FALCONIERI, Ignazio
Nacque il 16 febbr. 1755 a Lecce o nella vicina Monteroni, secondogenito di Alessandro e di Teresa Brizio Lucesani, di antica e ricca famiglia borghese. Avviato al sacerdozio, a tredici anni vestì l'abito talare con l'obbligo di servire nella cattedrale. Compì gli studi con ottimi risultati prima a Lecce, quindi, dal 1769, presso il seminario di Nola, uno dei migliori del Regno, ove rimase tre anni e frequentò i corsi di grammatica, retorica e letteratura greca. Nel 1771 chiese al vescovo di Lecce la prima tonsura, ottenuta probabilmente in dicembre, ma si ignora dove e quando abbia conseguito gli altri ordini e sia asceso al sacerdozio. Forse per invito del vescovo di Nola, Filippo Lopez y Royo, dei duchi di Taurisano, feudatari di Monteroni, ma soprattutto come riconoscimento dell'elevato grado di preparazione raggiunto, fu nominato, giovanissimo, professore di retorica presso il seminario di Nola.
Lontano da ogni pedantismo di scuola, egli intese l'insegnamento e l'attività letteraria in una dimensione etico-pedagogica, finalizzati alla diffusione della morale e della virtù, seguendo le idee dell'illuminismo napoletano. Furono suoi allievi Luigi de' Medici, futuro ministro del Regno, Luigi Arcovito di Reggio Calabria, giureconsulto esule a Marsiglia dopo il 1799, Domenico Antonio Ranieri, Vincenzo Galiani, Vincenzio Russo, Lorenzo De Concilj e, secondo il Lucarelli, anche Emanuele De Deo e Vincenzo Cuoco (erroneamente il D'Ayala indica anche Luigi Minichini di Nola, protagonista della rivoluzione del 1820). Il F. stesso ricordava ancora come propri allievi Pasquale Toscano, vicerettore del seminario di Nola e maestro di morale, l'avvocato Donato Pionati di Avellino, Giovanni latta di Ruvo - giureconsulto, repubblicano nel 1799 - nipote del medico Domenico Cotugno.
Divenuto nel 1785-86 rettore del seminario nolano, il F. fu sostituito nel 1787, a causa di intrighi e gelosie, da Saverio Rodinò. Trasferitosi a Napoli, divenne istitutore dei figli del barone Michele Zezza di Zapponeta, Carolina e Michele iunior, futuro poeta dialettale napoletano. Gestì anche una scuola privata per la quale scrisse nel 1788 la Introduzione alle poesie latine ed italiane o siano i principali precetti per ben verseggiare nell'una, e nell'altra lingua raccolti e posti in ordine assai facile, e succinto..., che ebbe numerose edizioni di cui forse l'ultima nel 1852. Fu fortemente influenzato dal clima letterario, politico e filosofico permeato di spirito riformatore diffuso a Napoli in quegli anni, aperto alle idee d'Oltralpe e, contemporaneamente, attento ai problemi del Regno. Partecipò alle polemiche letterarie sul melodramma e sulla lingua e fu amico di Antonio De Gennaro, duca di Belforte, principale esponente della poesia arcadica a Napoli, che gli indirizzò vari versi latini e volgari. Strinse amicizia con numerosi cattedratici dell'università, come Francesco Rossi, professore di diritto civile e conoscitore dell'ebraico e delle lingue classiche, al quale dedicò la traduzione delle Troiane di Seneca, e mons. Giovanni Cianci Danesi, vescovo di Gallipoli, lettore di teologia, al quale dedicò l'operetta scolastica Sentimenti ed orazioni scelte di M. T. Cicerone ... (Napoli 1793), cui era premessa una canzonetta laudativa del De Gennaro contenente precetti morali.
Nel 1788 pubblicò a Napoli il Saggio di poesie latine, italiane e greche colla traduzione della famosa tragedia delle Donne troiane di Lucio Anneo Seneca, dedicato al canonico della cattedrale di Nola, Nicola Rainone. All'opera il F. aveva premesso una canzonetta che accennava alle calunnie scagliate contro di lui nel periodo del rettorato nolano.
Oltre a vari carmi, aventi per oggetto i santi Felice e Paolino, venerati a Nola, nel Saggio sono presenti tre epigrammi in latino, un'elegia a Pietro Cotugno, nipote di Domenico, i distici intitolati Mors, alcune canzonette italiane: due dedicate al canonico Rainone, una In morte di Socrate, una per l'onomastico di Carolina Zezza e, infine, una per Giulia De Benedictis. Rilevante è soprattutto la traduzione delle Troiane di Seneca, che trasforma la tragedia in un melodramma, secondo una moda settecentesca già seguita da M. Cesarotti con l'Iliade e da Saverio Mattei con la sua traduzione dei Salmi di Davide in versi metastasiani. Egli così, nella disputa che opponeva i fautori e gli oppositori del dramma metastasiano, si schierò dalla parte dei primi, che avevano i maggiori rappresentanti a Napoli nel De Gennaro, nel Fusco e nello stesso Mattei. Valorizzando le arie musicali, le decorazioni e le comparse con l'uso di uno stile "sublime" che cercava di rendere al meglio la maestosità della lingua latina, il F. raggiunse effetti di notevole ridondanza, che, accoppiati ai modi metastasiani, hanno fatto parlare di "ibridismo" contrastante con il testo latino (Manfredi). Si tratta, comunque, del suo migliore lavoro poetico, per l'adesione sincera e sentita al testo e allo stile senechiano, per i versi agili e scorrevoli nonché "come prova del linguaggio civico ad affrontare situazioni e strutture drammatiche" (Vallone, p. 408), in un clima di sperimentazione.
Della produzione letteraria meritano particolare considerazione le opere oratorie. Sulla sua Rettorica, in uso nelle scuole napoletane per oltre cinquant'anni, studiarono generazioni di intellettuali. Quest'opera molto probabilmente è da identificare, come fa il Manfredi, con le Istituzioni oratorie modellate sugli esemplari dei primi maestri di quest'arte composte ed arricchite di bellissimi esempi per uso della sua scuola privata (Napoli 1789; numerose ediz. successive, di cui forse l'ultima Napoli 1852), dedicate al Mattei (il d'Ayala parla di una Rettorica, distinta dalle Istituzioni oratorie, pubblicata a Napoli nel 1786, di cui non si è trovata traccia).
Esse ebbero subito ampio successo e nel 1791 se ne contavano già tre edizioni: motivo di ciò l'uso della lingua italiana al posto del latino, l'aver proposto esempi tratti non solo dai latini ma anche da autori in lingua volgare, e soprattutto il "loro valore metodologico e didattico insieme" (Zerella). Era evidente nel F. l'influenza del Genovesi che, scontrandosi con la consuetudine accademica, aveva per primo usato l'italiano nelle sue lezioni universitarie di economia e che, nel 1767, aveva proposto nel suo "Piano delle scuole" una scuola di lingua italiana, per fare di questa un usuale strumento di comunicazione anche in campo scientifico. Il F. sostenne la stessa scelta nella convinzione che essa fosse utile ai giovani allievi non solo per facilitare il processo di apprendimento ma anche per la loro maturazione ideologica e civile, in quanto la lingua era il riflesso del pensiero e della fisionomia complessiva di un Popolo: utilizzare i testi di Dante, Metastasio, Cesarotti e di altri scrittori moderni, contro l'uso degli altri trattati di retorica che si fermavano al 14 d. C., significava legittimare una cultura carica di valori laici e moderni e credere nel valore politico della letteratura. Non a caso, nella disputa che opponeva cruscanti e puristi agli scrittori gallicizzanti, egli, pur con "spirito conciliativo" (Zerella), parteggiava per questi ultimi perché essi erano fautori di una lingua aderente ai tempi, viva, aperta a nuovi apporti, aliena dalla concettosità e dagli eccessi secenteschi, disposta a un uso delle figure nei limiti del buon senso. Quindi la retorica doveva essere l'arte capace di esprimere meglio le proprie idee e non certo mirare a creare poeti o oratori, se negli allievi non vi fosse una propensione naturale. Il F. esprimeva questi concetti in uno stile agile e scorrevole, carico di passione, ma le sue argomentazioni difettavano da un punto di vista speculativo: egli non faceva neppure riferimento alla questione già affrontata dal Vico della rispondenza fra parole ed idee, tra linguaggio e pensiero. Mancava in lui ogni impostazione storicistica, per cui la sua attitudine rimaneva quella del divulgatore e non dell'elaboratore di idee.
Una valutazione complessiva della personalità del F. non può scindere la sua biografia tra la modesta attività poetico-letteraria e l'impegno didattico e pedagogico prima e l'attività politica del F. "giacobino" poi. Sembra più appropriato vedere in essa una sostanziale unitarietà, un impegno continuo nella vita quotidiana, nella scuola, a modificare la società, ad indirizzare i giovani verso principi di profonda moralità, ma anche ad affrontare i problemi concreti, il dibattito sulle riforme e la loro realizzazione, prima in armonia con la monarchia, poi - dopo il tramonto del riformismo borbonico - in antagonismo con essa. La volgarizzazione del sapere, tramite compendi e traduzioni, non è in tale ottica un lavoro secondario o periferico nel clima culturale e politico della fine del Settecento, allorché tale attività caratterizzava profondamente l'intellettuale riformatore.
L'impegno pubblico del F. si intensificò dopo il 1790, quando subentrò nell'insegnamento universitario (grazie ad un atto privato, confermato tuttavia dal cappellano maggiore e dal re) all'amico Gennaro Vico, figlio di Giambattista, docente di retorica e di poetica, ritiratosi per ragioni di salute. Poté così avere frequenti contatti con uomini come Emanuele Caputo, Troiano Odazi, successore del Genovesi nella cattedra di economia politica e commercio, il poeta Girolamo Ierocades, Teodoro Monticelli, coinvolti nei processi del 1793-94, e con i futuri giacobini del '99 M. Pagano, D. Cirillo, V. Troisi, F. Conforti. Fu tra i membri della Società patriottica di Carlo Lauberg, fondata a Napoli nel 1793 sull'esempio dei clubs massonici francesi, anche se vi ebbe un ruolo secondario (Lucarelli, I, p. 332). Dopo la scoperta della congiura del 21 marzo 1794 fu denunciato dallo studente Luigi Polopoli sulla base di una confidenza fattagli dal reo contumace Luigi Labonia; per tale motivo, pur non essendo tra gli inquisiti, fu inserito in un Notamento fiscale relativo ai colpevoli minori. Dopo gli avvenimenti e i processi del 1794-95 il F. si allontanò da ogni attività segreta, ma il sospetto con cui era ormai visto gli fece perdere nel 1797 l'insegnamento universitario, che aveva fino ad allora tenuto con il magro compenso di 30 ducati annui pagatogli dal Vico, proprio per la speranza di poter prima o poi succedere a questo a pieno titolo.
Dopo tale episodio le sue idee assunsero un carattere sempre più radicale, fino a che, durante il periodo della Repubblica giacobina, aderì a uno dei clubs più accesi, quello del Noce. Il 18 genn. 1799 fu tra coloro che si unirono alle truppe francesi, che dopo la rottura dell'armistizio di Capua avevano circondato Napoli, e rientrò in Città il 21 o il 22 gennaio al loro seguito. Il 7 febbraio concorse alla fondazione di un circolo chiamato "Sala d'istruzione", diviso in plotoni, entrò a far parte della guardia nazionale napoletana come capitano della 4ª compagnia nel IV battaglione comandato da Giuliano Colonna, compagnia che il F. cercò di formare prevalentemente con sacerdoti. Fu inoltre nominato governatore del Banco di S. Eligio e, tra la fine di aprile e i primi di maggio, commissario ordinatore del dipartimento del Volturno, che organizzò con energia, avendo come segretario V. Cuoco, con il quale indirizzò un proclama ai Comuni.
A lui toccò il compito di salvare e vigilare le ricchezze del palazzo reale di Caserta, affidato a Gaetano Sabbato; intervenne a Nola contro gli insorgenti realisti legati alla famiglia Vivenzio, guidati dal capomassa Pietro Mascia di Liveri, vi organizzò un'amministrazione repubblicana e fondò il Club degli onesti, di cui fu segretario Agostino Pecchia; il 1° maggio fece arrestare il commissario di campagna Lelio Parisi e fucilare sei persone; a Capua istituì il tribunale civile e criminale e presiedette un tribunale rivoluzionario.
Con la fine della Repubblica, dopo la sconfitta di Marigliano, si rinchiuse nella roccaforte di Capua con la guarnigione francese fino alla resa del 28 luglio, allorché, indossando la divisa francese, tentò invano di sfuggire all'arresto; ma, riconosciuto, fu rinchiuso nel carcere della Vicaria. Con il ritorno dei Borboni fu inserito nelle liste dei giudicabili. Venne trasferito a Castelnuovo e, processato dalla giunta di Stato, fu condannato a morte per decapitazione.
Il 30 ottobre fu tradotto nel carcere del Carmine e, nonostante l'interessamento dell'arcivescovo di Palermo, F. Lopez y Royo, e alcuni tentativi di ottenerne la salvezza tramite esborso di denaro, il 31 ott. 1799, privato delle insegne sacerdotali, fu giustiziato insieme con l'olivetano Saverio Caputo, con Colombo Andreassi e con Raffaele Jossa, tutti sepolti nel Carmine Maggiore. Non provate sono le voci che attribuivano al F. un sonetto indirizzato al sovrano in cui egli implorava clemenza.
Fonti e Bibl.: M. Battaglini, Atti, leggi, proclami ed altre carte della Repubblica napoletana 1798-1799, Napoli 1983, pp. 1310, 1326 s., 1888. Al F. fanno riferimento molte delle opere sulla Repubblica napoletana del 1799, ma cfr. in particolare M. d'Ayala, Vite degl'Italiani benemeriti della libertà e della patria, uccisi dal carnefice, Torino-Roma-Firenze 1883, pp. 264-267; L. Conforti, Napoli nel 1799, Napoli 1889, p. 204; A. Sansone, Gli avvenimenti del 1799 nelle Due Sicilie. Nuovi documenti, Palermo 1901, p. 260; C. De Nicola, Diario napoletano dal 1798 al 1825, Napoli 1906, I, pp. 63 s., 70; B. Croce, La rivoluz. napol. del 1799, Bari 1912, pp. 40, 87; V. Cannaviello, Lorenzo De Concilj o del liberalismo irpino, Napoli 1913, p. 58; M. Manfredi, Un martire del 1799. I. F., in Studi in onore di F. Torraca, Napoli 1922, pp. 469-508; G. Gentile, Studi vichiani, Firenze 1927, p. 247; A. Lucarelli, La Puglia nel Risorgimento, I, Bari 1931, pp. 171, 176-179, 205, 332, 334, 351, 413; II, ibid. 1934, pp. 21, 100, 263, 442, 468, 473, 515, 524-528; F. Zerella, I. F., educatore della gioventù, in Rinascita salentina, IX (1941), pp. 205-224; G. Natali, Il Settecento, Milano 1964, p. 500; P. Colletta, Storia del Reame di Napoli, con introd. e note di N. Cortese, Napoli 1969, pp. 36, 123; Diz. del Risorg. nazionale, III, p. 31; A. Vallone, Illuministi e riformatori salentini, Lecce 1984, pp. 405-429.