Iconografia
Nelle biografie su M. si sottolinea sempre, con rammarico e rassegnazione, la scarsa conoscenza che abbiamo dei suoi anni giovanili, degli episodi e delle esperienze che li hanno caratterizzati. Il periodo compreso tra la sua nascita (nel maggio 1469) e la sua nomina a responsabile della seconda cancelleria di Firenze (nel giugno 1498) rappresenta in effetti come un vuoto. Si tratta di un trentennio scarso – quasi la metà della sua parabola terrena, essendo egli morto nemmeno sessantenne nel 1527 – per raccontare il quale ancora oggi ci si può affidare, in attesa di qualche fortunoso ritrovamento, solo a pochi documenti d’archivio, a qualche lettera familiare e alla stringata e parziale ancorché preziosa testimonianza del padre Bernardo (quest’ultima entrata peraltro nella disponibilità degli studiosi solo a metà del secolo scorso).
Ma c’è un altro aspetto che i biografi, in questo caso senza ammetterlo apertamente o senza nemmeno porsi esplicitamente il problema, non sono mai riusciti a chiarire in modo definitivo: quello relativo all’aspetto fisico di M., alle sue reali sembianze. Che faccia aveva per davvero, com’era di viso e di corporatura, quali fattezze possedeva? La domanda, così brutalmente formulata, può apparire sconclusionata o del tutto superflua: chi infatti non ha visto almeno una volta il ritratto canonico e più accreditato, per così dire ufficiale e definitivo, di M., quello attribuito a Santi di Tito, custodito nel Palazzo Vecchio di Firenze (cfr. tav. XXXIV)? Un ritratto non solo riprodotto in una infinità di occasioni nella sua versione originale, al punto da essersi trasformato nel tempo in una sorta di manifesto o icona, ma più volte e nelle forme più diverse riadattato, ripreso, aggiornato, integrato, ritoccato e persino manipolato, ma sempre utilizzato come matrice o base – considerata evidentemente la più veritiera e attendibile – per illustrare e rendere visivamente non tanto e non solo il profilo autentico di M. (che è poi quanto ci si aspetterebbe banalmente da un ritratto) quanto i segreti del suo carattere e la sua reale disposizione d’animo, dunque l’essenza di un pensiero che nel corso dei secoli non ha mai smesso di intrigare e suggestionare, ma al tempo stesso di spiazzare e confondere, anche i lettori più avveduti. L’incredibile fortuna del ritratto in questione – di una forza espressiva straordinaria e persino inquietante, a dispetto del tratto grossolano che lo caratterizza dal punto di vista figurativo (quelle mani tozze, per esempio!) – dipende infatti dalla curiosa circolarità che sembra implicare e che porta a chiedersi, quando lo si guarda, se quella faccia volpina e astuta, magra e ossuta, se quegli occhi vispi e indagatori, se quel sorriso appena accennato, ma che sembra denotare malizia e un fondo di irriverenza, non siano la trasposizione pittorica, ben riuscita e a suo modo geniale, della obliqua fama, vagamente sinistra, che ha cominciato a imprimersi su M. subito dopo la sua morte, o se invece si tratti della rappresentazione fedele di quest’ultimo, del vero e autentico M. per come lo hanno conosciuto i suoi familiari e i suoi contemporanei. Insomma, non si capisce, allorché si osserva con attenzione questo dipinto, che sembra essere stato realizzato non sul modello, «ma su una idea esattissima della demonicità machiavellica» (G. Ceronetti, Il silenzio del corpo, 1979, p. 148), se si abbia dinnanzi un M. per così dire storico e veritiero o piuttosto l’immagine sintetica ed evocativa, di un M. stereotipato e immaginario, la rappresentazione icastica di tutto ciò che un tale nome (e quelli che ne sono derivati nel tempo: machiavellico, machiavelliano, machiavellismo, machiavellicamente, machiavello, machiavelleria, machiavellesco) ha finito per evocare soprattutto a livello di cultura popolare, sino ai giorni nostri: astuzia, scaltrezza, slealtà, mancanza di scrupoli, sotterfugio, inganno, per giungere agli estremi della perfidia, dell’assoluta mancanza di remore morali e della disponibilità a perseguire i propri obiettivi con ogni mezzo.
Da questo ritratto (e dalle sue repliche o varianti) è ovviamente partito Roberto Ridolfi per la descrizione di M. che si legge nella sua classica biografia:
Della persona fu ben proporzionato, di mezzana statura, di corporatura magro, eretto nel portamento con piglio ardito. I capelli ebbe neri, la carnagione bianca ma pendente nell’ulivigno; piccolo il capo, il volto ossuto, la fronte alta. Gli occhi vividissimi e la bocca sottile, serrata, parevano sempre un poco ghignare (Vita di Niccolò Machiavelli, 1954, 19787, p. 23).
Un brano di alta letteratura, ma che ovviamente va preso, dal punto di vista storico-documentario, per quel che è: una ricostruzione che attinge largamente a un’immagine realizzata da un artista, appunto Santi di Tito che, essendo nato nel 1536 e morto nel 1603, di certo non aveva potuto conoscere personalmente il soggetto da lui rappresentato. Destino peraltro condiviso dagli altri ritratti a oggi noti del Segretario, tutti realizzati dopo la sua morte.
In realtà abbiamo un paio di testimonianze coeve, che qualcosa sembrerebbero accennare circa le reali fattezze di Machiavelli. La prima è l’unica lettera rimastaci della moglie Marietta Corsini. Scritta in data 24 novembre 1503, poco dopo la nascita del figlio secondogenito Bernardo e durante uno dei viaggi che spesso tenevano il Segretario lontano da Firenze, essa contiene una descrizione indiretta di quest’ultimo, vergata tuttavia da chi lo conosceva bene e lo aveva con sé quotidianamente. Donna Marietta parla del neonato e lo dipinge al marito lontano con queste parole:
Per ora el bambino sta bene, somiglia a voi: è bianco come la neve, ma gl’à el capo che pare veluto nero, et è peloso come voi; e da che somiglia voi, parmi bello; et è visto [vispo] che pare che sia stato un ano al mondo; et aperse li ochi che non era nato, e mese a romore tuta la casa (Lettere, p. 93).
Ma le indicazioni, come si può facilmente evincere, sono troppo vaghe per dirci qualcosa di attendibile, tantomeno di definitivo, sulle sembianze effettive del Segretario. La seconda è una caratterizzazione d’ordine autobiografico: «ch’io son maghero anch’io» scrive di sé M. nel celebre sonetto indirizzato a Giuliano de’ Medici all’indomani della sua scarcerazione (1513), ma oltre a essere poca cosa come indicazione fisica, questo riferimento alla propria magrezza è palesemente un modo per segnalare al destinatario dei versi il suo stato di disagio economico e di prostrazione morale, determinato dalla defenestrazione dalla cancelleria, dalle accuse di congiura e dalle maldicenze dei rivali.
Se ne può concludere che le descrizioni di M. che si continuano a leggere in biografie e testi critici – circa, per es., le sue guance «prominenti come quelle del gatto, della faina, della scimmia e di altri animali astuti» (Prezzolini 1948, p. 23), oppure circa il suo «portamento eretto e sicuro», la sua «espressione intelligente, beffarda e ironica» (Viroli 1998, p. 5) – rappresentano null’altro che divagazioni letterarie o supposizioni basate su immagini storiche che non sappiamo quanto mostrino M. per come egli fu realmente e quanto invece lo presentino come appunto si è pensato che egli dovesse essere alla luce della leggenda nera che il suo nome ha alimentato nel corso dei secoli. Il rischio del quale essere consapevoli è che la ritrattistica machiavelliana a noi nota – interamente postuma, come già accennato – possa essere stata condizionata sul piano estetico-descrittivo, se non dalle tante e tutte assai precoci espressioni dell’antimachiavellismo (→), da quella che si può definire una visione anche solo involontariamente machiavellica del Machiavelli. Un sospetto, quest’ultimo, non sfuggito ai primi grandi biografi ottocenteschi del Fiorentino: Pasquale Villari (1912), per es., parlando di un busto di M. del quale aveva preso visione, probabilmente una copia della terracotta policroma oggi conservata presso Palazzo Vecchio (cfr. tav. XXXIII), non nascondeva che le espressioni del volto – «di sottigliezza, di accortezza, quasi di furberia» – si prestavano effettivamente a un dubbio: «se non fosse la certezza di un’antichità più o meno remota, si direbbe un concepimento moderno del Machiavelli tradizionale» (p. 312), vale a dire un adattamento iconografico del M. della vulgata anti-machiavelliana. Ancora più esplicito su questo punto Oreste Tommasini, che non a caso inserì proprio nel capitolo sul machiavellismo la sua digressione sulla ritrattistica riferibile al Fiorentino. La sua idea era che la personalità di M. avesse subito gravi adulterazioni, oltre che sul versante storico-filosofico, anche nel campo della storia dell’arte, a partire proprio dal dipinto più canonico, tanto espressivo quanto a suo dire palesemente ricalcato su tratti del volto che gli sembravano rimandare ai sillogismi fisiognomici di Giambattista Della Porta, laddove, per es., quest’ultimo postulava nel suo celebre trattato De humana physiognomonia (1586) che le guance delicate e piccole, che richiamano quelle dei gatti e delle scimmie, denotano in una persona malignità e astuzia: «v’à egli buona ragione per credere che il ritratto di Sante di Tito ci rappresenti proprio le forme e il volto del segretario fiorentino?», si chiedeva polemicamente Tommasini (1883, p. 65).
È con questi dubbi e questa consapevolezza critica che conviene dunque accostarsi alla tradizione iconografica su M., peraltro molto articolata e contraddittoria, che non comprende solo dipinti e incisioni a stampa, ma statue, busti, medaglie e affreschi murali, sino ad arrivare alle immagini contemporanee del Fiorentino veicolate attraverso le forme artistiche ed espressive più diverse, dalla grafica pubblicitaria ai fumetti.
Il vero Machiavelli? Secondo diversi studiosi l’unica raffigurazione ritenuta affidabile e presumibilmente reale di M. è, come si è detto, quella celeberrima di Santi di Tito. Che quest’ultimo abbia ritratto il Fiorentino – ben due volte – è informazione che si ricava dall’opera di Filippo Baldinucci, autore delle Notizie de’ professori del disegno da Cimabue in qua, apparse in sei volumi (tre pubblicati vivente l’autore, tre postumi) tra il 1681 e il 1728.
Del primo dipinto, di proprietà di Ippolito de’ Ricci, Baldinucci dice che «per parer vivo altro non manca, che la voce» (p. 772), lasciando dunque intendere che sia assai vivido e di pregevole fattura; del secondo sostiene invece che apparteneva a un altro esponente del casato, Pierfrancesco de’ Ricci, ma senza specificare quanto eventualmente diversi fossero i due ritratti. L’esistenza nell’eredità di questa famiglia – imparentatasi una prima volta con i Machiavelli allorché Bartolomea (detta la Baccina), la figlia minore di Niccolò, andò in sposa a Giovanni de’ Ricci (marzo 1540) – di «molte cose riguardanti quell’illustre letterato» è attestata anche dalle Memorie, pubblicate postume in due volumi da Agenore Gelli nel 1865, del vescovo di Prato e Pistoia Scipione de’ Ricci (1741-1810): quest’ultimo dichiarava il possesso di «alcuni ritratti in pittura» e di un «di lui busto ricavato dalla maschera [mortuaria]»; e aggiungeva che «i rami incisi sotto il governo dell’augusto Leopoldo e del presente gran duca sono per lo più ricavati da quei ritratti» (2° vol., p. 134). Se si esaminano le immagini machiavelliane apparse in opere a stampa pubblicate in Toscana nella seconda metà del Settecento (cfr. tav. XLI), regnanti appunto Pietro Leopoldo e Ferdinando III, si ricava in effetti che uno dei dipinti posseduto da Scipione doveva senz’altro essere il Santi di Tito. Di questo quadro s’erano perse le tracce nell’Ottocento. Tommasini lo richiama, ma senza indicarne una possibile ubicazione e senza dare l’impressione di averlo mai visto; «non si sa più dove si trovi», scrive a sua volta Villari (1912, p. 312). Nel 1926, in un saggio apparso su «Dedalo», la rassegna d’arte diretta da Ugo Ojetti, dei due dipinti attribuiti a Santi di Tito Luigi Dami (1925-1926) sosteneva a sua volta: «se esistono ancora sono, almeno a me, ignoti».
In realtà, il ritratto – estintosi il casato principale dei Ricci a metà dell’Ottocento – era stato nel frattempo acquisito, per strade che però non si conoscono, dall’industriale varesino Ermenegildo Trolli, che nel 1928 lo donò a Benito Mussolini, il quale a sua volta lo destinò nello stesso anno alla galleria degli Uffizi. Restaurato, sempre nel 1928, da Mauro Pelliccioli – uno dei più grandi restauratori italiani – fu esposto per la prima volta a Roma nel 1932, alla Mostra d’arte antica. L’autenticità di questo quadro, quanto al soggetto, deriverebbe dal fatto che esso sarebbe stato realizzato a partire da un busto, anch’esso in possesso di Scipione de’ Ricci e abitualmente identificato con la terracotta policroma oggi a Palazzo Vecchio, a sua volta ricavato dalla maschera funebre di M. e dunque riproducente, fatta salva la rigidità dei tratti dovuta appunto all’utilizzo di un calco mortuario, le sue fattezze reali. Dell’esistenza di questa maschera (a dispetto di un ritrovamento ottocentesco palesemente falso e della confusione che talvolta s’è fatta tra la maschera funeraria di Lorenzo de’ Medici, attualmente conservata presso palazzo Medici Riccardi a Firenze, e quella di M.) non esiste tuttavia alcuna prova salvo la testimonianza, assai generica, sopra ricordata.
Quanto al busto esistente in casa di Scipione de’ Ricci, non vi è alcuna certezza che fosse proprio la terracotta prima richiamata. Notizie certe su quest’ultima si hanno solo a partire dalla fine dell’Ottocento, quando fu descritta per la prima volta, in un articolo sulla «Revue archéologique», da Louis de Laigue (1887), che però la datava, essendo quello raffigurato, all’apparenza, il viso di un quarantenne, al 1509-10: il che escluderebbe, come sempre si è sostenuto successivamente, la sua derivazione da un rilievo funerario. La proprietà del busto era all’epoca del conte Stanislao Bentivoglio, che l’aveva ereditato dalla madre, la marchesa Isabella de Piccolellis (nata Luci-Poniatowski), andata in sposa in seconde nozze a un esponente del casato dei Ricci di nome Zanobi. Fu poi acquistato dal collezionista statunitense Charles Alexander Loeser, che nel 1912 ne fece dono alla città di Firenze. Su questo busto, del quale sarebbero state fatte alcune copie oggi andate perdute, secondo la testimonianza di Scipione de’ Ricci ripresa da Villari, si è certamente basato lo scultore Lorenzo Bartolini (1777-1850) per la statua in marmo, realizzata nel 1845, che ancora oggi figura all’interno del loggiato degli Uffizi (cfr. tav. XLII). In realtà, tra i beni degli eredi in linea più o meno diretta di M. figurava anche un altro busto: quello che, secondo alcune testimonianze fotografiche dei primi decenni del Novecento, si trovava in una delle sale dell’Albergaccio di Sant’Andrea in Percussina e dove ancora oggi – sebbene dimenticato – fa bella mostra di sé. L’interesse di questo ritratto, che nei repertori viene indicato come un busto in marmo di Carrara databile al 19° sec. e che potrebbe benissimo essere la copia di un busto più antico, consiste nella sua evidente derivazione dalla linea che definiamo gioviana e sulla quale ci soffermeremo nel paragrafo successivo.
Resta da chiarire la vicenda del secondo dipinto attribuito a Santi di Tito e degli altri «ritratti in pittura» di cui Scipione de’ Ricci si diceva in possesso nel suo memoriale. Mancando un qualunque registro dei materiali machiavelliani rimasti nel lascito familiare e sulla base delle poche notizie di cui disponiamo, si può assumere come plausibile l’ipotesi, a suo tempo formulata da Ridolfi, secondo la quale uno dei ritratti in questione – la cui esistenza era ben testimoniata da alcune incisioni a stampa (per es., quella che compare nel primo degli otto volumi delle Opere di Niccolò Machiavelli stampate a Firenze tra il 1796 e il 1799 o nel primo dei dodici tomi delle Opere di Niccolò Machiavelli pubblicate a Venezia nel 1811 presso la stamperia di Giuseppe Molinari), ma del quale si erano perse le tracce – sarebbe quello acquisito a un’asta londinese dalla contessa Sofia Serristori Tozzoni negli anni Sessanta del Novecento, alloggiato presso l’Albergaccio sino a che la residenza di campagna di M. non è stata ceduta dai suoi ultimi discendenti e attualmente in deposito presso palazzo Strozzi a Firenze (cfr. tav. XXXIX). Questo dipinto, palesemente debitore di quello di Santi di Tito, ma di fattura molto più grossolana, è stato variamente attribuito nel corso degli anni: prima a Rosso Fiorentino, poi a Francesco Salviati, da ultimo alla cerchia di Santi di Tito. Potrebbe trattarsi, secondo alcune ipotesi, di una copia o di un riadattamento del dipinto di quest’ultimo ordinato dagli stessi familiari di M. e realizzato dagli allievi, in vero di mano non troppo felice, del pittore umbro-fiorentino. Oppure – secondo Ridolfi – «è da supporre che i discendenti del M. abbiano commesso due ritratti, da ricavarsi dalla maschera o dal busto ricavato dalla maschera, a due artisti diversi» (1954, 19787, p. 431).
Rispetto alla tradizione iconografica originata dal ritratto di Santi di Tito e dal busto che si suppone ricavato dalla maschera mortuaria di M. resta tuttavia un mistero: per quale ragione dell’esistenza di un simile, assai cospicuo, lascito storico-artistico (che dovrebbe rimontare alla seconda metà del 16° sec.) non si trova nessuna notizia negli scritti di Giuliano de’ Ricci (1543-1606), il figlio della Baccina e di Giovanni, colui che per primo lavorò sulle carte del nonno? Se fossero già esistiti, lui vivente, dipinti o busti o immagini di qualunque natura dell’illustre avo, conservati per di più dalla famiglia, perché non farne almeno un cenno?
Un filone iconografico autonomo, difforme rispetto a quello che si ricollega al dipinto di Santi di Tito, è rappresentato dai ritratti che hanno come matrice dichiarata quello che Paolo Giovio aveva fatto realizzare, a completamento della sua – tanto celebre quanto controversa – biografia del Fiorentino, per la raccolta d’immagini dedicata agli uomini illustri del tempo ospitata nella sua villa comasca. L’originale del dipinto machiavelliano è andato perduto, ma su di esso dovrebbero essersi basati sia il disegnatore svizzero-tedesco Tobias Stimmer (1539-1584) per l’incisione pubblicata nella prima edizione illustrata degli Elogia gioviani apparsa a Basilea nel 1577 (cfr. tav. XIX), sia Cristofano dell’Altissimo (1530 ca.-1605) per la copia del profilo (oggi agli Uffizi) da lui realizzata durante i dieci anni, dal 1552 al 1562, trascorsi presso il Musaeum gioviano dove, ricorda Giorgio Vasari, «fu mandato dal signor duca Cosimo a Como a ritrarre dal museo di monsignor Giovio molti quadri di persone illustri fra una infinità che in quel luogo ne raccolse quell’uomo raro» (Le vite dei più eccellenti pittori, scultori e architetti, introduzione di M. Marini, 2013, p. 1345; cfr. tav. XXXV). Giovio fu un biografo assai precoce di M.: il profilo di quest’ultimo apparso nell’edizione princeps degli Elogia, stampata a Venezia nel 1546, era stato preceduto da ciò che di lui aveva scritto nell’incompiuto Dialogus de viris litteris illustribus, databile intorno al 1528, dunque subito dopo la morte del Fiorentino. Da una testimonianza autobiografica, ma soprattutto da diversi indizi storici, è quasi certo che Giovio abbia personalmente conosciuto M. negli anni della sua permanenza fiorentina (1520-22) presso lacorte del cardinale Giulio de’ Medici. È dunque plausibile immaginare che nella sua galleria difficilmente avrebbe ospitato un ritratto non rispondente alle fattezze reali della persona da lui vista e frequentata o comunque troppo difforme dal soggetto originale. Il che significa che quella gioviana può essere considerata la matrice che probabilmente meglio ci lascia intravvedere l’immagine reale o storica di Machiavelli.
Proprio a tale matrice, con alcune varianti, sono da ricondurre altri due celebri ritratti, tra i pochissimi che ci sono rimasti databili tra la fine del 16° e la metà del 17° secolo. Il primo è quello – anonimo, sebbene in passato sia stato diversamente attribuito, dal Bronzino ad Andrea del Sarto – che oggi si conserva presso la galleria Doria-Pamphilj di Roma: rispetto al dipinto degli Uffizi, dove M. appare canuto, avanti con gli anni e avvolto in un panno nero, dello stesso colore del berretto, in questo ha un’espressione meno accigliata, appare leggermente rubicondo, ma presenta la solita espressione furba e vispa, accentuata dalla piccolezza delle labbra ben serrate. Il secondo, attribuito ad Antonio Maria Crespi, detto il Bustino (1580 ca.-1630), fa invece parte della collezione dell’Ambrosiana voluta a Milano dal cardinale Federico Borromeo proprio a imitazione della galleria gioviana e in gran parte basata su copie o rifacimenti dagli originali di quest’ultima: M. indossa una vistosa tunica color aragosta, ha un naso arcuato e aquilino e tratti del volto che sembrano accentuare il suo lato volpino e la sua natura maliziosa (cfr. tav. XXXVII).
C’è ancora da segnalare, appartenente agli Uffizi, ma attualmente in deposito esterno, sempre a Firenze, presso il museo Ferrucciano, un ritratto anonimo di M. che presenta – come si legge negli antichi registri museali – una figura virile, dai capelli bianchi, con veste e berretto nero. Ma tra quelli riconducibili alla tradizione gioviana, questo dipinto è quello che convince meno, non foss’altro perché in tutti gli altri casi citati il nome del soggetto raffigurato – ‘nicolaus macchiavellus’, ‘nicolaus machiavellus historiar. scriptor’, ‘machiavello. historico’ – risulta scritto a chiare lettere all’interno delle diverse tavole.
A questo stesso fortunato filone appartengono, per concludere, diverse delle immagini inserite nelle versioni a stampa degli scritti machiavelliani nel corso dei secoli: per es., l’incisione che appare, a firma P. Pinchard, come antiporta in un’edizione di Tutte le opere pubblicate nel 1680 (in quattro volumi), oppure l’incisione che si trova in una versione del Principe apparsa a Firenze nel 1819.
Il mistero (risolto) della Testina. Tra i più celebri profili machiavelliani, ancora oggi spesso riprodotto, c’è quello utilizzato per la prima volta nel frontespizio di una raccolta in quattro volumi delle opere dei Fiorentino pubblicata tra il 1540-1541 a Venezia dall’editore di origine piemontese Comin da Trino (cfr. tav. XL). In tre dei quattro tomi, compreso tra le iniziali N. e M., compariva, sotto forma di incisione, «il busto di tre quarti e rivolto verso destra di un uomo [...] rivestito da un lucco, con la testa spelacchiata da un’accentuata calvizie e un vistoso naso aquilino, che sorregge con una mano un grosso volume e punta sull’osservatore uno sguardo penetrante, privo di ogni ironia e non addolcito da alcun sorriso» (Firpo 2012, p. 40). L’espressione torva e lo sguardo sinistro che risaltano da questa immagine, più che documentare le fattezze dell’autore, sembrano in effetti esprimere un’implicita condanna della sua opera o, quanto meno, una prudente presa di distanza dai suoi contenuti da parte dell’editore: se a poco più di dieci anni dalla morte di M. esisteva un mercato molto ricettivo nei confronti dei suoi scritti, ben alimentato dagli stampatori che all’epoca operavano soprattutto sulla piazza veneziana, cominciava anche a farsi sentire quel clima di crescente ostilità nei confronti dei suoi scritti che sarebbe poi sfociato, nel 1557, nella loro messa all’Indice.
Questo piccolo e sgraziato busto maschile, ma senza iniziali e sulla base di un’incisione leggermente difforme dall’originale, venne nuovamente utilizzato come frontespizio di una versione di Tutte le opere di M. stampata anonima, senza indicazione del luogo e avente come data d’impressione il 1550, anche se risalente al 1610-1619 e proveniente con ogni probabilità dall’area ginevrina. Ma tra il 1628 e il 1670, sempre recanti il 1550 come falsa data di stampa, apparvero almeno altre quattro versioni di questa raccolta: destinate a un’ampia circolazione, comprendevano tutte nel frontespizio l’incisione originaria del 1540, da cui il nome Testina con cui esse sono ancora oggi note tra i bibliofili e i collezionisti antiquari.
Benché grossolana e dunque di scarso valore dal punto di vista artistico-iconografico, a fronte delle altre immagini machiavelliane utilizzate a ornamento delle sue opere soprattutto nel Sette-Ottocento, in diversi casi di pregevole fattura e piuttosto ricercate, nessuno ha messo in dubbio l’attendibilità storica o almeno la plausibilità di questo ritratto sino ad anni recenti. Solo nel 2012 ne è stata dimostrata la radicale falsità. L’icona utilizzata nel 1540 da Comin da Trino, come dimostrato da Massimo Firpo, era stata infatti ricavata da un’opera pubblicata a Venezia nel 1538, intitolata In Iudaeos flagellum ex Sacris Scripturis excerptum e firmata dal ferrarese Fino Adriano Fini (1431-1519). Il ritrovamento di un dipinto a olio raffigurante quest’ultimo, risalente ai primi del Cinquecento, attribuibile a Benvenuto Tisi, detto il Garofalo (1481-1559), e proveniente dalla quadreria romana di palazzo Farnese, ha consentito a Firpo di stabilire con certezza che proprio su questa tavola è stata esemplata l’incisione che compare nel frontespizio dell’opera postuma di Fini, ripresa due anni dopo a corredo della raccolta anch’essa veneziana di opere di M. e da quel momento utilizzata da molti editori alla stregua di un ritratto di quest’ultimo ritenuto fedele forse proprio perché anch’esso non privo di inquietanti tratti antimachiavelliani.
In realtà, lo stesso Comin da Trino doveva essere consapevole del fatto che quel ritratto poco aveva a che fare con Machiavelli. La prova di ciò è data dall’utilizzo disinvolto di quell’immagine che l’editore piemontese fece qualche anno dopo, per l’esattezza nel 1549, allorché licenziò dai torchi i Commentaria in Aphorismos Hippocratis di Theophilus Protospatharius nella traduzione latina del mantovano Ludovico Corradi.
Il Bronzino (forse) inesistente. La notizia relativa all’esistenza di uno se non addirittura due ritratti machiavelliani realizzati da Agnolo Bronzino (15031572) si trova nell’opera di molti studiosi. Vi accenna Tommasini, mostrando però di non credere in essa: se vera, sarebbe stata certamente tramandata, a suo giudizio, dalle biografie del Vasari. La riprende, dandola invece come verosimile, seppure con grande prudenza, Filippo Rossi (1927). Di due dipinti attribuiti al Bronzino, ma senza soffermarsi sulla questione in dettaglio, scrive infine Ridolfi. Al celebre ritrattista della corte dei Medici è stato talvolta imputato il ritratto machiavelliano oggi conservato a Roma presso la galleria Doria-Pamphilj, che abbiamo già ricordato: ma già Rossi, nel 1927, definiva del tutto arbitraria, per ragioni banalmente estetiche, una simile identificazione. In realtà, l’unica traccia iconografica che riconduce esplicitamente al Bronzino e che probabilmente è alla base di questa perdurante leggenda artistica (tale già la considerava Luigi Dami) è il ritratto, sotto forma di incisione, di un M. spagnoleggiante comparso la prima volta in una raccolta delle sue Opere pubblicata tra il 1796 e il 1797 con la falsa indicazione di Filadelfia come luogo di stampa. Intorno all’ovale che contiene il ritratto machiavelliano, posto a lato del frontespizio, si legge infatti: «Ang. Bronzino pinxit. Georg Dillis del. 1794. Raph. Morghen sculp. 1795». L’editore di questa raccolta era il livornese Gaetano Poggiali che, nella presentazione (anonima) del primo volume, dichiarava di possedere l’originale «del vecchio Bronzino» utilizzato dal pittore Dillis per il disegno poi inciso da Raffaello Morghen. Questo curioso profilo di un M. barbuto, avente «il garbo spagnuolo e l’andatura cortigianesca dei tacitisti» (Tommasini 1883, p. 64), che è stato riproposto più volte dagli editori sino ai primi decenni del Novecento (cfr. tav. XLVI), in realtà non ha nulla a che vedere con il Segretario. E non solo per via della sua palese difformità rispetto all’iconografia tradizionale, pur nelle sue varianti. Ma perché guardando alla produzione del Bronzino – come aveva per primo intuito Alexis-François Artaud (1833) nella sua biografia machiavelliana – si scopre facilmente come la base della falsa immagine del Segretario sia costituita dai suoi dipinti raffiguranti Cosimo I de’ Medici. Ne esistono, a firma del Bronzino, numerose versioni, ma osservando, per es., quello oggi conservato presso la Overbeck’s House di Devon (Regno Unito) non dovrebbero esserci dubbi su quale sia stata la matrice iconografica utilizzata per il fantasioso M. che Poggiali fece figurare nei volumi da lui stampati. L’unico dubbio che resta è perché Poggiali, ammesso abbia mai posseduto uno dei ritratti del Bronzino raffiguranti Cosimo I, lo abbia voluto spacciare per quello dell’autore del Principe.
Più volte, nel corso dei secoli e in particolare nel Novecento, si è pensato di vedere M. in ritratti (quadri, busti, incisioni varie, sovente imputati ad artisti importanti) che a uno sguardo nemmeno troppo attento raffigurano tutt’altri soggetti, quasi sempre anonime figure di gentiluomini. Al tempo stesso ne sono state spesso offerte raffigurazioni largamente immaginifiche ed eccentriche.
Un caso di attribuzione falsa è sicuramente quello del busto in marmo del Pollaiolo (datato 1495) che ancor oggi si trova presso il Museo nazionale del Bargello di Firenze: è a dir poco inverosimile che M. fosse oggetto di attenzioni artistiche prima della sua ascesa in cancelleria (1498). Lo stesso può dirsi di un altro busto in terracotta policroma andato disperso nel 1944, quando la sede che l’ospitava, l’Accademia Colombaria di Firenze, fu minata e distrutta dai tedeschi in ritirata, ma del quale è rimasta documentazione fotografica (una copia di questa manifattura dovrebbe ancora trovarsi presso una collezione privata londinese). M. vi sarebbe stato ritratto non post mortem, ma ormai anziano e prossimo alla fine, il che spiegherebbe i tratti sofferenti ed emaciati del volto, che secondo Ridolfi – per cui il ritratto, se non reale, è certamente verosimile – è quello di un uomo «stanco e infelice» (Ridolfi 1954, 1978, p. 379).
Sulla «Rivista d’arte», M. Mansfield (1929) dava notizia di un ritratto inedito di M. ubicato a Londra e proveniente dalla galleria fiorentina di palazzo Capponi. Il personaggio in questione, descritto come «alto e snello», vestito di «un giubbetto di velluto nero orlato di pelliccia, con ricami d’oro sulle maniche, ai polsi, e attorno al collo», sembra piuttosto un diplomatico e non c’è nulla – diversamente da ciò che scrive Mansfield – che ricordi il ritratto di Cristofano dell’Altissimo oggi presso gli Uffizi (cfr. tav. XXXV). Nel 1969 questo dipinto è stato attribuito dal critico Federico Zeri a Iacopino del Conte (1515 ca.-1598), ma senza avallare l’idea che possa trattarsi del Fiorentino.
Presso la National Gallery di Washington si trova un ampio dipinto attribuito a Sebastiano del Piombo (che nel 1780 figurava presso il palazzo genovese di Giacomo Baldi) raffigurante il cardinale Bandinello Sauli, il suo segretario (a sinistra nel dipinto: forse Paolo Giovio?) e due geografi impegnati in una discussione. Del quadro esiste una copia (cfr. tav. XXXVIII), oggi considerata anonima anche se un tempo attribuita fantasiosamente ad Andrea Mantegna, in origine appartenente alla collezione dei principi Albani di Urbino e attualmente ubicata a Roma presso una collezione privata, nella quale sarebbero invece raffigurati – secondo i critici che l’hanno classificata – il cardinale Pedro Loys Borgia (un pronipote di papa Alessandro VI, anche se potrebbe trattarsi del cardinale Giovanni Borgia), alle sue spalle Miguel Corella (il celebre luogotenente e sicario del Valentino) e a lato Cesare Borgia e M. (in abiti cancellereschi). L’attribuzione dei personaggi potrebbe essere considerata del tutto arbitraria se non fosse per il fatto che dal dipinto visto in casa Albani il disegnatore Paolo Fidanza (1731-1785 ca.) ha ricavato quattro ritratti sotto forma di incisione, tra cui appunto quello di M., pubblicati in un volume apparso a Roma nel 1785 presso i librai Bouchard e Gravier:
Questo profilo di un M. molto giovanile e vigoroso, dal naso puntuto, ma non aquilino, dalla chioma fluente, assai difforme da ogni altra sua immagine nota, ha avuto una discreta circolazione: figura, per es., in una raccolta di novelle rinascimentali (comprendente la traduzione di Belfagor) pubblicata in Germania nel 1928 e si trova riprodotto ancora oggi in opere a stampa e pubblicazioni storiche.
A Ridolfo del Ghirlandaio (1483-1561), secondo l’attribuzione ancora una volta di Zeri, sarebbe invece da imputare un ritratto di gentiluomo, attualmente presso una collezione privata e già di proprietà della galleria Altomani, da identificare con M. stanti l’abbigliamento cancelleresco e la posa, che in effetti presentano qualche assonanza con il dipinto di Santi di Tito. Ma il soggetto, peraltro piuttosto anziano, ricorre in almeno due altri dipinti del Ghirlandaio, che raffigurano dei notabili presentati in modo anonimo. L’idea, avanzata in sede critica, che il ritratto coevo del Ghirlandaio sia riferibile al M. maturo e prossimo alla morte, diversamente dal ritratto postumo di Santi di Tito che lo ritrarrebbe invece in un’età più giovanile, presupporrebbe – se vera – che quest’ultimo ritratto, diversamente da ciò che tradizionalmente si sostiene, non possa essere stato esemplato sulla maschera funebre.
A un anonimo fiorentino del 16° sec., sempre secondo le indicazioni di Zeri, sarebbe anche da attribuire una tavola raffigurante un M. anziano e quasi calvo, dall’espressione sofferente, che nel 1966 figurava nella collezione di Victor David Spark a New York (dopo essere stato nella raccolta di J. Naudet). Ma la decrepitezza del personaggio rende l’identificazione del tutto arbitraria e generica.
Un cenno merita, infine, l’immagine machiavelliana forse più brutta e sgraziata tra le tante apparse nei secoli, della quale non si conosce l’origine o matrice: naso adunco, lunghi boccoli sulle spalle, occhio acquoso e fuori dalle orbite, questo falso ritratto di profilo del Segretario compare inizialmente, a firma dell’incisore Théodore de Bry, nel primo volume della Bibliotheca chalcographica di Jean-Jacques Boissard stampata a Francoforte nel 1650; successivamente – firmato «R. White sculp.» – si ritrova sotto forma di incisione, racchiuso questa volta in un ovale, in una traduzione dei Discorsi apparsa a Londra nel 1674; di nuovo, leggermente modificato e con il volto orientato a sinistra, in una versione in francese del Principe pubblicata ad Amsterdam nel 1683; poi nell’edizione del 1688, stampata a Norimberga, del Theatrum virorum eruditione clarorum di D. Paulus Freherus (Paul Freher), accompagnato dalla scritta «nicola machiavell historicus florentinus»; ancora, nel 1726, nei quattro volumi delle Opere aventi come fittizio luogo di impressione l’Haya; infine, in una versione se possibile ancora più brutta dell’originale, nel volume machiavelliano Tutti i trionfi / carri, mascherate / o canti carnascialeschi [...] pubblicato in Cosmopoli nel 1750; ma esso viene utilizzato nelle opere a stampa ancora nell’Ottocento, per es., nel Biographical dictionary, curato da Edmund Bellchambers e pubblicato a Londra nel 1835.
L’Ottocento, oltre a segnare una fioritura di studi critico-biografici su M. e un recupero dei suoi insegnamenti in chiave patriottica, testimonia anche una ripresa d’interesse nei suoi confronti dal punto di vista pittorico-artistico, dopo che per tutto il Settecento la sua immagine aveva avuto circolazione solo attraverso incisioni e grafiche destinate al mercato editoriale. Il primo documento di questa ripresa, risalente al 1829, è il dipinto di Giuseppe Bezzuoli (1784-1855) dedicato all’ingresso in Firenze di Carlo VIII (1489), conservato presso la Galleria d’arte moderna di palazzo Pitti a Firenze: M., all’epoca ventiquattrenne, vi compare (in abiti cancellereschi palesemente anacronistici) mentre volge significativamente le spalle al re francese, avendo intorno a sé Pier Capponi, Francesco Valori e Girolamo Savonarola. Del 1864 è l’olio su tela di Federico Faruffini (1833-1869) che documenta l’incontro a Imola del 1502 tra Cesare Borgia e il Segretario, impegnati in un colloquio che sembrerebbe assai amichevole a giudicare dalle pose informali dei due: nel 1867 fu presentato e premiato all’Esposizione universale di Parigi e attualmente si trova conservato presso i Musei civici di Pavia. Dal punto di vista iconografico la testimonianza più interessante di età, in senso lato, risorgimentale è però rappresentata dal M. allo scrittoio realizzato nel 1894 da Stefano Ussi (1822-1901) e ricalcato, per quello che concerne il volto e l’abbigliamento del Segretario, sul Santi di Tito: si trova a Roma presso la Galleria nazionale d’arte moderna (cfr. tav. XLIII). Il pittore romano Francesco Grandi (18311891), secondo l’indicazione di Tommasini, «lo ritrasse [M.] nel carcere, intento a meditare il libro De Principatibus» (1883, p. 75), ma di quest’opera non siamo riusciti a trovare alcuna traccia o documentazione. Un mediocre dipinto d’accademia va infine considerato La morte di Niccolò Machiavelli realizzato da Amos Cassioli (1832-1891) nel 1860, oggi conservato a Siena presso la Collezione Società di esecutori di pie disposizioni e individuato dai curatori della mostra sul Principe organizzata a Roma dall’Istituto della Enciclopedia italiana nell’aprilegiugno del 2013. Il tema di M. che spira mentre riceve i sacramenti – soggetto peraltro ricorrente in alcune stampe popolari coeve – rispondeva evidentemente al bisogno di cristianizzarne l’immagine pubblica nel mentre il suo nome entrava a far parte, nel ruolo di anticipatore e profeta dell’Italia unita, del pantheon nazionale.
Nel Novecento e sino ai giorni nostri l’iconografia machiavelliana ha naturalmente fatto registrare un’esplosione incontrollata, pur nella ripetizione di antichi cliché. I suoi ritratti storici, laddove non ripresi fedelmente, sono stati oggetto di rielaborazioni grafiche e di rivisitazioni più o meno creative, che hanno finito per investire – oltre il tradizionale ambito editoriale – tutte le forme espressive tipiche della cultura di massa: dall’advertising ai fumetti, dalla letteratura d’intrattenimento alle figurine da collezione (cfr. tavv. XLV e XLVII), dai giochi da tavolo ai videogames, dal merchandising alla filatelia (cfr. tav. XLVIII). Non si conoscono, invece, artisti di fama che in età contemporanea si siano cimentati, in modo minimamente originale e innovativo, con l’immagine di Machiavelli. Una delle poche eccezioni è l’intenso ritratto realizzato nel 1935 da William Mortensen (1897-1965), ma non si tratta di un dipinto, bensì di una fotografia da studio, rielaborata con il fine di creare un effetto pittorico di stampo iperrealista (cfr. tav. XLIV). L’espressione del modello, avvolto in un costume di foggia rinascimentale piuttosto fantasioso, è sardonica e irriverente, maliziosa ma senza alcun fondo di cattiveria; colpisce in particolare lo sguardo, obliquo e furbesco, intenso anche se vagamente distratto. Ma si tratta, appunto, di un caso pressoché unico di ritrattistica machiavelliana contemporanea. Nell’epoca della riproducibilità tecnica dell’arte, in ogni possibile forma ed espressione, è insomma mancato lo slancio fantasioso e creativo che nel passato aveva invece portato un gran numero di artisti e disegnatori a cimentarsi con M. e a inventarne, come abbiamo visto, di assai diversi tra di loro.
La ricerca, anche nel campo dell’arte, non smette per fortuna di riservare sorprese. Nel 2013 è venuto alla luce un ritratto inedito di M. che, seppure palesemente debitore della tradizione gioviana, la innova in modo significativo (cfr. tav. XXXVI). Si tratta di una tavola lignea di piccolo formato, di un ritratto da studio databile, sulla base delle perizie tecniche di laboratorio effettuate e delle valutazioni d’ordine storico-artistico espresse dagli studiosi che l’hanno visionato, alla fine del 16° sec., al massimo ai primi due decenni del 17°. È stato rintracciato sul mercato antiquario degli Stati Uniti e acquistato da un collezionista italiano. Dai reperti notarili presenti sul retro del dipinto si desume che nel tardo Ottocento facesse parte di una raccolta ubicata in Gran Bretagna e potrebbe essere stato acquistato dall’ultimo proprietario, un alto ufficiale dell’esercito statunitense di stanza a Bruxelles, presso un antiquario belga negli anni Sessanta o Settanta del Novecento. Ma come e quando sia uscito dall’Italia e quali percorsi abbia fatto prima di tornarvi resta un mistero. Di bottega fiorentina, il dipinto – corredato in alto a destra dalla scritta «nicolaus machiavell» – presenta una mano ferma ed elegante. Le pennellate sono nitide. I colori, ripristinati da un accorto restauro, fanno ben risaltare le espressioni e le forme del volto. M. vi compare di profilo in abiti cancellereschi, con un copricapo che nasconde una capigliatura tutt’altro che rada. La somiglianza con il ritratto di Stimmer (cfr. tav. XIX), al quale il pittore si potrebbe essere ispirato, è evidente (ma se fosse il contrario?). Quello che tuttavia colpisce – rispetto agli altri dipinti nati da quest’ultima matrice iconografica – è la mancanza di forzature caratteriali o di intenti caricaturali. La bocca è piccola e aggraziata, il naso solo leggermente aquilino, l’occhio morbido e appena protuberante, le guance risultano rosate e pienotte. C’è nell’espressione un tratto di bonomia e di semplicità che sembra capovolgere lo stilema maligno e furbesco, quasi da bestiario, di una certa, assai perdurante, tradizione figurativa. Nemmeno questo probabilmente è il vero M., ma perlomeno siamo lontani da certi antichi e radicati stereotipi: se il ritratto non è machiavelliano, per fortuna non è nemmeno banalmente machiavellico.
Bibliografia: A.-F. Artaud, Machiavel, son génie et seus erreurs, 2° vol., Paris 1833, pp. 494-95; O. Tommasini, La vita e gli scritti di Niccolò Machiavelli nella loro relazione col machiavellismo, 1° vol., Torino-Roma 1883, pp. 63-75; L. de Laigue, Un portrait inédit de Machiavel, «Revue archéologique», III s., janvier-juin 1887, 9, pp. 139-43; P. Villari, Niccolò Machiavelli e i suoi tempi illustrati con nuovi documenti, 1° vol., Milano 19123, pp. 310-12; L. Dami, Il cosiddetto Machiavelli del Museo del Bargello, «Dedalo», 1925-1926, 6, pp. 559-69; F. Rossi, I ritratti di Machiavelli, «Illustrazione toscana», 1927, 5, pp. 17-19; M. Mansfield, Di un ritratto inedito di Niccolò Machiavelli, «Rivista d’arte», 1929, 9, pp. 361-64; A. Lensi, La donazione Loeser in Palazzo Vecchio, Firenze 1934, pp. 41-43; G. Prezzolini, Vita di Nicolò Machiavelli fiorentino, Milano 19485; R. Ridolfi, Vita di Niccolò Machiavelli, Roma 1954, Firenze 19787, pp. 428-32; G. Procacci, Machiavelli nella cultura europea dell’età moderna, Roma-Bari 1995; M. Viroli, Il sorriso di Niccolò. Storia di Machiavelli, Roma-Bari 1998; M. Firpo, Il volto, la maschera, la caricatura. Sulla celebre ‘testina’ di Niccolò Machiavelli, «Rinascimento», 2012 [ma 2014], 52, pp. 37-58.