Il cristianesimo in Egitto prima e dopo Costantino
Quali forme di cristianesimo e quali chiese ospita l’Egitto al tempo di Costantino? Che incidenza manifesta il governo dell’imperatore nel loro sviluppo? È legittimo affermare che il suo attivismo in materia religiosa ha provocato delle novità radicali nella vita del cristianesimo egiziano o bisogna piuttosto limitarsi a constatare che esso si è inserito nella realtà multiforme delle chiese favorendone o rallentandone sviluppi e dinamiche già in atto da lungo tempo? Queste sono le domande cui ci si appresta a rispondere grazie alla ricca e complessa documentazione di tipo letterario, documentario e archeologico che l’Egitto ha tramandato, la quale può oggi essere interpretata dallo storico solo in virtù di una pluralità di competenze linguistiche, filologiche, storico-critiche, archivistiche, artistiche, che probabilmente egli non può assommare in sé stesso, ma deve cercare rivolgendosi ad altri studiosi1.
Se il 311 è l’anno dell’editto di tolleranza di Galerio, momento in cui inizia il lungo sviluppo politico e sociale che porta in pochi anni all’affermazione del cristianesimo nella vita dell’Impero, è necessario altresì ricordare che è anche l’anno del martirio di Pietro, vescovo di Alessandria, ucciso in novembre nel corso di una recrudescenza improvvisa della persecuzione iniziata da Diocleziano nel 303: una risorgenza forse inaspettata per il vescovo, se si può interpretare l’emanazione da parte sua, durante la Pasqua del 306, dei canoni penitenziali (che stabilivano forme di penitenza per i lapsi) come segno che egli e la sua comunità percepivano la persecuzione dioclezianea come fenomeno ormai in declino. Tale persecuzione chiudeva in modo improvviso un lungo periodo di discreta prosperità e di pace per le comunità cristiane dell’Impero, e per quelle egiziane in particolare: tra l’editto di Gallieno del 260 e quelli di Diocleziano del 303, la Chiesa egiziana era cresciuta numericamente, aveva articolato la sua organizzazione (formazione e diffusione degli episcopati, organizzazione burocratica del seggio di Alessandria, sviluppo della periferia ecclesiastica alessandrina, giurisdizione sulla Libia inferiore e la Cirenaica), aveva permesso lo sviluppo di nuovi fenomeni religiosi e nuovi stili di vita (forme di ascetismo e di monachesimo), aveva assunto un ruolo fondamentale nel cristianesimo del Mediterraneo orientale, intervenendo nella fervente attività sinodale (ad esempio ad Antiochia, nel periodo 264-268), aveva fatto avvertire la sua forza religiosa, culturale ed economica anche presso la Chiesa di Roma. La persecuzione dioclezianea del 303 era stata una dura prova innanzitutto per la sua struttura, poi per le persone che la componevano e ne avevano la responsabilità: una prova da cui la Chiesa era uscita certamente non distrutta, ma profondamente segnata da fenomeni di dissidenza e divisione a livello sia disciplinare e istituzionale, sia dottrinale2.
In questa sede si intende dunque sostenere che la gestione di Costantino degli affari ecclesiastici ha manifestato un impatto significativo sul cristianesimo egiziano, ma non tale da alterarne profondamente la struttura. Questa, per quanto divisa e ricca di fenomeni centrifughi, era già costituita da un secolo. Gli episcopati della Valle del Nilo e delle due Libie, nelle loro relazioni reciproche e in quelle con la sede di Alessandria, la centralità assoluta della sede episcopale della metropoli, i fenomeni di ascetismo e di monachesimo sono elementi che preesistono a Costantino e che sotto di lui continuano la loro evoluzione. Costantino non ha fatto che favorire alcune dinamiche di sviluppo della Chiesa, come il suo radicamento nel territorio, ma ha anche complicato la sua relazione con il potere politico centrale, come dimostra il difficilissimo rapporto tra l’imperatore e Atanasio di Alessandria3, imponendo l’elaborazione di più sottili strategie di dialogo e di pressione, che giungeranno a maturità solo tra IV e V secolo, con gli episcopati di Teofilo (384-412) e Cirillo (412-444), nel momento in cui l’episcopato di Alessandria avrà assunto le proporzioni di un organismo complesso, burocraticamente saldo, e ricco di una lunga e documentata memoria storica e canonica.
Si è già accennato alla documentazione multiforme, preservata in una quantità di lingue che difficilmente possono essere padroneggiate da un solo studioso4. Si aggiunga che, oltre alle più tradizionali fonti di tipo storiografico, canonico, agiografico, omiletico, teologico, meritano una specifica segnalazione i papiri letterari, come quelli in greco di Tura, veicolanti testi prevalentemente legati al nome di Origene e di coloro che a lui si sono ispirati, o quelli copti di Nag Hammadi e di Medinet Madi, che fanno conoscere fondamentali testi gnostici e manichei, o quelli greci, copti e aramaici di Kellis, attestanti ambienti manichei, marginalizzati ma ancora attivi alla fine del IV secolo5; l’insieme dei manoscritti in lingua copta che attestano la nascita e l’evolversi di una letteratura nazionale cristiana, con tutti i suoi generi letterari6; le architetture delle chiese, dei monasteri, di altri luoghi di culto, e le pitture ivi conservate, manifestanti una complessa relazione con il passato faraonico e poi ellenistico7; i fondi documentari8. In questa vasta gamma di materiali acquistano particolare rilievo le seguenti fonti: 1) la documentazione d’archivio e le opere storiografiche legate al patriarcato, come quella conservata nel Codex Veronensis LX (58), in latino, veicolante documenti civili ed ecclesiastici del IV secolo, accompagnati dalla nota Storia di Atanasio9 e dalla documentazione sullo scisma meliziano, cui si aggiunge il nuovo materiale in traduzione etiopica identificato da Alessandro Bausi, originariamente redatto in greco: esso, nelle ricerche in corso, sta permettendo di comprendere meglio la rete episcopale egiziana prima del concilio di Nicea e alcuni punti più oscuri dello scisma meliziano10; la Storia della Chiesa di Alessandria, in traduzione copta11, e la Storia dei Patriarchi di Alessandria, in arabo12; 2) i papiri documentari, che illustrano il funzionamento della Chiesa anche nelle sue unità più piccole, e che costituiscono, per essere stati redatti in date quasi sempre certe e in situazioni concrete, un sistema di controllo delle notizie trasmesse da altri tipi di fonti13; 3) i testi agiografici, che, seppure redatti piuttosto tardi rispetto all’epoca che qui interessa, conservano informazioni preziose sul funzionamento della Chiesa a vari livelli e preservano il ricordo preciso di eventi storici distanti nel tempo14; 4) i testi canonici, i quali costituiscono un tipo di fonte di ardua esegesi, nel loro essere conglomerati di prescrizioni, usi e costumi di diverse epoche e spesso tra loro contraddittori; tuttavia, nel caso specifico dei Canoni attribuiti ad Atanasio15, ci troviamo davanti a uno scritto che illustra molto bene l’immagine del vescovo e la sua funzione nelle diocesi egiziane16; 5) le opere di Atanasio di Alessandria, che nel loro insieme costituiscono una miniera inesauribile di informazioni sulle strutture ecclesiastiche, anche in forza dei numerosi documenti che vi sono incastonati o allegati, e che egli ebbe il merito di accumulare negli archivi episcopali di Alessandria: trattandosi oltretutto di scritti redatti dal protagonista massimo della Chiesa egiziana, con il suo difficile e contrastato rapporto con Costantino, essi rispondono perfettamente allo scopo che ci si propone in questa presentazione17.
L’Egitto ellenistico e romano è il luogo della giustapposizione e poi della fusione culturale tra egiziani e greci, e di un’evoluzione tutta particolare del giudaismo, nella forma del giudaismo ellenistico, la cui eredità viene rielaborata in ambito cristiano anche dopo la rivolta del 115-117 d.C. e la dura repressione delle comunità giudaiche. La cristianizzazione è dunque iniziata in Alessandria per diffondersi a ondate in tutto l’Egitto. Essa è un elemento che tende a superare i confini etnici e linguistici tipici dell’Egitto ellenistico e romano, e la stessa dicotomia tra metropoli e resto del paese. Partite da Alessandria, le missioni cristiane sono naturalmente connotate dall’elemento linguistico e concettuale greco, e solo in un secondo momento assumono pienamente quello egiziano. Nello stesso tempo, le religioni tradizionali, che definiamo impropriamente pagane, continuano anch’esse a far uso delle due lingue e a contare i propri adepti non solo nelle classi sociali più alte, ma anche a livello popolare e nell’etnia egiziana. Solo alla fine del IV secolo possiamo notare che il rapporto di forze tra cristianesimo e religioni tradizionali si sta capovolgendo a favore del primo.
Le origini del cristianesimo in Alessandria sono ancora avvolte nell’oscurità. Esso appare con i suoi rappresentanti solo dopo la rivolta giudaica del 115-117 d.C. I nomi di Basilide e di Valentino sono i più rappresentativi di una serie di intellettuali cristiani appartenenti all’area gnostica. Il fatto che le fonti registrino solo questi nomi e tacciano la presenza di una gerarchia ecclesiale deve essere attentamente valutato: non nel senso che non sia esistita una gerarchia, ma nel senso che essa non ha avuto peso culturale, né è stata capace di lasciare traccia di sé. Se è esistita una Chiesa gerarchicamente strutturata, dobbiamo pensare che essa non potesse avere autorità su personaggi in vista dal punto di vista sociale, che si erano avvicinati al cristianesimo nella sua forma gnostica. E questa comunità, ai suoi più alti livelli sociali era caratterizzata da una coesione minima, come attestano il ruolo marginale giocato negli scritti di Clemente Alessandrino dalla gerarchia ecclesiastica (pur menzionata nei suoi tre gradi di diacono, presbitero, vescovo) e, d’altra parte, la viva attenzione del pensatore per il rapporto più profondamente avvertito, quello maestro-discepolo18.
Nonostante questo, Eusebio e una pletora di fonti egiziane e orientali in varie lingue hanno lasciato una lunga lista di vescovi di Alessandria a partire da Marco. Si tratta evidentemente di una lista in cui il dato onomastico, di storicità difficilmente verificabile, è funzionale all’ambito dell’esigenza ideologica e religiosa di creare una linea di successione episcopale continua, che risalga fino all’età apostolica. Si tratta dunque di un prodotto piuttosto tardo, la cui elaborazione è collocabile nel III secolo, con ritocchi nel IV e nel V, quando ormai la situazione della Chiesa gerarchica è completamente mutata19.
Tra la fine del II secolo e l’inizio del III si registra un cambiamento. Si osservano in Clemente, e in seguito in Origene, i segni di una reazione a questa struttura evanescente dei cristiani alessandrini, nonché al loro orientamento ideologico. Tale reazione dunque si sviluppa proprio all’interno di quei circoli in cui erano diffuse tendenze gnostiche e platonizzanti. L’iniziativa è attribuibile con la massima probabilità a Demetrio, prima figura storicamente verificabile di vescovo di Alessandria, che sfruttò appieno l’enorme potenziale intellettuale di Origene. Se infatti con Clemente si ha una presa di distanza dallo gnosticismo, che si configura come recezione selettiva di alcune sue istanze e critica dei suoi concetti fondamentali, tale percorso è continuato con maggiore convinzione ed energia da Origene, il quale, cristiano fin dalla nascita, ricevuta una profonda catechesi scritturistica si educa alla filosofia greca in un secondo momento, rendendosi così disponibile al dialogo con gli intellettuali di Alessandria. La collaborazione tra episcopato e ceti intellettuali cristiani è ulteriormente dimostrata dal fatto che Origene opera all’interno di una nuova struttura ecclesiastica, la scuola catechetica20. In un secondo momento si apre un livello superiore di istruzione, con forte impegno filosofico, che Origene riserva a sé stesso. La novità del suo insegnamento è che, a differenza di quello di Clemente, esso appare direttamente controllato dal vescovo21.
Clemente e Origene forniscono a Demetrio il materiale umano per la strutturazione della comunità nei termini di una Chiesa, organizzata gerarchicamente e non gnostica, caratterizzata dal pluralismo dei livelli sociali e culturali. Prima di loro il vescovo poteva imporsi solo su una parte dei cristiani, quella socialmente e culturalmente più debole: le liste episcopali dei vescovi di Alessandria, note a Eusebio, sembrano segnalare questo stato di difficoltà. Dopo di loro, anche cristiani di alto livello stabiliscono un nuovo legame con la struttura ecclesiastica. Ciò accade non senza tensioni tra episcopato e scuola, come dimostra la sofferta vicenda di Origene, che a un certo punto della sua carriera rompe con Demetrio e decide di risiedere in Palestina.
Tuttavia, dopo Demetrio diventa vescovo Eracla, amico di Origene, che, in seguito alla partenza di quest’ultimo, era stato promosso alla guida della scuola. A Eracla succede Dionigi, uno dei personaggi più noti dell’élite sociale di Alessandria, anch’egli in precedenza direttore della scuola. Il significato dell’elezione episcopale di Eracla e di Dionigi è evidente: la scuola si è completamente integrata nella struttura della Chiesa alessandrina22.
Questa integrazione è destinata tuttavia a incontrare dissensi23. Un gruppo di fedeli alessandrini protesta contro il vescovo Dionigi presso la sede di Roma, non riconoscendosi nel suo insegnamento in materia trinitaria. Anche lo scontro di Dionigi con le tendenze millenaristiche presenti in alcune regioni egiziane, tra le quali il Fayyum, è una prova delle difficoltà incontrate dalla politica culturale della scuola, legata all’episcopato, a diffondersi in ambienti diversi da quelli originari. Tale opposizione non sembra propria soltanto dei ceti socialmente più bassi o della parte cristianizzata dell’etnia egiziana, perché solo da persone di una certa sensibilità culturale poteva provenire l’accusa a Origene e alla sua impostazione di pensiero di essere troppo sensibili all’influsso della filosofia greca.
Vi è un altro aspetto della battaglia antignostica che bisogna tener presente. La diffusione della Chiesa gerarchica e la sua presenza più capillare e più organizzata sul territorio favoriscono il processo di marginalizzazione dello gnosticismo. In questo contesto si svolge a partire dal 270 la propaganda manichea, che va incontro a pagani, cristiani cattolici e gnostici. Tracce di questa presenza sono visibili non solo nei testi manichei di Medinet Madi, nelle rielaborazioni e riscritture dei testi gnostici copti, ma anche nelle scoperte effettuate da una missione australiana nel sito di Kellis24.
Tornando sull’operato del vescovo Demetrio, questi riesce ad assorbire nell’ambito della struttura ecclesiastica, capeggiata dal vescovo, anche i ceti più elevati. Il modello di Chiesa che si intravvede chiaramente dietro l’azione di Demetrio è quello in cui tutte le classi sociali e le tendenze culturali non gnostiche e non giudeo-cristiane sono rappresentate, ma sotto la direzione unitaria (e spesso autoritaria) del vescovo.
Tutto fa pensare che con Demetrio si affermi anche ad Alessandria, con un certo ritardo rispetto a tante altre zone del Mediterraneo, la forma dell’episcopato monarchico. A che cosa si sostituisce? Possiamo ipotizzare che essa subentri a una struttura presbiterale, attiva ai vertici della Chiesa di Alessandria fino alla fine del II secolo. Tale struttura, di forte impronta giudaica, ha lasciato le sue tracce nel sistema di ordinazione del vescovo di Alessandria, come attestano Gerolamo25 e Severo di Antiochia26.
Si ha inoltre notizia che Demetrio agisce in un’altra direzione strettamente connessa con la precedente, cioè verso la diffusione dell’episcopato monarchico anche all’esterno della metropoli, nella Valle del Nilo, con la formazione delle prime diocesi esterne ad Alessandria. Una cronaca araba, gli Annali del patriarca melchita Sa‛īd ibn Batrīq, noto anche come Eutichio (X secolo d.C.), non solo afferma che Demetrio fu il primo vescovo di Alessandria a eleggere altri vescovi al di fuori della metropoli27, ma rievoca l’usanza primitiva di elezione e consacrazione del patriarca, tutta interna alla cerchia presbiterale alessandrina, per poi descriverne la riforma operata sotto Alessandro (312-328), consistente nella formazione di un nuovo elettorato attivo (i vescovi) e nell’allargamento dell’elettorato passivo, che viene esteso dal solo gruppo di presbiteri di Alessandria ai chierici di tutto l’Egitto (Girolamo data il passaggio all’epoca di Eracla). Un testo etiopico pubblicato nel 1980, poi ritrovato anche in una collezione canonica di origine alessandrina ricca di materiali storiografici, contiene una notizia simile28: esso afferma che l’evangelista Marco, dopo aver ordinato dodici presbiteri e sette diaconi, ha dato loro una regola di successione secondo la quale i presbiteri, alla morte del vescovo, si riuniscono e pongono le loro mani su colui che, tra di loro, «tutti» (la comunità) avranno eletto, e così facendo lo ordinano vescovo, in presenza del cadavere del vescovo morto. Il testo afferma che questa usanza è rimasta fino all’episcopato di Pietro di Alessandria, momento nel quale si decide che la consacrazione avvenga per opera dei vescovi egiziani. Nello stesso tempo, il testo giustifica questa strana usanza della consacrazione di un vescovo da parte di presbiteri con il fatto che allora, nei primi secoli, non vi erano vescovi al di fuori di Alessandria che potessero consacrare il membro designato.
Si tratta di una teoria che presenta una mescolanza di elementi storici e simbolici. Simbolico appare il numero di presbiteri e diaconi, nonché la presenza del cadavere del vescovo alessandrino deceduto, figura del carisma episcopale. Ci troviamo in effetti di fronte a un’articolata giustificazione apologetica della consacrazione patriarcale da parte di presbiteri, cioè membri del clero percepiti come inferiori: il testo giustifica questa stranezza con la mancanza di vescovi egiziani; tale mancanza è in parte ovviata dalla salma del predecessore, che garantisce, almeno simbolicamente, la trasmissione dell’autorità episcopale. Questa giustificazione, che ha il sapore di un’apologia, scritta alla fine del IV secolo, di rituali del III secolo a tutti noti, spinge lo storico a dare credibilità all’esistenza dell’usanza liturgica di una consacrazione del vescovo alessandrino da parte del collegio presbiterale, poi evolutasi nel tempo.
Per meglio comprendere cosa accade a questa usanza, basti prendere in considerazione il fatto che al termine di questo processo si pone il caso di Atanasio (328-373), che manifesta due diversità evidenti rispetto all’antico sistema di consacrazione proposto dai passi in questione: egli non appartiene al gruppo dei presbiteri, in quanto, da semplice diacono, è designato da Alessandro, prima di morire, come futuro vescovo, ed è quindi appoggiato da numerosi vescovi egiziani; inoltre, egli è probabilmente consacrato da questi stessi vescovi, non sappiamo se alla presenza dei presbiteri alessandrini, o escludendoli29. Atanasio, pertanto, si pone al termine di una doppia evoluzione, consistente da una parte nell’allargamento dell’elettorato passivo, d’ora in poi non più riservato alla stretta cerchia dei presbiteri alessandrini, ma comprensivo del clero egiziano nel suo insieme (benché una prevalenza di candidati di origine alessandrina sia ovvia); dall’altra nell’estensione progressiva dell’elettorato attivo ai vescovi d’Egitto, che a partire da questo momento riceve una sua traduzione in termini liturgici, cioè la partecipazione dei vescovi egiziani alla consacrazione.
Quale evoluzione possiamo ipotizzare da Demetrio ad Atanasio? Sembra del tutto ovvio che nel momento in cui Demetrio comincia a diffondere la rete degli episcopati strutturati secondo il modello dell’episcopato monarchico, si crea un corpo episcopale completamente dipendente dal vescovo della metropoli, che tuttavia legittimamente intende far sentire la propria voce quando si verifica il trapasso da un vescovo alessandrino all’altro. La riforma di cui parlano i testi dev’essere consistita nella sanzione formale e liturgica di uno stato di cose già esistente, ed è stata probabilmente accelerata dalla crisi meliziana, su cui si tornerà.
Non si può non sottolineare il significato della nascita delle nuove diocesi per la popolazione disseminata nella Valle del Nilo, soprattutto per gli egiziani, che vedono in questo modo la Chiesa della metropoli avvicinarsi alle loro esigenze religiose, nel tentativo di rompere quell’alterità tra Alessandria e resto d’Egitto che affonda le sue radici addirittura nella fondazione della metropoli. Dionigi, nelle sue lettere, parlando della persecuzione di Decio attesta la presenza vivace di cristiani di origine egiziana30.
Le nuove liste conservate in etiopico informano che Demetrio ordinò dieci vescovi (abbiamo il nome di una sola sede, nella valle del Nilo), mentre Eutichio afferma che Eracla ne ordinò venti. Se le liste di Eracla e Dionigi sono purtroppo perdute, maggiori informazioni si hanno circa i vescovi eletti sotto i successori di Dionigi: Massimo, che ordina ventinove vescovi; Teona, cinquanta; Pietro, cinquantacinque. Il totale delle sedi coperte dalla rete episcopale fino al tempo di Pietro è sessantasei, ma aumenta poi con Alessandro e Atanasio, per avvicinarsi al numero di cento. Per dare un quadro più concreto, si può osservare che al tempo di Dionigi risultano sedi episcopali le città della Cirenaica (Cirene, Berenice, Taucheira, Tolemaide, Sozousa), il nomo Arsinoite (Crocodilopoli/Arsinoe), Ermopoli, Nilopoli e qualche altro centro urbano lungo il corso del Nilo. Più tardi, sotto Pietro, è registrato dalle fonti il fenomeno straordinario della nascita di episcopati nella desertica Libia inferiore e la cristianizzazione delle Oasi, elevate a sedi episcopali: sia quella di Siwa, sia la Grande Oasi.
Le fonti non registrano tuttavia nel dipanarsi di questo processo l’affermarsi di alcuna città, né nella Valle del Nilo, né in Libia, né in Cirenaica, con l’eccezione di Alessandria. In altri termini, non si dà alcuna premessa alla formazione di una struttura metropolitana, che raccolga sotto la leadership di una sede episcopale più importante i seggi di una regione o circoscrizione (sebbene in Cirenaica ne sussista un fossile ormai senza significato). Si tratta di una particolarità dell’Egitto: sono i vescovi di Alessandria a frenare il processo di formazione di strutture intermedie. Ma, d’altra parte, è necessario tenere presente che tale fenomeno affonda le sue radici nella storia sociale e amministrativa dell’Egitto: i capoluoghi dei nomoi egiziani ottengono lo status municipale solo all’inizio del III secolo d.C., e l’élite di questi capoluoghi non ha quell’atteggiamento indipendente e quell’attaccamento ai princìpi dell’autonomia cittadina che caratterizzavano le élite di altre città mediterranee; ciò provoca nei vescovi egiziani una disposizione all’ubbidienza nei confronti degli ordini che vengono da Alessandria31. Ma l’affermazione di questa struttura non è priva di problemi.
In che lingua comunica o scrive questa Chiesa così diffusa? Certamente in greco, che rimane la lingua fondamentale fino in età araba avanzata; ma, a partire dalla seconda metà del III secolo, anche in egiziano, sebbene limitatamente ad alcuni ambiti della produzione scrittoria.
Quando trattiamo di fenomeni linguistici, è opportuno distinguere tra lingua parlata (le due etnie hanno continuato a esprimersi nelle rispettive lingue, anche se una parte degli egiziani conosce, almeno parzialmente, il greco) e lingua scritta. Nonostante il fatto che la produzione di testi egiziani e la loro copiatura nei vari alfabeti continuino anche in età imperiale, si tratta di attività ormai appannaggio di un’élite sempre più ridotta, legata ai templi. La progressiva decadenza del demotico come forma di scrittura della lingua egiziana a livello epistolare, amministrativo, e più tardi anche legislativo, porta inevitabilmente all’affermarsi progressivo del greco come unico veicolo della comunicazione scritta anche presso gli egiziani.
Tuttavia, proprio all’interno dell’élite dell’etnia egiziana, durante il III secolo accade un fatto nuovo: la creazione di una lingua letteraria, il copto. Essa si presenta fin dalle prime attestazioni (che non appaiono di origine pagana, ad eccezione di alcune formule magiche) come lingua compiuta, con una sua organica struttura non solo ortografica32, ma anche lessicale, grammaticale e sintattica. La nuova lingua compare in primo luogo in prodotti letterari, soprattutto traduzioni dal greco. Solo a partire dagli anni Trenta del IV secolo è usata nella corrispondenza privata, ma limitatamente ad ambienti monastici33. Date queste sue caratteristiche, è difficile non pensare a un’iniziativa colta nella sua creazione, piuttosto che a un’evoluzione naturale della lingua egiziana, la quale, sia in scrittura demotica che in alfabeto greco34, appare molto diversa per lessico e contenuti. Il copto è una lingua letteraria che, nel far riferimento alla lingua del paese, la modernizza, prendendo atto dei cambiamenti intervenuti in una società che è divenuta progressivamente bilingue. Almeno per quanto riguarda i primi testi, cioè le traduzioni della Bibbia, di testi gnostici e di testi manichei, non possiamo pensare che un egiziano li potesse leggere o ascoltare senza conoscere il greco, tale è la quantità di lessemi e sintagmi greci in essi presenti. Tutto ciò significa che il copto è stato creato da un’élite ormai conscia dei suoi diritti e della sua parità con i greci. Un ceto nuovo, economicamente in crescita, ormai ellenizzato e consapevole dell’irreversibilità del processo che nei secoli precedenti ha portato alla decadenza della civiltà del passato, sente il bisogno di evidenziare il proprio prestigio mediante la formulazione di una lingua letteraria, la quale, se pur deriva dalla secolare evoluzione linguistica egiziana, è anche totalmente aperta all’influsso lessicale, sintattico e naturalmente concettuale della cultura greca dell’epoca. Sembra quanto mai promettente l’individuazione, proposta recentemente da Roger Bagnall, del punto di svolta di questo processo nella formazione dei municipi all’inizio del III secolo: allora gli agglomerati urbani disseminati lungo la Valle del Nilo assumono in buona parte lo statuto di polis e dunque si dotano di un municipio, la cui composizione non può più essere limitata alle etnie dominanti grecoromane, ma deve far posto anche a quegli egiziani economicamente benestanti che hanno assunto un peso economico tale da renderli pronti a svolgere le funzioni municipali, con i relativi diritti e doveri35.
All’interno di questa élite dotata di una sua lingua letteraria si riproducono le tensioni culturali che sono presenti nei testi greci. A una Chiesa che esprime testi copti ‘ortodossi’ si contrappongono ambienti che traducono, copiano e interpolano più o meno profondamente testi gnostici e testi manichei. Ma nell’ambito stesso della produzione ortodossa si riscontrano testi di aperta tendenza antiorigenista e testi maggiormente aperti all’influsso della tradizione origeniana36.
Si tratta dunque di un cristianesimo bilingue, il cui vertice è tuttavia fortemente ellenizzato e tende a esprimersi in greco (la presenza di copti che parlano in greco è fatto ormai riconosciuto da tempo). La Chiesa, nella sua gerarchia, tende a riflettere l’ordine sociale presente in Egitto: poiché i ceti alti sono soprattutto greci, ai gradi più elevati (cioè l’episcopato e, più tardi, la direzione dei monasteri) troviamo soprattutto greci; poiché le masse cittadine e rurali sono di etnia egiziana, i gradi bassi della Chiesa sono occupati soprattutto da egiziani. Rispetto alla società coeva, tuttavia, l’élite egiziana trova nella Chiesa un luogo dove la sua identità è meglio riconosciuta e apprezzata.
Con il rescritto dell’imperatore Gallieno (260) inizia un periodo di pace che sarà interrotto soltanto da Diocleziano: è il periodo in cui la Chiesa si diffonde per tutto l’Egitto, dando luogo, al tempo del vescovo Pietro I (301-311), alla rete episcopale che, con aggiunte marginali, rimarrà stabile per i secoli a venire, fino al dominio arabo. La scuola catechetica, nonostante le lacune della nostra documentazione, sembra sopravvivere e subire nella seconda metà del secolo un distacco dall’episcopato: certamente il vescovo Massimo non è stato scolarca, ed è possibile che la scuola sia rimasta sotto la protezione del vescovo della metropoli, senza però interagire con la sua azione ecclesiale37.
La ricerca papirologica ha portato alla ricostruzione di qualche frammento della rete delle relazioni e delle attività di un chierico di Ossirinco, che è stato ipotizzato essere il vescovo della città nell’ultimo quarto del III secolo. La recente scoperta della lista episcopale in etiopico dei vescovi nominati da Massimo dà ragione a quest’ipotesi. Basti qui citare un elemento di questo archivio, il P.Oxy. XXXVI 2785:
Salute nel Signore, amato papa Sotas, noi, presbiteri di Eracleopoli, ti salutiamo molto. Ricevi in pace la nostra sorella Taion, che sta venendo da te, e ricevi, per edificarlo, Anos, un catecumeno nella Genesi, attraverso i quali noi e quelli con noi salutano te e i fratelli presso di te. Preghiamo che tu stia bene nel Signore, papa amato38.
Presbiteri di Eracleopoli (forse comprensivi del loro vescovo, attestato per l’epoca dalla nuova lista etiopica) raccomandano due persone al vescovo di Ossirinco, in un caso perché ne completi l’educazione religiosa. Altre lettere accennano ad altri tipi di catecumeni, di donazioni alla Chiesa, e alludono a un viaggio di Sotas ad Antiochia. Si è, cioè, nel pieno della fioritura delle attività di un episcopato, con la sua rete di relazioni, la sua gerarchia interna, forse il suo scrittorio, nonché le sue relazioni con l’élite locale.
I cristiani precostantiniani convivono spesso pacificamente con i concittadini non cristiani. Il sistema di abitazione non è molto mutato nel corso dei secoli e quello che si vede oggi in Egitto è spesso il riflesso di situazioni antichissime. Gli agglomerati di case diffusi nella Valle del Nilo erano (e sono) sovrappopolati a tal punto che non vi è la possibilità per i cristiani di nascondere la loro fede. La privacy è quasi impossibile in contesti urbani o di villaggio in cui gran parte della giornata si svolge sotto gli occhi di tutti. L’assenza dei cristiani dal culto religioso, svolto pubblicamente, non può passare inosservata. Questo in qualche caso dà lo spunto per una persecuzione. Ma normalmente tali differenze di atteggiamento nei confronti del culto pubblico possono essere tollerate, a qualsiasi livello sociale appartenga il cristiano. Un caso interessante è dato da un papiro, SB XVI 12497, proveniente da Arsinoe: una lista di candidati alla funzione di membri della commissione incaricata della cura del «castello e delle fonti della metropoli». Uno di questi è identificato come cristiano, e nella classifica finale figura in ottima posizione, al secondo posto. Perché è identificato come cristiano? Ragionevolmente si può ipotizzare che ciò sia accaduto non per escluderlo dal concorso o per identificarlo più facilmente in caso di persecuzione, ma più semplicemente per segnalare il fatto che non può partecipare a quegli atti di culto pubblico legati all’inaugurazione e all’esercizio di questa funzione pubblica. Tutti hanno interesse a che l’intera élite cittadina si faccia carico delle spese per la cura della città e poco importa a questo scopo l’identità religiosa di chi assume tali liturgie: ragione per cui appare vantaggioso che a esse partecipino anche i cristiani abbienti, rendendo loro l’incarico il più facile possibile39.
In questa seconda metà del III secolo affonda le sue radici anche quel fenomeno cristiano che costituisce uno dei grandi contributi dell’Egitto cristiano alla civiltà del Mediterraneo: il monachesimo40. Non bisogna pensarlo come qualcosa di unitario, né farsi influenzare dagli stereotipi dei secoli successivi: il periodo delle origini è caratterizzato da una pluralità non solo di motivazioni, ma anche di forme, nonché da un’identità a volte incerta anche nei confronti di altre forme tradizionali di ascetismo cristiano, legato alla vita di città o di villaggio, con cui i monaci intrattengono rapporti di cooperazione o di concorrenza. Le forme sono tante: si va da aggregazioni di due o più persone, basate sul rapporto di un maestro con uno o più discepoli, che gestiscono individualmente la propria sussistenza e collettivamente soltanto alcuni momenti liturgici o assembleari, a comunità che mettono in comune una parte dei guadagni per costruire edifici di culto, refettori per le grandi occasioni, luoghi dell’accoglienza dei pellegrini, sino a gruppi cenobitici, di cui quello pacomiano è l’esempio più famoso, che mettono in comune le proprietà individuali e lasciano gestire la sussistenza dell’intera comunità all’economo.
Nato durante la cosiddetta piccola pace della seconda metà del III secolo, poi diffusosi rapidamente durante il IV, destinato infine nel suo insieme a una lunga durata, il fenomeno monastico ha potuto mantenersi unicamente perché si è autodefinito come diverso dalla società circostante. Se nei primi secoli del cristianesimo l’adesione alle comunità cristiane implicava la contemporanea partecipazione a due società, e dunque l’elaborazione di un’identità condivisa tra la comunità dei fratelli e la società civile, caratteristica peculiare del fenomeno monastico, in ogni sua forma, è la necessità che ciascun individuo che vi aderisca si risocializzi in un contesto che ha nuove dinamiche e nuove regole, e che con il mondo civile intrattiene rapporti più o meno stretti, ma certamente secondari rispetto a quelli centrali e fondanti del nuovo contesto.
Le fonti documentarie e l’archeologia testimoniano in maniera concreta più stili di vita, uniti dal tratto comune della loro alterità rispetto alla vita civile, ai quali né il sistema educativo della società tardoantica, né la vita delle comunità cristiane potevano preparare se non in maniera parziale. Di qui la necessità di una scuola monastica, di un rapporto maestro-discepolo che sembra riproporre quello dei circoli intellettuali del cristianesimo alessandrino dei primi secoli, pur nella diversità della temperie culturale, certamente molto più varia, e della materia dell’insegnamento, dalle forme più alte di spiritualità alle nozioni basilari circa l’edificazione di una cella.
Oggi appare sempre più chiaro come il monachesimo non possa essere classificato come fenomeno sociale composto soltanto da gente piuttosto povera e di basso grado culturale. L’Antonio illetterato idealizzato da Atanasio ha lasciato alcune lettere in cui sono presenti talune idee di matrice origeniana, probabilmente giuntegli non attraverso la lettura diretta dei testi, ma dalla predicazione di presbiteri o vescovi ancora imbevuti di origenismo41.
Tra le varie ipotesi sulla nascita del fenomeno monastico, la meno percorsa, ma probabilmente la più ricca di prospettive, è quella che vede un suo rapporto, ancora da giustificare, con la veloce diffusione delle strutture ecclesiastiche durante la seconda metà del III secolo. È possibile che vecchie forme di ascetismo, con l’affermarsi della Chiesa episcopale nei centri urbani della Valle del Nilo, abbiano avvertito la necessità di vivere ai loro margini, o di immergersi nel deserto, sia che la motivazione fosse quella di far avvertire la presenza cristiana anche nei luoghi dove la Chiesa istituzionale non poteva giungere, sia che essa consistesse in una reazione a un cristianesimo troppo immerso nelle dinamiche sociali delle città.
Si pone a questo punto il problema del rapporto tra il monachesimo, molto vario nelle sue forme, e la struttura della Chiesa. Anche in questo caso, bisogna pensare che sia esistita una grande varietà di atteggiamenti, che vanno dalla collaborazione nell’evangelizzazione e nella pastorale, come sembra testimoniare la presenza di grossi centri monastici nelle vicinanze delle diocesi più importanti, fino a una certa indifferenza42.
Quando Costantino assume la direzione dell’Impero, il monachesimo ha già superato la fase dei primordi. Si vedrà come negli anni Trenta del IV secolo l’imperatore sembra comprenderne l’importanza, dato che fa convocare ufficialmente un monaco/presbitero meliziano a un concilio da lui organizzato e, secondo il racconto fededegno di Sozomeno, intrattiene una breve corrispondenza epistolare con Antonio.
La persecuzione dioclezianea, come abbiamo già accennato, era stata traumatica, ma non aveva annientato la Chiesa egiziana, che emerge da questo periodo terribile ormai ben strutturata, sebbene profondamente divisa. Gli editti di persecuzione certamente segnano un momento di crisi: vescovi che fuggono, ecclesiastici deportati e spesso condannati ai lavori forzati nelle terribili miniere del Mons Porphyrites, rappresentanti illustri dell’élite condannati a morte, chiese distrutte, libri bruciati.
La conseguenza più vistosa di tale situazione è l’esplosione di uno scisma che è profondamente radicato da una parte nell’insofferenza nei confronti della gerarchizzazione della vita episcopale, sempre più incentrata sul vescovo di Alessandria, da cui tutto sembra dipendere; dall’altra nello stato di disordine creato dalla persecuzione, che, in assenza di un’autorità centrale, anch’essa perseguitata e incapace di prendere decisioni, ha fatto sì che intere diocesi siano lasciate a sé stesse, o in mano a un clero non sempre adeguato, preparato e coraggioso. Questa centralizzazione, che non sostiene le comunità perseguitate, è stata radicalmente criticata da Melizio, vescovo di Licopoli, che oggi, grazie alle liste episcopali in etiopico, sappiamo essere stato eletto da Teona (282-300), il predecessore di Pietro. Questi si è sentito in diritto, data l’eccezionalità della situazione, e nonostante il divieto canonico per i vescovi di celebrare ordinazioni al di fuori delle diocesi di competenza (la sua era una diocesi della Tebaide), di ordinare diaconi e presbiteri nelle situazioni di bisogno, Delta compreso. Nulla di lui è rimasto, se non le contestazioni mossegli in una lettera dai vescovi martiri e, poco più tardi, la scomunica temporanea comminatagli da Pietro di Alessandria43. Il momento di inizio dello scisma può oggi essere determinato con una migliore approssimazione rispetto a qualche anno fa, poiché la versione etiopica degli Atti di Filea, vescovo di Tmui, recentemente edita, registra la data del martirio del vescovo, il 4 febbraio del 30544. Siccome proprio questo vescovo scrive, prima di morire, una lettera a Melizio, assieme ad altri vescovi imprigionati con lui, bisogna dedurne che le azioni di Melizio devono essere collocate, se non prima, almeno nel 304, subito dopo gli editti di Diocleziano (303).
Non si può ripercorrere che per brevi cenni i complessi eventi che segnano l’affermarsi dello scisma45. La documentazione sullo scisma è classificabile in due categorie, una alessandrina e l’altra esterna all’episcopato (in sostanza la notizia di Epifanio di Salamina). La ricerca più recente, valorizzando soprattutto le fonti alessandrine a discapito della notizia di Epifanio46, ha individuato la causa fondamentale dello scisma nella contestazione del potere monarchico esercitato dalla sede episcopale di Alessandria sull’insieme della Chiesa egiziana, poco adatto a una Chiesa perseguitata, mentre ha dato minor peso al motivo che l’eresiologo considera fondamentale, cioè la supposta divergenza tra Pietro e Melizio sul trattamento da riservarsi ai chierici lapsi, che non risulta confortata dalla famosa lettera penitenziale di quest’ultimo, esprimente in proposito delle posizioni più articolate di quelle attribuitegli dall’eresiologo. Questo non vuol dire che la questione dei lapsi non sia mai stata sollevata nei lunghi decenni dello scisma: è anzi probabile che sia stata utilizzata nell’ambito della catechesi e della predicazione delle due Chiese, o nella rappresentazione che esse hanno voluto dare di se stesse e del loro passato.
La documentazione egiziana conserva testimonianze di grande interesse, per quanto non esenti da stereotipi polemici: la lettera che Filea di Tmui e altri tre vescovi del Delta, imprigionati a causa della fede, indirizzano a Melizio per esortarlo a interrompere le ordinazioni di presbiteri nelle loro diocesi, da lui compiute senza il loro consenso e senza quello del vescovo Pietro; un testo narrativo intermedio in cui si parla dell’entrata di Melizio in Alessandria e del suo tentativo di esautorare il presbiterio alessandrino; la lettera in cui Pietro, dopo il martirio dei quattro vescovi, esorta i cristiani alessandrini, almeno temporaneamente, a non entrare in comunione con Melizio; la lettera penitenziale di Pietro, in cui vengono stabilite alcune pene per i diversi tipi di lapsi (datata 15 aprile 306)47. A tutto ciò, Atanasio aggiunge la notizia che Melizio fu giudicato in contumacia da un concilio della Chiesa egiziana organizzato da Pietro (dunque tra il 306 e il 311), e presenta la lista dei vescovi meliziani consegnata da Melizio ad Alessandro dopo il concilio di Nicea48. La nuova documentazione etiopica accenna quindi alla diffusione di quello che ormai si deve chiamare uno scisma vero e proprio, per tutto il periodo che comprende gli ultimi anni dell’episcopato di Pietro, il suo martirio (311), l’episcopato di Achilla (312) e quello di Alessandro (312-328): infatti Melizio procede a ordinazioni episcopali, sia in zone dove non vi era un seggio episcopale (in pochi casi), sia in diocesi dove era già presente il vescovo eletto e consacrato dal vescovo di Alessandria (la maggioranza dei casi). A queste fonti vanno aggiunti i papiri provenienti da monasteri meliziani (tra i quali emergono due archivi, uno legato a Paieus/Pageus, l’altro a Nepheros), che danno non solo importanti notizie sulla natura varia del monachesimo meliziano, ma anche sulle tensioni in atto tra meliziani e pro-atanasiani alla vigilia del concilio di Tiro (335).
Non essendoci rimasto alcun testo di Melizio, si può soltanto ipotizzare che egli fosse a favore di una gestione più democratica delle cose ecclesiastiche, forse informata al modello prevalente in Siria e Palestina (cioè un vescovo ordinato dai vescovi circonvicini con l’approvazione del metropolita), e che fosse orientato a rideterminare le funzioni del vescovo di Alessandria, probabilmente nel senso di diminuire il suo diritto di intervento. D’altra parte tale visione, a partire dal momento in cui viene fondata una Chiesa separata, non preclude a Melizio di ritenere possibile una sua presidenza sui vescovi eletti per suo impulso, una sorta di funzione di rappresentanza del corpo episcopale, da lui stesso esercitata e poi ereditata da Giovanni Arkaph, vescovo di Menfi. Si noti tuttavia che tale presidenza, a differenza di quella del vescovo di Alessandria, non è legata a una diocesi specifica.
Il concilio di Nicea del 325 viene a definire i criteri della riconciliazione e lo status dei vescovi meliziani che, ricevuta una kheirotonia mystikotera (letteralmente ‘imposizione di mani più mistica’), se non hanno un concorrente alessandrino divengono vescovi unici della loro diocesi, altrimenti devono sottomettersi ai colleghi alessandrini49. Si è a lungo discusso e si discute ancora sul significato dell’espressione sopra riportata: si tratta di una nuova ordinazione? È forse un atto formale che presuppone comunque il riconoscimento della validità dell’ordinazione di Melizio? È ordinazione o consacrazione? Quello che sembra certo è che si tratta di un atto volto a legare strettamente il vescovo meliziano riconciliato al seggio alessandrino, forse derivato dalla disciplina penitenziale50.
Melizio, dopo il concilio, presenta una lista del suo clero ad Alessandro, il quale intende rendere operative le norme di Nicea. Poco dopo la morte del vescovo scismatico (327) la contesa tuttavia si riapre, acuendosi dopo l’elezione contrastata del suo successore, Atanasio. Solo una parte dei vescovi accetta la riconciliazione: molti la rifiutano, in particolare nelle diocesi in cui si trova il vescovo alessandrino, nei confronti del quale ai vescovi meliziani è imposta dalle sanzioni nicene una sottomissione difficilmente accettabile.
Il concilio di Nicea del 325 è universalmente noto soprattutto per le decisioni prese a livello dottrinale, cioè la condanna della dottrina ariana e dei suoi sostenitori e la formulazione di una definizione di fede destinata a diventare, non immediatamente ma di lì a qualche decennio, l’espressione dell’ortodossia di una parte consistente dell’episcopato cristiano. In questa sede importa soprattutto accennare agli effetti ecclesiali della crisi dottrinale, perché questi sembrano toccare sostanzialmente la forma della struttura ecclesiastica egiziana e la funzione in essa ricoperta dal seggio di Alessandria51.
È noto che poco prima del 320 uno dei presbiteri responsabili di una chiesa parrocchiale di Alessandria, il libico Ario, viene denunciato da una parte del clero presso il vescovo Alessandro a causa delle sue dichiarazioni trinitarie: egli distingue in maniera netta le tre persone divine e, soprattutto, accentua il subordinazionismo tipico della tradizione di Origene fino a ridurre Cristo quasi al livello delle creature, anche se lo definisce come la più eccellente fra le creature. Alessandro convoca presso di sé il clero della sua città per discutere la dottrina del suo presbitero. Ma in seguito invita Ario a rinnegare il suo insegnamento, ricevendone un netto rifiuto. A questo punto Alessandro convoca un concilio dell’intera Chiesa egiziana, rappresentata da cento vescovi, per discutere il caso di Ario e scomunicarlo assieme ai suoi sostenitori: vengono deposti alcuni presbiteri e diaconi di Alessandria e poi della Mareotide, e due vescovi, Secondo di Tolemaide e Teona di Marmarica. L’allontanamento di Ario verso la Palestina e la Siria e la sua richiesta di rifugio presso l’episcopato di quelle regioni allargano inaspettatamente quello che poteva apparire un dissenso teologico tutto alessandrino. Dall’episcopato di quelle aree proviene, infatti, un insospettato e largo consenso nei suoi confronti, che coinvolge personaggi di alta levatura ecclesiale: si pensi, per fare solo due nomi, a Eusebio di Nicomedia, futuro leader dell’episcopato orientale, vicino alla casa imperiale, e alla più grande autorità culturale cristiana dell’epoca, Eusebio di Cesarea. Ciò non vuol affatto dire che i vescovi sostenitori o difensori di Ario ne condividano appieno la dottrina; significa piuttosto che essi colgono nella sua vicenda un forte stimolo a rinserrare i ranghi contro il pericolo, sempre risorgente, dei loro nemici teologici (sabellianismo e monarchianismo). Non si può tuttavia trascurare un’altra motivazione: sostenere Ario e i suoi amici significa anche limitare il potere della sede episcopale di Alessandria, che nel giro di pochi decenni appare sempre più potente e collocata al vertice di una struttura monolitica, che non ha pari nel Mediterraneo orientale.
Acquista il massimo interesse il fatto che Costantino senta il bisogno di intervenire in questa ulteriore divisione, con una lettera (databile al 324) conservataci da Eusebio di Cesarea. Qui l’imperatore, richiamando uno dei princìpi basilari del suo governo, l’homonoia religiosa tra i popoli e i fedeli dell’Impero e del mondo, illustra la sua azione durante lo scisma donatista e deplora la nuova, inutile divisione che si sta sviluppando nel cristianesimo egiziano, dal quale egli sperava che «gli altri potessero ottenere guarigione», e che invece è afflitto da una contesa su questioni insignificanti, non centrali nella fede cristiana, la cui discussione pubblica non può che portare alla divisione52.
Il concilio di Nicea, pur condannando la dottrina ariana e i suoi sostenitori, non chiude affatto la crisi teologica. Negli anni successivi una serie di avvenimenti viene a complicare la situazione: il parziale insuccesso di Alessandro nei confronti del clero meliziano, la politica di Costantino tendente a colpire gli estremisti di ambo le parti in nome della pace religiosa, le singole iniziative che portano alla radicale riduzione dei vescovi favorevoli a Nicea in Oriente e dunque a un riequilibrio delle forze in campo. In questo contesto di forti tensioni, l’intervento di Costantino è sempre più pressante, anche se non risolutivo.
Morto Alessando il 17 aprile 328, Atanasio è eletto vescovo di Alessandria l’8 giugno, in un contesto di violenti contrasti. La condanna dell’arianesimo al concilio di Nicea non sembra aver risolto il conflitto dottrinale. Lo scisma meliziano non ha trovato nei canoni una soluzione. Al momento dell’elezione, un terzo o metà dei vescovi meliziani ha già rotto la riconciliazione. L’elezione stessa di Atanasio appare problematica in tutte le fonti antiche che vi alludono. Egli è accusato, tra l’altro, di essere stato eletto vescovo troppo giovane. Ma il problema reale riguarda la partecipazione dei vescovi delle due Chiese egiziane all’elezione: possono i vescovi meliziani dire la loro sul vescovo di Alessandria? È possibile che l’episcopato favorevole ad Atanasio abbia optato a un certo punto per il rispetto minuzioso delle decisioni di Nicea in materia di prerogative dei vescovi meliziani53: dalla riduzione di tali prerogative, il partito pro-atanasiano forse deduceva che i vescovi meliziani non avessero diritto a partecipare all’elezione. Più di una fonte parla di un colpo di mano da parte di Atanasio, il quale avrebbe radunato pochi vescovi e si sarebbe fatto consacrare54. Non siamo in grado di controllare questa notizia di parte; tuttavia, da ciò che accade in seguito, sembra potersi ipotizzare che la corrente pro-atanasiana, constatata la difficoltà di giungere a un accordo con i vescovi meliziani ed ex-meliziani, abbia preferito rompere le trattative ed eleggere per conto proprio il candidato designato da Alessandro, sfruttando una maggioranza numerica estremamente esigua.
Gli avvenimenti della prima carriera episcopale di Atanasio sono stati approfonditamente studiati, così come le specifiche accuse che gli vengono imputate55, riguardanti le violenze sue e dei suoi seguaci nei confronti dei meliziani: la corruzione di un funzionario imperiale, la requisizione di tuniche di lino, le violenze e poi l’assassinio (dimostratosi inesistente) di un vescovo vicino ai meliziani, la rottura del calice del presbitero Ischira, seguace dello scismatico Colluto, poi passato anch’egli ai meliziani. Si tratta di accuse di variabile gravità e fondatezza, che rivelano tuttavia uno stato di violenza continua nei rapporti tra le due Chiese, in cui i torti e le ragioni non sono facilmente attribuibili. Atanasio, per difendersi, ha l’occasione di incontrare direttamente Costantino e di convincerlo delle sue ragioni, in alcuni casi anche in maniera plateale e clamorosa. Tuttavia, l’acuirsi dello stato di violenza spinge l’imperatore a cercare soluzioni più efficaci di quelle raggiungibili attraverso un colloquio personale con gli attori della crisi: i meliziani da una parte, Atanasio dall’altra. Nel frattempo, tutto sta portando rapidamente a quell’alleanza tra vescovi eusebiani e meliziani che determinerà la più grave sconfitta della carriera di Atanasio.
La rete delle sedi episcopali egiziane, estesa da nord a sud fino a quel centro del paganesimo che è l’isola di File, ma anche volta pronunciatamente a ovest verso le città della Cirenaica e anche oltre, manifesta sotto Atanasio, a seguito dello scisma meliziano e della diffusione dell’arianesimo, delle consistenti rotture, essendo i meliziani attivi soprattutto lungo la Valle del Nilo e nel Delta, mentre l’arianesimo ha i suoi rappresentanti in Libia. Si tratta di una situazione difficile, cui il vescovo cerca di reagire con una politica ecclesiale complessa, in cui l’elemento propagandistico e polemico estremamente aspro e l’uso della costrizione non sono disgiunti da atti di riconciliazione volti a rafforzare il proprio partito ecclesiale. Si possono evidenziare alcuni aspetti del suo operato: i viaggi pastorali dei primi anni, volti da una parte a rinsaldare le comunità della Valle del Nilo contro il pericolo meliziano, e quelle della Libia contro la presenza ariana, e dall’altra a instaurare un rapporto il più stretto possibile con il monachesimo, nelle sue mille sfaccettature; la creazione di sedi episcopali che hanno lo scopo di contrastare quelle detenute nelle vicinanze da vescovi meliziani e ariani; la disponibilità alla riconciliazione verso i vescovi che intendono abbandonare lo scisma o l’eresia.
Dopo un periodo di calma56, poco prima della Pasqua del 334 Atanasio riceve da Costantino la convocazione a un concilio da tenersi a Cesarea di Palestina, voluto probabilmente da Eusebio di Nicomedia e dal suo gruppo di pressione per chiarire in maniera definitiva la posizione di Atanasio. In Egitto la convocazione giunge a tutti, come dimostra P. Lond. VI 1913, datato 19 marzo 334, contenente le istruzioni di un abate di un monastero meliziano per il periodo della sua assenza in occasione del concilio:
Poiché sono state inviate sacre lettere imperiali dal piissimo imperatore Costantino [ϑείων βασιλικῶν γραμμάτων ἀναπεμφϑέντων ὑπὸ τοῦ εὐσεβεστάτου βασιλέως Κωνσταντίνου] che comandano ai vescovi dell’Egitto e presbiteri e molti altri e io con loro [...] di procedere verso Cesarea nella Siria palestinese per giungere a una decisione concernente la purificazione del santo corpo cristiano [...] è per me necessario stabilire un mio sostituto fino al momento del mio ritorno57.
Atanasio rifiuta però di presentarsi: un rifiuto che gli sarà rinfacciato nell’immediato futuro e che certamente diminuisce il favore di Costantino nei suoi confronti. In tale situazione viene organizzato il sinodo di Tiro del 335, momento centrale non solo della carriera episcopale di Atanasio, in quanto egli viene condannato in maniera ufficiale, ma anche del rapporto tra il vescovo e l’imperatore, che proprio in questa occasione subisce una svolta radicale, destinata soltanto con il tempo a essere obliterata dalla propaganda atanasiana dopo la morte di Costantino. Da tutti gli storici moderni, anche da coloro che meno simpatizzano per Atanasio, quello di Tiro viene ritenuto un concilio di parte, il cui scopo fondamentale è deporre un vescovo che ha il doppio difetto di essere troppo favorevole alla definizione di fede del concilio di Nicea e di esercitare, con un notevole senso della propria autorità, il potere su una regione ecclesiastica enorme. La convocazione di Costantino questa volta non lascia alcun dubbio, in quanto, dopo aver deplorato la litigiosità dei vescovi, minaccia di esilio chi non si presenterà al concilio58.
Un papiro è illuminante circa lo stato di eccitazione e di confusione delle due Chiese alla vigilia del concilio di Tiro: P.Lond. VI 191459, il cui impatto per gli studi sulla Chiesa nel IV secolo e sulla figura di Atanasio è stato rilevante60. Si tratta di una lettera indirizzata da un certo Callisto a Palabeit e Paieous, quest’ultimo capo del monastero meliziano di Hathor. L’autore della lettera è ad Alessandria, dove assiste a una serie di incidenti di cui sono vittime i meliziani, per responsabilità diretta o indiretta di Atanasio stesso. Nella lettera sono menzionati personaggi che conosciamo anche da altre fonti, come Isacco di Letopoli, Giovanni Arkaph, vescovo di Menfi, un certo papa Heraiskos, che è stato recentemente dimostrato essere vescovo di Eracleopoli, e il famoso Macario, il prete amico di Atanasio. Il redattore è un caloroso sostenitore dei meliziani. Egli propone un cupo ritratto di Atanasio, ora istigatore di atti repressivi, ora preso da incertezze sul futuro.
Atanasio parte per Tiro l’11 luglio 335, facendosi accompagnare da decine di vescovi, fra i quali alcuni ex-meliziani, che vengono tutti esclusi dalle sedute. Gli atti del concilio non ci sono giunti, ma sono riassunti da Sozomeno61. Le accuse di parte meliziana sono già note: il calice spezzato di Ischira; la cacciata e l’imprigionamento di molti vescovi meliziani; l’elezione irregolare. La difesa di Atanasio riscuote un certo successo, poiché il concilio decide di inviare una sua delegazione in Mareotide per meglio indagare la questione del calice spezzato di Ischira. Tornata, questa, all’inizio di settembre con un rapporto sfavorevole ad Atanasio, i vescovi procedono alla condanna del vescovo (probabilmente presente) e alla sua deposizione, mentre il clero meliziano, compreso Ischira, destinato di lì a poco a diventare vescovo in Mareotide, viene reintegrato nelle sue funzioni. I vescovi si spostano quindi a Gerusalemme, dove si svolge la festa della dedicazione della chiesa del Santo Sepolcro, che Costantino vuole che sia celebrata nella concordia. Per questo motivo chiede ai vescovi la reintegrazione di Ario, la cui dottrina gli appare ortodossa: richiesta che i vescovi ratificano.
Atanasio, al momento della condanna, si reca a Costantinopoli, facendosi accompagnare da alcuni suoi vescovi, con l’intenzione di chiedere a Costantino la revisione del giudizio di condanna. Dopo settimane di attesa, quando l’imperatore rientra in città a cavallo, il 30 ottobre 335, Atanasio si presenta a lui reclamando giustizia e domandandogli di essere giudicato dai vescovi di Tiro alla sua presenza. Quest’atto audace vale l’invio di una lettera imperiale ai vescovi membri del concilio di Tiro, che vengono convocati a corte per verificare i termini della condanna inflitta al vescovo62. Si tratta di uno degli episodi storici più emblematici del rapporto tra Costantino e i vescovi, giustamente enfatizzato da Harold A. Drake63:
Io non conosco quali decisioni siano state prese dal vostro concilio con rumore e tumulto, ma pare che in qualche modo la verità sia stata stravolta a causa di un qualche confuso disordine, in quanto chiaramente, a causa della vostra litigiosità verso il prossimo, che avete deciso fosse ineluttabile, non percepivate che cosa è gradito a Dio. Tuttavia, sarà compito della divina Provvidenza dissipare i mali che risultano in maniera manifesta derivare da questo spirito di contesa e mostrarci in maniera chiara se voi, là riuniti, avete avuto qualche riguardo per la verità e se avete preso le vostre decisioni prescindendo da favore o da inimicizia.
Perciò desidero che voi tutti vi riuniate rapidamente davanti alla mia pietà in modo che possiate rendere di persona un preciso resoconto delle vostre azioni. Perché io abbia ritenuto opportuno scrivervi così e perché vi convochi al mio cospetto per lettera, lo potete apprendere da ciò che sto per raccontare.
Mentre io stavo recentemente entrando nella nostra felicissima patria che porta il mio stesso nome, Costantinopoli – si trovava allora a cavallo64 –, improvvisamente il vescovo Atanasio, con alcuni altri che egli aveva con sé, si avvicinò a me nel mezzo della strada in maniera così inaspettata, da causarmi molto stupore. Dio, che tutto conosce, è mio testimone che io non sarei stato in grado a prima vista di riconoscerlo se alcuni dei nostri, da noi richiesti in tal senso, com’è ovvio, non mi avessero informato sia su chi fosse, sia su quale ingiustizia stesse subendo. In quel momento io non entrai in conversazione con lui, né gli concessi un incontro. Ma, poiché quello richiedeva di essere ascoltato, mentre io rifiutavo e poco mancava che dessi ordini perché fosse rimosso, con franchezza ancora maggiore egli chiese soltanto questo favore da noi, che voi foste convocati per comparire, in modo che egli potesse avere l’opportunità di lamentarsi davanti a me in vostra presenza del cattivo trattamento subito65.
Poiché questa mi è apparsa una richiesta ragionevole e adatta ai tempi, io volentieri ho ordinato che vi fosse scritta questa lettera, in modo che tutti voi che avevate formato il concilio che si era tenuto a Tiro vi affrettiate senza indugio alla corte della mia clemenza, in modo da provare con i fatti stessi la pura e incorrotta natura del vostro giudizio presso di me, al quale non vorreste negare il fatto di essere un genuino servo di Dio. Infatti attraverso il mio servizio a Dio la pace regna ovunque e i barbari stessi, che finora erano ignoranti della verità, benedicono il nome di Dio in maniera autentica66.
L’eccezionalità di questa testimonianza può difficilmente essere sottovalutata: Atanasio, che certamente intrattiene qualche rapporto con membri dell’entourage imperiale, i quali hanno saputo presentare a Costantino una versione dei fatti a lui favorevole, a rischio della sua stessa vita blocca il rientro dell’imperatore a cavallo, reclamando ripetutamente giustizia. È un confronto che plasticamente rappresenta i rapporti tra Costantino e il primate della Chiesa egiziana: quest’ultimo sa toccare le corde più sensibili dell’ideologia dell’imperatore, e lo fa sapendo che un giudizio di condanna è stato pronunciato contro di lui, forse lui stesso presente: non resta altro che compiere il gesto estremo dell’appello diretto all’imperatore. Costantino, da parte sua, è incerto sul da farsi, come la lettera attesta. Infatti non vuole urtare la sensibilità dei vescovi, che hanno formulato un giudizio ufficiale sulla questione di Atanasio, da lui stesso ripetutamente richiesto. D’altra parte, si deve tener conto della possibilità che all’imperatore non risultino ancora noti gli atti, e che dunque egli abbia bisogno di un supplemento di informazione direttamente dai vescovi partecipanti. Costantino è anche molto attento a ribadire che non ha avuto una conversazione personale con il vescovo, come invece più di una volta era accaduto in passato, a dire cioè che agisce senza aver subìto pressioni personali: la questione di Atanasio sarà dunque giudicata nella maniera più imparziale possibile. L’imperatore, nel suo difficile e sofferto rapporto con i vescovi, si trova tra l’incudine di un richiesta di giustizia apparentemente legittima, formulata da un vescovo popolare, e il martello di un giudizio ufficiale, che forse non gli è ancora noto, formulato da un sinodo composto da un numero significativo di vescovi di grande rispettabilità.
Cosa accade a questo punto? Mancano dati sicuri, in quanto il resoconto di Atanasio è manifestamente tendenzioso. Secondo il suo racconto, il giorno seguente giungono a corte alcuni vescovi amici di Eusebio di Nicomedia, membri del concilio di Tiro, i quali, invece di discutere le questioni sollevate durante il concilio, riportano una presunta dichiarazione di Atanasio, secondo la quale egli era in grado di impedire il rifornimento di grano che giungeva da Alessandria a Costantinopoli67: «Costantino, non appena udì un’accusa di tal genere, subito si incendiò d’ira e, senza aver concesso l’udienza, ci inviò in Gallia»68. È del tutto evidente la natura apologetica del racconto: la decisione di Costantino non sarebbe dettata dalla lettura degli atti, ma dalla comprensibile reazione di fronte a una gravissima accusa contro Atanasio. Tale racconto svolge perfettamente la doppia funzione per cui è stato scritto, quella di svergognare ulteriormente i vescovi nemici, che tengono un comportamento deplorevole, e quella di far salvo l’onore imperiale. Comunque siano andate veramente le cose, Atanasio è inviato a Treviri presso Costantino, figlio di Costantino, senza che venga proposto un successore sul seggio episcopale di Alessandria. Inoltre l’imperatore provvede anche a esiliare Giovanni Arkaph, il leader dei meliziani, rimanendo dunque fedele alla sua politica di eliminazione degli estremisti delle due parti in conflitto69.
Quali ipotesi sono state proposte dagli studiosi circa questo episodio e il racconto atanasiano? Le due posizioni più distanti sono state espresse in anni recenti rispettivamente da Timothy D. Barnes e Annick Martin. Secondo il primo70, mediante la lettera di convocazione Costantino manifesta il suo diritto ad annullare la condanna del vescovo promulgata dal concilio di Tiro; non solo: Atanasio, anche se esiliato per volere dell’imperatore, sarebbe da lui considerato ancora vescovo di Alessandria. Secondo Martin71, invece, i vescovi del concilio di Tiro, giunti da Gerusalemme, difficilmente possono aver ricevuto la convocazione di Costantino, che rimane dunque lettera morta. La loro presenza nella capitale in quel frangente è dovuta al semplice fatto che gli atti del sinodo devono comunque essere presentati all’imperatore; questi, appresone il contenuto, agisce in conformità con il giudizio di condanna espresso dal sinodo, senza tuttavia arrivare alla decisione estrema di permettere la designazione di un successore sul seggio alessandrino, forse in attesa che gli animi dei cristiani d’Egitto si rasserenino.
Alle proteste di molti egiziani per l’esilio dell’amato vescovo, Costantino ribatte sottolineando la turbolenza di Atanasio e l’onestà dei vescovi che lo hanno condannato. Secondo Sozomeno, l’imperatore scrive al monaco Antonio
affermando che egli non doveva trascurare il decreto del sinodo. Poiché, diceva, se anche pochi vescovi potevano aver giudicato spinti da animosità o da compiacenza, sembrava davvero poco credibile che una folla di prudenti ed eccellenti vescovi fosse dello stesso avviso spinta da queste motivazioni; infatti Atanasio era insolente e arrogante, causa di dissenso e sedizione72.
In questo importante passo emerge ancora una volta la linea fondamentale della politica ecclesiastica di Costantino: l’homonoia e la repressione degli estremisti, fra i quali è incluso Atanasio.
Essere esiliato da un imperatore non poteva essere una buona carta di presentazione per chi aveva la pretesa di recuperare il ruolo di capo della Chiesa egiziana. Negli anni dell’esilio (335-337) e soprattutto nei decenni seguenti la morte di Costantino, quando i rapporti con Costanzo tendono irreversibilmente alla rottura, Atanasio rielabora la memoria di Costantino e le motivazioni del suo stesso esilio, secondo due linee fondamentali: la misura dell’esilio, presa da Costantino in uno scatto di collera, sarebbe stata dettata dalla volontà di sottrarlo alle insidie dei suoi nemici; l’imperatore avrebbe manifestato l’intenzione di restaurare il vescovo sul suo seggio episcopale.
Ambedue queste affermazioni prestano spazio a dubbi. Quello che importa è sottolineare che entrambe sono fatte proprie non solo dalla Chiesa egiziana a lui favorevole, ma persino da Costantino II, come dimostra una sua lettera del 17 giugno 337 in cui parla del rientro di Atanasio nella sua sede73.
La Chiesa egiziana nel IV secolo e l’impatto di Costantino
Mentre le vicende di Atanasio riconfigurano le relazioni tra Chiesa egiziana e Stato, il IV secolo è anche il momento in cui la struttura della Chiesa egiziana entra nella sua fase classica, sviluppando le premesse già implicite in epoca prenicena, e la sua preminenza in Oriente, forse contenuta in nuce nei canoni del concilio di Nicea, viene sostenuta con ogni mezzo.
È noto, soprattutto grazie agli studi di Ewa Wipszycka74, che il carattere di reale originalità del cristianesimo egiziano, rispetto alle altre regioni della cristianità, sta nella forma della gerarchia, la quale vede due soli protagonisti, il vescovo di Alessandria da una parte e, dall’altra, i vescovi delle circa cento diocesi, senza alcuna struttura intermedia. Balza agli occhi la mancanza di vescovi metropoliti: tutti i vescovi sono direttamente sottoposti all’autorità del vescovo di Alessandria, come afferma anche il VI canone del concilio di Nicea (325). La conseguenza più vistosa del potere autocratico del vescovo di Alessandria e dell’assenza di strutture metropolitane intermedie è il sistema particolare di elezione dei vescovi nelle singole diocesi: tutti i vescovi devono essere consacrati personalmente dal vescovo di Alessandria. La procedura inizia con l’elezione del candidato, spesso membro del clero locale, da parte dei vescovi delle città vicine, dei notabili della città e del popolo. A questo punto egli si reca ad Alessandria con un documento attestante i risultati dell’elezione (psephisma), facendosi accompagnare da altri membri del clero ed eventualmente da qualche autorità cittadina. Là il vescovo della metropoli lo consacra nel corso di una celebrazione solenne, e in seguito gli rilascia una lettera destinata al clero e al popolo della città di provenienza, annunciante l’avvenuta ordinazione. Tutto questo lascia una vivida impressione in un ecclesiastico venuto dall’interno dell’Egitto e gli ispira una fiducia acritica nel vescovo della metropoli, instaurando un legame di subordinazione tra il nuovo eletto e il capo della sua Chiesa. In alcuni casi il vescovo di Alessandria può rifiutare il candidato proposto dalla diocesi e sceglierne un altro che egli ritenga più idoneo. Il potere del vescovo di Alessandria può giungere sino a creare nuove sedi e a togliere lo statuto di sede episcopale a una città, come accade ad esempio sotto Teofilo (385-412).
Se il rapporto tra il vescovo di Alessandria e i vescovi d’Egitto è di uno a cento, egli deve essere coadiuvato da una curia con personale ben addestrato, capace di mantenere i contatti epistolari con le diocesi egiziane e i monasteri, di notare nelle singole diocesi coloro che sono capaci di ascendere nella carriera ecclesiastica, di amministrare il patrimonio economico. Vi è personale specializzato anche nella cura e nella sistemazione degli archivi, nell’organizzazione di uno scrittorio dove sono copiati in decine di copie i messaggi del vescovo al paese o all’estero, nella diffusione materiale di questi in tutto il territorio75.
D’altra parte, se la mancanza di arcivescovati ha come conseguenza un aumento del potere del vescovo di Alessandria, cui gli altri vescovi d’Egitto devono ubbidire in materia dogmatica e nella politica ecclesiale, ne segna anche un limite: i vescovi delle cento diocesi hanno una notevole autonomia nelle faccende pastorali locali, non avendo un metropolita sopra di loro che li possa controllare frequentemente76. Che cosa sappiamo dell’azione dei singoli vescovi nelle loro diocesi? I Canoni dello Pseudo-Atanasio e altre fonti chiariscono molto bene le funzioni del vescovo nella sua diocesi e nella sua città77: sostegno dei poveri attraverso l’amministrazione delle elargizioni, amministrazione del patrimonio ecclesiastico, gestione della vita interna della diocesi, sia dal punto di vista sacramentale sia da quello morale, ordinazione dei chierici. Quanto a questi ultimi, come dimostrano papiri greci e copti, la procedura di ordinazione viene messa in moto dal clero o dai notabili di una data località che presentano al vescovo un candidato, dichiarando per iscritto che svolgerà bene e con moralità le sue funzioni. Il candidato stesso deve firmare un atto in cui sono registrati i suoi compiti e una dichiarazione con cui si impegna a non allontanarsi dalla diocesi. Naturalmente il vescovo non ha diritto a ordinare presbiteri al di fuori della sua diocesi; ma non tutti i vescovi rispettano tale regola, e le ordinazioni illegali in qualche caso portano a disordini di un certo rilievo78.
Che cosa sappiamo della diffusione della Chiesa nel territorio, anche sotto la forma di edifici ecclesiastici, privati o legati alla chiesa episcopale? Gli edifici ecclesiastici di Alessandria e del territorio egiziano diversi da quelli episcopali possono distinguersi in vari tipi: chiese private, chiese di centri monastici e chiese definite katholikai, sulle quali conviene concentrare la nostra attenzione. Wipszycka fa osservare che, per comprendere la diffusione di quest’ultimo tipo di chiese, bisogna tener presente che una parte considerevole della popolazione egiziana non urbana vive in grossi villaggi di alcune migliaia di abitanti, dotati di un abitato compatto. Questo favorisce il sorgere di una rete di chiese non controllate direttamente dal vescovo della città, che si possono in qualche modo avvicinare, almeno sotto il profilo della funzione territoriale, alle chiese parrocchiali. A differenza di queste ultime, i presbiteri che presiedono ad esse non hanno autorità sugli altri membri del clero e i laici non hanno l’obbligo di frequentarle per le loro esigenze di culto. A che cosa servono? La loro funzione è quella di fornire un servizio di culto eucaristico e di catechesi scritturistica che è svolto anche dalla chiesa del seggio episcopale (normalmente una città), ma che presenta il vantaggio di essere reso nei luoghi di residenza, spesso lontani dalla città. Il presbitero non può celebrare i battesimi, che vengono invece impartiti dal vescovo o nella chiesa del seggio episcopale o nelle chiese katholikai quando vi si reca. Il numero di queste chiese cresce già nel IV secolo, tanto che in un borgo ve ne può esistere una pluralità.
Che tipo di impatto ha avuto la svolta costantiniana su questa Chiesa così strutturata?79 Come abbiamo potuto constatare, tale chiesa è già costituita ben prima di Costantino nella sua complessa articolazione, che non cambia con l’avvento dell’imperatore cristiano. Lo stesso movimento monastico si sviluppa prima di lui (sebbene il primo papiro documentario che ne attesti l’esistenza risalga al 323/324), e non sembra particolarmente toccato dai cambiamenti nella direzione politica dell’Impero. Questo non vuol dire che Costantino non abbia nozione del fenomeno, come si è visto.
E tuttavia, tra le varie novità introdotte dalla gestione costantiniana delle cose ecclesiastiche, ne va citata una che ha lasciato un segno profondo nelle fonti, e in particolare in Atanasio: la sovvenzione costantiniana in favore del clero, delle vedove e delle vergini (anch’esse in qualche modo membri del clero in quanto registrate in un apposito elenco)80. Si tratta di regolari assegnazioni di grano o di pane, che il vescovo può attingere alle riserve della municipalità. Tale sovvenzione pone il vescovo in una posizione di dominio e di esercizio del patronato su vasti settori della popolazione; e soprattutto permette di distribuire i beni al clero cattolico e di negarli al clero scismatico o eretico81. I passi atanasiani più valorizzati dagli studiosi sono i seguenti, derivati da una circolare alessandrina del 338 tramandata nell’Apologia secunda contra Arianos:
Del grano era stato dato dal padre degli imperatori per il sostentamento delle vedove, separatamente nelle Libie e ad alcuni [vescovi] dell’Egitto. Tutti ricevono questo grano fino ad oggi, e Atanasio non ricava da esso nient’altro che il faticare [per distribuirlo nelle diocesi] insieme con quelli. Ma ora, sebbene quelli ricevano il grano e non si siano lagnati, anzi riconoscano di riceverlo, Atanasio è stato calunniosamente accusato di vendere tutto il grano e di prenderselo82.
Nella stessa lettera si afferma che «l’indizio più chiaro del fatto che la calunnia viene da loro è il seguente: essi si danno da fare per togliere il grano alla Chiesa e darlo agli ariani»83. Cosa che puntualmente si avvera: «Lettere e ordini furono immediatamente inviati da lì al prefetto, in modo che per il futuro il grano fosse tolto ad Atanasio e dato a coloro che favorivano le dottrine ariane»84. Dunque, i cambiamenti nella politica religiosa degli imperatori possono avere effetti drammatici sul sostentamento del clero, delle vedove, delle vergini, delle diocesi nel loro insieme.
Essendo l’esistenza della prima chiesa katholike nota attestata nel 343, è del tutto probabile che la diffusione di questa istituzione sia iniziata sotto Costantino85. La responsabilità dell’imperatore può essere considerata diretta? Sembra probabile che le elargizioni imperiali possano aver favorito indirettamente questa diffusione delle chiese sul territorio. Si sa che l’iniziativa poteva partire dall’insieme degli abitanti di un villaggio o da una singola famiglia, ma è possibile che i vescovi si siano fatti mediatori delle elargizioni statali.
L’altro aspetto in cui è possibile vedere l’impronta costantiniana, o meglio l’evoluzione di una tendenza innestata nella politica ecclesiastica da Costantino, è l’estensione della Chiesa oltre i confini dell’Impero. Si è visto come, nella lettera di convocazione del 335, Costantino esalti la sua capacità di diffondere il culto del Dio cristiano oltre i confini dell’Impero, tra i ‘barbari’. È del resto nota la sua attività diplomatica verso l’Etiopia nel biennio che precede la sua morte, poi proseguita con maggiore vigore da Costanzo, in funzione antipersiana86.
Documento capitale circa l’evangelizzazione dell’Etiopia, oltre alla famosa narrazione di Rufino87, è la lettera, citata da Atanasio88, nella quale Costanzo esorta i re di Axum ‛Ezana e Sazana a inviare ad Alessandria, presso il vescovo Giorgio che ne è a capo (dopo il 356), il vescovo Frumenzio, affinché ne verifichi la fede, dato che la sua ordinazione è stata effettuata da Atanasio, uomo incolpato di migliaia di crimini, e dunque vi è la possibilità che essa sia in contrasto con le leggi vigenti della Chiesa. La lettera di Costanzo non ci dà la data di questa prima ordinazione: risale essa a prima del 335 (e precede, dunque, il primo esilio), al periodo 338-339 (tra primo e secondo esilio), o al periodo posteriore al ritorno dal secondo esilio (dopo il 347), ad esempio ai primi anni Cinquanta, data su cui attualmente c’è un certo consenso critico89? L’evangelizzazione della Nubia sembra invece più tarda, ma un importante testo giuntoci in copto, la Storia dei monaci presso Siene, quando viene a parlare dei vescovi/monaci di File porta traccia dei loro frequenti contatti con i nubiani già a partire dal vescovo Macedonio, eletto da Atanasio prima del 34690. Quale che sia la soluzione critica circa la datazione dell’evangelizzazione dell’Etiopia o quella dell’estensione dei contatti tra l’episcopato di File e la Nubia, si deve mettere in rilievo che lo slancio della Chiesa egiziana verso sud era stato ampiamente preparato da Costantino stesso.
Tiriamo le somme del discorso finora condotto. La Chiesa egiziana tra III e IV secolo conosce una crescita veloce, un’estensione territoriale notevole, un’articolazione verticistica della sua struttura, una complessità di stili di vita comunitari grazie ai movimenti ascetici e monastici, la marginalizzazione di eresie tradizionali come lo gnosticismo e il manicheismo. In questa crescita così rigogliosa, duramente colpita dalle persecuzioni e soprattutto dai fenomeni di divisione, in parte favoriti dalle persecuzioni stesse, in parte motivati da questioni teologiche, che funzione ha svolto Costantino? Qui si è voluto mettere in rilievo soprattutto la continuità tra la Chiesa postcostantiniana e la Chiesa precostantiniana. Nello stesso tempo non si è voluto tacere quello che è l’elemento più evidente della svolta politica e religiosa di Costantino, il più documentato dalla ricca messe di fonti che riflettono la vita della Chiesa egiziana nel IV secolo: il sostegno finanziario al clero, il sostegno alla diffusione territoriale della Chiesa, nonché i prodromi della diffusione territoriale verso sud, in direzione del regno di Aksum. A ciò si deve aggiungere che i momenti di contrasto tra Costantino e la direzione della Chiesa egiziana hanno favorito in quest’ultima la formazione di archivi e di memorie, che raccoglievano la documentazione ecclesiastica e civile a difesa della storia di Alessandria e della sua comunità cristiana.
1 Sulle strutture e le istituzioni della Chiesa egiziana nella tarda antichità esistono ottime presentazioni generali, accompagnate da adeguata bibliografia. Si vedano i saggi raccolti in L’Egitto cristiano: aspetti e problemi in età tardo-antica, a cura di A. Camplani, Roma 1997, in particolare la più ampia presentazione delle istituzioni della Chiesa d’Egitto oggi disponibile: E. Wipszycka, Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto dalla fine del III secolo all’inizio dell’VIII secolo, ivi, pp. 219-271; Egypt in the Byzantine World, 300-700, ed. by R.S. Bagnall, Cambridge-New York-Melbourne-Madrid-Cape Town-Singapore-São Paulo 2007, dove si può leggere una versione abbreviata e aggiornata, ricca di nuove ipotesi, del saggio sopra menzionato: E. Wipszycka, The Institutional Church, pp. 331-349; S.H. Davis, The Early Coptic Papacy. The Egyptian Church and Its Leadership in Late Antiquity, Cairo-New York 2004; Die koptische Kirche. Einführung in das ägyptische Christentum, hrsg. von A. Gerhards, H. Brakmann, Stuttgart-Berlin-Köln 1994; Ägypten in spätantik-christlicher Zeit. Einführung in die koptische Kultur, hrsg. von M. Krause, Wiesbaden 1998; E. Wipszycka, Alexandrie et l’Égypte, in Histoire générale du christianisme, I, Des origines au XVe siècle, éd. par J.-R. Armogathe, P. Montaubin, M.-Y. Perrin, Paris 2010, pp. 593-610. Di carattere più specialistico sono E. Wipszycka, Les ressources et les activités économiques des Églises d’Égypte du IVe au VIIe siècle, Bruxelles 1972; Id., Études sur le christianisme dans l’Égypte de l’antiquité tardive, Roma 1996; G. Schmelz, Kirchliche Amtsträger im Spätantiken Ägypten nach den Aussagen der griechischen und koptischen Papyri und Ostraka, München-Leipzig 2002, che danno rilevante peso alla documentazione papirologica. Su Alessandria si consulti C. Haas, Alexandria in Late Antiquity: Topography and Social Conflict, Baltimore-London 1997, e gli acuti saggi di A. Martin, Alexandrie à l’époque romaine tardive: l’impact du christianisme sur la topographie et les institutions, in Alexandrie médiévale 1, éd. par C. Décobert, J.-Y. Empereur, Le Caire 1998, pp. 9-20; Id., Aux origines de l’Alexandrie chrétienne: topographie, liturgie, institutions, in Origeniana octava. Origen and the Alexandrian Tradition, Origene e la tradizione alessandrina, Papers of the 8th International Origen Congress (Pisa 27-31 August 2001), ed. by L. Perrone, Leuven 2004, pp. 105-120. All’evoluzione istituzionale e ideologica del patriarcato di Alessandria è dedicata la sezione monografica di Adamantius 12, intitolata Il patriarcato di Alessandria nella tarda antichità, con saggi di A. Bausi, P. Blaudeau, F. Fatti, A. Martin, E. Wipszycka, introdotti, con ampio panorama critico, da A. Camplani, L’identità del patriarcato di Alessandria tra storia e rappresentazione storiografica, in Adamantius, 12 (2006), pp. 8-42. Sui singoli periodi che sono coinvolti nel presente saggio, si vedano: per la fase primitiva, A. Jakab, Ecclesia Alexandrina. Évolution sociale et institutionnelle du christianisme alexandrin (IIe-IIIe siècles), Bern-New York 2001; per la documentazione papirologica circa la fase precostantiniana, oltre alla fondamentale opera Jews and Christians in Egypt. The Jewish Troubles in Alexandria and the Athanasian Controversy, ed. by H.I. Bell, W.E. Crum, London 1924, si vedano sia l’antologia di M. Naldini, Il cristianesimo in Egitto. Lettere private nei papiri dei secoli II-IV, Fiesole 1998, sia il recente studio analitico di A. Luijendijk, Greetings in the Lord. Early Christians and the Oxyrhynchus Papyri, Cambridge (MA) 2008; per la figura storica di Atanasio e la sua relazione con la Chiesa egiziana, A. Martin, Athanase d’Alexandrie et l’Église d’Égypte au IVe siècle (328-373), Roma 1996; per gli sviluppi più tardi, durante le controversie cristologiche, P. Blaudeau, Alexandrie et Constantinople (451-491). De l’histoire à la géo-ecclésiologie, Rome 2006. Sulla liturgia, si veda la presentazione di H. Brakmann, Zwischen Pharos und Wüste. Die Erforschung der alexandrinisch-ägyptischen Liturgie durch und nach Anton Baumstark, in Comparative Liturgy. Fifty years after Anton Baumstark (1872-1948), Acts of the international congress (Rome 25-29 September 1998), ed. by R.F. Taft, G. Winkler, Roma 2001, pp. 324-376; Id., Pseudo-Clemens Romanus, homilia 3,72 als petrinisches Konsekrationsgebet der Kopten und der ägyptischen Melchiten, in Zeitschrift für Antikes Christentum, 10 (2007), pp. 233-251. Circa il monachesimo, nella sua relazione con la Chiesa istituzionale, cfr. infra, il paragrafo Il monachesimo.
2 Sulla persecuzione, i suoi effetti sulla Chiesa egiziana, l’atteggiamento di Pietro e i suoi canoni penitenziali, cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 224-253; Id., La réconciliation des lapsi en Égypte de Denys à Pierre d’Alexandrie: une querelle de clercs, in Rivista di Storia e Letteratura Religiosa, 22 (1986), pp. 256-269; E. Wipszycka, Storia della Chiesa nella tarda antichità, Milano 2000, pp. 84-109, 333-334; Id., Études sur le christianisme, cit., pp. 405-432; T. Vivian, Saint Peter of Alexandria Bishop and Martyr, Philadephia 1988.
3 Su Atanasio, oltre a A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., si vedano M. Simonetti, La crisi ariana nel IV secolo, Roma 1975; T.D. Barnes, Athanasius and Constantius. Theology and Politics in the Constantinian Empire, Cambridge (MA)-London 1993.
4 Cfr. E. Wipszycka, Istituzioni ecclesiastiche, cit., pp. 221-232.
5 Si vedano i saggi introduttivi di A. Camplani, Sulla trasmissione di testi gnostici in copto, in L’Egitto cristiano, cit., pp. 121-175, e C. Römer, Manichaeism and Gnosticism in the Papyri, in The Oxford Handbook of Papyrology, ed. by R.S. Bagnall, Oxford 2009, pp. 623-643.
6 T. Orlandi, Letteratura copta e cristianesimo nazionale egiziano, in L’Egitto cristiano, cit., pp. 39-120; S. Emmel, Coptic Literature in the Byzantine and Early Islamic World, in Egypt in the Byzantine World, cit., pp. 83-102.
7 P. Grossmann, Early Christian Architecture in Egypt and Its Relationship to the Architecture of the Byzantine World, in Egypt in the Byzantine World, cit., pp. 103-136; E.S. Bolman, Depicting the Kingdom of Heaven: Painting and Monastic Practice in Early Byzantine Egypt, ivi, pp. 408-433.
8 Cfr. J.-L. Fournet, The Multilingual Environment of Late Antique Egypt: Greek, Latin, Coptic, and Persian Documentation, in The Oxford Handbook, cit., Oxford 2009, pp. 418-451.
9 Ecclesiae Occidentalis Monumenta Iuris Antiquissima. Canonum et conciliorum graecorum interpretationes latinae. Opus postumum, «Tomi prioris fasciculi alterius pars quarta»: Supplementum Nicaeno-alexandrinum sive Conciliorum Nicaeni et Serdicensis Sylloge a Theodosio Diacono [Carthaginensi] adservata secundum codicem unicum veronensem bibliothecae capitularis LX (58) saec. VII-VIII, rec. C.H. Turner, Oxonii 1939; Histoire «acéphale» et Index syriaque des Lettres Festales d’Athanase d’Alexandrie, éd. par M. Albert, A. Martin, Paris 1985.
10 Per la questione della storiografia dell’episcopato, cfr. T. Orlandi, Ricerche su una storia ecclesiastica alessandrina del IV secolo, in Vetera Christianorum, 11 (1974), pp. 269-312; per l’uso dei materiali di archivio e la produzione storiografica si vedano, oltre alle fonti tradizionali (Soz. h.e., il Codex Veronensis LX), il testo ancora inedito identificato da A. Bausi in un manoscritto etiopico: New Egyptian Texts in Ethiopia, in Adamantius, 8 (2002), pp. 146-151; Id., La collezione aksumita canonico-liturgica, in Adamantius, 12 (2006), pp. 43-70; i commenti di A. Camplani, L’autorappresentazione dell’episcopato di Alessandria tra IV e V secolo: questioni di metodo, in Annali di Storia dell’Esegesi, 21 (2004), pp. 147-185; Id., Lettere episcopali, storiografia patriarcale e letteratura canonica: a proposito del Codex veronensis LX(58), in Rivista di storia del cristianesimo, 3 (2006), pp. 117-164; Id., L’identità del patriarcato di Alessandria, cit.; Id., Pietro di Alessandria tra documentazione d’archivio e agiografia popolare, in Volksglaube im antiken Christentum, hrsg. von H. Greiser, A. Merkt, Darmstadt 2009, pp. 138-156; Id., Un’antica teoria della successione patriarcale in Alessandria, in Aegyptiaca et Coptica. Studi in onore di Sergio Pernigotti, a cura di P. Buzi, D. Picchi, M. Zecchi, Oxford 2011, pp. 59-68.
11 Edita in Storia della Chiesa di Alessandria, 2 voll., a cura di T. Orlandi, Milano-Varese 1968-1970; D.W. Johnson, Further Fragments of a Coptic History of the Church. Cambridge Or. 1699R, in Enchoria, 6 (1976), pp. 7-18; T. Orlandi, Nuovi frammenti della Historia Ecclesiastica copta, in Studi in onore di Edda Bresciani, a cura di S.F. Bondì, Pisa 1985, pp. 363-384. Per una sintesi delle questioni, cfr. T. Orlandi, The Coptic Ecclesiastical History: A Survey, in The World of Early Egyptian Christianity. Language, Literature, and Social Context. Essays in Honor of David W. Johnson, ed. by J.E. Goehring, J.A. Timbie, Washington 2007, pp. 3-24.
12 Sulla cosiddetta Storia dei patriarchi in arabo si vedano le edizioni della vulgata: History of the Patriarchs of the Coptic Church of Alexandria, ed. B. Evetts, Paris 1904-1915 (PO I, pp. 99-214; PO I, pp. 381-619; PO V, pp. 1-215; PO X, pp. 357-551); Severus Ben al-Muqaffa’, Historia patriarcharum Alexandrinorum, ed. C.F. Seybold, Beryti-Parisiis 1904-1910; quella della recensione più antica, Severus ibn al-Muqaffa’, Alexandrinische Patriarchatgeschichte von S. Marcus bis Michael I (61-767), nach der ältesten 1266 geschriebenen Hamburger Handschrift im arabischen Urtext, hrsg. von C.F. Seybold, Hamburg 1912. Lo studio di riferimento è quello di J. den Heijer, Mawhb ibn Mansur ibn Mufarriğ et l’historiographie copto-arabe. Étude sur la composition de l’Histoire des Patriarches d’Alexandrie, Louvain 1989.
13 Sul valore della documentazione papirologica per la ricostruzione dei fenomeni cristiani egiziani, oltre al già menzionato Oxford Handbook of Papyrology, si consultino le opere citate sopra in nota 1.
14 A. Papaconstantinou, The Cult of Saints: A Haven of Continuity in a Changing World?, in Egypt in the Byzantine World, cit., pp. 350-367; Id., Hagiography in Coptic, in The Ashgate Research Companion to Byzantine Hagiography, I, Periods and Places, ed. by S. Enthymiadis, Farnham (UK)-Burlington (VT) 2011, pp. 323-344.
15 The Canons of Athanasius of Alexandria, ed. by W. Riedel, W.E. Crum, London 1904.
16 L’évêque dans la cité du IVe au Ve siècle. Image et autorité, Actes de la table ronde (Rome Ier-2 décembre 1995), éd. par É. Rebillard, C. Sotinel, Rome 1998 ; A. Martin, L’image de l’évêque à travers les «Canons d’Athanase»: devoirs et réalités, pp. 59-70; E. Wipszycka, L’attività caritativa dei vescovi egiziani, ivi, pp. 71-80.
17 Se ne veda ora un’accurata descrizione in Athanasius Handbuch, hrsg. von P. Gemeinhardt, Tübingen 2011, pp. 8-12. Di enorme rilevanza è la ripresa della grandiosa opera di edizione critica iniziata da H.-G. Opitz (Athanasius Werke), continuata da M. Tezt e C. Brennecke e dalla loro équipe. Per i propositi di questo contributo, le opere atanasiane saranno citate secondo l’edizione Athanasius Werke, II, Die Apologien, hrsg. von H.-G. Opitz, Berlin 1934-1941.
18 Le osservazioni sulle origini e l’ambiente sociale del cristianesimo alessandrino dipendono da M. Simonetti, Teologia e cristologia nell’Egitto cristiano, in L’Egitto cristiano, cit., pp. 11-38.
19 Cfr. Eus., h.e. II-V e in particolare la famosa notizia conservata in II 24.
20 Cfr. M. Rizzi, Scuola di Alessandria, in Origene. Dizionario. La cultura, il pensiero, le opere, a cura di A. Monaci Castagno, Roma 2000, pp. 437-440.
21 M. Simonetti, Teologia e cristologia, cit., pp. 31-32.
22 Ivi, pp. 32-33.
23 Ivi, pp. 33-34.
24 Si legga al proposito l’introduzione al volume di I. Gardner, Kellis Literary Texts, I, Oxford 1996.
25 Hier., Epist. 146.
26 Cfr. The Sixth Book of the Select Letters of Severus Patriarch of Antioch in Syriac Version of Athanasius of Nisibis, ed. by E.W. Brooks, London 1903, I, p. 237.
27 Eutichio, Annali. Il testo è edito in L. Cheikho, Eutychii Patriarchae Alexandrini Annales. Pars Prior, Paris 1906, pp. 95-97. La traduzione italiana è quella di B. Pirone in Eutichio. Annali, Cairo 1987, pp. 158-159.
28 Si tratta degli Acta Petri Alexandrini, da non confondere con la Passio Petri Alexandrini. Il testo è edito da G. Haile, The Martyrdom of St. Peter Archbishop of Alexandria (EMML 1763, ff.79r-80v), in Analecta Bollandiana, 98 (1980), pp. 85-92. A. Bausi ha dimostrato che questo testo è parte della Storia dell’episcopato di Alessandria, cfr. sopra nota 10.
29 A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 321-339.
30 Eus., h.e. VI-VII. Cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 18-21.
31 E. Wipszycka, Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto, cit., p. 239.
32 In realtà si ha più di un sistema ortografico.
33 Qualità essenziali del copto sono un’apertura totale al lessico greco, anche a quello tecnico (religioso, liturgico, filosofico, etc.), a un grado molto superiore rispetto sia alla lingua egiziana di fase demotica (la quale, soprattutto nella produzione di alto livello, tende a evitare imprestiti dal greco) sia a quella espressa in ‘Old Coptic’ (che evita quasi del tutto l’impiego di vocaboli greci); e una sintassi che fa uso anche delle particelle greche e che in qualche punto subisce un’influenza meno definibile anche nelle sue strutture.
34 Si allude qui ai tentativi di trascrizione della lingua in caratteri greci, etichettati dagli specialisti come ‘Old Coptic’.
35 R.S. Bagnall, Early Christian Books in Egypt, Princeton-Oxford 2009, pp. 67-68.
36 Cfr. T. Orlandi, Letteratura copta, cit., pp. 39-120.
37 Cfr. E. Prinzivalli, Magister ecclesiae. Il dibattito su Origene fra III e IV secolo, Roma 2002, pp. 49-59.
38 A. Luijendijk, Greetings in the Lord, cit., pp. 85-86.
39 E. Wipszycka, Les papyrus documentaires concernant l’Église d’avant le tournant constantinien. Un bilan des vingt dernières années, in Atti del XXII Congresso Internazionale di Papirologia (Firenze 23-29 agosto 1998), a cura di I. Andorlini, G. Bastianini, M. Manfredi, et al., II, Firenze 2001, pp. 1307-1330.
40 Sul monachesimo egiziano dal punto di vista delle sue forme e della sua strutturazione si vedano J.E. Goehring, Ascetics, Society and the Desert: Studies in Egyptian Monasticism, Harrisburg 1999, e i saggi raccolti in Monachesimo orientale. Un’introduzione, a cura di G. Filoramo, Brescia 2010; una esemplare analisi della documentazione letteraria e papirologica è offerta da E. Wipszycka, Moines et communautés monastiques en Égypte, IVe-VIIIe siècles, Varsovie 2009.
41 Cfr. l’opera fondamentale di S. Rubenson, The Letters of St. Antony. Monasticism and the Making of a Saint, Minneapolis 1995, che ha posto in rilievo in maniera originale la presenza origeniana nelle lettere di Antonio.
42 Sul rapporto con le istituzioni ecclesiastiche, cfr. A. Martin, Les relations entre le monachisme égyptien et l’institution ecclésiastique au IVème siècle, in Foundations of Power and Conflicts of Authority in Late-Antique Monasticism, ed. by A. Camplani, G. Filoramo, Leuven 2007, pp. 13-46; M. Giorda, Monachesimo e istituzioni ecclesiastiche in Egitto, Bologna 2010.
43 Cito qui soltanto i più importanti contributi recenti su questo scisma: H. Hauben, La première année du schisme mélitien (305/306), in Ancient Society, 20 (1989), pp. 267-280; Id., Le catalogue mélitien réexaminé, in Sacris Erudiri, 31 (1989-1990), pp. 155-167; A. Camplani, In margine alla storia dei meliziani, in Augustinianum, 30 (1990), pp. 313-351; J.E. Goehring, Melitian Monastic Organization: A Challenge to Pachomian Originality, in Studia Patristica, 25 (1993), pp. 388-395; A. Łajtar, E. Wipszycka, Deux katholikai ekklêsiai dans le Mons Porphyrites, in Journal of Juristic Papyrology, 24 (1994), pp. 71-85; A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 217-319; J.E. Goehring, Monastic Diversity and Ideological Boundaries in Fourth-Century Christian Egypt, in Journal of Early Christian Studies, 5 (1997), pp. 1-61; H. Hauben, The Melitian ‘Church of the Martyrs’. Christian Dissenters in Ancient Egypt, in Ancient History in a Modern University, Proceedings of a conference held at Macquarie University to mark twenty-five years of the teaching of Ancient History at Macquarie University and the retirement from the Chair of professor Edwin Judge (Sidney 8-13 July 1993), II, Early Christianity, Late Antiquity and Beyond, ed. by T.W. Hillard, R.A. Kearsley, C.E.V. Nixon et al., Grand Rapids (MI)-Cambridge (UK) 1998, pp. 329-349; Id., Le Papyrus London VI (P. Jews) 1914 dans son contexte historique (mai 335), in Atti del XXII Congresso, cit., I, pp. 605-618; H. Hauben, Aurélios Pageus, alias Apa Paiêous, et le monastère mélitien d’Hathor, in Ancient Society, 32 (2002), pp. 337-352; Id., Catholiques et Mélitiens à Alexandrie à la veille du Synode de Tyr (335), in Coptic Studies on the Threshold of a New Millennium, Proceedings of the Seventh International Congress of Coptic Studies (Leiden 27 August-2 September 2000), ed. by M. Immerzeel, J. Van der Vliet, Leuven-Paris-Dudley (MA) 2004, II, pp. 904-921; Id., Épiphane de Salamine sur le schisme mélitien, in Salesianum, 67 (2005), pp. 737-770; M. Giorda, Monachesimo e istituzioni ecclesiastiche, cit.
44 Cfr. A. Bausi, La versione etiopica degli Acta Phileae nel Gadla Samâ’tat, Napoli 2002. La lettera è conservata nel Codex Veronensis LX.
45 A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 217-318. A p. 319 è riprodotta un’utilissima cartina geografica dell’episcopato meliziano dopo il 325 e prima dell’elezione di Atanasio.
46 Epiph., haer. 68.
47 I Canoni, trasmessi in greco e in siriaco, sono editi in P. de Lagarde, Reliquiae juris ecclesiastici antiquissimae graece et syriace, Lipsiae 1856; cfr. E. Schwartz, Gesammelte Schriften, III, Zur Geschichte des Athanasius, Berlin 1959, pp. 89-94, che offre la retroversione in greco della traduzione siriaca.
48 Ath., apol. sec., rispettivamente 59,1 e 71,6.
49 Si tratta della Lettera sinodale dei vescovi alla Chiesa di Alessandria e alle Chiese d’Egitto, della Libia e della Pentapoli, in Athanasius Werke, cit., III/1, Urkunde zur Geschichte des Arianischen Streites 318-328, Berlin 1934, pp. 47-51. Cfr. H. Pietras, Lettera di Costantino alla Chiesa di Alessandria e Lettera del sinodo di Nicea agli Egiziani (325) – i falsi sconosciuti da Atanasio, in Gregorianum, 89 (2008), pp. 727-739, le cui conclusioni sono discutibili: Atanasio aveva probabilmente un forte interesse a non citare questa lettera, che mostrava una notevole indulgenza verso i vescovi meliziani.
50 Su questo arduo problema si veda ora il saggio di H. Hauben, Das Konzil von Nicaea (325) zur Wiederaufnahme der Melitianer. Versuch einer Text- und Strukturanalyse, in Timiai J. Triantaphyllopoulos, hrsg. von J. Velissaropoulou-Karakosta, Athina 2000, pp. 357-379.
51 M. Simonetti, La crisi ariana, cit.; R.P.C. Hanson, The Search for the Christian Doctrine of God. The Arian Controversy 318-381, Edinburgh 1988; R. Williams, Arius: Heresy and Tradition, London 1987.
52 Eus., v.C. II 68-70. Si veda ad esempio in II 69 l’espressione: «Tali indagini, infatti, non sono prescritte espressamente da nessuna legge, ma scaturiscono dalle inutili discussioni dei momenti d’ozio; sebbene si facciano come per una sorta di esercizio mentale, è tuttavia nostro dovere tenerle ben chiuse dentro di noi, senza propagandarle alla prima occasione nelle riunioni ufficiali e senza parteciparle imprudentemente al volgo» (trad. L. Tartaglia, in Eusebio di Cesarea, Sulla vita di Costantino, Napoli 20012, pp. 114-117).
53 Cfr. A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 312-319.
54 Cfr. Soz., h.e. II 25,6; A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 321-339, 366-367.
55 Sugli sviluppi della controversia meliziana tra il 328 e il 335, si veda soprattutto Soz., h.e. II 22.
56 A esso alludono Atanasio stesso, apol. sec. 71,1, e Soz., h.e. II 23,8.
57 P. Lond. VI 1913, ll. 3-8, edito in H.I. Bell, Jews and Christians in Egypt: the Jewish Troubles in Alexandria and the Athanasian Controversy, London 1924, p. 49.
58 Eus., v.C. IV 42: «Se infatti qualcuno, cosa che io non voglio credere, si rifiutasse di venire, e tentasse così di eludere tuttora il nostro ordine, provvederemo di qui ad inviare un magistrato che, in forza di un decreto imperiale, lo manderà in esilio» (trad. L. Tartaglia, cit., pp. 188-190).
59 H.I. Bell, Jews and Christians, cit., I, pp. 53-55.
60 H. Hauben, Le Papyrus London VI, cit., il quale reagisce alla tendenza storiografica di D.W.H. Arnold, autore di alcuni studi sulla carriera ecclesiastica di Atanasio nei primi anni di episcopato, in particolare The Early Episcopal Career of Athanasius of Alexandria, Notre Dame 1991.
61 Cfr. Soz., h.e. II 17,28 e 31.
62 Cfr. Ath., apol. sec. 86.
63 H.A. Drake, Constantine and the Bishops: The Politics of Intolerance, Baltimore 2000, in partic. pp. 3-34, 309-315.
64 Potrebbe trattarsi di una precisazione dovuta alla penna di Atanasio.
65 Il testo è riportato anche da Gelasio (h.e. III 18) con qualche variante e omissione, che secondo T.D. Barnes, Athanasius and Constantius, cit., pp. 31-32, potrebbero derivare dall’attività redazionale di Atanasio stesso. Ad esempio, la rappresentazione un po’ penosa di Atanasio supplice («Vedemmo l’uomo così umile e dimesso da cadere in un sentimento di indicibile pietà quando ci accorgemmo che era Atanasio, la cui santa vista è sufficiente a costringere anche i pagani a venerare il Dio dell’universo») potrebbe essere stata omessa dal vescovo piuttosto che aggiunta da qualche interpolatore.
66 Ath., apol. sec. 86,2-10.
67 Cfr. Ath., apol. sec. 87,1.
68 Cfr. Ath., apol. sec. 87,2.
69 Cfr. Soz., h.e. II 31.
70 Cfr. Soz., h.e. II 31.
71 T.D. Barnes, Athanasius and Constantius, cit., pp. 24-25.
72 A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 379-387.
73 Soz., h.e. II 31.
74 Ath., apol. sec. 87,4-7.
75 Se ne veda una sintesi in E. Wipszycka, The Institutional Church, cit., pp. 331-349.
76 Id., Les gens du patriarche alexandrin, in Alexandrie médiévale 3, éd. par J.-Y. Empereur, C. Décobert, Cairo 2008, pp. 89-114.
77 Cfr. Id., Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto, cit., p. 240.
78 Su questi due testi e sulla figura e l’azione del vescovo nella sua diocesi cfr. i contributi citati in nota 16.
79 Cfr. E. Wipszycka, Le istituzioni ecclesiastiche in Egitto, cit., pp. 259-260; per gli altri gradi del clero cfr. pp. 260-263.
80 Sull’azione di Costantino nei confronti della Chiesa, si veda la lettura più radicale di T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Chichester (UK)-Malden (MA) 2011, pp. 132-140, che discute la legislazione filocristiana di Costantino: la domenica come giorno di riposo dagli impegni ufficiali, l’esenzione dei chierici cristiani dalle obbligazioni curiali, lo statuto legale dei concili ecclesiastici, il diritto dei vescovi a essere giudicati dai loro pari, il potere quasi giudiziario dei vescovi (la episcopalis audientia), la legislazione riguardante matrimonio e divorzio, le leggi sugli ebrei, le eredità lasciate alle chiese tramite un’espressione della volontà anche in punto di morte, i vescovi come punto di passaggio della generosità imperiale, la possibilità di usare il cursus publicus; l’istituto della manumissio in ecclesia.
81 Giustamente T.D. Barnes fa osservare che i vescovi non potevano non vedere le opportunità di patronato che questa situazione offriva loro: Athanasius and Constantius, cit., pp. 178-179.
82 Ath., apol. sec. 18,2.
83 Ath., apol. sec. 18,4.
84 Ath., h. Ar. 31,2; cfr. anche 63,1.
85 Si veda P. Sakaon 48, datato 343 e trovato a Theadelphia (villaggio dell’oasi del Fayyum). Sugli inizi della rete parrocchiale in Egitto, si veda E. Wipszycka, La conversion de saint Antoine. Remarques sur les chapitres 2 et 3 du prologue de la Vita Antonii d’Athanase, in Divitiae Aegypti. Koptologische und verwandte Studien zu Ehren von Martin Krause, hrsg. von C. Fluck, L. Langener, S. Richter, S. Schaten, Wiesbaden 1995, pp. 339-348.
86 A. Martin, Athanase d’Alexandrie, cit., pp. 502-503.
87 Rufin., hist. I 9-10.
88 Ath., apol. Const. 31.
89 H. Brakmann, ΤΟ ΠΑΡΑ ΤΟΙΣ ΒΑΡΒΑΡΟΙΣ ΕΡΓΟΝ ΘΕΙΟΝ. Die Einwurzelung der Kirche im spätantiken Reich von Aksum, Bonn 1994.
90 T. Orlandi, Un testo copto sulle origini del Cristianesimo in Nubia, in Études nubiennes, Colloque (Chantilly 2-6 juillet 1975), Le Caire 1978, pp. 225-230.