HINDU, Iconografia
Secondo il Viṣṇudharmottarapurāṇa, nelle prime tre età del mondo l'uomo, avendo una percezione diretta della divinità, non aveva bisogno di immagini. Queste divennero spiritualmente indispensabili solo nel Kali Yuga, quando gli uomini ebbero necessità di «rispecchiarsi» in divinità antropomorfe per riuscire a ricordare, più o meno imperfettamente, la propria natura essenzialmente divina. Per un lungo periodo non vi fu altra immagine antropomorfa, poiché bastavano le immagini viventi di sovrani, sacerdoti e asceti.
Anche per l'induismo vale la regola dell'aniconicità iniziale dell'arte. Si è molto scritto, sia da parte occidentale che da parte indiana, nel tentativo di comprendere le ragioni dell'insorgere delle prime sculture antropomorfe. È fra l'altro probabile che molte immagini non siano giunte fino a noi perché, come avviene ancora adesso, realizzate in materiali deperibili per un uso rituale solo temporaneo e quindi distrutte. Curiosamente, giungono all'immagine antropomorfa pressoché contemporaneamente induismo, buddhismo e jainismo. Qualcosa era evidentemente cambiato nel modo di intendere la divinità. Si tratta del fenomeno della bhakti, ovvero l'intensa devozione personale rivolta a un aspetto «non supremo» della divinità, che si sostituisce almeno parzialmente ai riti vedici. Dal punto di vista dell'ortodossia brahmanica questo irrompere d'una componente sentimentale nel rapporto fra l'uomo e la divinità era ed è uno scadimento nell'ordine spirituale. Per sopperire a tale nuova esigenza si rendeva per la prima volta necessario l'uso diffuso di immagini piccole e grandi. Panini (V o IV sec. a.C.) è fra i primi testimoni indiretti (Aṣṭādhyāyī, V, 3, 96 e 99) dell'uso delle immagini. Di immagini di deva quali Siva, Skanda e Viśākha, fa quindi esplicito cenno Patañjali (II sec. a.C.) nel Mahābhāṣya, ma le evidenze archeologiche per quei lontani periodi sono molto scarse. Non è tuttavia da escludere l'eventualità che le prime immagini destinate a un uso cultuale prolungato fossero scolpite nel legno, e che quindi anch'esse siano andate completamente distrutte nei secoli successivi. E a questo riguardo per più versi significativo il mito puranico di Jagannātha «Re del Mondo», talora considerato come il nono avatāra di Visnu, la cui effige rozzamente scolpita in un blocco di legno e custodii a. nel complesso templare di Purī, in Orissa, viene bruciata e rifatta ogni dodici anni. Secondo il mito, la prima immagine di Jagannātha fu ricavata da Viśvakarman, l'«architetto» degli dèi, agli inizi del Kali Yuga, rimaneggiando lo scrigno di legno che racchiudeva le ossa di Kṛṣṇa, a significare che nell'«età oscura» la presenza divina fra gli uomini non sarebbe più stata diretta, bensì mediata dalle immagini di culto ritualmente «vivificate». Prescindendo dallo scenario mitico, in un tale contesto di transizione fra due diverse mentalità religiose, la pur certa influenza dell'arte figurativa ellenistica dei regni indo-greci, eredi dell'impresa di Alessandro Magno, appare essere nulla più che il «catalizzatore» sul piano artistico d'una soluzione già satura e quindi pronta per la svolta. Svolta che doveva compiersi soprattutto sotto il dominio degli Śaka-Pahlava (I sec. a.C. - primi decenni del I sec. d.C.) e dei Kuṣāṇa (I-III sec. d.C.), per ragioni tuttora insufficientemente indagate, ma delle quali sono chiari sintomi la nascita del buddhismo mahāyāna sul piano «teologico», e, su quello iconografico, lo sviluppo dell'immagine regale del Bodhisattva e delle peculiari raffigurazioni degli stessi sovrani kuṣāṇa nelle vesti e con gli attributi di Agni e del cakravartin, manifestazione umana di quel principio assoluto e universale della sovranità che l'induismo significa in astratto con l'idea di Manu, il «legislatore universale».
Sarà quindi nel periodo gupta (300-600 d.C.) che l'iconografia h. giungerà alla sua compiuta maturazione, sotto l'egida politica di imperatori visnuiti che promuovono la c.d. rinascenza hindu. E probabilmente a quest'epoca che vanno attribuiti gran parte degli Śilpaśāstra, ovvero i trattati che fissano i canoni dell'esecuzione delle immagini, nonché la redazione definitiva di alcuni Purāna contenenti delle importanti sezioni dedicate all'iconografia.
L'uso delle immagini. - Gli scultori (śilpin) hindu, di casta vaiśya, sono i primi a beneficiare spiritualmente delle immagini che essi stessi producono, tramandandosi e applicando tecniche rituali e contemplative (dhyānamantra), consistenti essenzialmente nella «visualizzazione» interiore della divinità che si viene materialmente raffigurando. Il che fa delle loro organizzazioni di mestiere delle vere e proprie vie di realizzazione spirituale (sādhanā). Essi attribuiscono miticamente le loro origini al dio vedico Viśvakarman, l'«architetto» dell'Universo, e ai suoi cinque figli, patroni delle principali tecniche di lavorazione artigianale di legno, pietra, metalli e pietre preziose. L'esecuzione delle immagini si fonda, almeno dall'epoca gupta, sugli Śilpaśāstra, ove sono fissati dettagliatamente, secondo una «griglia tridimensionale», i canoni iconometrici (tālamāna) delle rispettive proporzioni e misure delle diverse parti del corpo.
Le immagini, dette mūrti, vigraha, bera o arcā, in pietra o metallo, possono essere principalmente di tre tipi. Quelle in pietra sono solitamente installate nel garbhagṛha (la cella più interna) di un tempio e dette allora dhruvabera, yogabera o mūlavigraha. Quelle metalliche possono essere destinate a un uso processionale, e quindi dette bhogamūrti o utsavavigraha, oppure, di dimensioni inferiori, destinate al culto privato (dhyānabera).
Anche se è detto che, in linea di principio, la presenza divina è già in atto nell'immagine così come in qualunque altra cosa (il che, sia detto per inciso, tuttora giustifica la scelta di pietre o altri oggetti naturali quali supporti del culto), la mūrti viene preparata per il suo uso definitivo mediante uno speciale rito, detto prāṇapratiṣṭhā, il cui momento culminante è l‘‘āvahana (letteralmente «far entrare»), volto a rendere più efficace la presenza nell'immagine del dio 0 della dea raffigurativi. Tale rito può inoltre rendersi nuovamente necessario qualora l'immagine venga per qualsiasi ragione sconsacrata.
Secondo la tradizione, ci sono quattro modi fondamentali di usufruire delle immagini sacre da parte dei fedeli, corrispondenti grosso modo alle quattro caste nelle quali è suddivisa la società hindu. Quello più in basso, proprio agli śūdra, consiste nel ricavarne poteri magici; il secondo, corrispondente ai vaiśya, è volto all'ottenimento di vantaggi materiali; il terzo, degli kṣatriya, si prefigge di rafforzare le proprie virtù morali; il quarto, dei brāhmaṇa, è direttamente volto all'identificazione spirituale. Il secondo e il terzo costituiscono in effetti l'approccio più comune, che consiste praticamente nell'espressione quotidiana della propria devozione, esplicantesi mediante atti che, non casualmente, ricordano gli onori regali, quali l'aspersione della statua, l'offerta di cibo alla sua bocca, il ricoprirne la sommità del capo con petali di fiori, il segnarne la fronte con polveri colorate, il recitare formule sacre. In tale atteggiamento è ancora manifesta la distinzione che il fedele mantiene fra sé e il dio sia nel rendere omaggio che nel richiedere particolari grazie per questa 0 per l'altra vita. Ma lo scopo ultimo del bhakta («devoto»), specie se iniziato a una via realizzativa, è in realtà quello di giungere all'identificazione spirituale con la figura divina cui si rivolge. Questo avviene secondo un processo graduale, la cui prima tappa è costituita dal dhāraṇā, ovvero dal fissarsi dell'attenzione sull'immagine spazialmente delimitata. Successivamente è necessario concentrarsi sull'essenza della divinità rappresentata, prescindendo dalla sua immagine grossolana, sino a sfociare nella contemplazione pura data da un'autoidentificazione subitanea. A questo punto non sarà più necessario visualizzare la forma di «Colui che è senza forma», o di pregare «Colui che è oltre ogni discorso».
Lettura e interpretazione delle immagini. - Al centro di qualsiasi iconografia è ovviamente la figura umana. Questo è tanto più vero nel caso delle arti dell'India. Si può dire infatti che in India tutto il pensiero metafisico, cosmologico e le relative espressioni simboliche sono centrati sull'essere umano. Concetto fondamentale alla base di tutta l'iconografia h., buddhista e jaina è infatti che solo l'uomo liberato in vita (jīvanmukta) sia perfettamente in grado di esprimere e significare con il suo corpo, con le sue espressioni, movenze, posizioni e gesti, tutto il reale, dall'Infinito o Brahman fino al più basso degli esseri e delle cose (cfr. Rgveda, X, 90; Atharvaveda, X, 2 e Aitareya Āranyaka, 11, 1, 7). È probabile che tale concezione risalga a un'età molto antica. Le intuizioni e le osservazioni frammentarie di studiosi come Coomaraswamy, Van Buitenen, Staal e altri, inducono ragionevolmente a pensare che i prototipi dell'arte plastica indiana siano da ricercare negli atteggiamenti rituali del celebrante del sacrificio vedico. Si può, p.es., ricordare che nello svolgimento del pravargya, rito introduttivo al sacrificio del soma, si ha una particolare disposizione degli strumenti sacrificali per rappresentare un corpo umano (cfr. Apastamba Srauta Sūtra, Xv, 13, 1, 16, 10).
Sembra che la prima immagine antropomorfa in assoluto realizzata dagli artigiani hindu fosse l’Hiraṇyapuruṣa, un piccolo uomo d'oro disposto orizzontalmente e con la testa rivolta verso E al di sotto dell'altare vedico, allusivo del sacrificio della prima vittima, ovvero del Mahāpuruṣa, ma identificato anche con Agni, il «rosso fanciullo», per via del suo colore dorato, e con lo stesso sacrificante: «... è Prajāpati, è Agni, è il sacrificante. E fatto d'oro, perché d'oro è la luce, e il fuoco è luce; l'oro è l'immortalità, e il fuoco è l'immortalità. Esso è un uomo, perché Prajāpati è l'Uomo» (Śatapatha Brāhmaṇa, VII, 4, 1, 15). Significativo che Atharvan, il mitico primo sacerdote suscitatore di Agni su di un altare, sia a sua volta considerato come un aspetto del fuoco al quale viene identificato. Agni conserva evidente in talune caratteristiche della sua iconografia ribadite dai testi, come il colore rosso, la sua natura di ipostasi della fiamma sacrificale. Nelle sue prime raffigurazioni, ancora d'epoca kuṣāṇa, egli ha solo due braccia ma il corpo completamente alonato di fiamme. A lui saranno attribuiti successivamente dai canoni iconografici due teste, quattro braccia e tre gambe, molti occhi, lingue e capelli tutti fatti di fuoco. La singolare caratteristica della moltiplicazione degli arti nell'iconografia h., al punto che nelle prescrizioni degli Śilpaśāstra relative alle divinità maschili se non viene data nessun'altra istruzione si intende che esse vadano costruite con quattro braccia, è attestata per la prima volta da monete coniate fra il 50 e il 100 d.C. Tale caratteristica, che per Hegel era sintomo di aberrazione mentale, ha quasi certamente la sua origine da un lato nel referente igneo dei corpi luminosi dei deva, dall'altro nella danza rituale, le cui movenze successive sono tutte rappresentate come in una sorta di sovrapposizione fotografica, per rendere plasticamente un senso di divina istantaneità temporale del dispiegarsi di attributi e gesti significativi. Entrambi questi referenti rinviano a loro volta allo scenario sacrificale. È infatti la fiamma, cioè Agni, che per prima «danza» nel suo gioco (līlā) di vampate volte alternativamente in tutte le direzioni. Del resto la maggior parte degli attributi recati nelle mani dei deva sono armi e queste, in particolare la freccia e la spada, già nel Veda sono dette derivate dalla frammentazione della folgore (vajra), mentre attributo principale di Agni è una lancia (śakti) infuocata. Si noti ancora come, tradizionalmente, il nono nome di Agni è Skanda, ovvero il figlio di Śiva dio della guerra, la cui iconografia, fra le più antiche, importanti e diffuse, giunge talora ad assimilarlo alla lancia che è anche il suo principale attributo, o al triśūla (tridente), facendone quasi un «dio-arma» (astradeva, v. infra). Tale è del resto lo stesso Agni se si considera che come arma viene canonicamente considerato anche il «fuoco divino», fra l'altro importante attributo iconografico di Śiva. Ancora, il fatto che in molti casi le immagini stanti o assise abbiano un'aureola circolare, detta śiraścakra, dietro al capo, e un anello ovale o rotondo, bordato da lingue di fuoco (jvālā), che circonda tutto il corpo, detto prabhāvali o prabhāmandala, va ovviamente interpretato sempre in questa chiave. La nozione di divinità intesa come «fiamma danzante», a un tempo benefica e terrifica, creatrice e distruttrice, avrà la sua più chiara e consapevole espressione figurativa nella tarda iconografia di Śiva Naṭarāja («Signore della danza»).
Nella civiltà indiana il linguaggio gestuale raggiunge quasi le stesse possibilità espressive del linguaggio parlato, trovando quindi un riflesso immediato nell'iconografia. La «lettura» di una scultura indiana è pertanto perfettamente paragonabile a quella di un testo scritto. Ci si renderà allora conto di come sia più giusto parlare, per lo studio delle opere d'arte indiane, di iconologia nel senso proprio e originario del termine, che non di iconografia in senso ristretto. Per questo la ricerca resta ancora aperta a molti e imprevedibili sviluppi.
Quanto alle posizioni del corpo, le immagini possono essere stanti (sthānakamūrti), assise (āsanamūrti), o coricate (śayanamūrti). Quelle stanti possono essere flesse in uno, due o tre punti del corpo. Sono dette allora in bhañga. Fra le posizioni assise, le principali sono il padmāsana o «posizione del loto», con le gambe incrociate e ogni piede posato sulla coscia opposta; il virāsana, simile al precedente, ma con il piede destro posto sotto la coscia sinistra; lo yogāsana, a gambe incrociate, le ginocchia sollevate e sostenute da una stretta fascia detta yogapatta caratteristica di alcuni asceti; il lalitāsana, posizione nella quale una sola gamba rimane piegata orizzontalmente sulla coscia opposta mentre l'altra è lasciata in posizione verticale; il pralambapādāsana, o posizione seduta all'occidentale, piuttosto infrequente.
I gesti delle mani e delle dita, mudrā o hasta, sono comuni a certe forme del rito, alla danza e all'opera teatrale. In un dialogo fra il re Vajra e Mārkaṇḍeya riportato nel Viṣṇudharmottara è detto esplicitamente che la scultura e la pittura non possono essere padroneggiate senza un tirocinio nella danza. I gesti principali sono dhyāna- o yogamudrā, ove una mano si poggia sull'altra in grembo alla figura, per esprimere lo stato contemplativo; jñanamudrā, denotante lo stadio della perfetta conoscenza, la mano destra appoggiata al petto con il palmo verso l'interno e la punta dell'indice e del pollice che si toccano; abhayamudrā o abhayahasta, con la mano a palmo aperto distesa verso l'alto, gesto che rassicurando spiritualmente, arresta il timore; vara, varadamudrā o varadahasta, con la mano destra rivolta verso il basso a palmo aperto, significante la discesa della grazia divina; cin-, vyākhyāna- (o vitarka-) mudrā o haṃsāyahasta, la mano in abhaya, ma con l'indice e il pollice che si toccano, gesto che accompagna l'esposizione discorsiva dell'insegnamento spirituale; añjalihasta, le mani giunte in segno di reverenza; kaṭakahasta, la mano mezza chiusa, con indice e medio chiusi a toccare quasi il pollice, posizione usata per sostenere attributi significativi, in particolare steli di loti, che sembrano come scaturire direttamente dalla mano; kartarīmukha, la mano all'altezza delle spalle con pollice e medio piegati sin quasi a toccarsi, le altre dita tese in fuori e separate, posizione anche questa usata per recare attributi; sūcihasta, simile a kaṭakahasta, ma con l'indice teso verso l'alto, posizione usata per indicare o maledire; lolahasta, la mano lasciata pendere vicino alla coscia senza toccarla; katyavalambitahasta, col braccio pendente e la mano appoggiata sul fianco; daṇda- o gajahasta, il braccio disteso attraverso il petto e la mano pendente. Molte di queste mudrā non sono attestate prima del periodo tardo-gupta.
L'abbigliamento e l'acconciatura delle immagini si ispirano direttamente a quelli dei sovrani hindu. Come gli hindu «due volte nati» appartenenti alle prime tre caste, anche gli dèi indossano il sacro cordone detto yajñasūtra o yajñopavīta, talvolta significato anche da un nastro ingioiellato o da una catenella. Esso simboleggia la parziale uscita dal Cosmo attraverso la «porta solare», ed è quindi una promessa di liberazione dalla successione indefinita di morti e rinascite. Il resto del vestiario consiste solitamente in un indumento basso, la dhotī, che lascia scoperta la parte superiore del corpo. Le spalle sono talvolta coperte da una sorta di sciarpa (uttarīya), in altri casi indossata come cintura. Generalmente gli altri ornamenti del corpo sono gioielli: il turbante con una gemma posta al centro o lateralmente (nelle immagini più antiche) o la corona (mukuṭ̣a), fatta talora di capelli pettinati verso l'alto (jaṭāmukuṭa) o di gioielli (kīriṭamukuṭa), talvolta completata da un diadema a quattro punte (uṣnīṣabhūṣaṇa) coprente la radice dei capelli e con la parte inferiore bordata di perle; gli orecchini (kuṇḍala); la collana (hāra o mālā)·, i bracciali (keyūra) e i braccialetti (kankana); la cintura (udarabandha); gli anelli (mudrā); le cavigliere (nūpura).
Come si diceva, fra gli attributi (cihna) che le mūrti recano in mano predominano nettamente le armi (āyudha), segno della «potenza», (śakti, significante anche «spada» o «lancia»), terribile e luminosa a un tempo, del dio o della dèa. Le principali sono il fulmine (vajra), dalla cui «frammentazione» mitica tutte le altre derivano (cfr. Śatapatha Brāhmaṇa, 1, 2, 4), la fiamma (agni), l'arco (dhanu), la freccia (bāna), il tridente (triśūla), la spada (khaḍga), la lancia (śakti), la scure (tañka), la mazza (gaḍa), il pungolo per elefanti (ankuśa), il disco (cakra) che equivale alla «mota della legge» buddhista oltre a essere un'arma da lancio, il laccio (pāśa), lo scudo (kheṭaka). Si può dire che non esista figura divina che non possieda una o più di queste armi, arrivando talora, come nel caso di Durgā, a sfoggiare quasi l'intera panoplia. Fra gli altri attributi, più pacifici, spiccano gli strumenti musicali, volti a esprimere, dopo quello luminoso, l'aspetto sonoro, mantrico, delle divinità. Prima fra tutti la conchiglia (śañkha), significante il monosillabo sacro Om, matrice del Veda e della manifestazione; il tamburo (ḍamaru, ḍhakka), spesso nella variante a forma di clessidra con una pallina di cuoio al suo interno, significante l'alternanza di manifestazione e riassorbimento dell'universo; la campana (ghaṇtā); il flauto (venu); il liuto (vīṇā). Attributi importanti sono quindi ancora i loti chiusi o aperti di diverso colore (padma, nīlotpala), il libro (pustaka), il rosario (akṣamālā) simbolo della concatenazione indefinita dei mondi, la zucca vuota per l'acqua (kamaṇḍalu), il teschio (kapāla), talvolta usato come ciotola. Nel descrivere gli attributi recati da un'immagine, i testi canonici partono invariabilmente dalla mano destra inferiore, arrivando quindi, dopo aver esaminato la mano destra e la sinistra superiori, alla mano sinistra inferiore, secondo un senso rotatorio non privo di rinvii simbolici alla fase ascendente e discendente del sole nel corso dell'anno. È così possibile arrivare a distinguere fino a ventiquattro diverse forme di Viṣṇu, tante essendo le combinazioni di scambio possibili dei suoi quattro attributi fondamentali (loto, mazza, disco e conchiglia). Quasi a non far dimenticare che gli attributi simbolici degli dèi altro non sono che prolungamenti esterni della loro natura intrinseca, cristallizzazioni materiali dei loro poteri spirituali, esiste, a partire dall'epoca tardogupta una singolare categoria di immagini, ovvero l'impersonificazione antropomorfica di questi stessi attributi, in particolare delle armi (dette in tal caso āyudhapuruṣa o anche astradeva, lett. «dio-arma»), ma non solo di queste. Esistono almeno tre modi di combinare l'attributo con la figura umana, che è possibile definire rispettivamente come avyakta, vyaktāvyakta e vyakta (cfr. infra), in una progressione che va dalla mūrti meno a quella più decisamente antropomorfa. Nel primo caso, l'essere umano, maschile, femminile o neutro (in tal caso rappresentato da un gaṇa) a seconda del sesso dell'attributo, è inserito al centro dello stesso; nel secondo, l'attributo «fuoriesce» come un cimiero dalla sommità del capo del personaggio; nel terzo è la figura umana che torna a reggerlo in una mano.
Una stessa figura divina può essere rappresentata in molte forme diverse, corrispondenti agli aspetti e alle funzioni che essa di volta in volta assume in modo distintivo. In particolare si considerano tradizionalmente tre modi fondamentali di raffigurare un deva secondo i guṇa, o «tendenze fondamentali» della realtà fenomenica. Si hanno così immagini śāttvika, cioè «benefiche», dette anche śānta o saumya cioè «pacifiche», quando i deva sono in contemplazione (dhyānamudrā), o in atteggiamento di protezione (abhayamudrā) e di elargizione di grazie (varadamudrā); rājasika, cioè «regali», quand'essi poggiano sul loro vāhana (v.), cioè il «veicolo», per lo più animale, con due mani atteggiate come la categoria precedente mentre le restanti recano armi e altri attributi; tāmasika, vale a dire «terrifiche», dette anche raudra o ugra cioè «spaventose», quando recano quasi solo armi nelle molte mani, e sono in atteggiamento minaccioso, o addirittura impegnate in combattimento. A questo schema tripartito va aggiunto quello dei nove rasa o «emozioni», che ne è una sorta di ulteriore specificazione. I rasa che le immagini possono di per sé esprimere sono, secondo una terminologia propria anche alla retorica e all'arte poetica coeve, rispettivamente: erotico (śṛngara), comico (hāsya), compassionevole (karuṇa), eroico (vīra), terrifico (raudra), spaventoso (bhayānaka), disgustoso (bībhatsa), stupefacente (adbhuta), tranquillo (śānta). A essi corrispondono delle reazioni emotive simmetricamente conseguenti nello spettatore (sthāyībhāva), ovvero: amore (rati), divertimento (hāsa), afflizione (śoka), entusiasmo (utsaha), collera (krodha), paura (bhaya), disgusto (jugupsā), stupore (vismaya), pace (śama).
Particolarmente importanti e complesse sono infine le immagini sintetizzanti diversi principi divini, p.es. Śiva e Viṣṇu nella mūrti detta di Hari-Hara, o Śiva e Śakti nell'immagine androgina di Ardhanārīśvara, e quelle esprimenti addirittura la totalità degli aspetti del divino, come in quella di Viṣṇu Viśvarūpa.
È necessario rilevare come la centralità della figura umana intesa proprio come forma corporea definita sia fondamentale e costantemente operante anche in settori dell'iconografia h. che all'apparenza sembrerebbero i più lontani da ogni tipo di antropomorfismo. Se è vero da un punto di vista metafisico che tutti gli esseri derivano dalla frammentazione sacrificale del macrantropo originario (Mahāpuruṣa, cfr. Rg Veda, X, 90) è ovvio che, da un punto di vista propriamente hindu, si ritenga che nulla esiste nella realtà anche fisica e naturale che non presenti chiare ed essenziali connotazioni umane. Così è detto che solo un'immagine completamente antropomorfa è davvero «manifesta» (vyakta), quando solo parzialmente antropomorfa è «manifesta e non-manifesta» (vyaktāvyakta), mentre è considerata «nonmanifesta» (avyakta) se totalmente aniconica. Si consideri l'esempio dell'iconografia animale e vegetale. Per la prima categoria le figure chiave sono quelle metà umane e metà animali, quali p.es. i primi quattro avatāra di Viṣṇu. L'animale viene infatti considerato come l'estremizzazione d'una qualche caratteristica fisiognomica o caratteriale umana. Si pensi ai classici raffronti che le scritture buddhiste stabiliscono fra talune prerogative fisiognomiche del corpo e della fisiologia dell'Illuminato e talune specie animali: egli ruggisce come un leone, ha le orecchie lunghe e pendule come quelle di un elefante, la lingua come quella di un serpente, le mani palmate come una rana, le gambe diritte e tonde come un elefante, ecc. Nel caso dell'iconografia fitomorfa, la connessione con la figura umana risulta molto meno evidente. Cionondimeno essa esiste soprattutto sulla base della corrispondenza tradizionalmente stabilita fra la modalità d'esistenza dei vegetali e il principio vitale nell'essere umano, considerato soprattutto nelle sue manifestazioni «liquide»: sangue (che, ancora una volta, rinvia alle speculazioni sul sacrificio), latte, sperma, mestruo, cibo (in quanto assimilabile solo se reso liquido dalla saliva), sono tutte manifestazioni della modalità vegetale all'interno dell'essere umano o comunque in rapporto a esso, e su questa base si fonda l'interesse pratico e cultuale degli uomini per le piante. D'altra parte vi sono occasioni in cui anche da un punto di vista figurativo tale connubio uomo-pianta viene chiaramente significato. Si pensi alle immagini innaturalmente allungate, frontali, quasi legnose degli yakṣa di sesso maschile o, viceversa, alle flessuose, linfatiche figure di yakṣī in bhanga, gli uni significanti il tronco dell'albero sacro, le altre le liane o rampicanti a esso avviluppate o le correnti linfatiche al suo interno. E ancora agli yakṣa, gaṇa o bhūta asessuati, mostruosamente nani e idropici, dalla cui bocca o dal cui ombelico fuoriesce lo stelo d'una pianta, spesso sono usati per significare il bulbo o la radice (mūla) dell'albero sacro. Si potrebbe continuare così a lungo esaminando tutte le altre principali categorie iconografiche proprie delle arti dell'induismo. Anche per la più astratta, in apparenza, di tali categorie, ovvero quella degli yantra o figure geometriche, vale lo stesso referente fondamentale. Come si sa è detto che il devoto per rendere la sua pūjā alla divinità preferita può scegliere indifferentemente di rivolgersi a un'immagine scolpita o dipinta (mūrti) del deva o della devī oppure allo yantra corrispondente. E che tale corrispondenza non sia da intendersi come meramente convenzionale e astratta è dimostrato dal fatto che l'artista hindu quando vuole iniziare a scolpire l'immagine di una divinità inizia proprio col tracciare sulla superficie della pietra, come schema di base, lo yantra a essa corrispondente. Le ricerche di A. Boner hanno del resto sufficientemente dimostrato che uno schema yantrico è alla base di molte importanti opere scultoree del periodo tardo-gupta.
La letteratura iconografica hindu. - Le opere più antiche dalle quali si possono trarre chiare informazioni iconografiche sulle mūrti di divinità quali Jyeṣṭha, Īsāna, Miḍhusi, Jayanta, Śrī, Dhanapati, Bhadrakāli e Kṣetrapāla sono i Gṛhyasūtra (VI-V seci a.C.). Vere e proprie sezioni iconografiche si ritrovano nei capp. 257-263 del Matsyapurāṇa (forse III-IV sec.), mentre dati iconografici sparsi sono contenuti soprattutto nell'Agni- e nel Garuḍapurāna. Informazioni su veri e propri trattati iconografici sia ancora oggi noti che oramai perduti, attribuiti ad autori mitici 0 addirittura divini, sono contenute nella Bṛhatsaṃhitā (V sec.). Fra gli Upapurāṇa, fondamentali sono i capp. 44-85 del Viṣṇudharmottara- o Viṣṇudharmapurāna, ove son prese dettagliatamente in esame le mūrti di sessanta figure divine.
Sezioni relative alle caratteristiche iconografiche delle diverse figure divine si ritrovano infine, col nome di pratimālakṣaṇa, nei più tardi Vāstusāstra, i trattati di architettura, che comunque espongono in modo sistematico dati senz'altro precedenti. Tali opere sono redatte da due scuole distinte, quella settentrionale (nāgara) e quella meridionale (draviḍa), differenziatesi peraltro più per quanto concerne gli stili architettonici che non i canoni iconografici. Sezioni iconograficamente importanti sono contenute nei seguenti testi: Samarāngaṇasūtradhāra (XI sec.), cap. 77; Aparājitapṛccha (forse XI sec.), capp. 213-223; Śukranīti, cap. 4; Mayamata, cap. 36, Mānasāra, capp. 51-69; Kāśyapaśilpa, capp. 47-87; Śilparatna (XVI sec.), parte II; Prasādamaṇḍana, Śilpaprakāśa. Ma si possono ricordare anche il Viśvakarmāvästuśāstra e il Rūpamandana. Esistono quindi dei trattati enciclopedici, detti Nibandha o Dharmanibandha, contenenti sezioni d'interesse iconografico. Fra questi, importanti sono il Mānasollāsa (XII sec.), che si basa principalmente sul Matsyapurāna, e il Caturvargacintāmaṇi. Informazioni iconografiche sono ovviamente contenute in una letteratura ancora più tarda, quella tantrica degli Āgama, ma anche in questo caso è impossibile escludere che molti dati ivi riferiti risalgano a una tradizione orale di molto precedente. Fra i testi più importanti ricordiamo innanzitutto l'Aṃśumadbhedāgama e quindi, secondariamente, i seguenti: Suprabhedāgama, Pūrṇakaraṇāgama, Kamikāgama, Vaikhānasāgama, Mrgendrāgama, Ajitāgama, Rauravāgama.
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