Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dal 1907 il cinema abbandona le fiere e i baracconi, che per anni lo hanno ospitato come una moderna attrazione, per fare il suo ingresso nei primi esercizi stabili, in una feroce concorrenza nei confronti del teatro, ma con molte interessanti sperimentazioni tecniche. In Italia la produzione di film a soggetto ha inizio nel 1905, quando il pioniere Filoteo Alberini porta sugli schermi La presa di Roma. Da quel momento l’industria si sviluppa a un ritmo vorticoso, ma diversamente da quanto avviene all’estero mostra subito una tendenza peculiare al decentramento territoriale.
L’istituzionalizzazione e il cinema francese
Le forme di narrazione e di figurazione elaborate dai pionieri del cinema costituiscono un primordiale sistema dei generi che rimane stabile fin verso il 1907. Ne fanno parte la veduta in tutte le sue varianti (dal travelogue all’attualità), le passioni, il film a trucchi e la féerie, le scenette comiche e il film a inseguimento.
Nel 1906 la nascita delle prime serie comiche, incentrate sulle avventure di buffi personaggi ricorrenti, mostra che l’industria è alla ricerca di nuove strategie utili a favorire la standardizzazione e a rendere meglio riconoscibili sul mercato i singoli film. Ai primi sperimentatori subentrano figure di agguerriti produttori che si fronteggiano in un mercato sempre più competitivo e che tentano di promuovere il cinema, fin qui popolare soprattutto tra le fasce proletarie, presso il pubblico borghese. Il cinema abbandona le fiere e i baracconi per fare il suo ingresso nei primi esercizi stabili e dare così inizio alla sua concorrenza nei confronti del teatro. Contemporaneamente prendono forma le prime cinematografie nazionali.
Per alcuni anni la Francia continua a essere il principale Paese produttore a livello mondiale. Mentre declina la stella di George Méliès e i fratelli August (1862-1954) e Louis-Jean Lumière decidono di darsi esclusivamente alla ricerca tecnologica, Charles Pathé (1863-1957) inizia una formidabile ascesa che in breve porta la sua azienda a espandere la propria struttura produttiva tanto in Europa che negli Stati Uniti. In questo processo il punto chiave è costituito, nel 1907, dal cosiddetto “colpo di stato Pathé", con il quale la casa decide unilateralmente di passare da un sistema basato sulla vendita della pellicola a uno basato sul noleggio, inventando sostanzialmente il nuovo settore della distribuzione cinematografica. L’anno successivo, con la nascita di un circuito di sale di proprietà, il gruppo Pathé consolida ulteriormente la propria posizione di predominio, trovandosi di fatto a svolgere un controllo verticale sui settori della produzione, della distribuzione e dell’esercizio.
Ma le innovazioni messe in campo dalla Pathé investono anche le forme del racconto e della rappresentazione. Dopo aver sperimentato, fin dal 1901, con Histoire d’un crime di Ferdinand Zecca (1864-1947), le potenzialità del “dramma realista", nel 1909 la compagnia lancia la formula del film d’art, basata sulla riduzione di opere letterarie e teatrali e sull’interpretazione di attori prestigiosi presi in prestito dal palcoscenico, con l’obiettivo dichiarato di conquistare il pubblico borghese. Sostenuto da una notevole campagna di stampa, il nuovo genere (che per la sua impostazione essenzialmente teatrale sarà uno dei bersagli preferiti dei critici e degli autori della prima avanguardia) dà il via a tutta una serie di imitazioni, tra cui spicca la serie dei films ésthétiques diretti da Louis Feuillade (1873-1925) alla Gaumont.
Quest’ultima casa è quella che più direttamente contende alla Pathé il predominio sul mercato nazionale. La sua fortuna è legata ai nomi dei due registi ai quali Léon Gaumont (1864-1946) affida successivamente la “direzione artistica" dell’azienda: in un primo tempo Alice Guy, assunta come segretaria ma passata immediatamente, già nel 1896, dietro la macchina da presa, figura di riferimento di tutta la produzione fino al 1906; in seguito Louis Feuillade (1873-1925), prolifico autore capace di spaziare tra i generi più diversi, ma ricordato soprattutto per aver diretto il leggendario Fantomas, in cinque episodi (1913-1914). Proprio il terreno del film seriale è quello su cui si svolge, negli anni della Grande Guerra, la più aspra battaglia commerciale tra le due compagnie. Se la Pathé reagisce alle difficoltà della guerra ricorrendo ai film prodotti dalla sua filiale nel New Jersey – i film a episodi della popolarissima Pearl White – e aprendo così la strada all’invasione di analoghi prodotti americani, la Gaumont dal canto suo affida a Feuillade la creazione di una formula seriale ispirata alla tradizione popolar-nazionale del feuilleton, un nuovo genere che, con il nome di cinéroman, coniato nel 1917 per Judex, caratterizzerà il cinema di consumo francese per tutti gli anni Venti.
Il cinema danese e tedesco a cavallo della Grande Guerra
Tra il 1910 e il 1911 si assiste un po’ ovunque all’allungamento della durata media dei film. Una spinta importante in questo senso viene dalla Danimarca, che negli anni precedenti alla guerra si impone a livello internazionale con una serie di film molto ammirati. Prodotti dalla Nordisk – che sotto la guida di August Blom diviene in breve la seconda casa di produzione europea dopo la Pathé – e diretti, oltre che dallo stesso Blom, da registi come Urban Gad, Viggo Larsen (1880-1957) e Alfred Lind (1879-1959), questi film hanno il loro punto di forza in una nuova concezione della sceneggiatura che valorizza le psicologie dei personaggi e offre un ampio margine all’interpretazione degli attori. Ne sono un esempio i melodrammi a sfondo sociale interpretati da Asta Nielsen (1881-1972): il primo di questi, Abisso (Afgründen, 1910), diretto dal marito Urban Gad, è una storia di violente passioni e disperato erotismo, il cui formidabile successo tramuta l’attrice nella prima diva della storia del cinema. La maturazione linguistica e stilistica del cinema scandinavo continua negli anni seguenti con l’esordio di quattro grandi maestri del muto: gli svedesi Victor Sjostrom (1879-1960) e Mauritz Stiller (1883-1928) e i danesi Benjamin Christensen (1879-1959) e Carl Theodor Dreyer, che dalla seconda metà degli anni Dieci daranno vita a una serie impressionante di capolavori.
Il cinema danese ha rapporti strettissimi con la Germania. La Nordisk domina il mercato fino allo scoppio della guerra e anche i primi grandi successi di produzione nazionale sono ottenuti da registi e attori provenienti dalla Danimarca, come Urban Gad e Asta Nielsen. Alcune significative novità appaiono all’inizio degli anni Dieci: si va dalle fantasie sperimentali dirette dal regista teatrale Max Reinhardt alle prime manifestazioni di una sensibilità espressionista in film come Lo studente di Praga (Der Student von Prag, 1913) di Stellan Rye (1880-1914) e Golem (Der Golem, 1914) di Heinrik Galeen (1881-1949), fino al tentativo di emulare la formula del film d’art con il cosiddetto Autorenfilm.
Ma bisogna attendere il dopoguerra perché la struttura produttiva tedesca inizi a consolidarsi e divenga concorrenziale a livello internazionale. La figura chiave in questo processo è il produttore Erich Pommer, fondatore della Decla (poi Decla-Bioscop) e scopritore di talenti, che nel 1919, con Il gabinetto del dottor Caligari (Das Kabinett des Dr. Caligari) di Robert Wiene, dà il via al fenomeno dell’espressionismo. Dal 1923, in seguito all’assorbimento della Decla-Bioscop nella UFA, Pommer si trova ai vertici della produzione di una delle maggiori industrie cinematografiche del mondo, avviando un decennio fitto di opere memorabili, firmate da registi come Fritz Lang e Friedrich Wilhelm Murnau.
La nascita del cinema italiano
In Italia la produzione di film a soggetto ha inizio nel 1905, quando il pioniere Filoteo Alberini (1867-1937) porta sugli schermi La presa di Roma. Da quel momento l’industria si sviluppa a un ritmo vorticoso, ma diversamente da quanto avviene all’estero mostra subito una tendenza peculiare al decentramento territoriale. La produzione si divide tra Torino, Milano, Roma e Napoli, ma senza che i temi e i generi praticati si differenzino peraltro in modo significativo. Fanno eccezione le Case partenopee che, come la Dora Film di Elvira Notari (1875-1946), si specializzano nell’adattamento di sceneggiate e canzoni famose. Particolarmente frequentati sono i soggetti di genere storico, che sfruttano l’attrazione di scenografie spettacolari e di altrettanto spettacolari movimenti di massa, come L’Inferno (Milano-Film, 1910), Quo Vadis? (Cines, Roma, 1913) e soprattutto Cabiria (Itala Film,Torino, 1914), vero e proprio kolossal diretto da Giovanni Pastrone (1883-1959), con didascalie di Gabriele D’Annunzio. Con questi film il cinema italiano conquista sul mercato internazionale un posto di primo piano, che per alcuni anni è alimentato anche dal successo di un’altra sua tipica specialità: il cosiddetto diva-film, che pone al centro dell’attenzione la magnetica personalità di attrici come Francesca Bertini, Lyda Borelli (1884-1959), Pina Menichelli (1890-1984) e altre. All’indomani della guerra la frammentazione della produzione nazionale conduce a una forte crisi e si assiste al tentativo di un gruppo di produttori e investitori di riordinare il mercato con una manovra di stampo monopolistico. Ma il tentativo di dar vita, nel 1919, all’Unione Cinematografica Italiana, risultato della fusione delle principali aziende produttrici in un unico organismo operante a livello della distribuzione, fallisce nel 1924 e il cinema italiano si presenta fragile e disorientato all’appuntamento con il fascismo.