Il 313: Costantino e i cristiani
Quando Costantino descrive la propria conversione al vescovo Eusebio di Cesarea, molti anni dopo i fatti, egli la identifica come un evento decisivo, connesso, nella sua mente, alla vittoria su Massenzio del 3121. Ma un accoglimento acritico di questo racconto può essere fuorviante. Gli studi moderni sul fenomeno della conversione religiosa hanno puntualmente mostrato che il momento vero e proprio della conversione è di norma preceduto da un lungo periodo di ricerca, e anche che tale momento assume l’aspetto di un cambiamento radicale solo una volta che il convertito abbia attraversato un lungo periodo di ambientamento nei costumi e negli standard della sua nuova comunità2. Pare di poter ravvisare uno schema simile negli anni che portano al momento decisivo della vittoria di Costantino su Massenzio. Già nel 310 un oratore, alla presenza di Costantino, dà conto di una visione avuta quell’anno dall’imperatore: Eusebio afferma che Costantino ebbe visioni del genere per tutta la durata del regno3. Sembra, dunque, che l’interazione dell’imperatore con gli esponenti di maggior rilievo del cristianesimo sia da ricondurre a questo processo di ambientamento.
Nell’ottica della comprensione di questo processo, l’anno 313 assume un valore cruciale, poiché è in tale data che Costantino affronta le conseguenze della sua aperta dichiarazione di adesione al cristianesimo. In quell’anno, egli deve gestire uno scisma nella Chiesa d’Africa (poi definito ‘donatista’) e insieme ‘ideare’ un accordo sul cristianesimo con l’imperatore d’Oriente Licinio, tradizionalmente conosciuto come editto di Milano. Entrambi gli eventi sono trattati in altri contributi di quest’opera: qui essi sono indagati soltanto relativamente a ciò che rivelano delle intenzioni di Costantino. Poiché nel IV secolo chi è al potere di solito non imposta ‘piattaforme’ (vale a dire documenti programmatici da cui far discendere obiettivi e politiche), si deve fare affidamento sul famoso dictum di Fergus Millar (‘l’imperatore è ciò che fa’), per inferire i piani di Costantino dalle scelte che egli compie in quell’anno4. In tal modo, le analisi delle azioni dell’imperatore può aiutare a dare soluzione al lungo dibattito sulla ‘sincerità’ del cristianesimo di Costantino, che troppo spesso si è arenato in considerazioni aprioristiche di natura teologica.
Quando la questione donatista s’impone all’attenzione di Costantino, nel momento immediatamente successivo alla vittoria su Massenzio, l’imperatore non può concedersi il lusso di prendere tempo per studiare come affrontarlo nel migliore dei modi. È infatti molto più urgente la necessità di consolidare il controllo dei territori un tempo governati dal suo avversario ora eliminato. I documenti superstiti mostrano un Costantino che, nel corso di una visita personale al Senato, restituisce i poteri all’augusta assemblea; che tratta con i veterani e attua disposizioni in materia di commercio marittimo e di proprietà privata. C’è anche il problema dell’ampia frontiera settentrionale, resa ancora più vulnerabile dalla sua assenza5. La comunità cristiana di Roma, guidata dal vescovo Milziade, necessita essa pure dell’attenzione dell’imperatore. Malgrado Massenzio, come tutti gli avversari di Costantino, venga ben presto etichettato, nelle esposizioni degli storici, quale persecutore, i cristiani di Roma avevano davvero poche ragioni per lamentarsi del loro rapporto con il sovrano defunto. Durante i sei anni del suo governo, egli aveva infatti posto fine alle persecuzioni, aveva restaurato le proprietà della Chiesa e aveva ripetutamente prestato i propri buoni uffici per risolvere i conflitti interni alla comunità cattolica romana6. La peggiore accusa che i suoi detrattori possono eventualmente muovergli è la mancanza di giudizio nell’alleanza con l’imperatore d’Oriente Massimino Daia, zelante persecutore. Un accordo – argomenta Eusebio di Cesarea nella sua Storia della Chiesa – che dimostra come Massenzio si limiti a fingere di essere favorevole ai cristiani. Considerato, tuttavia, che tale alleanza era stata scoperta solo dopo la vittoria di Costantino su Massenzio, l’impatto immediato che essa aveva avuto sui cristiani di Roma finisce probabilmente con l’essere ridotto7.
La questione donatista offre così a Costantino l’opportunità di dimostrare il proprio appoggio a tale nuovo consesso. Secondo il Liber Pontificalis, anche Milziade proveniva dall’Africa8. Se si ritiene che questi avesse ancora contatti con l’Africa, allora si può scorgere la sua influenza dietro la prima comunicazione in materia pervenutaci da Costantino. Si tratta di una lettera indirizzata a Ceciliano, vescovo (assediato) di Cartagine, per informarlo che nuovi funzionari provenienti da Roma hanno ricevuto l’incarico di mantenere la pace nella Chiesa africana. Inoltre, si afferma nella lettera, Costantino stesso sta dedicando importanti risorse al sostegno del clero favorevole a Ceciliano9. La specificità di queste disposizioni suggerisce che l’imperatore si sia consultato con consiglieri esperti: o direttamente con Milziade, o con il suo alleato, il vescovo Ossio di Cordova, che Costantino nomina nella propria lettera come latore dell’elenco dei sacerdoti approvati10. Se questa lettera mostra un Costantino volto a ingraziarsi la parte ortodossa nel conflitto in atto, lo sviluppo successivo della vicenda lo vede adottare una posizione più neutrale. Nella primavera del 313, ritornato in Gallia, l’imperatore riceve una petizione da parte dei vescovi dissidenti, inviata da Anullino, proconsole d’Africa, cui è stato assegnato l’ufficio di mantenere la pace nella Chiesa locale. Nella lettera, i dissidenti fanno appello all’imperatore, chiedendogli di nominare dei vescovi provenienti dalla Gallia, regione in cui gli effetti della persecuzione di Diocleziano non sono stati gravi, con il compito di pronunciarsi sulle rimostranze del clero africano11. Acconsentire in toto alle richieste di costoro avrebbe significato di certo alienare a Costantino le simpatie di Milziade, ma la lettera dell’imperatore al vescovo di Roma suggerisce il raggiungimento di un compromesso: Costantino acconsente alle richieste dei dissidenti, ma affida la gestione della questione a Milziade12.
A prima vista, la lettera non appare altro che un blando richiamo a un caso precedente: mezzo secolo prima, infatti, i vescovi orientali si erano appellati all’imperatore Aureliano per ottenerne il sostegno nella lotta contro un vescovo ribelle, Paolo di Samosata. In tale occasione, Aureliano aveva risposto con l’impegno a rispettare la decisione dei vescovi di Roma e d’Italia, ai quali rinviava il caso per un pronunciamento13. In realtà, tuttavia, Costantino va ben al di là di quanto Aureliano avesse mai pensato: se da un lato autorizza Milziade a procedere, dall’altro informa il vescovo di avere già nominato tre giudici provenienti dalla Gallia come coadiutori, e invia loro le stesse petizioni che sta inviando a Milziade. I vescovi nominati da Costantino – Reticio di Autun, Materno di Colonia e Marino di Arles – provengono da città in cui l’imperatore ha trascorso molto tempo negli ultimi sette anni14. Sono quindi uomini che conosce e di cui, presumibilmente, si fida.
Tale azione non risulta di sicuro gradita a Milziade. Questa decisione preventiva di Costantino – affiancare a Milziade dei coadiutori e fornire loro la documentazione necessaria anziché lasciare che sia Milziade a farlo – pone di fatto il controllo del consiglio nelle loro mani. A parte l’indicazione di Milziade come presidente e la collocazione della sede del comitato a Roma, Costantino concede ai dissidenti tutto quanto essi chiedono. Forse per ammorbidire il colpo, l’imperatore dà a Milziade una notevole libertà d’azione: ad esempio dispone che l’audizione sia condotta, a giudizio di Milziade, in armonia con la santissima legge e inoltre che sia questi a decidere quale sia il modo più appropriato di procedere15.
Milziade approfitta efficacemente degli spazi lasciatigli liberi: con l’ampiezza discrezionale di cui di fatto dispone circa le modalità del procedimento, il vescovo stabilisce di convocare un consiglio anziché un collegio arbitrale: questa decisione, a sua volta, gli permette di completare il consiglio con altri quindici vescovi di sua scelta. Se necessario, Milziade può sempre giustificare queste azioni come coerenti con il precedente di Aureliano, affidatosi ai vescovi «di Roma e d’Italia». Ma il vescovo di Roma apporta anche qualche innovazione: invece di lasciare che la conferenza proceda in modo informale, stabilisce di seguire la procedura legale romana, con tutte le rigide regole probatorie che essa comporta. Tale decisione prende i vescovi dissidenti completamente alla sprovvista: nonostante le loro forti proteste, ogniqualvolta costoro non riescono a presentare una causa completamente documentata Milziade si pronuncia automaticamente in favore di Ceciliano.
Alcune circostanze suggeriscono che Costantino non avesse previsto un simile risultato. Egli non si era mai pronunciato sui vescovi aggiuntivi al momento della nomina dei tre giudici galli e, soprattutto, aveva messo da subito in chiaro che si aspettava che la disputa si concludesse in modo tale da impedire qualsiasi forma di scisma o di divisione, in qualunque luogo16. Ciò porta a credere che l’imperatore avesse in mente la gestione informale tipica di un processo di arbitrato, il cui obiettivo dovrebbe essere risolvere lamentele anziché emettere giudizi. Resta tuttavia da spiegare perché Costantino affidi proprio a Milziade un mandato così ampio. Il breve lasso di tempo che intercorre tra la ricezione, da parte di Costantino, della petizione dei dissidenti e la sua lettera a Milziade – forse non più di un mese – rende improbabile che tali disposizioni siano il risultato di un accordo tra l’imperatore residente in Gallia e il vescovo di Roma17. La preoccupazione per le buone relazioni con l’episcopato rende, tuttavia, Costantino sensibile ai suggerimenti dei consiglieri, uno dei quali è Ossio, che mostrano una certa considerazione per il primato che i vescovi di Roma da sempre custodiscono gelosamente.
Non vi è modo di esserne certi ma, se si suppone che Costantino possa considerare questi passi concilianti non in contrasto con il proprio obiettivo di risolvere la controversia nel modo più amichevole possibile, allora la risposta che egli dà ai comportamenti autoritari di Milziade non può considerarsi sorprendente. Quando i donatisti gridano allo scandalo, l’imperatore prende subito la questione nelle proprie mani. In una serie di decisioni senza precedenti, Costantino rigetta il pronunciamento del consiglio e, di propria iniziativa, convoca i vescovi di tutti i territori posti sotto il suo controllo per indire un concilio da tenersi l’anno seguente. La scelta del luogo, Arles, è significativa: Costantino non solo colloca il procedimento in un territorio che i vescovi dissidenti considerano amico, o quantomeno neutrale, ma porta anche gli stessi dissidenti più vicini al proprio controllo18.
L’entità di queste azioni di Costantino è stata sottovalutata per la sua abilità nell’avvolgere il pugno di ferro del potere imperiale in un guanto di velluto di proteste e indignazioni. Il linguaggio che successivamente utilizzerà per descrivere l’appello dei dissidenti nel concilio di Arles – «mi chiedono di giudicare, quando io stesso aspetto il giudizio di Cristo!»19 – è prefigurato, forse troppo agevolmente, in un resoconto più tardo della sua reazione all’appello stesso. Una lettera al vescovo di Siracusa, che lo richiama a detto concilio, consente di cogliere ancor meglio lo stato d’animo di Costantino. Nella missiva, egli critica aspramente i dissidenti per il prolungarsi della disputa, ma riprende anche la loro denuncia di Milziade, «troppo affrettato e precipitoso nell’emettere la sentenza, prima che fossero esaminate tutte le cose che avrebbero dovuto invece essere indagate con cura», sostenendo poi di non aver respinto i ricorsi dei dissidenti con leggerezza. Dichiara infine, ancora una volta, che il suo obiettivo primario è quello di restaurare l’unità e l’armonia della Chiesa20. In ogni caso, la millanteria non può cancellare il fatto che Costantino compia in definitiva ciò che i dissidenti gli chiedono di fare.
Forse Costantino era davvero riluttante a prendere l’iniziativa, ma le sue azioni sono più eloquenti delle sue parole. Assumendo personalmente il controllo della situazione, egli mostra in maniera davvero incisiva che non concepisce il proprio ruolo di imperatore cristiano come un qualcosa di passivo.
Se il donatismo finirà con l’essere per Costantino un grattacapo di lunga durata, nell’inverno del 312-313 egli ha una preoccupazione più stringente. Qualche tempo prima di invadere l’Italia, Costantino stringe un’alleanza con Licinio, succeduto a Galerio in Oriente. Si tratta di una precauzione saggia, che protegge il versante settentrionale dei territori sotto il controllo di Costantino da qualsiasi opportunistica iniziativa eventualmente tentata da Licinio. Ma, considerata l’incertezza del piano di invasione, e soprattutto lo spettacolare fallimento della stessa da parte di due precedenti invasori, qualunque accordo tra i due sovrani lascia necessariamente molti dettagli ancora da perfezionare. Di conseguenza, nel febbraio del 313 Costantino è già a Milano, per siglare l’alleanza secondo la tradizionale maniera romana: con il matrimonio tra Licinio e Costanza, sorellastra di Costantino. Se si considerano la logistica e gli elaborati protocolli che circondano tali eventi21, tenere tale incontro appena tre mesi dopo l’assunzione del controllo di Roma segnala l’urgenza che entrambe le parti attribuiscono ad essi.
Le discussioni riguardano certamente la sistemazione dei confini e una divisione dei compiti – problemi che porteranno a scontri, negli anni a venire –, ma in una lettera in seguito inviata da Licinio al suo governatore a Nicomedia l’imperatore d’Oriente evidenzia come la principale sua preoccupazione sia la necessità di garantire il «rispetto per la Divinità»22, in particolare in merito al rifiuto cristiano di onorare le divinità tradizionali dello Stato romano23. In effetti, non v’è dubbio ragionevole che questo sia un tema d’importanza fondamentale. La questione è messa in secondo piano dall’imperatore Gallieno nel 260, quando concede la libertà di culto ai cristiani dopo le persecuzioni promosse da suo padre24. Ma il sostegno divino per la legittimazione imperiale e per il successo dell’imperatore è troppo importante: la decisione di Diocleziano, nel 303, di costringere i cristiani a conformarsi ai costumi tradizionali, e soprattutto il fallimento di un decennio di sforzi in questo senso, rende indispensabile, per chiunque regni, integrare in qualche modo anche i cristiani nello svolgimento dei riti della religione di Stato. Galerio, luogotenente di Diocleziano, lo comprende già nel 311: con un editto che rappresenta una grande presa di distanza dalla politica tetrarchica, egli decide che il sacrificio non costituisce più una componente necessaria della pratica del culto di Stato. Per contro, stabilisce che per i cristiani sia sufficiente «pregare il loro Dio per la nostra sicurezza e per quella dello Stato e di sé stessi»25. Galerio promulga questo editto in nome, oltre che di sé stesso, di Costantino e Licinio26, ma a Milano questi ultimi fanno un ulteriore e spettacolare passo in avanti. Abbandonando non solo la necessità del sacrificio, ma anche quella delle divinità tradizionali dello Stato, gli imperatori convengono che «qualunque divinità vi è nella sede del cielo» sarebbe meglio servita dall’estensione non solo ai cristiani, ma «a tutti» della libertà di culto, in qualunque forma27. Inoltre, essi dispongono che i beni sequestrati ai cristiani durante la persecuzione debbano essere loro restituiti, con un risarcimento per i proprietari costretti a rinunciarvi28.
È questa la serie di accordi divenuta poi nota, sebbene impropriamente, col nome di editto di Milano. Tale denominazione è messa in discussione ormai da più di un secolo: giustamente Otto Seeck ha per primo sottolineato che, nella sua forma superstite, il documento non è un editto, ma solo la lettera inviata da Licinio al proprio governatore a Nicomedia29. Né questo è l’unico argomento dello studioso. Egli si sforza di riconsiderare il ruolo assunto dal documento in virtù della sua inclusione in due resoconti cristiani contemporanei: una versione latina, ossia il Sulla morte dei persecutori di Lattanzio, e una traduzione greca, con introduzione a sé stante, la Storia ecclesiastica di Eusebio. Entrambi i testi salutano il documento come un importantissimo risultato30. Al contrario, Seeck giudica il documento ridondante, in quanto la tolleranza è una concessione risalente già al 311. Inoltre, esso può essere applicato solo nel territorio amministrato da Licinio, considerato che Costantino ha già introdotto le disposizioni sulla proprietà nei territori di sua pertinenza.
Visto che ci si serve dell’argomento di Seeck come fondamento per un nuovo e vigoroso assalto al significato di questo documento31, è utile rammentare quanto invece non è in discussione, ossia che Costantino e Licinio si riuniscono a Milano e che Licinio dà un resoconto accurato degli accordi presi. O, se si preferisce adoperare le parole di Norman Baynes, «i fatti per i quali l’editto di Milano ebbe luogo rimangono fatti»32. E, cosa ancor più significativa, questi accordi non sono una mera riaffermazione della tolleranza verso i cristiani. Pur lasciando da parte le ovvie discrepanze di tono tra la concessione riluttante e chiaramente non auspicata di Galerio nel 311 e la libertà di scelta sottolineata da Costantino e Licinio nel 313, fra i documenti è una netta differenza, che il tentativo di ridimensionare l’importanza dell’editto di Milano rischia di offuscare. Alla base di ciascuno dei due documenti vi è un concetto completamente diverso della divinità e della cittadinanza romana: nel 311, Galerio ancora identifica lo Stato con le divinità tradizionali, mentre nell’accordo di Milano Costantino e Licinio usano solo espressioni vagamente monoteistiche, come «la Divinità suprema» e l’ancor più audace «qualunque divinità vi è nella sede del cielo». Ancor più importante, gli imperatori sottolineano ripetutamente come tutti siano autorizzati a venerare la divinità nel modo ritenuto più opportuno33. In tal modo, gli imperatori tolgono allo Stato l’arbitrio su questo ambito di scelta. Il documento, quindi, non è semplicemente un altro ‘editto di tolleranza’, ed è invero assai più di una semplice garanzia dei diritti di proprietà o di una riaffermazione della legalizzazione del cristianesimo, nella scia di quanto operato da Gallieno mezzo secolo prima34. Il testo dell’accordo di Milano, di fatto, non è niente di meno che il primo riconoscimento ufficiale della libertà religiosa nella storia occidentale.
Nel presente saggio, la questione davvero degna di nota è determinare la misura in cui questo documento può essere assunto come riflesso del pensiero di Costantino. Secondo una corrente di pensiero, l’imperatore, in quanto cristiano, non si può accontentare di vaghe dichiarazioni circa la divinità, né tantomeno è disposto ad accettare l’eguaglianza di tutte le forme di culto. Di conseguenza, si sostiene, tali limitazioni vanno intese come opera di Licinio. In questo caso, il documento servirebbe solo come prova del modo in cui Costantino è ostacolato, in questa fase della propria carriera, dall’ostilità pagana verso la religione cui ora aderisce. Il testo rifletterebbe, dunque, più il bisogno di compromesso avvertito da Costantino che la forza del suo impegno nell’ambito del cristianesimo. Come afferma sempre Baynes, l’imperatore è «il principe di un mondo pagano e il cristiano che era in Costantino doveva per il momento cedere il passo allo statista»35. Non mancano ragioni di dubitare di questa interpretazione minimalista: una, del tutto semplice, viene dall’accento che la lettera di Licinio pone sul fatto che si tratta di un accordo comune, a cominciare dalla formula di apertura: «Quando io, Costantino Augusto, e io, Licinio Augusto, ci siamo felicemente incontrati a Milano»36. Come sottolinea Simon Corcoran nel suo studio sulla legislazione tetrarchica, «questo è l’unico documento in cui, dietro le misure adottate, sono esplicitamente indicati due imperatori»37.
Il possesso di uno dei panegirici sicuramente declamato al momento dell’incontro dei due imperatori a Milano renderebbe più facile determinare il grado della partecipazione di Costantino. Ora infatti gli studiosi non guardano più a questi esercizi come a opere di propaganda imperiale, rappresentazioni dirette della politica imperiale, alla stregua di una pubblicazione ufficiale di un regime moderno. Malgrado i panegiristi non siano portavoce ufficiali, essi sono comunque abili nell’ingraziarsi un pubblico reale: nell’occasione dell’incontro di Milano, l’oratore è certo attento a ritrarre con equilibrio il rapporto di potere tra i due imperatori, non diversamente da quanto avvenuto in occasione del matrimonio dello stesso Costantino, cinque anni prima38. Inoltre, per evitare argomenti che possano dispiacere al proprio imperiale pubblico, gli oratori sanno come muoversi con cautela attorno a potenziali punti d’attrito. Un’orazione del genere ha dunque molto da dire anche nei propri silenzi39.
Se nessuno di questi panegirici è pervenuto, rimangono tuttavia due fonti contemporanee, che compensano abbondantemente tale perdita.
La prima fonte è rappresentata da un panegirico declamato al ritorno di Costantino in Gallia, dopo l’incontro di Milano, probabilmente entro la fine dell’anno40. L’oratore, che non ha niente da comunicare sull’accordo, ha invece molto da dire sul rapporto tra Costantino e la divinità. Secondo le parole del panegirista, tale rapporto dev’essere eccezionalmente stretto, se l’imperatore si impegna a salvare Roma dal malvagio Massenzio, malgrado le perplessità dei suoi consiglieri e gli avvertimenti dei aruspici: «Condividi certo, Costantino, qualche segreto con quella mente divina, che ha delegato la cura di noi a divinità minori e si degna di rivelarsi a te solo» (2,4-5). Si tratta di un tema che torna a più riprese, ad esempio in 4,1, là dove a Costantino è domandato: «dicci, ti supplico, chi ti diede consiglio, se non un potere divino?»; e ancora, in un altro passo, dove si invita il «creatore supremo delle cose», i cui nomi sono «tanti quanti le lingue delle nazioni», a concedere a Costantino «il percorso più lungo che la vita prevede» (26,1-3).
Molto inchiostro ancora si versa per dibattere su quanto queste espressioni dicano o non dicano della conversione di Costantino al cristianesimo41. Il punto qui in questione, tuttavia, è la loro forte somiglianza con il linguaggio del documento di Milano. Secondo una corrente interpretativa, l’oratore assume in questo caso il ruolo di Licinio a Milano, mitigando le conseguenze derivanti dalla radicale adesione di Costantino alla fede cristiana con l’impiego di un linguaggio, nella migliore delle ipotesi, vagamente monoteistico; ma forse va cercata un’altra spiegazione.
La seconda fonte, sempre risalente al 313, può aiutare a trovare la giusta via. Si tratta di un medaglione aureo, attualmente conservato nella Bibliothèque Nationale di Parigi, coniato dalla zecca di Ticinum (odierna Pavia) per commemorare l’incontro dei due imperatori a Milano42. Se già il verso del medaglione fornisce dati utili – l’immagine di Costantino a cavallo guidato dalla dea Vittoria con la legenda Felix Adventus Augg NN («il fortunato arrivo dei nostri imperatori») –, è comunque il recto ad assumere un particolare interesse, nel mostrare Costantino in un sorprendente profilo doppio, sovrapposto a quello di una figura gemella. Si tratta, a ben vedere, della comunicazione sul piano visivo dello stesso messaggio espresso verbalmente dal panegirista gallico, vale a dire la stretta connessione con la divinità. Il casco solare indossato dalla figura consente di identificarla quale divinità: o Apollo, nella sembianze del sole, o il Sol Invictus. Entrambe le divinità sono strettamente associate a Costantino in emissioni monetali e in precedenti orazioni: pertanto, se l’argomento è discutibile, la legenda Invictus Constantinus Max Aug («l’invitto Costantino Massimo Augusto») rafforza nondimeno il legame tra Costantino e questa potente forza divina.
Sebbene il grado di coinvolgimento imperiale nella coniazione delle monete (in particolare quella dei tagli minori circolanti a livello regionale) sia discutibile, pochi studiosi esprimono dubbi sul controllo della corte sui pezzi commemorativi in metallo prezioso, come è nel caso in oggetto. Va inoltre osservato che la presenza esclusiva di Costantino, sia al recto sia al verso, nell’immagine e nella legenda, rende estremamente remota la possibilità di un coinvolgimento o anche solo di una consultazione di Licinio a riguardo della produzione del pezzo. Si deve quindi presumere che o Costantino stesso o un cortigiano di alto rango diano il consenso a che l’imperatore sia rappresentato in tal modo. Gli avversari della tesi di un Costantino cristiano nel 312 prendono solitamente questa moneta come prova del fatto che l’imperatore non si converte in tale data, ma l’ideologia imperiale offre una spiegazione più semplice. In questo periodo della storia dell’Impero, le dimostrazioni di una stretta, direi intima connessione con una divinità potente è una condictio sine qua non per il successo politico, e tra tutti i sudditi vi è consenso nel riconoscere tale legame43. Se non è del tutto sicura una componente ideologica nella persecuzione di Diocleziano, in questo caso essa è certa. Il medaglione e il panegirico provano che Costantino condivide tale impostazione e si comporta in modo tale da raggiungere un consenso anziché una polarizzazione. Un quarto di secolo più tardi, anche un panegirista cristiano come Eusebio di Cesarea farà le stesse affermazioni e alla stessa maniera44.
Vi sono dunque due fonti contemporanee: entrambe possono ragionevolmente essere accolte quali indicatori di come Costantino voglia presentare il proprio personaggio pubblico, ma né l’una né l’altra sono plausibilmente idonee a essere attribuite all’influenza di Licinio. È pertanto significativo che entrambe concordino, relativamente ai sentimenti verso la divinità, con il documento di Milano. Resta quindi da stabilire se sia necessario continuare ad arrovellarsi per distanziare la persona di Costantino da questa prassi o se, viceversa, non esista una soluzione più ragionevole.
I pronunciamenti dell’editto di Galerio, nel 311, e le decisioni concordate da Costantino e Licinio, nel 313, sono profondamente differenti, ma presentano nondimeno nella sostanza un comune e importante elemento di somiglianza. Se nell’editto di Serdica Galerio è costretto ad ammettere che «moltissimi [scil. cristiani] hanno perseverato nella loro determinazione»45, solo due anni dopo Costantino e Licinio riconoscano che il favore divino si dispiega quando «tutti gli uomini hanno la libertà di seguire qualunque credo ciascuno voglia»46. Così, in entrambi i passi, Galerio a malincuore, ma i due Augusti liberamente, ammettono che la politica tetrarchica, volta a imporre con la forza il credo religioso dello Stato, è risultata fallimentare. La concessione di Galerio è dunque ancora più significativa. Il cuore della persecuzione dioclezianea risiedeva nel convincimento che il criterio di base per la cittadinanza, e quindi la definitiva prova di lealtà, stesse nella volontà di offrire un sacrificio in nome degli imperatori. Quando Galerio perviene alla conclusione che i cristiani ora possono adempiere a tali obblighi anche attraverso la preghiera47, egli modifica sostanzialmente i criteri di valutazione della cittadinanza e della fedeltà.
Eliminando la necessità di eseguire il sacrificio, l’editto del 311 apre la strada allo sviluppo di un nuovo consenso. Nel 313, Costantino e Licinio compiono un ulteriore passo in questa direzione, accettando di provvedere sia alla restituzione delle proprietà dei cristiani sia alla compensazione per coloro che ora le posseggono mediante un acquisto legale, con un’azione che oggi si potrebbe definire come parte di un programma di ‘pace e riconciliazione’48. Se Costantino si sia o non si sia allontanato da questa posizione negli ultimi anni di vita rimane argomento di dibattito49. Le conclusioni ultime di queste iniziative mostrano tuttavia che le condizioni in cui il dibattito stesso è condotto vanno modificate. Partendo dal presupposto che tanto i cristiani quanto i pagani siano all’interno di una ‘lotta per la vita e la morte’, gli studiosi che vogliono difendere la sincerità della conversione di Costantino vedono in questo suo sforzo verso la riconciliazione solo una tattica momentanea, resa necessaria dalla debolezza della sua posizione. Come afferma Baynes, «Costantino è stato accusato di debolezza e di esitazione nell’attuazione della sua politica religiosa, eppure egli non esitò mai, sebbene possano variare i mezzi scelti per la realizzazione della stessa»50.
Il modello conflittuale nasce dall’ostilità dei philosophes del XVIII secolo verso una Chiesa monolitica, contro cui combattono per essere liberi da essa. Essi dunque elaborano questa visione della comunità ecclesiale dei primi secoli, ma la storiografia più recente oggi ha chiaro come il cristianesimo dell’età di Costantino non sia affatto un monolito, ma piuttosto un mosaico di comunità semindipendenti, con una varietà di punti di vista non solo sulla natura del Dio cristiano, ma anche del giusto rapporto tra cristianesimo e Impero51. Eppure le implicazioni di questa visione in ordine a una corretta comprensione delle azioni di Costantino solo raramente sono messe a fuoco. Ciò significa che l’energia e il tempo finora impiegati per chiarire se Costantino sia o non sia mai divenuto cristiano dovrebbero ora essere dedicati a comprendere che tipo di cristiano egli sia divenuto. Per questa ragione l’anno 313 è così importante: esso, a differenza del precedente, non è segnato da nessun particolare evento drammatico, ma, quando la nostra attenzione si rivolge alle azioni compiute da Costantino nel corso di quell’anno, allora ci risulta più agevole comprendere le caratteristiche del suo cristianesimo.
In verità gli specialisti della figura di Costantino sono raramente espliciti sul ‘modello di cristiano’ che hanno in mente, quando considerano la questione del cristianesimo proprio dell’imperatore. Nondimeno, è un fatto che tale modello di cristiano sia sempre rigoroso, intollerante e vendicativo, dotato di una voce «acuta e piena d’odio implacabile», per stare alla ormai classica formulazione di Arnaldo Momigliano52. Se certo non mancano cristiani di questo genere, essi tuttavia non rappresentano la sola tipologia cui Costantino può ispirarsi. Nell’anno 313, i cristiani che più si avvicinano a una simile descrizione sono i dissidenti africani, quelli che Costantino cerca con tutte le forze di placare, quelli il cui cristianesimo egli alla fine rifiuta completamente e il cui comportamento definisce con termini come «follia» (furor) e «ostinazione» (obstinatio)53: un atteggiamento che finisce con il prevalere durante tutto il suo regno. Come afferma Eusebio nella sua Vita di Costantino, egli «approvava molto coloro che vedeva inclini alla decisione migliore e disposti a un comportamento conciliante ed equilibrato, mostrando apertamente che si compiaceva della generale concordia tra tutti, mentre detestava chi si comportava in modo ostinato»54.
Il modo in cui Costantino, nel 313, affronta lo scisma africano e il collega Licinio è non solo coerente, ma anche particolarmente rilevante e significativo. Entrambi i conflitti provano che i rigoristi non esercitano alcuna presa su Costantino, e ciò, come nota Eusebio, vale per il tutto il resto del suo lungo e determinante regno.
Dagli eventi del 313 emerge un secondo aspetto degno di rilievo: si tratta della marcata volontà, in Costantino, di agire unilateralmente su questioni che oggi si giudicherebbero interne alla Chiesa. Ciò non deve comunque sorprendere: egli è un imperatore romano prima che un cristiano, e tali sovrani ormai da lungo tempo si considerano gli arbitri ultimi di qualsiasi realtà all’interno del proprio imperium, particolarmente delle questioni che concernono i rapporti con il divino. L’unica ragione per aspettarsi da Costantino un comportamento differente discende dalla rigida divisione che il mondo intellettuale moderno ha introdotto fra Chiesa e Stato, con la conseguenza di pervenire all’erronea conclusione secondo cui ogni imperatore che agisce in tal senso è ‘colpevole’ di cesaropapismo55. Comunque, per valutare l’importanza dell’anno 313, è utile considerare che cosa sarebbe potuto succedere se la questione donatista non si fosse presentata mai a Costantino, o almeno non nel periodo immediatamente successivo alla sua vittoria su Massenzio, quando, come mostrano i resoconti superstiti, egli era ancora occupato in molte altre questioni urgenti. Da un lato, non vi è motivo di credere che egli avrebbe accettato alcuna limitazione al proprio ruolo di pontifex maximus. Ma, senza il disastro del concilio di Roma, Costantino sarebbe stato forse soddisfatto di accettare il ruolo passivo prefigurato da Aureliano, e senza il precedente del concilio di Arles egli avrebbe potuto seguire una strada diversa nella circostanza del confronto con la crisi ariana.
Resta quindi evidente l’importanza della questione donatista, e più in generale dell’anno 313: questo è l’anno in cui ha avvio il lungo processo d’integrazione della Chiesa cristiana nello Stato romano.
1 Il resoconto più famoso è quello di Eusebio di Cesarea nella sua Vita di Costantino, pubblicata dopo la morte dell’imperatore nel 337: Eus., v.C. I 28-29. Anche Lattanzio parla di un intervento divino, sebbene solo in sogno, nel suo Sulle morti dei persecutori, scritto probabilmente nel 315: Lact., mort. pers. 44,5. Nonostante le differenze, entrambi gli autori collegano l’accaduto con la battaglia di ponte Milvio. Nell’ambito di un’ampia letteratura scientifica, cfr. il recente O. Nicholson, Constantine’s Vision of the Cross, in Vigiliae Christianae, 53 (2000), pp. 309-323; A. Demandt, Wenn Kaiser träumen… Die Visionen Konstantins des Großen, in Konstantin der Große: Geschichte – Archäologie – Rezeption, Internationales Kolloquium (Trier 10-15. Oktober 2005), hrsg. von A. Demandt, J. Engemann, Trier 2006, pp. 49-59; W. Harris, Constantine’s Dream, in Klio, 87 (2005), pp. 488-494; N. Lenski, Evoking the Pagan Past: Instinctu divinitatis and Constantine’s Capture of Rome, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 204-257.
2 Per l’importanza dell’aspetto sociale, cfr. ad es. R. Stark, Epidemics, Networks, and the Rise of Christianity, in Social Networks in the Early Christian Environment: Issues and Methods for Social History, ed. by M. White, Alpharetta (GA) 1992, pp. 159-175, in partic. 172.
3 Per la ‘visione pagana’, cfr. Paneg. 6(7)21,3-7; per la bibliografia, cfr. C. Nixon, B. Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors. The Panegyrici Latini, Berkeley-Los Angeles-Oxford 1994, pp. 248-250. Eusebio descrive le molte visioni di Costantino in v.C. II 12,14; P. Weiss, Die Vision Constantins, in Colloquium aus Anlass des 80. Geburtstages von Alfred Heuss, hrsg. von J. Bleicken, Kalmunz 1993, pp. 143-169, sostiene l’idea di una conversione graduale che comincerebbe nel 310. Si veda inoltre R. van Dam, The Many Conversions of the Emperor Constantine, in Conversion in Late Antiquity and the Early Middle Ages: Seeing and Believing, ed. by K. Mills, A. Grafton, Rochester (NY) 2003, pp. 127-151.
4 Cfr. F. Millar, The Emperor in the Roman World, 31 BC-AD 337, Ithaca (NY) 1977, p. 6.
5 Per Costantino e il Senato, cfr. Paneg. 12(9)20,1-2, e S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs. Imperial Pronouncements and Government, A.D. 284-324, Oxford 20002, p. 155. Per le leggi, si veda Cod. Theod. VII 22,1 (circa i veterani), XV 14,4 (sui navicularii), X 8,1 (sulla proprietà). Costantino deve ritornare in Gallia per affrontare i franchi: cfr. Paneg. 12(10)21,5-22,5.
6 Cfr. H. von Schoenebeck, Beiträge zur Religionspolitik des Maxentius und Constantin, Leipzig 1939; D. de Decker, La politique religieuse de Maxence, in Byzantion, 38 (1968), pp. 472-562; M. Humphries, From Usurper to Emperor: the Politics of Legitimation in the Age of Constantine I, in Journal of Late Antiquity, 1 (2008), pp. 82-100, in partic. 93-96.
7 Lact., mort. pers. 43,3 afferma che l’alleanza è sancita in pubblico, ma Eus., h.e. VIII 14,7 sostiene che si tratti di cosa segreta e a VIII 14,1 ammette che Massenzio ha agito in modo tale da favorire i cristiani; cfr. anche Optat. I 18, in cui si attribuisce a Massenzio la restituzione della libertà ai cristiani d’Africa.
8 Cfr. Liber Pontificalis 33.
9 Cfr. Eus., h.e. X 6,1-5. Per la datazione, si veda S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs, cit., p. 153.
10 Cfr. Eus., h.e. X 6,2.
11 Cfr. Aug., epist. 88,2, in Le dossier du Donatisme, éd. par J.-L. Maier, 2 voll., Berlin 1987-1989, I, Des origines à la mort de Constance II (303-361), pp. 144-146.
12 Cfr. Eus., h.e. X 5,18-20.
13 Cfr. Eus., h.e. VII 30,19. Si veda, inoltre, F. Millar, Paul of Samosata, Zenobia and Aurelian: The Church, Local Culture and Political Allegiance in Third Century Syria, in Journal of Roman Studies, 61 (1971), pp. 1-17.
14 Cfr. Eus., h.e. X 5,18-20. I vescovi della Gallia sono menzionati in h.e. X 5,19.
15 Cfr. Eus., h.e. X 5,19-20: ὡς ἄν ϰαταμάθοιτε τῷ σεβασμιωτάτῳ νόμῳ ἁϱμόττειν […] ὅντινα χϱὴ τϱόπον τὴν πϱοειϱημένην δίϰην ἐπιμελέστατα.
16 Cfr. Eus., h.e. X 5,20: ὡς μηδὲν ϰαθόλου σχίσμα ἢ διχοστασίαν ἔν τινι τόπῳ.
17 S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs, cit., pp. 156-160, data la richiesta all’aprile 313 e la risposta al giugno dello stesso anno, non si può identificare il giorno esatto di entrambi i mesi, ma l’intervallo più lungo (dal 1° aprile al 30 giugno) sarebbe di circa novanta giorni, mentre il più corto (dal 30 aprile al 1° giugno) di circa trenta. Alle pagine 157-158, Corcoran indica alcuni tempi-campione per le comunicazioni di quel tempo, che suggeriscono che la lettera di Costantino impieghi dai venti ai quarantuno giorni per raggiungere Roma.
18 T.D. Barnes, The New Empire of Diocletian and Constantine, Cambridge (MA) 1982, p. 72, sostiene che Costantino sia stato presente al concilio, sulla scorta di Eus., v.C. I 44.
19 Cfr. Optat., app. V (CSEL 26, p. 209): «Meum iudicium postulante, qui ipse iudicium Christi exspecto!». S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs, cit., p. 157, pone l’attenzione sulla somiglianza tra il linguaggio che Optato attribuisce a Costantino in I 25 e quello che l’imperatore pare invece usare a seguito delle decisioni del concilio di Arles.
20 Cfr. Eus., h.e. X 5,21-24.
21 Per un’idea delle cerimonie che si tengono in tali occasioni, cfr. S. MacCormack, Change and Continuity in Late Antiquity: the Ceremony of ‘Adventus’, in Historia, 21 (1972), pp. 721-752. Più in generale, si veda I. Kalavrezou, Ceremony, in The Oxford Dictionary of Byzantium, ed. by A. Kazhdan, 3 voll., I, New York 1991, pp. 400-402.
22 Cfr. Lact., mort. pers. 48,2: «divinitatis reverentia continebatur».
23 Il testo è in Lact., mort. pers. 48,1-13. Una versione greca, con alcune varianti, fornisce Eus., h.e. X 5,2-14.
24 Cfr. Eus., h.e. VII 13,2.
25 Il testo originale si legge in Lact., mort. pers. 34,5.
26 Lattanzio omette di recare l’iscrizione, mentre Eusebio la include nella sua versione greca: cfr. h.e. VIII 17,3-4.
27 Il testo originale si legge in Lact., mort. pers. 48,2.
28 Cfr. Lact., mort. pers. 48,7.
29 O. Seeck, Das sogenannte Edikt von Mailand, in Zeitschrift für Kirchengeschichte, 12 (1891), pp. 381-386. Per una bibliografia esaustiva sulla disputa storiografica del secolo seguente, cfr. F. Corsaro, L’imperatore Licinio e la legislazione filocristiana dal 311 al 313, in Studi in onore di Cesare Sanfilippo, III, Milano 1983, pp. 155-186.
30 Si veda supra, alla nota 21.
31 Cfr. T.D. Barnes, Constantine after Seventeen hundred years. The Cambridge Companion, the York Exhibition and a Recent Biography, in International Journal of the Classical Tradition, 14 (2007), pp. 185-220, in partic. 186-189; Id., Constantine. Dynasty, Religion and Power in the Later Roman Empire, Chichester 2011, pp. 94-97.
32 N. Baynes, Constantine, in The Cambridge Ancient History, XII, The Imperial Crisis and Recovery AD 193-324, ed. by S.A. Cook, F.E. Adcock, M.P. Charlesworth, N.H. Baynes, Cambridge 1939, pp. 678-699, in partic. 686.
33 I passi originali si leggono in Lact., mort. pers. 48,3,2.
34 Cfr. T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power, cit., p. 97, sul rapporto tra la politica di Gallieno e l’editto di Milano.
35 N. Baynes, Constantine, cit., p. 686.
36 Lact., mort. pers. 48,2: «Tam quam ego Costantinus Augustus etiam ego Licinius Augustus apud Mediolanum convenissemus».
37 S. Corcoran, The Empire of the Tetrarchs, cit., p. 159. Per una discussione esaustiva sul ruolo di Licinio, si veda F. Corsaro, L’imperatore Licinio e la legislazione filocristiana, cit.; T. Christensen, The so-called Edict of Milan, in Classica et Medioevalia, 35 (1984), pp. 129-176.
38 Cfr. Paneg. 7(6), che è pronunciato al matrimonio tra Costantino e Fausta, figlia di Massimiano, nel 307. Per un esempio di panegirico pronunciato nel 313, si veda Paneg. 11(3), tenuto per un incontro simile a quello di Milano, ovvero nella circostanza dell’incontro, nel 291, tra Diocleziano e Massimiano. Al riguardo, cfr. C. Nixon, B. Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors, cit., pp. 76-103.
39 Per la lettura dei panegirici come dichiarazioni ufficiali, cfr. ad esempio K. Setton, Christian Attitude Towards the Emperor in the Fourth Century: Especially as Shown in Addresses to the Emperor, New York 1941, p. 42: «I panegiristi imperiali […] operavano nel IV secolo quasi fossero ministri della propaganda». Per una visione più sfumata si veda, tra gli altri, J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, Stuttgart 1939, pp. 146-174. Contra, Alan Cameron minimizza la loro importanza in Claudian: Poetry and Propaganda at the Court of Honorius, Oxford 1970, pp. 36-37. Per la funzione cerimoniale dei panegirici, cfr. S. MacCormack, Latin Prose Panegyrics, in Empire and Aftermath. Silver Latin II, ed. by T.A. Dorey, London-Boston 1975, pp. 143-205; R.M. Errington, Themistius and his Emperors, in Chiron, 30 (2000), pp. 863-904, in partic. 864-865. Sull’importanza dei ‘silenzi’, si veda F. Ahl, The Art of Safe Criticism in Greece and Rome, in American Journal of Philology, 105 (1984), pp. 174-208.
40 L’oratore elogia Costantino per una campagna condotta contro i franchi, dopo la vittoria su Massenzio. Per il testo, si veda Paneg. 12(9), che Rodgers colloca nello stesso anno: cfr. C. Nixon, B. Rodgers, In Praise of Later Roman Emperors, cit., p. 290.
41 Cfr. in specie B. Rodgers, Divine Insinuation in the Panegyrici Latini, in Historia, 35 (1986), pp. 69-104; più in generale, C. Ando, Pagan Apologetics and Christian Intolerance in the Ages of Themistius and Augustine, in Journal of Early Christian Studies, 4 (1996), pp. 171-207.
42 Cfr. C.H.V. Sutherland, From Diocletian’s Reform (A.D. 294) to the Death of Maximinus (A.D. 313), in RIC VI, pp. 277-278.
43 Cfr. A.D. Nock, The Emperor’s Divine Comes, in Journal of Roman Studies, 37 (1947), pp. 102-116; ma anche J. Gagé, σταυϱὸς νιϰοποιός: la victoire impériale dans l’Empire chrétien, in Revue d’histoire et de philologie religieuses, 13 (1933), pp. 370-400; J. Straub, Vom Herrscherideal in der Spätantike, cit., pp. 76-145. Sul consenso, si veda R. Lim, Public Disputation, Power, and Social Order in Late Antiquity, Berkeley-Los Angeles-London 1995, pp. 26-28.
44 Cfr. In Praise of Constantine. Historical Study and New Translation of Eusebius’ Tricennial Orations, ed. by H.A. Drake, Berkeley 1976, pp. 46-49.
45 Il testo originale si legge in Lact., mort. pers. 34,4.
46 Il testo originale si legge in Lact., mort. pers. 48,2.
47 Cfr. Lact., mort. pers. 34,5: «deum suum orare pro salute nostra et rei publicae».
48 Sul calo d’importanza del sacrificio di sangue, cfr. S. Bradbury, Julian’s Pagan Revival and the Decline of Blood Sacrifice, in Phoenix, 49 (1995), pp. 331-356.
49 Per due interpretazioni tra loro molto in contrasto, cfr. H.A. Drake, Constantine and the Bishops. The Politics of Intolerance, Baltimore-London 2000, e T.D. Barnes, Constantine. Dynasty, Religion and Power, cit.
50 N. Baynes, Constantine the Great and the Christian Church, London 19722, pp. 29-30.
51 Il ripensamento in merito all’unità della Chiesa ha avvio con W. Bauer, Rechtgläubigkeit und Ketzerei im ältesten Christentum, Tübingen 1934. Sulla riflessione più recente, si vedano tra gli altri: The Cambridge History of Christianity, II, Christianity: Constantine to c. 600, ed. by A. Casiday, F.W. Norris, Cambridge 2007; The Oxford Handbook of Early Christian Studies, ed. by S. Harvey, D. Hunter, Oxford 2008.
52 Cfr. A. Momigliano, Pagan and Christian Historiography in the Fourth Century A.D., in Id., The Conflict between Paganism and Christianity in the Fourth Century, Oxford 1963, p. 79.
53 Di «follia» (furor) si parla nella lettera ai vescovi riuniti ad Arles, in Le dossier du Donatisme, cit., I, pp. 167-171; «ostinazione» (obstinatio) si legge nella lettera indirizzata ai vescovi donatisti, ivi, pp. 192-193, n. 25; insanus, perfidus, irreligiosus, profanus, deo contrarius sono vocaboli chiave che compaiono nella lettera ai vescovi numidi, in ivi, p. 248, n. 33.
54 Il testo originale si legge in Eus., v.C. I 44,3.
55 Per una critica del termine ‘cesaropapismo’, si veda G. Dagron, Empereur et prêtre: étude sur le ‘césaropapisme’ byzantin, Paris 1996, in partic. il cap. 9.