Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
A partire dall’esperienza ottocentesca del lavoro di fabbrica, i sindacati, intesi come forma di aggregazione organizzata di interessi economici, si caratterizzano prevalentemente come espressione delle istanze degli operai, fino a estendersi nel corso del secolo successivo a tutte le forme di lavoro subordinato. Inizialmente illegali, le organizzazioni sindacali si sono affermate nel corso del Novecento come elemento costitutivo e fondante delle società contemporanee, ma attraversano oggi una crisi le cui radici affondano nel cambiamento dei sistemi produttivi.
Dal sindacato di mestiere ai modelli rivoluzionari e cattolici
Lo sviluppo industriale ottocentesco favorisce la nascita di numerose organizzazioni operaie nelle nazioni maggiormente industrializzate, prima fra tutte la Gran Bretagna, dove le forze sindacali (Trade Unions) alla fine del XIX secolo annoverano tra i propri iscritti un milione e mezzo di lavoratori. La prima forma di organizzazione sindacale cui le associazioni di lavoratori inglesi fanno riferimento, è quella “di mestiere”, rimasta poi peculiare della realtà inglese anche nei decenni successivi. In questo modello si organizzano esclusivamente gli strati maggiormente qualificati della classe operaia, detentori di elevate competenze, in forza delle quali richiedono adeguati salari. Il ruolo che i sindacati disegnano per sé nel quadro politico-economico della Gran Bretagna ottocentesca è quello di “gruppo di pressione”, cercando una loro rappresentanza nei partiti dominanti, prevalentemente liberali. La ricerca di uno sbocco politico autonomo induce i sindacati inglesi a costituire nel 1900 un Labour Representation Committee, che porta alla costituzione del Partito Laburista, divenuto successivamente il principale antagonista del Partito Conservatore. I cambiamenti introdotti nel mondo della produzione a cavallo tra i due secoli determinano tuttavia l’aumento dei lavoratori dequalificati, precari e sottopagati, che si affacciano sul piano del confronto sociale con una mentalità e una cultura completamente diverse rispetto all’operaio di mestiere, innestando una nuova radicalità nei percorsi di lotta. Nell’Europa continentale la tendenza dei sindacati è quella di federarsi e di dotarsi di una struttura centrale nazionale, come la Allgemeiner Deutscher Gewerkschaftsbund in Germania (1890), la francese Confédération générale du travail (CGT, 1895), o la Confederazione generale italiana del lavoro (CGL, 1906). Alla vigilia della prima guerra mondiale i lavoratori sindacalizzati ammontano a circa quattro milioni in Gran Bretagna, quasi tre milioni in Germania, due in Francia e circa mezzo milione in Italia.
Tuttavia i cambiamenti nel mondo produttivo, soprattutto in relazione alla parcellizzazione della produzione industriale, mettono in crisi l’elitarismo del sindacato di mestiere favorendo la proliferazione di ideologie solidaristiche basate sull’appartenenza di classe. In Europa il modello sindacale maggiormente diffuso nei primi due decenni del nuovo secolo è quello riformista di classe, le cui principali caratteristiche possono essere identificate in un legame molto stretto tra sindacati e partiti socialisti, nell’attenzione particolare al collegamento internazionale dei lavoratori, e in alcuni punti programmatici, come la rivendicazione di una legislazione a difesa del lavoro, della giornata lavorativa di otto ore, e la tendenza a privilegiare la contrattazione collettiva. Occorre ricordare tuttavia che la sensibilità dei lavoratori del primo Novecento è molto vicina alle parole d’ordine agitate dal sindacalismo rivoluzionario, condizionato da elementi ideologici marxisti ma anche da contaminazioni anarchiche, che respinge in toto il modello di rappresentanza politica a vantaggio dello spontaneismo dell’azione sociale. L’orizzonte teorico del sindacalismo rivoluzionario, di cui il filosofo Georges Sorel (1847-1922) è il maggior ispiratore, rifiuta il parlamentarismo come cedimento alla pretesa borghese di proporsi come soggetto mediatore dei conflitti sociali. Lo strumento di lotta principalmente invocato è lo sciopero generale. In Francia il sindacalismo rivoluzionario si afferma velocemente – ufficialmente con la Carta di Amiens del 1906 –. La sua influenza sui lavoratori dell’industria nei primi anni del secolo è molto significativa, tanto da riuscire, organizzando un ingresso massiccio dentro la CGT, a imporre la propria linea. Il sindacalismo rivoluzionario si diffonde poi tra il 1907 e il 1908 in Svezia (SAC), in Italia (USI), in Spagna – Confederacion nacional del trabajo –, e negli Stati Uniti – Industrial Workers of the World –.
La storia del sindacalismo europeo è inoltre fortemente segnata dal protagonismo cattolico, il cui modello organizzativo si presenta su base corporativa, cioè caratterizzato dall’aggregazione di lavoratori e datori di lavoro relativi a un circoscritto settore produttivo. L’opzione corporativista è ribadita dall’enciclica Rerum novarum (15 maggio 1891) di papa Leone XIII (1810-1903), nella quale la costituzione di sindacati confessionali è associata alla prospettiva delle corporazioni miste, anche se parte dei lavoratori cattolici si orientano verso organizzazioni non corporative. La sintesi trovata nel 1903 dall’italiano Giuseppe Toniolo (1845-1918) consiste nel proporre un modello con due realtà sindacali parallele (lavoratori e datori di lavoro) collegate in commissioni miste che garantiscano un’organizzazione corporativa di vertice. Il sindacalismo cattolico si sviluppa rapidamente in buona parte d’Europa, e nel 1920 viene fondata la Confederazione internazionale dei Sindacati Cristiani, sviluppatasi successivamente nella Federazione Mondiale del Lavoro (FML).
Le politiche di regime e i sindacati
Dopo la prima guerra mondiale lo sviluppo della storia dei sindacati subisce, per ragioni differenziate, cambiamenti di rotta in tutti i Paesi europei. L’idea del sindacalismo corporativo viene raccolta in Italia dal fascismo, come strumento per affossare le aspirazioni del sindacato di classe. Il governo Mussolini (1883-1945) colpisce immediatamente il fronte dei lavoratori fin dal 1922, quando abolisce la festa del primo maggio, di grande valore simbolico. Nel 1926 viene abolito il diritto di sciopero, e nel medesimo anno si scioglie la CGL. Il punto programmatico fondamentale della politica sindacale fascista è infatti quello dell’unicità, conseguita mediante l’eliminazione di qualunque altro sindacato alternativo alle Corporazioni (1927). Anche nella Germania nazista il conflitto sociale viene soffocato. Più che alle corporazioni, il Terzo Reich ricorre, anche in materia di politiche del lavoro, al Führerprinzip. I lavoratori devono prestare fedeltà al capo dell’impresa. Soppressi i sindacati indipendenti, viene costituita la Deutsche Arbeitsfront (DAF), inclusiva dei lavoratori e dei datori di lavoro, simbolo della realizzazione della Volksgemeinschaft (comunità nazionale), a detrimento di ogni conflitto sociale. Anche nelle altre dittature europee si mira a indebolire le lotte sindacali, come in Portogallo, dove nel 1934 vengono vietati lo sciopero e la serrata. Principi di corporativismo possono essere rinvenuti nella Spagna di Franco (1892-1975) e nella Romania fascista.
Nei Paesi anglosassoni lo sviluppo delle organizzazioni sindacali si sgancia sempre più dal suo contatto con la politica per ritrarsi nell’orizzonte della contrattazione economica. Al contrario nei Paesi scandinavi, a partire dagli anni Trenta, si registra una crescita significativa quanto continuativa del sindacalismo e del suo protagonismo politico, che caratterizza in maniera duratura il welfare state di quei Paesi.
Nell’ambito delle forze politiche e sindacali di orientamento socialista dispiegate sul continente, la rivoluzione d’ottobre, accompagnata dalla lezione leninista del primato del partito sul sindacato, influisce significativamente nelle relazioni con la politica. Coerentemente con tale prospettiva in Unione Sovietica il sindacato è un organismo di gestione che condivide con lo Stato la responsabilità dei problemi produttivi. Sulla scorta dell’esperienza dell’Internazionale sindacale rossa costituitasi a Mosca nel 1921, in Europa i membri dei sindacati aderenti ai partiti comunisti adottano dunque la strategia di rimanere all’interno delle principali organizzazioni sindacali costituendo dei nuclei comunisti al loro interno. Nel secondo dopoguerra il modello sovietico si estende a tutte le democrazie popolari. In Polonia il sindacato Solidarnosc, costituitosi nel 1980 sotto la guida di Lech Walesa (1943-), sarà il primo sindacato indipendente dei Paesi socialisti dell’area orientale.
Dal secondo dopoguerra alle attuali tendenze alla desindacalizzazione
Nella seconda metà del secolo in Europa settentrionale le organizzazioni rimangono stabili su posizioni legalitarie, riformiste e fortemente legate alle forze politiche socialdemocratiche. Il sindacato tende a concentrarsi in una dimensione collaborativa con lo Stato e con le imprese, in vista di politiche di sostegno alla produzione. Su un livello decisionale macroeconomico, si può rilevare nel nord Europa una tendenza neocorporativa. Contemporaneamente in questi Paesi il secondo dopoguerra introduce anche una tendenza all’unificazione delle forze sindacali. In Germania le organizzazioni socialiste e cattoliche si aggregano nel Deutscher Gewerkschaftsbund (DGB). Diversamente accade in Francia e in Italia, dove permangono soggetti sindacali in concorrenza reciproca. In Italia, nonostante l’unificazione sindacale avviata nel 1944 con la costituzione della Confederazione Generale Italiana del Lavoro (CGIL), le divergenze interne determinano alcune scissioni seguite dalla nascita nel 1950 della Confederazione Italiana Sindacati Lavoratori (CISL) di ispirazione cattolica e della Unione Italiana del Lavoro (UIL) a indirizzo socialdemocratico (in alcuni Stati europei, come l’Italia, agiscono con significativo peso sociale anche sindacati autonomi non legati alle confederazioni).
I movimenti sindacali nel corso del Novecento hanno ricercato, quanto meno sul piano europeo, momenti di confronto e coordinamento a livello internazionale. La prima riunione delle confederazioni nazionali risale al 1901, ma vi prendono parte soltanto le organizzazioni scandinave, tedesche e britanniche. Un anno dopo nasce l’Ufficio Centrale Internazionale delle Centrali sindacali nazionali, e vengono avviati contatti reciproci anche tra dipendenti statali e comunali di Austria, Danimarca, Germania e Inghilterra. Nel 1945 nasce a Parigi la Federazione Sindacale mondiale (FSM), colpita negli anni da importanti defezioni. Nel 1966 vengono espulsi i sindacati cinesi, mentre nel 1993 sono i sindacati russi a tirarsi fuori, seguiti due anni dopo dai francesi. Contemporaneamente accanto alla FSM si sviluppano la Confederazione internazionale dei sindacati liberi (CISL) e la Confederazione internazionale dei sindacati cristiani, divenuta nel 1968 Confederazione mondiale del lavoro (CMT). A livello europeo un ruolo molto importante è svolto dalla Confederazione europea dei sindacati (CES) costituitasi nel 1973, che oggi rappresenta quasi sessanta milioni di lavoratori.
Negli ultimi decenni del secolo si è manifestata però una tendenza alla desindacalizzazione, determinata da una concomitanza di fattori: i cambiamenti sopravvenuti nel mondo della produzione, la terziarizzazione e l’informatizzazione del mercato del lavoro, hanno in parte modificato l’assetto dei principali attori dell’azione sindacale, tradizionalmente riconducibili alla grande fabbrica o alla miniera. Si assiste dunque a un aumento percentuale dei colletti bianchi, strutturalmente meno inclini alla sindacalizzazione. Parimenti importante a questo proposito è il fenomeno della delocalizzazione (la semplice invocazione di questa possibilità indebolisce il radicamento sindacale) di molti settori produttivi verso i Paesi poveri o emergenti. Ma il cambiamento più incisivo è costituito dalla frammentazione degli assetti produttivi, finalizzata anche alla riduzione delle possibilità di aggregazione dei lavoratori, e dal processo di precarizzazione del posto di lavoro (inibente l’associazionismo e la disponibilità alla vertenza) invocata da parte padronale come rimedio contro la disoccupazione e la rigidità del mercato del lavoro e come esigenza improcrastinabile per vincere la concorrenza dei Paesi emergenti.