I regni ellenistici: Tolemei, Seleucidi, Attalidi
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Nel 280 a.C. ca. nessuno dei generali di Alessandro è più in vita. Si sono venuti a creare tre grandi regni, a cui presto se ne aggiungerà un quarto. Il periodo di circa sessant’anni tra Curupedio e l’intervento romano è stato chiamato quello dell’“impossibile stabilità” (E.Will). Stabilità, perché è in questi anni che si dispiega, senza interferenze esterne e senza grandi cambiamenti politici, il “sistema” di equilibrio tra i regni, e nello stesso tempo si consolidano le caratteristiche economiche, sociali, culturali che rendono l’età ellenistica peculiare. Impossibile, perché tale stabilità è in realtà assai precaria, continuamente minacciata e messa in discussione: i sovrani ellenistici detengono un potere assoluto su territori troppo vasti, senza possedere un apparato che consenta un efficace controllo di tutte le forze centrifughe.
Nell’età ellenistica si legge la vicenda dell’espansione, culturale prima ancora che militare, del modo di vivere “alla greca” in territori eccezionalmente vasti, già dotati a loro volta di una storia e di una cultura, a volte millenaria.
È quindi un’epoca di incontri, e di scontri, che a volte sono stati descritti come un processo di acculturazione: una minoranza di immigrati greco-macedoni (quasi mai più del 10 percento della popolazione complessiva) che impone la propria cultura secondo un modello ben noto, per esempio, nelle esperienze coloniali moderne.
Più di recente è stata invece proposta una interpretazione più complessa, basata sul concetto di ibridazione, vale a dire sulla creazione di una commistione originale, alimentata dai caratteri di entrambe le culture che si sono incontrate e incrociate. Tale modello sembra più consono, in particolar modo, a descrivere situazioni in cui i tratti propriamente greci interagiscono con culture molto caratterizzate, come quella egiziana (H.J.Gehrke).
Il potere nell’età ellenistica si identifica nella figura del sovrano. Già nel IV secolo a.C. il mondo greco aveva mostrato aperture verso l’autorità del monarca, e l’impressionante parabola di Filippo e Alessandro ne aveva mostrato le straordinarie potenzialità rispetto ai farraginosi meccanismi decisionali delle poleis. I re ellenistici sono sovrani assoluti, dotati di pieni poteri che derivano dal diritto di conquista: essi infatti regnano su territori “conquistati con la lancia”. Si tratta quindi di un’autorità in primo luogo militare, che sottolinea il ruolo del re come comandante in capo dell’esercito, al quale è destinata gran parte delle spese statali, dedicate peraltro anche al mantenimento di un apparato di corte sfarzoso (tranne nel caso dei sovrani macedoni, che mantengono almeno in parte l’austerità delle origini). Al lusso e all’immagine esteriore non corrisponde una burocrazia particolarmente numerosa e costosa (qui invece l’eccezione è rappresentata dal regno egiziano, che eredita le strutture amministrative di epoca faraonica): il governo del regno è costituito da poche persone (un primo ministro e un ministro delle finanze sono le figure più importanti), di solito scelte tra gli amici stretti del sovrano, se non tra i suoi parenti.
La creazione di grandi stati territoriali, retti da monarchie assolute, non significa che venga meno l’istituzione tipica del mondo greco. La polis non solo sopravvive, ma conosce anzi, in un certo senso paradossalmente, il suo periodo più splendido, dal punto di vista quantitativo – sono infatti centinaia e centinaia le città di nuova fondazione, specie all’interno del vastissimo regno seleucide, ma soprattutto dal punto di vista architettonico e culturale. Il paradosso sta ovviamente nel fatto che tale rigoglio viene pagato con la perdita di autonomia politica.
Le istituzioni istituzionali, cristallizzate in un’assemblea, un consiglio e svariate magistrature, dietro un’apparenza di attività democratica nell’esercizio delle proprie funzioni nascondono il sostanziale dominio di un notabilato ricco, generoso verso la propria città (è il fenomeno descritto con il termine evergetismo) e attento a mantenere rapporti quanto più possibile buoni con i sovrani e, in genere, con quanti siano in grado di difenderli da eventuali rivolte dei meno abbienti.
Evidentemente le decisioni vengono prese altrove: ma se si pensa che anche nell’età classica gran parte delle comunità era in qualche misura soggetta a poleis più grandi e, quindi, che la loro eleutheria e autonomia era già fittizia; se si pensa, inoltre, come è stato rilevato di recente (J. Ma), che il sentimento civico si mantiene forte anche nelle poleis ellenistiche, dove i cittadini esplicitano tale attaccamento servendo, come avevano sempre fatto, nell’esercito della propria città, si vedrà come il concetto di “morte della polis” con la battaglia di Cheronea sia ormai un concetto desueto e, diciamolo pure, erroneo.
Vediamo allora più da vicino il modello culturale che viene esportato ovunque, anche a migliaia di chilometri di distanza da Atene, dove esso è stato perfezionato nell’età classica.
In primo luogo, viene esportata la lingua greca. Il mondo ellenistico è il mondo della koinè, la lingua internazionale sviluppatasi dal dialetto attico e imposta ben presto dall’élite dirigente greco-macedone come unica lingua della diplomazia, del commercio, della cultura. Una vittoria tanto clamorosa, quella del greco, da non venir messa in discussione neppure dalle armi romane: infatti l’impero di Roma sarà un impero bilingue, nel quale, accanto al latino, in tutti gli sconfinati territori orientali sarà il greco la prima lingua.
Quindi va considerata la diffusione della città come dimensione ideale del vivere in comunità. Si è già accennato al fatto che si contano a centinaia le fondazioni di nuove città, spesso create per dare una sistemazione ai veterani congedati. Abbastanza ripetitive nei nomi (quasi sempre derivati da quelli dei regnanti o dei loro stretti congiunti) e tutto sommato anche nell’impianto urbanistico regolare e nella presenza dei tipici luoghi della socialità greca: santuari dedicati alle divinità, teatri, stadi, bagni pubblici, edifici caratterizzati da lunghi e accoglienti porticati (le stoai) e, soprattutto, ginnasi.
Il ginnasio, vero punto di svolta del processo di ellenizzazione di una comunità, è il luogo principe dell’educazione dei giovani cittadini: educazione sportiva e militare in primo luogo, ma presto anche intellettuale in senso lato.
Rispetto alle poleis di età classica, nelle città ellenistiche di solito si riscontra un accentuarsi della frattura tra centro abitato e campagna, e da questo punto di vista, superficialmente, possono essere descritte come un po’ più simili a quelle medievali e moderne. Grazie soprattutto al contributo dei notabili locali, esse riescono a raggiungere un livello di eleganza ed efficienza impensabile nelle epoche precedenti e del resto non più raggiunto per molti secoli a venire.
Non è questa la sede per esaminare ambiti culturali all’interno dei quali i processi di ibridazione furono particolarmente vivi e importanti, quali per esempio la religione e la filosofia. Tali processi rendono l’età ellenistica un’epoca straordinariamente attuale, per la possibilità che concede, nelle sue infinite sfaccettature, di riflettere su concetti oggi tanto di moda quali globalizzazione e incontro/scontro fra culture.
Il regno tolemaico è il più stabile e longevo dei regni ellenistici. Sostanzialmente inalterato nei confini, con l’Egitto che ne costituisce in ogni momento il fulcro e propaggini nell’attuale Medio Oriente (il punto d’attrito con il confinante regno seleucide è rappresentato dall’attuale valle della Bekaa, antica Celesiria, per il controllo dalla quale vengono combattute ben sei guerre fra il 274 e il 168 a.C.), sarà l’ultimo a essere formalmente assimilato da Roma, nel 30 a.C. All’origine di tale destino, da una parte il peso della storia: l’Egitto è la terra dove è nata e si è sviluppata una delle più antiche civiltà del mondo, ancora capace di connotare profondamente ogni aspetto della vita quotidiana e sociale, molto più che in ogni altro paese conquistato dai Macedoni; dall’altra, la scelta di Tolemeo, confermata dai suoi successori, di rinunciare a qualsiasi sogno universalistico di espansione, per mantenere invece salda l’eredità egiziana dell’impero.
Tolemeo, il vecchio generale di Alessandro, muore nel 283 a.C., quando già da due anni ha associato al trono il figlio: il successivo regno di Tolemeo II Filadelfo (sovrano dal 285 al 246 a.C.) segna, secondo gli stessi contemporanei, l’apogeo dell’Egitto. Qualche dubbio è sorto presso gli studiosi moderni, che vedono nelle impressionanti spese militari e per fini di “rappresentanza” del Filadelfo l’origine delle successive crisi finanziarie. Queste, peraltro, non si manifestano ancora con il regno di Tolemeo III Evergete (sovrano dal 246 al 221 a.C.).
I primi Tolemei adottano rapidamente costumi e atteggiamenti propri dei faraoni: non si peritano di introdurre i matrimoni tra stretti consanguinei, una pratica assolutamente estranea alla cultura greca e sono i primi, nel mondo ellenistico, a favorire un culto ufficiale del sovrano ancora in vita. Mentre Alessandria, a pochi decenni dalla sua fondazione, è ormai la più popolosa città del Mediterraneo e la più viva dal punto di vista culturale (basti pensare al celebre Museo e alla ancor più famosa Biblioteca), il paese sperimenta un’amministrazione capillare, in gran parte ereditata dal passato e ispirata a un controllo rigidissimo dello stato sull’economia del regno. L’abbondante documentazione ci ha permesso di ricostruire almeno in buona parte tale sistema amministrativo, basato sulla divisione del territorio in distretti e sotto-distretti assegnati a specifici funzionari, solitamente di origine greco-macedone, ai quali è affidato il controllo su una gestione fiscale, anch’essa assai rigida e spesso opprimente.
Tutto il territorio del regno è considerato dai Tolemei un possesso privato del sovrano, anche se formalmente solo una parte di esso viene definito “terra del re” (basilikè ghe); altre porzioni di rilevanti dimensioni vengono controllate dai templi e dai sacerdoti che ne sono a capo, costituendo la base fondiaria di un potere quasi autonomo che infatti i sovrani hanno spesso difficoltà a controllare. Altri appezzamenti vengono ceduti ai veterani per dare loro una sistemazione (terra cleruchica).
Oltre alle imposte in denaro, i coltivatori egiziani devono corrispondere al governo parte dei prodotti, di alcuni dei quali poi il governo stesso si arroga il completo monopolio, come per esempio la filiera dell’industria olearia, le miniere, le cave e la produzione di sale. Il prodotto più importante dell’Egitto è comunque il grano, di cui la terra del Nilo rimarrà un grande fornitore anche nei secoli dell’impero romano.
Le conseguenze di una tale economia, non priva di aspetti che modernamente chiameremmo protezionistici (i sovrani proibiscono persino la circolazione di monete straniere nel territorio egiziano), non tardano a manifestarsi: ingentissime ricchezze sono ammassate nelle casse statali. Tutt’altro discorso è se i Tolemei riescano a creare un sistema economico efficiente: la risposta è probabilmente no.
Non diversamente da altri regni nati dalla conquista di Alessandro, i Lagidi (altro nome dato alla dinastia tolemaica, da Lago, padre di Tolemeo) introducono in Egitto una nuova classe dirigente greco-macedone. Greci ed Egiziani convivono senza eccessive frizioni durante il regno dei primi sovrani; gli Egiziani mantengono leggi e tribunali propri, ma in seguito si vedono ristretti gli spazi di autonomia; col tempo i sovrani riescono a sottomettere anche il clero, ridotto di fatto ad occuparsi solo della sopravvivenza spirituale dei templi.
Nelle campagne, poi, si hanno manifestazioni di vero risentimento razziale. I lavori della terra e, in genere, tutti i lavori di livello inferiore sono affidati alla popolazione locale autoctona: per alcuni aspetti si tratta di una forma di servitù applicata a uomini liberi. I funzionari regi ricevono numerose e frequenti lagnanze che si concludono o con la fuga del questuante o con la repressione da parte del funzionario.
La situazione precipita dopo la battaglia di Rafia (217 a.C.), durante la guerra per il possesso della Celesiria, nella quale Tolemeo IV (sovrano dal 221 al 204 a.C.) riesce inaspettatamente a sconfiggere Antioco III, ma è costretto a inserire, per la prima volta in grande numero, gli elementi autoctoni nell’esercito.
Emerge allora una nuova consapevolezza sociale, causando una vasta ribellione che mette in gravi difficoltà il regno sul finire del III secolo a.C. Il potere centrale inizia a disgregarsi: all’interno del paese si creano spaccature tra il Basso e l’Alto Egitto. Il re tenta di correre ai ripari facendo significative concessioni ai templi e rinunciando alle imposte con atti di filantropia. Questa situazione permette di fatto agli indigeni di entrare nella burocrazia, anche perché molti di loro hanno ricevuto un’educazione greca, creando così una situazione di insofferenza interna e una corruzione dilagante.
Il regno del successore, il debole Tolemeo V Epifane (sovrano dal 204 al 180 a.C.) non migliora la situazione. Con i sovrani successivi si manifesta sempre di più l’ingerenza di Roma. Pochi nomi emergono dalle fonti frammentarie: si ricorda, per esempio, la figura discussa di Tolemeo VIII Physkon (“Pancione”, per la sua obesità, re dal 145 al 116 a.C.), famoso per l’espulsione da Alessandria degli intellettuali, costretti a una diaspora in tutto il Mediterraneo, ma capace nondimeno di mantenere le tradizioni di lusso sfrenato proprio della corte faraonica, come mostra l’accoglienza per un’ambasceria romana giunta nella capitale nel 140 a.C.
Gli ultimi anni del regno d’Egitto, è fatto noto, si intrecciano indissolubilmente con le vicende delle guerre civili a Roma: prima tra Cesare e Pompeo, che ad Alessandria muore nel 48 a.C., poi tra Antonio e Ottaviano, con il doppio suicidio di Antonio e Cleopatra dopo l’esito infausto della battaglia di Azio nel 31 a.C. Subito dopo (30 a.C.) l’Egitto diventa provincia romana, segnando la fine formale dell’epoca ellenistica.
Erede della grandezza dell’impero di Alessandro e dell’impero achemenide, il regno seleucide si può considerare vittima delle sue eccessive dimensioni: un processo di sfaldamento comincia infatti già pochi anni dopo la sua formazione.
Il regno si estende dalle coste dell’Asia Minore alle valli dell’Indo attraverso sconfinati territori formalmente conquistati, ma non per questo sottomessi. I vari sovrani che si succedono mostrano, in genere, come sia sostanzialmente impossibile gestire in modo equilibrato i rapporti tra la parte occidentale e la parte orientale del regno. Il cuore di esso va considerato senz’altro la Siria, dove si trovano le città più importanti, che ospitano la fastosa corte: citiamo, tra esse, almeno Antiochia sull’Oronte e Apamea. Tra le vecchie sedi del potere, conserva un notevole rilievo Babilonia.
Già nella prima metà del III secolo a.C. alcune aree si distaccano, creando regni indipendenti. Oltre al regno di Pergamo, si formano i regni di Bitinia, Ponto, Cappadocia e Galazia; dopo la metà del secolo le regioni più orientali della Partia, Ircania e Battriana (l’attuale Afghanistan) si rendono a loro volta indipendenti; uno statuto ambiguo conserverà per un certo tempo il regno di Armenia, prima di raggiungere anch’esso l’autonomia. Il periodo più difficile, dopo il regno di Antioco II (sovrano dal 261 al 246 a.C.), è quello del regno di Seleuco II (sovrano dal 246 al 225 a.C.), a lungo costretto a combattere con il fratello Antioco Hierax (“Avvoltoio”), che cerca di attuare una secessione dell’intera Anatolia. Alla fine di queste lotte fratricide, nel 225 a.C., il regno seleucide è ridotto alla sola Siria, alla Mesopotamia e a parte dell’Iran occidentale.
Dopo il brevissimo regno di Seleuco III, sale sul trono Antioco III il Grande (re dal 225 al 187 a.C.), sovrano energico che si pone come obiettivo la riconquista dell’eredità seleucide, ma che, per un triste destino, alla fine della sua parabola sarà costretto ad accettare il definitivo ridimensionamento del regno, dopo la sconfitta contro i Romani.
Particolare impressione presso i contemporanei (è l’impresa dopo la quale egli si fregia del titolo di Megas, “Grande”) suscita la lunghissima spedizione nelle satrapie orientali (212-205 a.C.), tesa alla ricostituzione dei confini originali del regno, fino all’Indo.
Come molte delle iniziative di Antioco III, i risultati dell’impresa, nella quale è palese la imitatio Alexandri, sono da considerarsi precari, se non del tutto fallimentari, poiché non riescono in alcun modo ad arrestare le tendenze centrifughe dell’Oriente.
Non è più fortunata l’azione nel Mediterraneo occidentale: Antioco firma (203 a.C.) con Filippo V di Macedonia un trattato segreto per la spartizione del regno tolemaico, allora in grave crisi, accoglie Annibale sconfitto e promuove ambiziose iniziative in Grecia. Qui, accolto con molto minor entusiasmo di quanto non sperasse, viene sconfitto alle Termopili (191 a. C.); torna quindi in Asia Minore e viene sconfitto nella battaglia di Magnesia sul Sipilo (189 a.C.) dall’esercito romano. La pace di Apamea (188 a.C.) segna il forte ridimensionamento del regno, attanagliato anche da una grave crisi finanziaria. Emblematica della sua dimensione tragica è la morte del vecchio re durante il saccheggio di un santuario, per cercare di ovviare, appunto, alle difficoltà di bilancio, rese insostenibili dal pagamento annuale di un’enorme indennità di guerra a Roma.
Dopo gli sforzi sfortunati di Antioco III, il declino del regno seleucide procede inarrestabile. Antioco IV Epifane, (sovrano dal 175 al 164 a.C.) tenta una rinascita ellenizzante favorendo l’acquisizione di modelli e costumi greci, attacca l’Egitto ma viene rimesso al proprio posto dai Romani, ormai detentori di un ruolo di controllo sulla Macedonia e mediatori della politica tolemaica. L’episodio con cui Popilio Lenate ferma il sovrano con un irrispettoso ultimatum è straordinariamente rivelatore dei nuovi rapporti di forza.
Dalla sua morte alla conquista definitiva del regno ad opera dei Romani passa un secolo, durante il quale i re seleucidi sono ridotti a figure di ben poco spessore politico che non riescono in alcun modo a frenare la disgregazione territoriale, nonché, di volta in volta, situazioni di vera e propria anarchia.
La pressione dei regni orientali costituisce un ulteriore elemento di disgregazione: a causa della pressione dei Parti alla metà del II secolo a.C., l’Iran e la Mesopotamia vengono perdute e il regno si riduce alla sola Siria. Le lotte interne ed esterne creano situazioni di collasso politico ed economico tali da permettere l’espansione di tutti i regni orientali ai danni di quei territori che un tempo erano stati del grande impero persiano prima, dei grandi sogni di Alessandro e infine del regno seleucide.
Nel 63 a.C., ponendo finalmente fine all’agonia della dinastia seleucide, Pompeo crea la provincia di Siria.
Molto più complessa e gravida di conseguenze per gli equilibri dell’età ellenistica risulta la secessione di Filetero, ufficiale di Lisimaco, incaricato di difendere il presidio di Pergamo, una rocca in eccezionale posizione difensiva non lontana dalle coste settentrionali dell’Asia Minore. Filetero è una complessa figura a metà strada tra la cultura persiana e la nuova dominazione greco-macedone: è nato infatti sotto il dominio persiano e, secondo l’uso orientale, sembra fosse un eunuco; entra senza problemi al servizio dei generali macedoni, assimilandone i costumi. Nel 282 a.C. ottiene da Seleuco I il potere sulla città di Pergamo con la condizione di rimanere sottomesso ai Seleucidi; venti anni dopo Eumene I (sovrano dal 263 al 241a.C.), nipote di Filetero, attacca Antioco I, lo sconfigge e crea il regno di Pergamo. Un regno piccolo e “sproporzionato” rispetto alle grandi potenze ellenistiche, retto dall’unica dinastia di origine non macedone, che riuscirà però a giocare un ruolo di primo piano nella politica internazionale dei secoli successivi.
Uno dei suoi punti di forza è l’eccezionale stabilità: nel corso della sua esistenza, il regno ha solo cinque sovrani; il periodo di maggior fulgore è dominato dalle figure di Attalo I Sotere (sovrano dal 241 al 197 a.C.) e di Eumene II Sotere (sovrano dal 197 al 159 a.C.). Il primo porta il regno alla sua massima estensione, sconfiggendo i Galati in due battaglie che permettono di celebrare il vincitore in splendide opere artistiche. Pergamo si avvia a diventare una delle più splendide città dell’epoca ellenistica (e più ancora con il successore Eumene) costruita com’è non più secondo lo schema geometrico ippodameo, ma su diversi livelli strutturali, a causa della posizione arroccata, con meravigliose stoai e bellissimi templi. Inoltre Attalo, non diversamente dai suoi successori, attrae a corte filosofi, letterati e scienziati, trasformando la capitale in un centro culturale non inferiore alla stessa Alessandria d’Egitto.
Eumene II mostra fin da subito, in politica estera che, una aperta propensione verso i Romani. Gli Attalidi, come viene chiamata la dinastia pergamena, sono in effetti i più fedeli alleati nelle complesse vicende che condurranno Roma a dominare il mondo ellenistico. E il suo successore Attalo II (sovrano dal 158 al 138 a.C.) non esita a correggere alcuni tentativi di autonomia del predecessore, accettando una sottomissione esplicita. Naturale esito di questa politica è il passaggio del regno al dominio diretto di Roma, al termine del breve regno della complessa figura dell’ultimo re attalide, Attalo III (sovrano dal 137 al 133 a.C.). Il tentativo di un nipote, Aristonico, di continuare la dinastia, con il nome di Eumene III, viene represso dai Romani, non senza fatica, a causa delle forze smosse dal pretendente al trono, nei quattro anni successivi, fino al ristabilimento del completo controllo e la riduzione del territorio a provincia d’Asia (129 a.C.).