I segni del potere in Occidente
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Il mondo occidentale è ricco di insegne del potere di epoca medievale – corone, manti, scettri – la cui preziosità e perfezione tecnica e stilistica fa di essi, oltre che segni sontuosi di autorità e potenza regale, veri e propri oggetti cultuali. Il simbolo rappresentato dall’oggetto assume più valore che non l’oggetto stesso, e ciò spiega l’offerta di elementi prestigiosi come le corone ai monasteri o ai tesori delle chiese. Frequente è il caso in cui le opere di arte suntuaria vengono smontate; le preziose parti così smembrate si ritrovano utilizzate in oggetti sacri come i reliquiari.
L’arte suntuaria medievale condensa in sé i migliori risultati sia tecnici che stilistici ottenuti nel campo delle arti applicate attraverso lavorazioni estremamente complesse favorite dalla continua osmosi dei principi decorativi tra Oriente, Occidente e mondo islamico. L’estetica del lusso e del potere ha nel Medioevo una matrice culturale sostanzialmente mista. Riflette il fasto delle corti, il lusso dell’aristocrazia e la solenne cerimonialità dei costumi liturgici. In ogni caso, sia la spada del principe sia il pastorale del vescovo, sono il frutto di un’arte principesca d’origine profana, la cui funzione sociale, nell’islam come nei regni cristiani, risiede nel servire al mito principesco. Sovente il simbolo rappresentato dall’oggetto assume più valore che non l’oggetto stesso, e ciò spiega l’offerta di elementi prestigiosi come le corone ai monasteri o ai tesori delle chiese. La preziosità specifica dei materiali conferisce ai manufatti un significato che unisce e confonde le insegne del potere e gli strumenti di culto.
Può essere citata ad esempio la croce che sormonta la corona dell’impero (Vienna, Kunsthistorisches Museum, Schatzkammer) che reca sulla faccia anteriore una fulgida gemma e sul lato posteriore la figura di Cristo. La santa lancia è insegna di potere e strumento di culto in quanto reliquiario: impugnandola, Ottone I annienta gli Ungari nel 955. Con lo stesso cerimoniale in uso per gli imperatori, la spada detta dei santi Cosma e Damiano viene portata in processione davanti alle badesse di Essen. Le insegne assumono un valore trascendente che le pone al livello degli oggetti cultuali. Ma occorre distinguere tra veri e propri regalia, che hanno la funzione di legittimare l’investitura del sovrano, e gli altri oggetti destinati a onorarlo in occasione degli eventi più significativi del regno.
Il momento dell’incoronazione che segna l’atto dell’ingresso al potere è investito di significati alti e solenni tradotti in consuetudini prefissate fino a essere assimilate allo svolgersi di una vera e propria cerimonia, durante la quale l’unzione e l’incoronazione precedono la consegna dello scettro, della spada, del bastone, dell’anello e del simbolico globo, fino all’insediamento sul trono. L’immagine dei sovrani in gloria, intronizzati, rivestiti dei loro paramenti e dotati degli attributi, ci è trasmessa da una quantità di illustrazioni inserite nei libri miniati con dovizia di dettagli.
Il foglio di evangeliario noto come Apoteosi di Ottone III (Evangeliario di Liuthar, Aquisgrana, Domschatzkammer, Inv. Nr. G. 25, f. 16r), illustra con pienezza di significato la congiunzione perfetta tra regalità terrena e spirituale realizzata da questo imperatore: egli vi è raffigurato entro la mandorla luminosa, incoronato dalla mano dell’Eterno e affiancato dai simboli degli evangelisti, utilizzando i simboli e gli attributi iconografici della maestà esclusivi di Cristo. La profonda risonanza simbolica della scena esemplifica la concezione sacrale di tutta la realtà perseguita da Ottone, che ha proposto a se stesso e al suo tempo un ideale di convergenza perfetta tra il reggimento cristiano dello Stato – quale è il Sacro Romano Impero – e la realizzazione della vita cristiana che la Chiesa esige da ognuno dei suoi fedeli. La corona è l’attributo della sovranità per eccellenza; è un elemento già costante nell’apparato regale longobardo. La più antica conservata è la cosiddetta corona di Teodolinda, più tardi usata come corona votiva (Monza, Museo del Duomo). Corone a cerchio con rialzi gigliati, pendilia ai lati delle orecchie e archi soprastanti sono soprattutto note attraverso le frequenti riproduzioni sui documenti artistici alto medievali. È a cerchio con rialzi gigliati la corona dell’imperatrice Gisella morta nel 1043 e sepolta nel duomo di Spira; a cerchio con arco quella indossata da Agnese di Poitou nella miniatura del Codex Aureus di Enrico III per il duomo di Spira (1046 ca.). La corona della statua della Maestà di Sainte-Foy a Conques (Trésor de l’Abbaye) unisce l’elemento di base a cerchio con una parte superiore gigliata e ad arco trasversale. La statua della Santa Fede (X sec.) riflette la peculiare consuetudine radicatasi nelle regioni dell’Alvernia di Tolosa e aree limitrofe, di rivestire integralmente di metalli preziosi le statuette-reliquario dei santi patroni, portate in processione o addirittura nelle battaglie, come divinità tutelari.
Una corona a cerchio gigliato tempestato di perle e pietre preziose viene usata forse per l’incoronazione da Ottone III, bambino di tre anni, ad Aquisgrana, nel 983 (Essen, Münsterschatzmuseum). Unica nel suo genere è la corona dell’impero, risalente a epoca ottoniana, ottagonale a placche centinate che vanno dalla fronte alla nuca, con croce frontale e inserti di pietre preziosi ritenuti corrispondenti alla simbologia cosmica. Sono frequenti i casi di smontaggio e aggiornamento delle corone oppure di riutilizzo delle parti più preziose di esse, come nel caso del reliquiario di sant’Elisabetta (Stoccolma, Staten Historiska Museet) che include due archi incrociantisi, forse provenienti da una corona risalente al 1220-1230, appartenuta a Federico II. Rimaneggiata anche la Sacra corona di Ungheria (Budapest, Magyar Nemzeti Múzeum) che nasce dall’assemblaggio di una corona greca a cerchio con placchette a smalto e pendilia risalente all’XI secolo, con una corona latina formata da una struttura ad archi incrociati a formare una croce con otto ritratti di apostoli, la raffigurazione del Pantocratore e la croce.
L’uso di donare le corone, insieme ad altre insegne del potere, alle chiese, è attestato già dall’VIII secolo. Il longobardo Liutprando – il sovrano che formula una cosciente teoria della regalità cattolica – depone l’aurea corona sulla tomba di san Pietro. In seguito si afferma la consuetudine di donare preziose corone ai reliquiari (è il caso del donativo offerto dal re d’Italia Ugo di Provenza, nel X secolo, al reliquiario di san Maurizio a Vienne), oppure a importanti monasteri.
Il baculus, virga, o bastone lungo, sormontato da una sfera, appare nelle illustrazioni dei sovrani carolingi e ottoniani; nel Libro delle Pericopi di Enrico II (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek, Clm 4452) è attribuito anche all’imperatrice Cunegonda. Viene soppiantato dall’XI secolo dallo scettro corto, anche se entrambi gli attributi sono già noti e in uso presso i Carolingi. Il più antico scettro anglosassone proviene da Sutton Hoo (Londra, British Museum), data al pieno VII secolo ed è in pietra, sormontato da bottoni sferici. Il cosiddetto scettro di Carlo Magno (Parigi, Louvre), realizzato nel XIV secolo per Carlo V, è in oro ed è coronato da una sfera decorata di perle e pietre preziose su cui troneggia Carlo Magno.
La lancia è nel tesoro della corona germanica dal X secolo, introdottavi probabilmente da Rodolfo II re di Borgogna e da lui passata agli imperatori ottoniani e salici. Ottone I, al cui tempo la si crede appartenuta a san Maurizio, la porta con sé nella battaglia vittoriosa contro gli Ungari del 955. Singolari e significative le vicissitudini del suo emergente prestigio, che al tempo dell’imperatore Enrico II ne fanno identificare il chiodo immesso nella sua cuspide con quello della croce di Cristo. Dal XIII secolo il suo prestigio raggiunge l’apice venendo a essere ritenuta la lancia con cui Longino aveva trafitto il costato di Cristo. Dall’XI secolo essa viene inserita nel braccio trasverso della Reichskreuz, divenendone reliquia prestigiosa.
Analogamente alla lancia, anche la spada diventa un segno distintivo di potere e sovranità; intorno alla metà del XII secolo si consolida una tradizione perpetuata fin dai Carolingi (ogni sovrano disponeva della propria spada), con l’inserimento dell’oggetto – ad esempio quella laminata in oro sbalzato a girali di Ottone III ad Essen (Münsterschatzmuseum) – tra le insegne della cerimonia dell’incoronazione imperiale. Nella miniatura a tutta pagina del Sacramentario di Ratisbona (Monaco, Bayerische Staatsbibliothek Clm 4456, f. 11r) la scena di investitura di Enrico II mostra il sovrano impugnare verso l’alto con la sinistra la spada e con la destra il baculus. L’aspetto del bracciale regale (armilla) è tramandato dal cerchio in oro filigranato e gemmato che fregia entrambe le braccia protese della statua di Conques; simili elementi sono stati reimpiegati nel montaggio della corona di sant’Osvaldo conservata nella cattedrale di Hildesheim.
Il manto è uno degli ornamenti regali che più d’ogni altro appone il “sigillo” celeste al corpo del sovrano, e i tessuti medievali palesano l’ambizione a indossare tessuti “rappresentativi” attraverso l’ornamentazione di carattere figurativo, allegorico o didascalico. Sul manto che avvolge l’imperatrice Teodora nel mosaico di San Vitale a Ravenna è ricamata una Adorazione dei Magi; una badessa di Quedlinburg aveva ricamato le visioni dell’Apocalisse sul manto donato da Ottone III al convento romano di Sant’Alessio; così il mantello dell’Incoronazione ungherese, donato nel 1031 da santo Stefano, presenta fra i suoi ricami motivi apocalittici (Budapest, Magyar Nemzeti Múzeum). Nel corso dell’XI secolo l’evoluzione del concetto di regalità universale favorisce ogni forma di messaggio che ne sostenga il principio, insieme al messaggio dell’armonioso ordine impresso dal sovrano nel segno dell’unità della fede. Risultano quindi più che mai idonei i simboli astrali o i temi che valorizzano l’astratta immagine del sovrano già sperimentati nell’antica arte mesopotamico-iranica, modellatrice di iconografie, motivi e tematiche di inconfondibile aspetto araldico e spiccato carattere cerimoniale. I tesori di abbazie e chiese medievali europee detengono un vero e proprio corpus di pregiati manufatti tessili importati dall’Oriente persiano-sasanide o dall’Egitto che li imitava o, ancora, da Bisanzio, che all’epoca della dinastia macedone produceva sete “sasanideggianti”.
Il cosiddetto “velo di Carlo Magno” è un simbolico omaggio deposto nella tomba del sovrano al momento della sua riapertura, da parte di Ottone III, nell’anno 1000 (Aquisgrana, Domschatzkammer). Si tratta di una seta istoriata a orbicoli (rotae) con elefanti gradienti disposti davanti a uno stilizzatisssimo albero. L’iscrizione greca ci rivela che essa è il prodotto dell’ergasterion (officina tessile) imperiale di Costantinopoli. Enrico II, canonizzato come la moglie Cunegonda e con lei sepolto nella cattedrale di Bamberga dei quali entrambi erano stati fondatori, riceve un manto (detto Sternmantel, 1014-1020) realizzato in un laboratorio della Baviera secondo lo stile delle pianete già donate da Carlo il Calvo all’abbazia di Saint-Denis, dette Descriptio totius orbis terrarum: ricamato in oro e sete di diversi colori su un profondo blu, è costellato come un cielo notturno di medaglioni e stelle che inquadrano soggetti religiosi e segni dello zodiaco intesi come simbolo dell’universo, distribuiti a raggiera sul semicerchio della veste e intervallati da dediche encomiastiche al sovrano considerato particeps siderum secondo la concezione del potere collegata alla simbologia astrale; fra le scritte in ricamo anche il nome del donatore, il duca Ismaele di Puglia (Bamberga, Diözesanmuseum).
Lo stesso imperatore viene omaggiato nel 1019-1020 di un secondo manto, detto “mantello da cavaliere” (Bamberga, Diözesanmuseum) in seta azzurra integralmente ricamata in oro con motivi di rotae all’interno delle quali è l’immagine di un sovrano a cavallo, che rimanda al tema della caccia eroica strettamente correlato al concetto di coraggio e infallibilità. Entrambe le stoffe tramandano gli schemi compositivi seriali esclusivi del mondo sasanide ma che hanno origine nel mondo mesopotamico. L’antica valenza sacrale delle tematiche di queste stoffe si conserva nel Medioevo occidentale come segno inequivocabile di immenso prestigio.
Il trono medievale deriva le sue forme dall’antichità, sia che si tratti del seggio a quattro gambe e basso schienale (sella curulis), che del faldistorio ripiegabile impiegato per il trasporto, oppure del vero e proprio solium, lo scranno con spalliera e suppedaneo che poteva essere anche dotato di baldacchino di coronamento, ben esemplificato dal trono di maestà della statua di Conques.
È strutturato come una sella curule romana, in bronzo dorato, il “trono di Dagoberto”, risalente all’VIII-IX secolo ma con integrazioni successive, incamerato tra i beni dell’abbazia di Saint-Denis e fatto restaurare dall’abate Suger (Parigi, Bibliothèque Nazionale de France, Cabinet des Médailles); ed è in bronzo il trono di Enrico IV a Goslar (ultimo quarto dell’XI sec.), caratterizzato da una trama di stilizzati racemi acantiformi sensibilmente vicini agli sviluppi vegetali di certi capolettera miniati. Il cosiddetto trono di Carlo Magno ha la struttura marmorea e il sedile in legno di quercia (X sec., Aquisgrana, Duomo). Prospetti in marmo inquadravano i troni, forse a faldistorio o a cassa, delle aule normanno-sicule (Monreale e Cappella Palatina).
È piuttosto ristretto il gruppo dei manufatti erratici prodotti degli opifici normanni dell’Italia meridionale. Il tesoro dei Normanni viene depredato durante la sommossa del 1161 contro Guglielmo I il Malo e ricostituito da Guglielmo II, per passare in possesso degli Svevi con Enrico VI di Hohenstaufen (imperatore del Sacro Romano Impero dal 1191 e re di Puglia e di Sicilia dal 1194) nell’anno in cui questi si unisce in matrimonio con Costanza, figlia di Ruggero II, ereditando il regno normanno dell’Italia meridionale (1194). Il trasferimento del tesoro nel castello di Trifels nel Palatinato renano condanna diversi elementi alla dispersione.
Il manto di Ruggero II (che regna in Sicilia dal 1130 al 1154) viene realizzato nelle officine del Palazzo Reale di Palermo nel 1133-1134 (Vienna, Kunsthinstorisches Museum, Schatzkammer), in sciamito (seta) rosso vivo tinto con il chermès estratto da insetti, e operato con ricami in oro e seta, perle, oro e smalti cloisonné, filigrana a vermicelli e pietre incastonate. Il motivo figurato che abbraccia interamente il manto adattandosi al taglio semicircolare deriva dal repertorio figurativo islamico, a sua volta erede degli schemi sasanidi: da una sottile palma stilizzata – albero della vita – prendono le mosse, addorsate, due speculari e superbe coppie di leoni che abbattono ciascuno un cammello. Il fregio che borda il mantello è costituito da una fascia a fili di perle incornicianti motivi quadrilobati alternati a una serie di piccole piastre a losanga in smalto cloisonné. Lungo l’orlo curvilineo scorre invece un’iscrizione cufica ricamata in oro che riporta la data del 528 dell’egira, corrispondente al 1133-1134, e che in termini elogiativi indica che il lavoro venne confezionato nella fiorente officina reale ubicata nella capitale di Sicilia: una hizanat at-tiraz, cioè l’officina di corte arabo-islamica installata a Palermo. La figura del leone può avere concreti rimandi al simbolismo dello zodiaco. Così, sulle grandi borchie che ornano il manto ai lati dell’allacciatura spicca, su un fondo di smalto cloisonné, il motivo della stella a otto punte formata da due quadrati intersecatesi entro cui si trova un disco collegato con otto raggi all’ottagono esterno di base. Si tratta di un antico motivo probabilmente di origine iranica, già ampiamente diffuso nell’arte orientale e occidentale e assunto nel repertorio cristiano per il suo significato cosmologico. Il disco è d’oro e smalti racchiuso entro una cornice quadrilobata decorata con filigrana a finissimi riccioli di filo d’oro ritorto (vermicelli) e gemme. Per la cornice filigranata è stata impiegata una lega aurea dalla tonalità rossastra, forse l’aurum Arabicum descritto da Teofilo nel De diversis artibus, per meglio adattarla alla seta rossa del manto. Il prezioso drappo non è stato tuttavia indossato da Ruggero II in occasione della sua incoronazione (1130): infatti soltanto nel 1149 papa Eugenio III concede al Normanno e ai suoi successori il privilegio di fare uso di vesti liturgiche in occasione dell’investitura. Ciononostante, Ruggero oltre allo scettro e alla corona ottiene in consegna il bracciale, l’anello e il pallium, cioè la mantellina semicircolare simile al piviale e soprattutto al mantello in questione. A partire dal XIII secolo il manto di Ruggero II costituisce un elemento essenziale del vestiario di re e imperatori del Sacro Romano Impero durante la cerimonia della loro incoronazione, e con buona probabilità viene indossato a Roma nel 1220 dallo stesso Federico II di Svevia, ultimo a incarnare il ruolo di imperatore romano, re tedesco e re delle due Sicilie.
La cuffia rinvenuta all’interno del sarcofago di Costanza d’Aragona, moglie dello stesso Federico II di Svevia, (Palermo, Museo Permanente del Tesoro della Cattedrale), rappresenta l’unico esempio conservato del tipo di corona a calotta, il kamélaukion, ovvero il copricapo con struttura in argento dorato rivestito di filigrana a vermicelli sulla quale si incrociano due bande di tessuto fittamente ricamato di perle che incastonano placchette a smalto policromo. Gemme di varie dimensioni trapuntano le bande e gli spicchi del copricapo. Dal bordo inferiore scendono lunghissimi pendilia destinati a incorniciare il volto. La corona è datata entro il 1222, anno di morte di Costanza; è stato ipotizzato che sia stata deposta nel sarcofago da Federico II, come omaggio alla moglie, solo dopo il suo utilizzo nel corso della cerimonia di consacrazione imperiale a Roma, avvenuta il 22 novembre 1220.
La spada da cerimonia è altro elemento delle insegne imperiali conservato a Vienna; esso mostra sull’imboccatura del fodero lo stesso disegno a quadrilobi di natura cosmica che orna le borchie del manto imperiale. Tuttavia segni di scadimento qualitativo nella tecnica della filigrana farebbero supporre un’imitazione d’epoca sveva estranea ai laboratori palermitani.