Il cavallo e la pietra: la guerra nell'eta feudale
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Lo stato permanente di violenza che interessa l’Europa tra il IX e l’XI secolo stimola sensibili trasformazioni del costume bellico occidentale: si affermano le fortificazioni e, conseguentemente, viene riscoperta e rilanciata l’arte ossidionale; la diffusione del combattimento a cavallo porta invece, da parte sua, allo sviluppo di una complessa tecnica marziale, quella del “maneggio nuovo” della lancia, che sarà distintiva per secoli, oltre i limiti cronologici del Medioevo, della cavalleria europea.
La fitta rete di incursioni normanne, ungare e saracene, il cui apice si registra tra IX e X secolo, ma che prosegue ben oltre tali limiti cronologici, e il diffuso moto di competizione politico-militare che coinvolge i centri di potere nati dal crollo dell’Impero carolingio, producono due principali conseguenze per ciò che attiene all’arte e alla cultura della guerra in Occidente: la generale diffusione del combattimento a cavallo e la proliferazione delle fortificazioni. Un’esigenza comunemente avvertita tanto dalle aristocrazie di origine funzionariale (conti, duchi e marchesi) e religiosa (vescovi e abati) già coinvolte nella gestione degli Stati carolingi, quanto dai nuovi poteri di derivazione patrimoniale (signorie curtensi), è infatti quella di tutelare, da un lato, i beni fondiari dai pericoli esterni e interni, dall’altro quella di poter contare su efficaci contingenti di armati.
Il castello, in questo senso, costituisce la risposta più adeguata alla necessità di protezione, fungendo per di più da strumento di inquadramento politico delle popolazioni e degli spazi che è deputato a difendere.
Perfezionando la tipologia elementare della motta (secoli X-XI), terrapieno a forma tronco-conica sormontato da una palizzata, nel corso del XII secolo si dà vita a una vivace sperimentazione architettonica, che porta alla costruzione dei primi complessi castrensi dotati di rocca centrale (mastio) e di cinta muraria esterna comprensiva di torri e camminamenti di ronda.Né il processo di fortificazione dei secoli centrali del Medioevo riguarda solo questa nuova tipologia architettonica: esso coinvolge le città, che potenziano le antiche cinte murarie; i villaggi afferenti ai grandi complessi curtensi, che si dotano di torri e mura; i monasteri, che realizzano imponenti baluardi; infine anche quelle strutture che, come i ponti, risultano utili al controllo del territorio. Va da sé che la conseguenza di questa frenetica attività di fortificazione è il perfezionamento dell’arte degli assedi, la poliorcetica. Proprio nel corso di questi secoli, d’altronde, quella “scienza”, caduta nell’oblio con la decadenza delle città romane e con la scomparsa degli imponenti apparati logistici degli eserciti tardoimperiali, viene reintrodotta in Occidente grazie alla conquista normanna degli stati longobardi e bizantini dell’Italia meridionale, dove le antiche pratiche ossidionali si erano conservate e avevano sedimentato.
Ponti volanti (arpe); torri di avvicinamento montate su ruote (gatte); arieti mobili rivestiti di materiali ignifughi (gatti, maiali); congegni nervobalistici di ogni foggia e calibro (onagri, petriere, scorpioni) scaglianti proiettili di pietra, dardi e travi; complesse opere di scavo tese a scalzare dal sottosuolo interi segmenti murari o a condurre celatamente gli assedianti all’interno delle fortificazioni (mine), ravvivano, a vari livelli e gradi, in un brulichio di guerrieri, animali, operai e materiali, ogni azione ossidionale dei secoli centrali del Medioevo, da quelle a più largo respiro, che coinvolgono migliaia di combattenti, come l’assedio di Nicea (1097), nel corso della prima crociata, alle operazioni locali concentrate attorno a singoli castelli o torri.
Incursioni della cavalleria magiara, raid pirateschi saraceni e vichinghi, lotte tra realtà politiche di varia entità e origine, razzie e saccheggi: se la necessità della difesa si traduce nell’edificazione dei castelli, che danno al paesaggio europeo quell’aspetto “armato” che ancor oggi esso conserva, a livello attivo di intervento essa porta alla costituzione di nuclei guerrieri utili a far fronte a uno stato diffuso di guerra in cui l’elemento peculiare è la rapidità dell’azione. A questa esigenza risponde per sua stessa natura la cavalleria ed è per tale motivo che attorno al Mille tutti i centri di potere in cui va riassestandosi il territorio si affrettano a provvedersi – o ad ampliarne il numero, se già ne dispongono – di guerrieri a cavallo.
Il patto vassallatico, con la concessione ai combattenti di ricchi benefici, si pone come lo strumento ideale per l’aggregazione di tali schiere (masnade). Vi fanno ricorso i grandi signori laici ed ecclesiastici, titolari da sempre di ingenti patrimoni, già inclini da tempo, peraltro, a costituire propri gruppi vassallatici, ma anche i semplici signori di castello, che non disdegnano di frazionare i domini aviti pur di riunire congrui nuclei di cavalieri. Vengono sperimentate però anche altre forme di reclutamento. Si afferma, ad esempio, l’abitudine a istruire e armare, selezionandoli in base a precise doti fisiche, fanciulli prelevati dall’ambito contadino, soprattutto figli di servi. Mantenuti dal signore nella sua dimora o dotati anch’essi di terre in godimento, costoro vanno a costituire, generalmente, la più stretta cerchia dei fideles del signore; si tratta dei cosiddetti cavalieri-servi, categoria che si afferma nell’XI secolo, esempio di un’inedita mobilità sociale che le necessità belliche hanno buon gioco a stimolare.
Il “maneggio nuovo” della lancia
Siano essi già radicati da generazioni nel sistema vassallatico, o provengano da altri ambiti sociali, a tutti i milites, per usare l’appellativo che intorno al Mille indica senza distinzione i guerrieri a cavallo, viene richiesto un servizio assai specializzato; la mobilità, che è necessaria ed è propria del cavaliere, non basta. La polverizzazione dei poteri signorili e, di conseguenza, la loro scarsa disponibilità di risorse, mantiene relativamente basso, infatti, il numero di combattenti, in rapporto soprattutto all’entità dei pericoli che sono chiamati ad affrontare. Di qui la necessità che quei “pochi” sviluppino abilità capaci di potenziare al massimo la propria resa operativa, sopperendo con la qualità al numero. Nasce in tal modo il “maneggio nuovo” della lancia, quella particolare tecnica guerresca che distinguerà la cavalleria europea ben oltre i limiti cronologici del Medioevo. Affermatasi a partire dalla seconda metà dell’XI secolo, essa consiste nel posizionamento sotto l’ascella destra della lancia, fino allora armeggiata dal cavaliere con il braccio rialzato. Si tratta di un’innovazione a prima vista banale, ma che è carica, invece, di conseguenze.
Se infatti nell’antico maneggio dell’asta, mutuato dalla caccia, era necessario che il guerriero di fermasse per girare attorno all’avversario e ferirlo dall’alto se appiedato, o trafiggerlo di affondo se montato, grazie alla nuova posizione della lancia, il guerriero, tenendo l’arma sotto il braccio e puntandola con la mano, può scagliarsi sugli avversari al galoppo. Gli effetti di tale tecnica sono devastanti: cavallo e cavaliere formano ora un corpo unico, un dispositivo corazzato del peso di svariati quintali lanciato in corsa e terminante in una punta acuminata.
Alla tradizionale tattica del “volteggio”, attuata anche dalla cavalleria vassallatica carolingia, certamente efficace, ma che comportava un immediato coinvolgimento dei cavalieri nel corpo a corpo, si sostituisce una prassi che sfrutta per la prima volta la forza cinetica del cavallo per eseguire un’azione rapida e distruttiva: una pratica nella quale se non è necessario essere in molti, considerata la sua efficacia, è indispensabile essere forti e, quel che più conta, abili.
Lanciarsi al galoppo completamente rivestiti di una cotta di maglia di ferro, celati dietro un pesante elmo conico, con in pugno un’asta di frassino della lunghezza di 2,5 metri e del peso di circa 15 chili: è facile immaginare le difficoltà connesse a tale prassi, che impone, sin dalla più tenera età, un addestramento virtuoso e prolungato. La pratica guerriera diviene in tal modo monopolio di pochi, di quegli elementi privilegiati che possono dotarsi di costosi armamenti e dedicarsi esclusivamente al mestiere delle armi e che appunto per questo, gradualmente, vanno staccandosi dal resto della società, dall’indistinta massa dei rustici e degli inermes. È proprio nella prima metà dell’XI secolo, d’altro canto, che la riflessione politica elabora, con Adalberone di Laon, quell’ideale schema di una società tripartita, rigidamente divisa tra chierici (oratores), guerrieri (bellatores) e contadini (laboratores), che costituisce una delle più interessanti forme di rispecchiamento della civiltà medievale.
Si tratta, però, appunto, di uno schema ideale. Nella realtà, infatti, per ciò che attiene alla sfera militare, il servizio armato dalle popolazioni rurali si conserva ancora, benché relegato in ambiti marginali.
Riuniti come elementi ausiliari, i villici contribuiscono alla manutenzione delle fortificazioni e alla loro difesa, svolgono funzioni logistiche e, non di rado, combattono. Al seguito degli eserciti feudali, formano quegli eterogenei gruppi di appiedati (pedites), confusi e vaghi in quanto ad armamento e ruoli, che si mostrano tuttavia indispensabili all’azione della cavalleria: li si trova alla battaglia di Hastings (14 ottobre 1066), durante la conquista normanna dell’Inghilterra; seguono il grande esercito riunito da Luigi VI di Francia per respingere Enrico V (1124); accompagnano, infine, la cavalleria imperiale nel corso delle expeditiones italicae, le campagne che i neoeletti imperatori compiono in Italia per cingere la corona di ferro degli antichi re longobardi.
La società, del resto, mentre consolida vecchi modelli, ne elabora di nuovi. E così, mentre i guerrieri a cavallo si avviano a trasformarsi in ordo equestris, a costruirsi cioè un’etica che ne distingua il ruolo eminente, dando vita a quel complesso fenomeno socio-culturale conosciuto come cavalleria, proprio in quell’Italia percorsa dalle truppe imperiali matura, come diretta espressione delle strutture della società comunale, una pratica bellica che prevede l’uso diretto di masse popolari (fanterie cittadine): prassi efficace, di cui farà le spese, tra i primi, l’imperatore Federico Barbarossa nel corso della disastrosa battaglia di Legnano (29 maggio 1176), e che annuncia, anticipandola, una nuova stagione dell’arte della guerra in Occidente.