli, trattandosi di una profondità limitata a 6 piedi, mentre l’uso dell’edificio pubblico, che raggiungeva profondità anche di 8 piedi, avrebbe fatto lievitare troppo i costi (143).
Fondamentalmente le draghe, specie quelle di dimensioni maggiori, erano costruite e gestite dalle magistrature veneziane e conservate all’Arsenale, il quale godeva del vantaggio di gestire la materia prima di base, il legname da costruzione. Tuttavia appaltatori privati potevano o possedere direttamente o ottenere in concessione dall’Arsenale stesso una o più macchine, sulla base dei vari capitoli d’appalto (144). Approntare un «edificio da fango» significava effettuare un investimento notevole in quanto, come ci informa il poliedrico Tommaso Temanza, occorrevano almeno 3.000 ducati (che potevano peraltro salire, secondo un’altra fonte, anche a 9.000 ducati), mentre altri 3.000 ducati erano necessari per i burchi di appoggio (dodici). Ad ogni modo, poiché una draga poteva essere impiegata, con le opportune riparazioni, anche per sessant’anni, e i burchi venti, l’ammortamento avveniva con relativa facilità, calcolandosi che le entrate lorde potevano raggiungere, pur operando solo sei mesi l’anno, la cifra di 3.000 ducati (145). Peraltro, se il finanziamento degli interventi pubblici avesse conosciuto qualche interruzione, come sembra fosse avvenuto negli anni ’60 del Settecento, eventuali appaltatori-imprenditori potevano trovarsi in gravi difficoltà. Il N.H. Nicolò Bon, che aveva appunto investito 9.000 ducati con altri soci in una draga (la S. Nicolò), non aveva avuto modo di utilizzarla appieno per dieci anni, a causa dell’interruzione dello scavo dei canali, lavori che erano ripartiti solo nel 1773, favorendo alla fine la costruzione di nuovi edifici (146). Tuttavia, la situazione che si registrava ancora due anni dopo non era fra le più rosee. Delle cinque draghe esistenti, tre erano considerate vecchie e due si trovavano in cantiere. Delle più vecchie, quella a cavalli aveva bisogno di riparazioni consistenti (come al «badilone», per il quale solo erano necessari due mesi di lavoro). Delle due draghe in cantiere una, anch’essa a cavalli, richiedeva interventi per non meno di sei mesi di lavoro, mentre l’altra, di più ridotte dimensioni, poteva essere riparata comunque in non meno di quaranta giorni (147).
È possibile che dopo di allora la situazione migliorasse. Ma ciò che ad ogni modo questo capitolo evidenziava, e in parte confermava, erano gli aspetti di una lotta indefessa che i magistrati erano costretti ad ingaggiare contro gli elementi acqua e fango, sempre pronti a riprendere il sopravvento in un ambiente naturale conteso «arbitrariamente» dalle attività umane. In questo confronto i pali disseminati in laguna rappresentavano un altro elemento da cui non si poteva prescindere. Strutture di supporto fondamentali nella navigazione e nella delimitazione delle aree emerse, costituivano altresì un ostacolo al movimento naturale di marea, provocando impaludamenti pericolosi (148). Di qui l’osservazione continua e il conteggio minuzioso dei pali esistenti in laguna (6.835 nel 1779!), con la distinzione minuziosa e puntigliosa tra «nuovi» e «buoni», «passabili» e «inutili», «marciti» e «da ripiantar»: in quest’ultimo caso se ne affidava l’incarico a qualche appaltatore (149).
L’uomo e gli strumenti della politica risultavano ancora una volta vincitori su questo piano, come del resto su quell’altro fronte rappresentato dalle protezioni a mare. Qui giungeva a conclusione tutta una serie di studi e progetti, miranti a porre sotto controllo l’impatto delle mareggiate contro le dighe che proteggevano i lidi veneziani. In questa particolare materia maturava inoltre la crisi energetica per cui il legname fu soppiantato dall’uso sempre più massiccio della pietra, come in effetti avvenne nella costruzione dei murazzi. Sarebbe risultata inoltre l’introduzione di un nuovo tipo di malta, la pozzolana, particolarmente efficace nel consolidare le opere in muratura, la carta vincente nella realizzazione delle nuove dighe. Per quanto concerne il primo punto, osservando l’evoluzione delle tecniche, sotto un profilo largo geograficamente e lungo cronologicamente, si dovrà evidenziare da un lato l’influsso dei paesi dell’Europa del Nord sulle scelte veneziane, dall’altro il numero e la statura degli ingegneri-idraulici che si confrontarono a Venezia con questo problema. Furono dunque le tecniche olandesi e tedesche a cui più si guardò nel momento in cui si progettavano i cosiddetti «murazzi a scarpata dolce»: vedi la proposta di Federico Gualdi nel 1660 (di nazionalità germanica e suddito della Repubblica) oppure i ripari «all’uso di Venezia», progettati da Matteo Alberti nel 1692, sulla base di un confronto diretto con quelli «all’uso d’Olanda» (150). Non aveva forse l’olandese Claeb Rollwagen disegnato per i Köge (polders) della Germania del Nord, già nei primi decenni del Seicento, delle dighe che, declinando molto più dolcemente verso il mare rispetto alle dighe tradizionali, erano in grado di attutire con maggiore efficacia la violenza delle onde (151)? Ma una volta riconosciuto questo debito verso l’estero — che era poi capacità di confrontarsi e trarre vantaggio dalle esperienze degli altri paesi — sarebbero stati tecnici e ingegneri della Repubblica a discutere a lungo sulla forma architettonica migliore da far assumere alle dighe foranee, sulla base delle specifiche caratteristiche dei lidi veneziani. Nella presentazione di materiali e disegni, da cui sarebbe emerso alla fine il progetto di Bernardino Zendrini sui murazzi, si sarebbero in effetti cimentate figure significative quali i proti Francesco Alberti, Domenico Margutti, Angelo Minorelli, il perito Lorenzo Boschetti, l’architetto Andrea Tirali, nonché il famoso geografo Vincenzo Coronelli (152).
Costituiti i murazzi da un imponente muro verticale, alto oltre 4 metri e spesso più di 1, ai cui piedi si stendeva una scarpata che si inclinava dolcemente verso il mare, sarebbero andati a fronteggiare il mare con un’ulteriore protezione, lo «zoccolo», formato da pietre d’Istria, legate tra loro dalla pozzolana. Il legname e le palade — serie di pali conficcati, perpendicolari od obliqui, nel fondo marino a protezione della diga in terra — sarebbero stati abbandonati in favore di pietre e sassi, molto più resistenti nel tempo alla violenza del mare. Questa scelta era dettata dalla penuria di fondo del legname, sempre più frequentemente importato a tal fine dall’estero, ma anche dalla infestazione di bisce di mare che divoravano il legno (fenomeno ed evoluzione simile si registravano in Olanda) (153). Il massiccio impiego della pietra d’Istria, soprattutto nell’erezione dello zoccolo che si opponeva frontalmente al mare, costituiva l’altro elemento di fondo dei nuovi murazzi. Vero è che i sassi di Lispida sarebbero stati usati ancora a lungo — in particolar modo a rinforzo della scarpata che congiungeva il muro verticale allo zoccolo — ma è anche vero che sia l’incremento dei costi di produzione e di trasporto sia la più elevata resistenza delle pietre d’Istria li avrebbero fatti preferire di meno in meno a queste ultime. La scelta decisiva di Bernardino Zendrini in favore della pozzolana, importata dalle regioni italiane centro-meridionali — vincendo l’incredulità di chi non «poteva persuadersi che una tal sabbia potesse formare con la calce, un cemento sì forte da reggere a qualunque urto del mare burrascoso» (154) —, rappresentò l’elemento decisivo nella costruzione dei murazzi. Questi d’altra parte, iniziati nel 1737, vennero completati in tratte saltuarie solo molti decenni dopo: dal 1744 al 1755 il litorale di Pellestrina, per una lunghezza di circa 4.000 metri (nel frattempo, nel 1747, lo Zendrini sarebbe deceduto); altri 1.200 metri si sarebbero aggiunti, nel 1782, lungo il litorale di Chioggia. I rilevamenti, anche alcune modifiche al progetto iniziale — ad esempio l’aggiunta di numerosi «speroni» e pettini posti perpendicolarmente alla diga al fine di frenare vieppiù la violenza delle onde —, videro intervenire altri ingegneri e tecnici di tutto rilievo, come Anton Mario Lorgna, Tommaso Temanza e Pietro Lucchesi, non senza difficoltà peraltro nel reperire i necessari finanziamenti e gli stessi materiali (155). Senza alcun dubbio tuttavia la Repubblica non avrebbe cessato di profondervi energie, intellettuali e finanziarie, vedendo nei murazzi un valore simbolico e monumentale di rilievo.
Proteggendo la città sul versante esterno, costituendo la difesa più efficace e soprattutto più duratura contro la ciclica distruzione delle difese tradizionali, essi rappresentarono il contraltare di quella lotta contro l’acqua che si sviluppò nella laguna vera e propria, concludendo emblematicamente una politica del territorio in cui la Repubblica si contraddistinse.
1. Per una più approfondita analisi di questa problematica, mi sia consentito di rinviare a Salvatore Ciriacono, L’idraulica veneta: scienza, agricoltura e difesa del territorio dalla prima alla seconda rivoluzione scientifica, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 5/II, Il Settecento, Vicenza 1986, pp. 347-378.
2. A.S.V., Archivio Proprio Poleni, b. 11, c. 202, scrittura del 14 settembre 1740.
3. Emanuela Casti-Moreschi, Criteri della politica idraulica veneziana nella sistemazione delle aree forestali (XVI-XVIII sec.), in L’uomo e il fiume, a cura di Romain H. Rainero - Eugenia Bevilacqua - Sante Violante, Milano 1989, p. 22 e n. (pp. 17-24).
4. Carlo Poni, Caratteri della navigazione padana meridionale, in AA.VV., La Salara. Storia di un luogo e di un restauro, Bologna 1995, p. 117 (pp. 111 -121).
5. A.S.V., Sindici Inquisitori in Terraferma, b. 11, scrittura del 23 novembre 1772.
6. Giuseppe Crestani, Le osservazioni meteorologiche, in La laguna di Venezia, I, pt. II, t. 3, a cura di Giovanni Magrini, Venezia 1933, pp. 3-4 (pp. 3-16).
7. Id., I fenomeni meteorologici, ibid., p. 112 (pp. 88-201); Salvatore Ciriacono, Acque e agricoltura. Venezia, l’Olanda e la bonifica europea in età moderna, Milano 19962, pp. 221-222.
8. Emanuela Casti-Moreschi, I boschi lungo la fascia costiera, in Boschi della Serenissima. Storia di un rapporto uomo-ambiente, a cura di Ead. - Elena Zolli, Venezia 1988, pp. 24-25 (pp. 23-32).
9. Vernon L. Scarborough, Introduction a Economic Aspects of Water Management in the Prehispanic World, a cura di Id. - Barry L. Isaac, London-Greenwich (Conn.) 1993, pp. 1-12.
10. Salvatore Ciriacono, Manifatture e mestieri in laguna. Equilibri ambientali e sviluppo economico, in La laguna di Venezia, a cura di Giovanni Caniato - Eugenio Turri - Michele Zanetti, Verona 1995, pp. 356-383.
11. E. Casti-Moreschi, I boschi, p. 23.
12. Si indica nel cosiddetto «Codice Paulini» la manifestazione più consapevole della necessità di proteggere il patrimonio boschivo, soprattutto dagli incendi di carattere doloso (cf. Un codice veneziano del «1600» per le acque e le foreste, a cura di Roberto Cessi - Annibale Alberti, Roma 1934, citato da E. Casti-Moreschi, Criteri della politica idraulica, p. 18 e n.).
13. Ivone Cacciavillani, Le leggi veneziane sul territorio 1471-1789. Boschi, fiumi, bonifiche e irrigazioni, Limena 1984, pp. 108-109.
14. Raffaello Vergani, Le materie prime, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, pp. 287-297 (pp. 285-312); cf. pure.Dai monti alla laguna. Produzione artigianale e artistica del Bellunese per la cantieristica veneziana, a cura di Giovanni Caniato - Michela Dal Borgo, Venezia 1988; Antonio Lazzarini, Movimenti migratori dalle vallate bellunesi fra Settecento e Ottocento, «Archivio Storico di Belluno, Feltre e Cadore», 68, 1997, nr. 298, pp. 57-58 e bibl. (pp. 43-61).
15. E. Casti-Moreschi, I boschi, p. 32.
16. Nicholas F.R. CRAFrs, British Economic Growth During the Industrial Revolution, Oxford 1985; Id. - C. Knick Harley, Output Growth and the British Industrial Revolution: a Restatement of the Crafts-Harley Viezv, «Economic History Review», 45, 1992, pp. 703-730, ma cf pure le osservazioni di Manine Berg - Pat Hudson, Growth and Change: a Comment on the Crafts-Harley View of the Industrial Revolution, ibid., 47, 1994, pp. 147-149.
17. Rinvio su questi temi ai miei contributi: Industria e artigianato, in Storia di Venezia, V, Il Rinascimento, Società ed economia, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1996, pp. 523-592; Venise et la Vénétie dans la transition vers l’industrialisation. A propos des théories de Franklin Mendels, in Proto-industrialisation. Recherches récentes et nouvelles perspectives, a cura di Réné Leboutte, Genève 1996, pp. 291-318.
18. Si veda almeno sotto questo profilo Pat Hudson, The Industrial Revolution, London 19932 e bibl.
19. Fumifugium or the Inconvenience of the Aer and Smoak of London Dissipated Together with some Remedies Humbly Proposed by ]ohn Evelyn, London 1661, p. 16. Le conseguenze nell’utilizzazione del sea-cole, che in Inghilterra era problema di vecchia data, provocavano già nel Seicento un dibattito vivace. La corruzione dell’aria, si diceva, porta allo sviluppo di pestilenze, danni alle corde vocali, oltre che favorire la ribellione sociale (ibid., pp. 1 e 11).
20. Andrea Marini, Discorso sopra l’aere di Venezia e Discorso sopra la laguna di Venezia, in Discorsi, IV, a cura di Alfredo Segarizzi, Venezia 1923, spec. pp. 4-8 e 21-22.
21. Si v., ma sono solo alcuni esempi, Alain Corbin, L’opinion et la politique face aux nuisances industrielles dans la ville prehaussmanienne, «Histoire, Economie et Société», 2, 1983, nr. 1, pp. 111-118; Michel Dorban, Problèmes d’environnement de la qualité de la vie à Virtou au XVIIIe siècle, «Le Pays Gaumois», 38, 1977-1978, pp. 263-266 (pp. 263-277).
22. Bruno Fortier, La politique de l’espace parisien, in Les politiques de l’espace à la fin de l’ancien régime, a cura di Id., Paris 1975, pp. 16-17 e 55. Si tentava di individuare un rapporto diretto, e più preciso di quanto la trattatistica medica aveva fatto sino ad allora, tra le aspettative di vita e l’ambiente naturale nel quale vivevano uomini e donne: Jean-Baptiste Théodore Baumes, Mémoire sur les maladies qui résultent des émanations des eaux stagnantes, Nimes 1789, p. 25.
23. Su questi temi cf. i noti lavori di Michel Foucault, Sorvegliare e punire. Nascita della prigione, Torino 1976, spec. pp. 291-296, e Nascita della clinica, Introduzione di Alessandro Fontana, Torino 1977.
24. B. Fortier, La politique de l’espace parisien, pp. 10-12.
25. Ann F. La Berge, The Early Nineteenth-Centuy French Public Health. The Disciplinary Development and Institutionalization of Hygiène Publique, «Bulletin of the History of Medicine», 58, 1984, nr. 3, p. 379 (pp. 363-379).
26. Blandine Barret-Kriegel, Instances et séquences de la médicalisation de l’espace urbain, in Les politiques de l’espace à la fin de l’ancien régime, a cura di Bruno Fortier, Paris 1975, pp. 153-190.
27. Daniel Friedmann, L’hygiène publique et l’espace urbain, ibid., pp. 251-300.
28. Si v. l’esempio di Digione: Henri Giroux, La «qualité de la vie» à Dijon à la fin du XVIIIe siècle, «Mémoires de l’Académie des Sciences, Arts et Belles-lettres de Dijon», 122, 1973-1975, pp. 131-132 (pp. 131-175).
29. Nelli-Elena Vanzan Marchini, Venezia da laguna a città, Venezia 1985, pp. 77-78. Poiché le fognature, alle quali si collegavano le latrine delle abitazioni private, defluivano direttamente nei canali ed erano poste a un’altezza superiore rispetto alla linea di marea media, conseguentemente ci si affidava alle sole alte maree per l’allontanamento degli scarichi urbani.
30. Ernest L. Sabine, City Cleaning in Medieval London, «Speculum. A Journal of Medieval Studies», 12, 1937, p. 33 (pp. 19-42), ma cf. anche il caso di Périgeux: Arlette Higounet-Nadal, Hygiène, salubrité, pollutions au Moyen Age. L’exemple de Périgeux, «Annales de Démographie Historique», 75, 1975, pp. 81-92. A partire dalla metà del Settecento le strade di Parigi incominciarono ad essere lavate periodicamente: Richard Etlin, L’air dans l’urbanisme des Lumières, in Le sain et le malsain, «Dix-huitième Siècle», 9, 1977, p. 127 (pp. 123-134).
31. Alcune riflessioni in Richard A. Watson - Patty Jo Watson, Marx and Nature. An Anthropological Essay in Human Ecology, New York 1969, p. 17.
32. Come è noto questi primi approfondimenti e la definizione stessa di ecologia sono di Ernst Haeckel (1866). Vorremmo proporre tuttavia con questo saggio una visione dell’ambiente che non lasci ai margini l’impatto ambientale delle attività economiche e sociali di una popolazione data, in questo caso quella veneziana. Su questa tematica, Pour une histoire de l’environnement. Travaux du programme interdisciplinaire de recherche sur l’environnement, a cura di Corinne Beck - Robert Delort, Paris 1993, p. 5; Franklin Thomas, The Environmental Basis of Society. A Study in the History of Sociological Theory, New York-London 19652.
33. Pompeo G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, II, Trieste 1973, p. 214.
34. Giambattista Gallicciolli, Delle memorie venete antiche profane ed ecclesiastiche, I-VIII, Venezia 1795: II, pp. 189, 235, 241-243.
35. Ibid., pp. 190-193. Altre gelate si verificarono nel 1716, 1740, 1758, 1788, mentre il 1794 fu ricordato per il suo lunghissimo inverno.
36. Dario Camuffo, Clima e uomo. Meteorologia e cultura: dai «fulmini» di Giove alle previsioni via satellite, Milano 1990, p. 137. Alle gelate segnalate dal Gallicciolli, Camuffo aggiunge, sulla base di altre indicazioni archivistiche e iconografiche, quelle del 1747 e del 1755, la quale ultima forse coinciderebbe con quella del 1758 registrata dal Gallicciolli (Dario Camuffo, Freezing of the Venetian Lagoon Since the 9th Centuy A.D. in Comparison to the Climate of Western Europe and England, «Climate Change», 10, 1987, pp. 61-63).
37. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, pp. 198-199.
38. Secondo i dati del Beltrami, 137.240 abitanti nel 1797 contro a dire il vero una cifra lievemente superiore registrata nel 1760, 149.476 (Daniele Beltrami, Storia della popolazione di Venezia dalla fine del secolo XVI alla caduta della Repubblica, Padova 1954, p. 59).
39. A.S.V., Provveditori alle beccarie, b. 67, scrittura del 4 agosto 1768.
40. Ibid., b. 2, decreto del senato (copia), 26 maggio 1742.
41. Ibid., b. 66, 27 settembre 1776. Non meno aleatorio risultava contare sulla Terraferma per quanto riguarda il fabbisogno dei dodicimila vitelli necessari alla città.
42. Piero Bevilacqua, Venezia e le acque. Una metafora planetaria, Roma 1995, pp. 46-53 e spec. p. 49.
43. Donatella Calabi, Canali, rive, approdi, in Storia di Venezia, Temi, Il Mare, a cura di Alberto Tenenti - Ugo Tucci, Roma 1991, p. 785 (pp. 761-788).
44. P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, p. 203; G. Gallicciolli, Delle memorie venete, I, pp. 228-230: a mano a mano che le strade venivano lastricate, si proibiva con sempre maggiore severità l’uso del cavallo (nel 1359, se ne era ancora permesso l’uso, ne era però vietata la corsa). Dal 1409 si era proibito l’uso degli zoccoli, per quanto necessari a far fronte alla fanghiglia presente nelle strade.
45. Manlio Brusatin, Venezia nel Settecento: stato, architettura, territorio, Torino 1980, p. 219.
46. Ennio Concina, Venezia nell’età moderna. Struttura e funzioni, Venezia 19942, pp. 193-197.
47. M. Brusatin, Venezia nel Settecento, p. 12.
48. Elena Bassi, Palazzi di Venezia, Venezia 1976, pp. 11, 43, 65.
49. A.S.V., Provveditori di comun, b. 46, proclami del 24 gennaio 1757 e del 2 settembre 1763.
50. I. Cacciavillani, Le leggi veneziane sul territorio, p. 90.
51. A.S.V., Provveditori di comun, b. 46, proclama del 3 settembre 1718. Le pietre delle fondamenta «sa-ranno di Padova e Treviso ben cotte, con buona malta grossa», avevano impartito i provveditori di comun. Fra i numerosi addetti al settore edilizio non a caso i meglio pagati erano «i mureri addetti alle fondamenta, gattoli e salizade» (ibid., proclama del 18 giugno 1671).
52. M. Brusatin, Venezia nel Settecento, p. 16.
53. A.S.V., Savi ed esecutori alle acque, b. 58, 26 marzo 1759.
54. Ibid., scrittura dell’Inquisitor alla laguna Stefano Foin.
55. Ibid., b. 54, 13 gennaio 1715.
56. Ibid., b. 59, 10 aprile 1774.
57. Ivi, Provveditori di comun, b. 46, 19 maggio 1703.
58. Ibid., 2 agosto 1771. Cf. ibid., polizze per il mantenimento dei sestieri di S. Marco (trentotto ponti in pietra e due ponti in legno) e di Canalregio (cinquantasette ponti in pietra e otto in legno).
59. Per il presidente de Brosses non si contavano più di quattro omicidi per anno. Ma P.G. Molmenti ci propone un quadro meno ottimistico, per quanto egualmente un po’ approssimativo sulla situazione dell’ordine pubblico (P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, pp. 208-209).
60. Si calcolava che sul finire del Settecento i lampioni della città consumassero circa 70.000 libbre d’olio (Salvatore Ciriacono, Olio ed ebrei nella Repubblica veneta del Settecento, Venezia 1975, p. 130 n.).
61. G. Gallicciolli, Delle memorie venete, I, pp. 305-306; P.G. Molmenti, La storia di Venezia nella vita privata, pp. 207-208.
62. Pierre Saddy, Le cycle des immondices, in Le sain et le malsain, «Dix-huitième Siècle», 9, 1977, p. 206 (pp. 204-214).
63. Su questi temi riferimenti più recenti sono in Neil Mackendrick - John Brewer - John H. Plumb, The Birth of a Consumer Society. The Commercialization of Eighteenth-Centuy England, London 1983, oltre che Consumption and the World of Goods, a cura di John Brewer - Roy Porter, London 1993. Il tema del lusso e dei consumi resta ovviamente «à la une», rappresentando una premessa per la stessa «rivoluzione industriale»: Jan de Vries, The Industrial Revolution and the Industrious Revolution, «The Journal of Economic History», 54, 1994, pp. 249-253.
64. P. Saddy, Le cycle des immondices, pp. 204-206.
65. A.S.V., Savi ed esecutori alle acque, b. 54, 10 maggio 1724.
66. Ibid., b. 63, relazione di Tommaso Scalfarotto, perito alla laguna, 29 settembre 1790.
67. I provveditori alla sanità denunciavano nel 1776 come i rifiuti a S. Samuele si fossero accumulati pericolosamente; i savi, nel 1781, come le acque del pozzo a S. Barnaba fossero contaminate dalle urine e dalle immondizie che andavano a concentrarsi nella «casella», anche per la vicinanza della Fraterna dei poveri; i provveditori ancora, nel 1791, come immondizie e materiale edilizio di risulta danneggiassero i pozzi nel Campo dei tedeschi: ivi, Provveditori alla sanità, b. 185, 14 agosto 1776; ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 185, 26 marzo 1781; ivi, Provveditori alla sanità, b. 186, 11 luglio 1791.
68. Ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 61, 7 aprile 1781.
69. Ivi, Provveditori alla sanità, b. 186, 8 marzo 1793; b. 26, decreto del senato (copia), 2 giugno 1714.
70. Ibid., b. 11 (Rubrica delle leggi del Magistrato alla Sanità, tomo quarto, 1793), c. 32, 12 luglio 1740 e 29 maggio 1769.
71. Gli abitanti della calle del Fondaco dei Tedeschi erano investiti dal fetido odore che emanava dai canali fognari ostruiti; non meno minacciata la corte di Ca’ Barbo, nella parrocchia di S. Pantaleone (ibid., b. 186, 22 maggio 1794 e 2 giugno 1791).
72. Ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 62, 27 marzo 1786.
73. Ibid., b. 61, 22 marzo 1779. Il perito Tommaso Scalfarotto doveva riconoscere l’esistenza del problema e, chiedendo una regolamentazione più mirata, auspicava una raccolta differenziata dei rifiuti e dei calcinacci, calcolando che fossero necessari almeno ventinove burchi per il trasporto del solo materiale edilizio (ibid., b. 63, 29 settembre 1790). Rimane comunque il ragionevole dubbio che la soluzione non arrivasse tanto presto.
74. È questa sicuramente una pagina complessa della storia ambientale veneziana, che dovette registrare il progressivo allontanarsi dal centro storico della tintoria, della conceria, di alcune fasi dell’industria laniera, della siderurgia, tutti settori che avrebbero potuto avere sotto il profilo tecnologico un certo avvenire, ma a cui Venezia dovette rinunciare a causa dei limiti urbani oggettivamente evidenti. Ad esempio già nel 1294 si erano allontanate le manifatture di piombo dall’isola di Rialto. Egualmente la concia delle pelli, la lavorazione dei cinabri, vernici, salnitro erano concentrate alla Giudecca «acciò il loro fetore non si diffonda in città» (A.S.V., Provveditori alla sanità, b. 10 [Rubrica delle leggi del Magistrato alla Sanità, tomo terzo, 1793], deliberazione del maggior consiglio [copia]). Cf. anche S. Ciriacono, Manifatture e mestieri in laguna, pp. 356-383.
75. A.S.V., Provveditori alla sanità, b. Io, c. 118, 15 dicembre 1775.
76. Ibid., b. 585, 23 agosto 1754. Il collegio degli speziali sarebbe stato composto da almeno 30 membri, al fine di deliberare con la dovuta esperienza su una materia così complessa. Il 25 maggio 1756 ci si chiedeva lo stesso per il sublimato lavorato sul terreno di Leonardo Dolfin a S. Marcuola.
77. Ibid., b. 10, c. 38, 18 maggio 1688.
78. Ibid., c. 38v, decreti del senato, 29 maggio e 10 settembre 1768 (copia).
79. Ivi, Inquisitore alle arti, b. 93, 28 settembre 1774.
80. Ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 57, relazione dei periti, 3 ottobre 1711. La relazione riguardava la richiesta di Antonio Loris, tintor di panni, di erigere un pontile necessario all’attracco delle barche che trasportavano il legname impiegato nelle operazioni di tintura.
81. Ibid., b. 55, 25 agosto 1733.
82. Nelli-Elena Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, Vicenza 1995, p. 87.
83. Ibid., pp. 89 e 93-95. La nuova istituzione caritativa sarebbe sorta fra il 160l e il 1631 nel centro urbano con il nome di S. Lazzaro ai Mendicanti, a ricordo del vecchio lebbrosario.
84. Manlio Brusatin, Il muro della peste. Spazio della pietà e governo del territorio, Venezia 1981, p. 49.
85. R. Etlin, L’air dans l’urbanisme des Lumières, p. 128.
86. Ibid., p. 124.
87. Owen e Caroline Hannaway, Le cimetière des innocents, in Le sain et le malsain, «Dix-huitième Siècle», 9, 1977, p. 182 (pp. 181-191). Thomas Sydenham aveva già rinnovato le concezioni ippocratiche in questa direzione nella seconda metà del Seicento.
88. Ibid., p. 187. Cf. anche la biografia del Landriani a cura di Luigi Belloni, in Charles Coulston Gillispie, Dictionary of Scientific Biography, VII-VIII, New York 1981, pp. 620-621.
89. R. Etlin, L’air dans l’urbanisme des Lumières, p. 123.
90. O. e C. Hannaway, Le cimetière des innocents, pp. 181-185.
91. A.S.V., Provveditori alla sanità, b. 185, 29 febbraio 1791. Sempre a questa data si faceva riferimento all’isola di S. Adriano, dove si trasportavano di tempo in tempo le ossa e le ceneri dei corpi umani al fine di non ingombrare gli spazi esistenti nel centro della città, del tutto insufficienti. Era necessario comunque procedere a delle opere di riattamento e soprattutto di scavo dei canali che circondavano l’isola, se si fosse voluto che tale triste funzione fosse assicurata.
92. Fondamentale su questi temi Philippe Ariès, Essais sur l’histoire de la mort en Occident, du Moyen Age à nos jours, Paris 1975.
93. Tesori d’arte ebraica a Venezia, in Ultime dimore, a cura di Vincenzo Pavan, Venezia 1987, p. 45. Cf. pure Adolfo Ottolenghi, L’antico cimitero ebraico di S. Nicolò di Lido, Venezia 1929.
94. A.S.V., Provveditori alla sanità, reg. 45, C. 206, decreti del senato (copia), 21 e 28 luglio 1764.
95. N.-E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, pp. 80-82. Cf. comunque ivi per le difficoltà che si presentavano nell’arruolamento di tale personale. Sulla problematica della peste cf pure AA.VV., Venezia e la peste. 1348/1797, Venezia 1979.
96. Ugo Tucci, Il vaiolo tra epidemia e prevenzione, in Storia d’Italia, Annali, 7, Malattia e medicina, a cura di Franco Della Peruta, Torino 1984, pp. 391-428.
97. N.-E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, pp. 246-265.
98. A.S.V., Provveditori alla sanità, reg. 21, c. 77, decreto del senato (copia), 18 agosto 1703.
99. Ibid., c. 203, 18 luglio 1705.
100. N.-E. Vanzan Marchini, I mali e i rimedi della Serenissima, pp. 195 e 221-238.
101. Lionello Puppi, «An der Strafe ist so viel Festliches». Un aspetto della festa nell’Europa moderna (1500-1800): lo spettacolo dell’esecuzione capitale, in Il tempo libero. Economia e società, secc. XIII-XVIII (Atti della XXVI Settimana di Studi dell’Istituto F. Datini di Prato), a cura di Simonetta Cavaciocchi, Firenze 1995, pp. 127-148.
102. Marin Sanudo, Cronachetta, a cura di Rinaldo Fulin, Venezia 1880, p. 63.
103. Per una descrizione del funzionamento dei pozzi, Massimo Costantini, L’acqua di Venezia. L’approvvigionamento idrico della Serenissima, Venezia 1984, spec. pp. 14-15.
104. Ibid., pp. 16-19. Espellere l’acqua salata penetrata nel pozzo, attraverso ripetute immissioni di acqua dolce e una completa risistemazione e pulitura della sabbia, risultava un’operazione complessa e ingrata.
105. Ibid., p. 16.
106. A.S.V., Provveditori di comun, b. 52, scrittura del 25 maggio 1768. Sull’impiego e trasporto a Venezia di queste pietre, costituite di trachite euganea, iniziato sin dalla fine del XV secolo, cf. ora Maria Chiara Billanovich, Attività estrattiva negli Euganei. Le cave di Lispida e del Pignaro tra Medioevo ed età moderna, Venezia 1997, pp. 45 ss.
107. M. Costantini, L’acqua di Venezia, pp. 42 e 98. Sul finire del Settecento si guardò con interesse all’ipotesi di ricorrere all’acqua del Sile, ma alla fine si restò ancorati alla Seriola del Brenta (cf. in proposito A.S.V., Provveditori alla sanità, b. 185, 7 agosto 1784). Anche questa andava comunque protetta da eventuali infiltrazioni di acqua salata, che potevano avvenire durante le escrescenze marine o la caduta delle porte divisorie (ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 63, scrittura del 24 gennaio 1790).
108. M. Costantini, L’acqua di Venezia, pp. 83-85. D’altro canto fu imposta ai burchieri, come contropartita di tale monopolio, la distribuzione gratuita nell’arco di un anno di cento burchi d’acqua «a sollievo della povertà». Nel 1704 il senato ci informa che era stato strappato all’Arte degli acquaroli un viaggio gratuito, in aggiunta al centinaio che essi effettuavano tradizionalmente (A.S.V., Provveditori alla sanità, reg. 21, c. 145, copia del decreto 30 agosto 1704).
109. A.S.V., Provveditori di comun, b. 46, proclama del 9 agosto 1703.
110. M. Costantini, L’acqua di Venezia, pp. 42 e 96-98. III. Ibid., p. 99. Ricerche future dovranno comunque chiarire da quali usi (quelli manifatturieri oppure i consumi privati) fosse stato assorbito il netto incremento delle disponibilità idriche, che Costantini valuta nell’ordine del 55-70%, considerato che la popolazione restò sostanzialmente stazionaria. Inoltre, i complessi calcoli sulle quantità d’acqua raccolte nei pozzi poggiano sulle sole ipotesi avanzate dai lavori ottocenteschi di Giuseppe Bianco e che indicano delle precipitazioni annue valutate, per tutto il periodo moderno, in 800 mm. È possibile che studi più approfonditi in direzione della climatologia storica giungano a indicazioni diverse.
112. A.S.V., Provveditori alla sanità, reg. 23, c. 25, decreto del senato (copia), 4 luglio 1711.
113. Ivi, Provveditori di comun, b. 52, reg. A, 29 marzo 1768, decreto del senato (copia), 29 marzo 1768. I provveditori a dire il vero davano nel dettaglio altre cifre, anche se la sostanza non cambiava di molto: su un totale di centoquarantasei pozzi, cinquantotto erano risultati in buone condizioni, diciassette in cattive condizioni, quarantasette più in buone condizioni che cattive, ventiquattro più in cattive che buone (ibid., 27 gennaio 1768).
114. Ivi, Provveditori alla sanità, b. 186, scrittura del 28 gennaio 1792. Solo per i due pozzi di S. Margherita si era calcolato che fossero necessari due burchi di sabbia cadauno (ibid., 5 gennaio 1792).
115. Ibid., 19 agosto 1795.
116. M. Costantini, L’acqua di Venezia, pp. 43 e 99.
117. Ibid., p. 101.
118. Pierre A. Vidal-Naquet, Les ruisseaux, le canal et la mer: les eaux de Marseille, Marseille 1993.
119. André Guillernme, Les temps de l’eau. La cité, l’eau et les techniques, Seyssel (Champ Vallon) 1983.
120. Nel 1637 la conterminazione era giunta a Marghera-Fusina, mentre fra il 1670 e il 1750 si erano raggiunte la laguna di Cona e la valle del Cavallino. Su questi problemi, cf., oltre a S. Ciriacono, Acque e agricoltura, pp. 168-170 e bibl., gli importanti contributi di Gaetano Cozzi, Storia e politica nel dibattito veneziano sulla Laguna (Sett. XV-XVIII), di Eugenia Bevilacqua, La conterminazione della Laguna di Venezia considerata attraverso i documenti cartografici e di Maria Francesca Tiepolo, La conterminazione nei documenti dell’Archivio di Stato di Venezia fino al 1797, negli Atti del Convegno (Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, Venezia 14-16 marzo 1991) sulla Conterminazione lagunare. Storia, ingegneria, politica e diritto nella Laguna di Venezia, Venezia 1992, rispettivamente alle pp. 15-37, 39-78 e 79-129.
121. Si sarebbe vietato in particolare di «porsi badile o zappa, piantare, arare, o far cavamenti, argini, fabbriche o altro lavoro di qualunque sorte si fosse, il quale valesse ad impedire la libera espansione delle acque salse» (decreto dell’8 marzo 1611, citato da Camillo Vacani di Forteolivo, Della laguna di Venezia e dei fiumi delle attigue province, Firenze 1867, pp. 144-145).
122. Bernardino Zendrini, Memorie storiche dello stato antico e moderno delle lagune di Venezia e di que’ fiumi che restarono divertiti per la conservazione delle medesime, I, Padova 1811, p. 236.
123. Silvano Avanzi, Il regime giuridico della laguna di Venezia. Dalla storia all’attualità, Venezia 1993, pp. 90-91.
124. Le norme secondo le quali non si potessero fare «più di due escavazioni in un tempo», che le «burchielle» fossero caricate a dovere, che fossero condotte ai luoghi indicati non erano di certo sempre rispettate, nonostante il contravventore fosse castigato oltre che con «pene pecuniarie, anche con corporali» (A.S.V., Provveditori alla sanità, b. 9 [Rubrica delle leggi del Magistrato alla Sanità, tomo secondo, 1793], cc. 61-62, terminazioni 11 agosto 1719, 7 agosto 1721, 30 aprile 1727).
125. Nel 1774, lamentava Tommaso Temanza, si era concesso ai contadini di Campalto, nel Mestrino, di scavare un canale per uso agricolo, a patto che deponessero i fanghi lungo l’argine di conterminazione. Invece il fango era stato gettato più verso la laguna che verso l’argine (ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 61, 20 aprile 1779).
126. Ibid., b. 56, 23 febbraio 1776. La manutenzione delle porte era affidata all’Arte dei burchieri, i quali tuttavia non sembravano ottemperare al meglio a questa incombenza, tanto che si suggeriva di assegnarne la cura al magistrato alle acque (ibid., b. 57, scrittura di T. Temanza, 16 marzo 1754).
127. Ibid., reg. 317, cc. 134-135, 10 aprile 1788.
128. D. Calabi, Canali, rive, approdi, p. 769.
129. A.S.V., Provveditori alla sanità, reg. 21, c. 191, decreto del senato (copia), 22 aprile 1705.
130. Ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 62, 7 giugno 1786. A G.B. Trieste si concedevano in effetti nove campi sul litorale di Malamocco, in aggiunta ai quattro che già possedeva, purché acconsentisse ad accogliere i fanghi di risulta e procedesse a proprie spese alle opere di riattamento.
131. Ibid., b. 61, 11 marzo 1779.
132. Ivi, Provveditori alla sanità, b. 185, scritture dell’8 gennaio 1775, 14 febbraio 1775, 28 settembre 1775 e 13 settembre 1776.
133. Nel 1780 quello accumulatosi in conseguenza degli scavi effettuati in Canal Grande, e portato al Lido, tra S. Maria Elisabetta e la Casa dei quattro cantoni: ibid., scrittura del 18 aprile 1780.
134. Ibid., scrittura del 2 agosto 1794; ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 59, scrittura di T. Temanza, Inquisitor alla laguna, 20 dicembre 1768.
135. Ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 59, scrittura dei Provveditori alla sanità dell’ 11 maggio 1767.
136. Ivi, Provveditori alla sanità, reg. 21, c. 61, decreto del senato (copia) del 2 agosto 1703. Molto più tardi, nel 1784, ci si porrà il problema se gli scavi da effettuarsi lungo il canale che costeggiava il monastero di S. Antonio a Tortello fossero a carico del bilancio pubblico o del monastero stesso (ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 62, 23 agosto 1784).
137. Ivi, Provveditori alla sanità, reg. 21, c. 55, decreto del senato (copia) del 14 luglio 1703.
138. Ivi, Provveditori di comun, b. 46, decreto del senato (copia) del 30 aprile 1772.
139. È quanto registravano i savi alle acque per il canale lungo il monastero delle RR.MM. Cappuccine di Castello (ivi, Savi ed esecutori alle acque, b. 59, 20 dicembre 1768).
140. Dragare il canale da Mestre a Marghera, nel 1769, con delle semplici zattere, sarebbe costato ciò nonostante ben 5.850 ducati, risalendo l’ultima operazione a vent’anni prima (ibid., 24 marzo 1769).
141. Rinvio su questi problemi a S. Ciriacono, Acque e agricoltura, pp. 140-147 e 216-217.
142. A.S.V., Savi ed esecutori alle acque, b. 62, 10 febbraio 1784.
143. Ibid., b. 59, 4 ottobre 1771. Mediamente si assicurava ai canali una profondità di almeno 5 piedi e mezzo, i quali potevano peraltro salire anche a 13-14 (come avveniva lungo il canale di S. Spirito, in direzione di Poveglia). Si distingueva poi tra larghezza del canale in superficie e larghezza sul fondo, assicurando un rapporto proporzionato (ibid., 24 marzo 1769 e b. 61, 29 novembre 1777).
144. Un esempio ibid., b. 63, 27 maggio 1791, in base al quale l’appaltatore otteneva oltre «all’edificio grande a cavalli, due edifici più piccoli a spalle di uomini e 18 burchielle».
145. Ibid., b. 59, 16 dicembre 1774 e supplica del N.H. Nicolò Bon, 1º dicembre 1774.
146. Ibid., N. Bon. Sarebbero occorsi peraltro altri 4.500 ducati per rimettere completamente in sesto la draga del Bon.
147. Ibid., b. 59, T. Temanza, 22 luglio 1775.
148. I diversi tipi di palificazione assolvevano a varie funzioni specifiche, fra le quali indicare la linea di demarcazione tra i canali navigabili e i bassi fondali; costituire dei punti fissi per l’attracco e lo stazionamento di navi e piccole imbarcazioni, inclusi i principali canali cittadini; rinforzare il marginamento delle terre emerse, isole naturali o artificiali e sponde di terraferma, ad evitare il franamento del terreno e l’erosione del moto di marea; sostenere, anche durante le escursioni di marea, altri manufatti quali segnali luminosi, pontili, ex voto; supportare le attrezzature per i vari tipi di pesca e colture ittiche: Giovanni Battista Stefinlongo, Pali e palificazioni della laguna di Venezia, Sottomarina di Chioggia 1994, p. 39.
149. A.S.V., Savi ed esecutori alle acque, b. 61, 20 aprile 1779: l’appaltatore Antonio Canciani, che aveva provveduto alla sostituzione di molti pali, ne aveva ciò nonostante calcolati 5.979 di «buoni e nuovi» su un totale di 6.835. Per altri dati, non sempre tuttavia coincidenti, negli anni 1788 e 1792, N.-E. Vanzan Marchini, Venezia da laguna a città, p. 159.
150. Susanna Grillo, Venezia. Le difese a mare. Profilo architettonico delle opere di difesa idraulica nei litorali di Venezia, Venezia 1989, pp. 28-31.
151. S. Ciriacono, Acque e agricoltura, pp. 252-253.
152. Un’analitica descrizione di tali progetti è ora in S. Grillo, Venezia. Le difese a mare, pp. 32-59.
153. S. Ciriacono, Acque e agricoltura, pp. 206-207 e 241-242.
154. Relazione di B. Zendrini, 4 settembre 1739, citato da S. Grillo, Venezia. Le difese a mare, p. 68.
155. Ibid., pp. 77-97.