I prefetti e la città nei primi decenni postunitari
Il 26 marzo 1888 il consiglio comunale di Venezia decise all’unanimità di intitolare una calle sul retro della chiesa dei SS. Giovanni e Paolo a Luigi Torelli, prefetto della Provincia di Venezia dal 1867 al 1872, che era morto nel novembre dell’anno precedente. Nel suo testamento Torelli aveva lasciato in eredità alla città un edificio situato in quel luogo, che egli aveva acquistato negli anni della sua permanenza a Venezia. La sua idea originale era di demolirlo una volta che fossero stati acquisiti gli edifici vicini, in modo da liberare completamente lo spazio intorno alla chiesa e da potervi creare un «gran tappeto verde [...] semplicemente ad erba». La speranza di Torelli era che un giorno o l’altro il consiglio comunale avrebbe realizzato i suoi piani; ma sebbene il consiglio si dichiarasse a favore del progetto, intorno alla chiesa non vennero mai realizzati né una piazza né uno spazio verde, e la calle Torelli, che oggi è perfino priva di una targa che ne indichi il nome, è forse l’unica ‘strada’ veneziana intitolata a un prefetto. Nonostante l’omaggio dovuto che Venezia rivolse al suo ex prefetto, i rapporti fra la città e la prefettura erano stati piuttosto formali, e in qualche momento decisamente conflittuali. La stampa locale dell’epoca, che dava molto rilievo ai conflitti in campo politico e amministrativo, era solita enfatizzare lo scarso interesse del prefetto per le questioni locali. Considerato lo stato precario della documentazione archivistica è difficile, per quanto non impossibile, inquadrare il problema in un’altra luce. La storiografia ha da parte sua ampiamente trascurato di indagare l’interazione, sia positiva che negativa, fra l’amministrazione locale e il prefetto di Venezia, e fra quest’ultimo e il governo italiano. Con la presenza del prefetto a palazzo Corner, tuttavia, lo Stato italiano era più vicino alla città di quanto spesso non si sia portati a credere.
Scopo di questo contributo è discutere l’opera politico-amministrativa della prima generazione di prefetti, mettendone in luce i concreti meccanismi di funzionamento, con particolare riguardo alla città di Venezia. Il punto di partenza è costituito dalla riconversione amministrativa ed economica che ad essa era richiesta per poter affrontare il periodo che si apriva con l’annessione al Regno d’Italia. Per la terza o la quarta volta dall’epoca della caduta della Repubblica, Venezia dovette familiarizzarsi con una nuova realtà politica e sociale, e assumere un ruolo nuovo nei confronti sia del proprio hinterland che del più vasto mondo. Per quanto riguarda la grande maggioranza della popolazione, l’annessione non rappresentò una conquista ostile. Purtroppo, però, la trasformazione che ne conseguì avrebbe avuto luogo in un periodo di depressione economica.
Nell’autunno del 1866 né il governo italiano né l’élite politica locale avevano idee chiare riguardo al futuro della città, e nei discorsi ufficiali imperava la retorica risorgimentale. Le cronache riferiscono che quando il re visitò il territorio da poco acquisito la gente si sporgeva dalle finestre e saliva sui tetti per vederlo. Ma le manifestazioni di giubilo durarono poco. Come ha giustamente osservato Emilio Franzina, «a metà novembre del 1866, [...] partito il re, rimanevano i problemi»(1). Problemi che né i politici, così occupati dalle tante difficoltà che il giovane Stato poneva, né l’élite locale, che divideva il suo tempo fra i palazzi cittadini e le proprietà rurali, erano ansiosi di affrontare. Fra quanti erano attivamente e costantemente impegnati nello studio per il miglioramento delle condizioni della città, i prefetti occupavano senza dubbio una posizione di rilievo. In una delle sue prime relazioni il regio commissario (e in seguito primo prefetto) Giuseppe Pasolini si lamentò per la diffusa disoccupazione e per la concomitante ondata di suppliche che gli venivano indirizzate per ottenere un sussidio o un lavoro. Da parte sua, egli non poteva far altro che incitare le amministrazioni ad offrire assistenza sotto forma di lavori pubblici. Il primo impegno di Pasolini, tuttavia, consisté nell’organizzare la transizione amministrativa. Dopo due mesi il suo posto venne preso da Torelli, che sarebbe rimasto alla guida della Provincia per oltre cinque anni — un incarico dalla durata insolitamente lunga per un prefetto dell’Italia liberale. Si può dire che con lui ebbe effettivamente inizio l’‘italianizzazione’ di Venezia.
Come appare dalle ultime volontà espresse nel suo testamento, Luigi Torelli credeva fermamente nella possibilità di realizzare un vasto piano di sviluppo della città. Le sue relazioni alla rappresentanza provinciale sulle condizioni economiche della provincia e del suo famoso capoluogo testimoniano una preparazione e una pianificazione accurate. Nel 1870 pubblicò una statistica generale della provincia, scrivendo personalmente l’ampio capitolo dedicato alla laguna. E le sue osservazioni non si limitavano certo a una pura riflessione teorica. Torelli fu infatti al centro di iniziative concrete, che riguardarono un’ampia gamma di settori amministrativi ed economici. Ad esempio, fu profondamente coinvolto nei progetti che avrebbero dovuto consentire all’Italia — e a Venezia in particolare — di trarre vantaggio dall’apertura del canale di Suez, e manifestò un amaro dispiacere quando — a suo avviso — l’élite locale non si mostrò abbastanza interessata alla questione. Fu inoltre l’elemento trainante di una serie di piani per il miglioramento delle infrastrutture urbane, che riflettevano una sensibilità che mi sembra ben diversa da quella «assoluta incomprensione [...] della natura e dei caratteri della città» che gli è stata attribuita(2).
I successori di Torelli non furono meno attivi nella «politica di incentivi» rivolta alla città. Carlo Mayr si impegnò nella vicenda dell’abolizione del portofranco e in seguito — quando le conseguenze di quel provvedimento si rivelarono disastrose per l’industria portuale — nel tentativo di creare dei «punti franchi». Luigi Sormani Moretti, prefetto dal 1876 al 1880, fu probabilmente il funzionario che profuse l’impegno maggiore, ma allo stesso tempo il protagonista dei più emblematici fallimenti. Come Torelli, egli pubblicò un ponderoso volume statistico sulla provincia, a coronamento di un progetto nel quale si era imbarcato «con vero amore, profondamente persuaso, che ove i dati e le ragioni statistiche potessero essere rilevati esattamente e fatti parlare colla verità più scrupolosa, avremmo facilmente potuto guardarci tutti da quelle geremiadi lamentose, da quei fiacchi scoraggiamenti o anche, se si vuole, da quelle illusioni troppo rosee, in cui sembra talora assopirsi il senso pratico e reale della vita»(3). Le sue relazioni generali al Ministero dell’Interno segnalavano invariabilmente la necessità di adottare provvedimenti economici specifici per scongiurare l’ulteriore declino della città e della regione. Ma i suoi appelli rimasero senza risposta, in gran parte perché — come egli stesso riconobbe — nella seconda metà degli anni Settanta la posizione del prefetto aveva perso molto del suo prestigio originario. Pietro Manfrin, che prese il posto di Sormani, scrisse un’opera sull’economia veneziana dalla quale emerge una profonda conoscenza della città e della laguna ma, analogamente ai suoi predecessori, alla fine non fu capace di modificare il destino della Serenissima.
Per quanto le iniziative modernizzatrici dei prefetti veneziani costituiscano l’elemento centrale della mia indagine, non intendo suggerire che ogni attività dei prefetti costituisse un fulgido esempio di dedizione disinteressata e neutrale. Per alcuni dei suoi contemporanei Torelli era il «tiranno delle Lagune», mentre i tentativi di Mayr di controllare le elezioni, diretti in modo particolare contro il partito clericale, rappresentavano esempi di una patente interferenza governativa. In generale, tuttavia, il fatto che la presenza dei prefetti avesse in definitiva un effetto limitato non può essere attribuito alle reazioni, comprensibilmente indignate, che interventi a forte contenuto politico come quelli di Mayr potevano suscitare. Se la paragoniamo agli altri maggiori centri urbani del Regno, Venezia era una città in grado di governarsi in modo ragionevolmente adeguato, nonostante gli acuti contrasti al suo interno e i due casi di scioglimento del consiglio comunale nel 1868 e nel 1882(4). Non era necessario, quindi, che i rappresentanti dello Stato intervenissero continuamente negli aspetti essenziali dell’amministrazione comunale. In linea generale, occorre poi non sottovalutare il fatto che i prefetti dell’Italia liberale si sentivano di solito sinceramente vincolati dalla legge(5). Si è soliti considerare le leggi amministrative dello Stato unitario come un esempio di forte centralismo e di oppressione nei confronti del governo locale; tuttavia, le norme in se stesse non erano tali da giustificare queste critiche. Dopo tutto, una legislazione simile era in vigore anche in altri paesi dell’Europa occidentale, senza che ciò sollevasse condanne altrettanto dure e costanti. Come altre leggi amministrative di impronta liberale, quella comunale e provinciale italiana lasciava in realtà un ampio margine di iniziativa ai poteri locali. Di solito i prefetti non operavano in senso contrario e intervenivano solo quando le amministrazioni comunali svolgevano le loro funzioni in modo del tutto inadeguato, provocando ogni volta un inasprimento dei già tesi rapporti fra lo Stato e il governo locale. Ma anche in questo caso i poteri dei prefetti erano limitati. Essi erano preparati ad agire soprattutto, e in primo luogo, come mediatori, e non come diretti promotori di iniziative. Non sorprende, quindi, che spesso si trovassero ad agire fra due fuochi: da una parte, il governo centrale non disponeva di mezzi sufficienti per venire incontro a tutte le richieste provenienti dalla periferia, e quindi raramente i prefetti erano in grado di offrire incentivi; dall’altra, il governo locale era a sua volta tormentato dalla ristrettezza dei bilanci, e doveva soppesare con grande prudenza ogni voce di spesa facoltativa. Come vedremo, queste considerazioni generali si applicano in modo particolarmente calzante al caso di Venezia.
Il primo funzionario nominato a capo della Provincia, il conte Giuseppe Pasolini (nato a Ravenna nel 1815 e morto nel 1876), dovette cominciare dalle cose più essenziali. Al momento del suo insediamento trovò palazzo Corner, che fin dal periodo napoleonico era stato adibito a residenza degli occupanti stranieri e a sede della prefettura, spoglio di tutti i suoi arredi. Insieme ai tesori artistici e agli archivi, gli austriaci avevano infatti portato via dalla loro luogotenenza tutto il possibile. Pasolini, che in precedenza era stato ministro degli Esteri e diplomatico, era abituato ad un certo lusso, e sollecitò il Ministero dell’Interno a destinare una somma consistente al rinnovo dei locali. Scorrendo l’elenco di mobili, tende, biancheria, stoviglie e posateria che la ditta David Levi fornì nel novembre del 1866 per predisporre i locali ad ospitare la famiglia Pasolini, ci si può fare un’idea dello stato di desolazione nel quale doveva trovarsi il palazzo. Si dovette provvedere all’intero arredamento, dai letti alle toilettes, dai tovaglioli alle zuccheriere, dagli specchi alle credenze. Le esigenze di Pasolini, poi, non erano certo modeste. Non solo dispose costosi preparativi per il proprio alloggio, ma fece sistemare anche alcune stanze completamente ammobiliate per un cuoco, un domestico e due cameriere. Si rivolse poi a vari negozianti specializzati per ordinare bicchieri, porcellane, lampade, un «governo di campanelle e serrature» e, cosa alquanto significativa, due nuove chiavi(6). La ristrutturazione di palazzo Corner, edificio cinquecentesco di Jacopo Sansovino, fu fortemente condizionata dalla struttura originale, che mal si conciliava con le esigenze di una moderna burocrazia. Nel 1870, cercando di giustificare gli alti costi di gestione della prefettura, Torelli mise in rilievo che la distribuzione degli uffici in locali dai soffitti alti e situati al secondo piano sul lato nordorientale del palazzo era causa di notevoli problemi per il riscaldamento e per l’illuminazione. Egli aveva ridotto il numero delle stufe al minimo essenziale, e riteneva che ulteriori restrizioni avrebbero sottoposto i suoi impiegati a condizioni di lavoro intollerabili. Dato che il suo ufficio era collocato al primo piano, era poi indispensabile utilizzare un servizio di messi interno, che gravava ulteriormente sul bilancio(7).
Nonostante tali problemi, risistemare palazzo Corner per far fronte alle nuove esigenze era comunque un compito incomparabilmente più facile che innestare il progetto amministrativo liberale nelle province ex austriache. Pasolini, molto amico di Minghetti, era un funzionario con una notevole esperienza alle spalle, che aveva diretto le prefetture di Torino e di Milano nei primi anni dopo la proclamazione del Regno ed era stato anche ministro degli Esteri con Farini. La sua nomina fu chiaramente un atto politico, con il quale si intendeva sottolineare il serio impegno del governo e probabilmente preparare la strada a chi avrebbe potuto condurre Venezia nell’«era della prosa». L’incarico di Pasolini ebbe infatti termine con la caduta del secondo governo Ricasoli, nell’aprile del 1867. La sua attività fu incentrata sull’impianto di un’infrastruttura amministrativa funzionale alle nuove «libere istituzioni», in modo particolare per quanto riguardava l’organizzazione delle elezioni amministrative e di quelle politiche. Attraverso Luigi Berti, il suo vigile e attivo capo della polizia, Pasolini mantenne sotto stretto controllo il comportamento delle classi lavoratrici e seguì con straordinario interesse le mosse dei clericali, dei garibaldini e degli altri gruppi sospettati di nutrire progetti sovversivi. In ciò non vi era niente di originale; la classe dirigente liberale del nuovo Stato, per quanto fosse senza dubbio intenzionata ad ampliare la propria base politica e sociale, si sentiva fortemente minacciata dalle forze di opposizione interne, sia di destra che di sinistra, e ciò finì per complicare ulteriormente il «comando impossibile» dello Stato italiano(8). Fu in particolare la forte resistenza cattolica a tenere occupati per diversi decenni i prefetti veneziani. Pasolini attinse ai rapporti di Berti anche per informare il governo sulle condizioni economiche e sociali della provincia(9). Ricasoli non rimase certo indifferente di fronte alle osservazioni del suo prefetto, e promise che avrebbe compiuto uno studio speciale in merito alla stagnazione dei lavori pubblici(10). Tuttavia, sia il governo Ricasoli che l’incarico di Pasolini ebbero una durata troppo breve perché i due potessero dar seguito alle loro buone intenzioni.
Il successore di Pasolini, Luigi Torelli (nato nel 1810 a Villa di Tirano, in provincia di Sondrio), era a sua volta ben inserito nei più elevati ambienti politici. Deputato di Arona e Intra dal 1849 al 1858, senatore fin dal 1860 e ministro dell’Agricoltura, industria e commercio nel governo La Marmora (1864-1865), aveva accumulato la necessaria esperienza amministrativa come prefetto a Bergamo, a Palermo e a Pisa. Torelli dette prova di quanta attenzione prestasse agli interessi in conflitto nella sua provincia quando, in una delle sue prime circolari, mise in guardia i sindaci affinché evitassero contrasti con il clero locale in occasione della festa dello Statuto. La celebrazione, precisò, era essenzialmente un rito civile; i parroci sarebbero stati i benvenuti qualora volessero contribuire ai festeggiamenti, ma in caso di un loro rifiuto le autorità locali non avrebbero dovuto provocarli facendo ricorso a parroci di altre zone(11).
Per Torelli, tuttavia, la prudenza non era sinonimo di mancanza di iniziativa. Al contrario, nell’arco di un anno dal suo arrivo, egli dimostrò che nessun settore della vita pubblica veneziana era da ritenersi intoccabile. Il suo progetto amministrativo, come quello di molti prefetti che operarono nei primi decenni dopo l’Unità, mirava a raggiungere la piena integrazione della provincia nello Stato italiano e una rapida ricostruzione economica. L’elemento chiave per la ripresa, non solo per la città e la provincia di Venezia, ma per l’intero Veneto, era il porto del capoluogo. Torelli, che era stato coinvolto nel progetto per l’apertura del canale di Suez fin dalla metà degli anni Cinquanta (quando strinse un’amicizia con Pietro Paleocapa che durò per tutta la vita), scorse chiaramente quali potevano essere per Venezia i benefici della nuova rotta commerciale. Poco prima di essere nominato prefetto di Venezia, anzi prima ancora di venire a sapere della propria candidatura, egli aveva scritto una memoria sul canale di Suez, che avrebbe in seguito utilizzato per suscitare l’interesse delle Camere di commercio sulla questione, mettendone in luce le opportunità commerciali per l’Italia(12). Quando — come prefetto — ebbe notizia dell’offerta di una compagnia egiziana per stabilire un servizio diretto di navi a vapore fra Alessandria e Venezia, cercò immediatamente di mobilitare l’élite commerciale veneta con l’esplicita proposta di creare un pool finanziario(13). Inoltre, sollecitò con una circolare gli altri prefetti veneti a richiedere un sussidio ai rispettivi consigli provinciali. Egli riteneva che l’Italia fosse certamente indietro rispetto agli altri paesi nel campo della navigazione a vapore, ma era convinto che l’opportunità andasse comunque colta. Quanto all’apertura della ferrovia del Brennero, essa avrebbe enormemente esteso l’hinterland di Venezia, aiutandola a recuperare il terreno perduto rispetto a Trieste(14). Egli condivise l’attività di promozione degli interessi commerciali di Venezia con un gruppo di lungimiranti intellettuali e ingegneri, che imputavano al regime austriaco di aver trascurato l’economia regionale e nutrivano grandi speranze per un futuro di sviluppo nell’ambito dello Stato unitario(15). Per poter promuovere gli interessi comuni, Torelli tenne una serie di letture all’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti, che lo aveva accolto fra i suoi membri poco dopo il suo arrivo a Venezia. Il tema delle dieci letture, che furono pubblicate negli «Atti» dell’Istituto, era il confronto fra lo stadio di avanzamento dei lavori per il traforo del Moncenisio e quello delle opere per il taglio dell’istmo di Suez. Nella sua esposizione le similitudini fra i progetti non erano semplicemente frutto di coincidenze, ma diventavano esempi del progresso dell’umanità e venivano considerate come importanti opportunità di investimento: «Ora parmi essere quelle opere a tale punto che l’avere di quando in quando sott’occhio questo parallelo debba riuscire cosa interessante e non di semplice curiosità; parmi possa chiamarsi l’appello all’attività il più efficace»(16). Nel sesto «parallelo» Torelli affrontò in modo deciso la questione del porto di Venezia. Nel 1867 erano iniziati i lavori di scavo del canale fra la bocca di Malamocco e il bacino di S. Marco, che avrebbero dovuto consentire alle navi di grosso tonnellaggio di raggiungere la città. Torelli prevedeva ancora che il completamento del progetto potesse avvenire entro la fine del 1870, data che comunque considerava troppo avanzata in relazione all’apertura del canale di Suez. Una volta che le rotte commerciali fossero state attivate, sosteneva, sarebbe stato difficile modificarle(17). Con il senno di poi, tuttavia, si può senz’altro affermare che lo sviluppo del commercio navale internazionale e il suo impatto su Venezia andarono ben oltre i calcoli di Torelli. Il completamento di un porto moderno avrebbe richiesto diversi decenni, un tempo talmente lungo che egli non avrebbe potuto immaginarlo neppure nei suoi incubi peggiori; già dopo qualche anno, tuttavia, i benefici del canale di Suez divennero visibili. Un regolare servizio di navi a vapore dall’Egitto venne attivato a partire dal 20 luglio 1872, una settimana prima del decreto che ufficializzò le dimissioni di Torelli(18).
Verso la fine del 1867 Torelli espose di fronte alla deputazione provinciale gli altri suoi progetti per Venezia. Sebbene si trattasse di sedute che in genere non avevano carattere pubblico, egli si premurò che il suo discorso venisse pubblicato sia dalla tipografia della «Gazzetta» che dalla tipografia Antonelli. A quel tempo aveva già compreso che i suoi tentativi di ottenere il sostegno pubblico per l’attivazione di una linea navale erano falliti. Sapeva fin troppo bene che i veneziani non si aspettavano meraviglie dallo Stato italiano, ma a causa della scarsa disponibilità ad investire dei capitalisti locali si rese anche conto di avere bisogno di argomenti forti per convincerli. L’esperienza gli insegnava che spesso le statistiche potevano rivelarsi più efficaci delle parole; così, con l’intento di impressionare l’uditorio, aprì il suo discorso alle autorità provinciali con un confronto statistico. Non si può certo pensare che la depressione economica dell’epoca fosse sfuggita all’attenzione dell’élite locale; ma posti di fronte alla crudezza di quei dati, che mettevano in evidenza il declino di quasi tutte le attività economiche fin dai primi anni Quaranta, i veneziani avrebbero forse potuto sentirsi più inclini a dar prova di spirito di iniziativa, a fare uso di «quella libertà d’azione, che le leggi nostre accordano per isvolgere ogni genere di attività»(19). Torelli si limitò semplicemente a rilevare la differenza fra i dati statistici relativi alla metà degli anni Quaranta e quelli più recenti, con riferimento alle volture d’estimo, ai mutui, all’affluenza al Monte di pietà, agli ingressi di navi nel porto e ad altri indici significativi(20). Da parte sua, avanzò la proposta di compiere una serie di statistiche generali, per le quali richiese un sussidio al consiglio provinciale. A tale riguardo si rifece molto probabilmente all’esempio delle numerose statistiche dipartimentali francesi prodotte in età napoleonica. Nell’Italia liberale, come e quanto sotto il regime napoleonico, le statistiche prefettizie erano concepite in funzione di sostegno al nuovo ruolo che l’amministrazione pubblica doveva svolgere nei confronti della società(21). All’epoca in cui era prefetto di Pisa, Torelli aveva già pubblicato uno studio statistico di quella provincia, che era apparso nel 1863. La dettagliata Statistica della provincia di Venezia, pubblicata nel 1870, corrispose pienamente ai suoi obiettivi, per quanto nella prefazione egli vi affermasse modestamente che essa poteva essere «considerata la base di una assai migliore»(22). Torelli aveva ripartito il lavoro preparatorio tra funzionari dello Stato e privati cittadini, in modo da disporre di specialisti per ogni materia e, quel che è più importante, aveva promosso il sorgere di un interesse e di un senso di identità comuni fra l’élite intellettuale e quella amministrativa della provincia. Come vedremo, uno dei suoi successori, Luigi Sormani Moretti, poté far leva su tale consenso per preparare un volume statistico ancora più ampio. La scelta di Torelli di scrivere di proprio pugno il capitolo sulla laguna non è priva di significato: «Io credo che il Capo della provincia di Venezia debba portare su quella la sua speciale attenzione, perché nel buon regime della laguna sta la prosperità di Venezia e di gran parte della sua Provincia»(23). Forse egli sperava che la sua opera sarebbe stata considerata come il seguito amministrativo a Venezia e le sue lagune, pubblicato nel 1847 presso la tipografia Antonelli (la stessa che aveva pubblicato la Statistica di Torelli) in occasione del IX congresso degli scienziati italiani. Le intenzioni di Torelli erano per molti aspetti simili a quelle delle famose personalità che avevano contribuito a Venezia e le sue lagune, come Agostino Sagredo e Daniele Manin, i quali avevano cercato di riscrivere il passato di Venezia in un’ottica risorgimentale(24).
Per la città di Venezia Torelli aveva in mente un «piano complessivo», «un vero programma di quanto occorre e si ritiene indispensabile per uscire dalle attuali condizioni»(25). Egli sottolineò, comunque, che la responsabilità di tale piano spettava in primo luogo e soprattutto alle autorità locali. Nella sua relazione del 1867 alla deputazione provinciale precisò che voleva rivolgere la sua attenzione ad alcuni problemi che aveva individuato come meritevoli di una speciale indagine. Oltre ai piani riguardanti il porto e la sua connessione con il canale di Suez, ai quali abbiamo accennato sopra, Torelli mostrò un notevole interesse per alcuni progetti urbanistici. Il suo impegno per riorganizzare lo spazio urbano sembrava alimentato, in primo luogo, da una sincera preoccupazione per la salute pubblica che egli condivideva con molti riformatori sociali del suo tempo e, in secondo luogo, da un desiderio dal carattere quasi ‘imperiale’ di lasciare la propria impronta sul volto della città. Quest’ultimo aspetto, tuttavia, non emerse realmente che verso il termine del suo mandato. Prima della fine del 1867 Torelli aveva fondato una Società per l’aereazione delle calli. Dapprima riuscì ad ottenere la concessione di un sussidio di 10.000 lire da parte del Ministero dei Lavori pubblici; dato che la Società non era un ente giuridico, il denaro dovette prima essere assegnato al Municipio, che lo trasferì quindi al prefetto(26). Torelli non esitò poi a ricercare aderenti in qualsiasi parte del paese; da Pisa, il suo amico senatore Giuseppe Arconati contribuì subito con un versamento di 100 lire, semplicemente perché il progetto gli piaceva(27).
In un’epoca nella quale il colera e altre malattie epidemiche costituivano ancora una minaccia ben presente, non sorprende che Torelli rimanesse colpito dalle insalubri condizioni di alcune zone della città. Come scrisse nelle sue memorie, nei primi tre mesi successivi al suo arrivo, «finito l’ufficio ogni giorno andavo a visitar nuove calli, nuovi vicoli taluni anzi molto luridi e d’un’umidità strana da sembrar impossibile come non vi fossero frequenti malattie contagiose e la salute in genere non fosse per nulla al di sotto della media generale»(28). È difficile valutare quanto Torelli fosse consapevole dell’unicità di Venezia e quale fosse la sua sensibilità storica rispetto alle questioni urbanistiche. Forse, come nota Giandomenico Romanelli, Torelli usava il termine «calle» per indicare quella che propriamente è una «corte», e il suo interesse si concentrava in modo eccessivo sulle demolizioni, aspetto questo che lo pone sullo stesso piano di tutta una generazione di «igienisti», che in nome della salubrità abbatterono interi centri storici urbani in tutta Europa e, ad esempio, interrarono i canali delle città olandesi — con operazioni che dal nostro punto di vista appaiono un affronto ai danni del tessuto urbano(29). A parte ciò, i suoi interventi ebbero in definitiva un successo alquanto limitato, ed egli stesso ritenne che la sua maggiore realizzazione fosse stata la costruzione del modesto bacino Orseolo(30). Nelle sue memorie descrisse con dovizia di particolari come fosse riuscito a portare a termine il progetto in un tempo relativamente breve. Ciò che lo spingeva ad agire non era tanto un obiettivo economico — la costruzione di un approdo presso piazza S. Marco — quanto piuttosto lo stato miserevole di un gruppo di case facenti parte della fabbriceria di S. Marco, messe sul mercato in conseguenza della legge sulla vendita dei beni ecclesiastici, e che erano situate fra il rio del Cavalletto, la calle della Cason e parte della calle del Salvagedo. Secondo Torelli, il canale posto dietro l’Arco Celeste era fonte di un «fetore insopportabile»; «da quel canale», sosteneva, «si elevano gas solfidrici in tal quantità che bastava che si dimenticasse aperte le finestre di una delle case fronteggianti il canale perché quanto si trovava argento od argentato come posate pendole od altro in 24 ore fosse nero»(31). Il fatto che un certo numero di appartamenti fossero occupati da «pollaiuoli» non faceva che aggravare la situazione. Molti anni dopo, intento a scrivere la sua autobiografia, sembrava ancora sentire l’odore di quel posto: «Entrammo in una piccola corte [quindi, tale concetto gli era noto], mi sorprese un odore di concime di polleria ma strano per intensità, troviamo l’inquilino che ci dice esser negoziante in polli e poi ci apre un locale d’onde usciva un odore da dover retrocedere. Il locale era pieno di caponaie una sopra l’altra e tutte piene, non è che così vivessero sarebbe stata cosa impossibile anche per mancanza d’aria, ma li concentravano lì il giorno o qualche giorno prima della vendita, certo posso dire che in punto a fetore era proprio qualcosa da toccar l’estremo del sopportabile»(32).
Lo spirito di iniziativa di Torelli era tale da spingerlo non solo a uscire da palazzo Corner per visitare di persona ogni angolo della città, ma anche ad oltrepassare i limiti legali impostigli dalla natura pubblica del suo incarico. Nel caso della demolizione delle case che dovevano far posto al bacino Orseolo, egli fece appello al ministro dell’Interno Gualterio «con calde raccomandazioni private» perché sostenesse il progetto. Una volta che ebbe raccolto la somma occorrente per l’acquisto delle case, utilizzò il proprio nome per stipulare l’atto di compravendita, in quanto la Società per l’aereazione delle calli, come abbiamo visto, non aveva personalità giuridica. Dato che il suo unico scopo era quello di demolire gli edifici, riteneva che in una procedura tanto insolita non vi fosse niente di male. Torelli prestò senza problemi il proprio nome anche a una società privata che aveva lo scopo di costruire alloggi economici per i poveri: insieme ad altri rappresentanti dell’élite locale, come il sindaco Giovanni Battista Giustinian e gli assessori Antonio Fornoni ed Elia Vivante, entrò a far parte della Società edificatrice di case per operaj a Venezia, che non solo amministrava i nuovi palazzi per operai costruiti nei terreni precedentemente occupati dalla chiesa di S. Ternita a Castello e in campo S. Agostino, ma distribuiva anche discreti profitti fra i suoi soci(33).
Lo zelo riformatore di Torelli impressionò sia i suoi amici che i suoi nemici. L’epiteto «tiranno delle Lagune», coniato amichevolmente per lui da Stefano Jacini, poteva essere condiviso anche da coloro che si sentivano positivamente sollecitati ad agire dal ritmo che egli aveva impresso ai suoi interventi(34). La sua attività interessava un vasto campo di materie. Nel 1868, ad esempio, dopo una rapida ma approfondita indagine in loco, colse di sorpresa i direttori dei teatri cittadini con l’ordine di sistemare le uscite antincendio(35). In alcuni casi, nel suo tentativo di promuovere lo sviluppo della città, dimostrò un’eccessiva fiducia in se stesso. Fra le iniziative che assunse nei primi mesi del suo incarico prefettizio vi fu la creazione di una commissione per la «coltura delle ostriche». Egli cercò di suscitare entusiasmo a tale proposito parlando degli alti profitti assicurati da quel settore produttivo in Francia e delle scoperte scientifiche del biologo Filippo de Filippi, scomparso poco prima(36). Naturalmente, come avvenne nel caso di tutti i suoi principali progetti, chiese consigli in merito anche a Pietro Paleocapa. L’illustre scienziato, però, si rivelò più cauto di quanto Torelli avesse sperato. Quando la Reale commissione per il miglioramento lagunare, presieduta da Paleocapa, giunse alla conclusione che la coltura delle ostriche avrebbe probabilmente compromesso il precario equilibrio della laguna, Torelli non ebbe altra scelta che rinunciare al progetto(37).
Nel 1872 le ambizioni di Torelli subirono un colpo ancora più serio, che contribuì a determinare le sue dimissioni. L’anno precedente, dopo un lungo periodo di riflessione e di preparazione, egli aveva deciso di pubblicare la sua proposta di collegare la piazzetta di S. Marco e l’isola di S. Elena mediante una strada carrozzabile sopraelevata in ghisa, posta lungo la riva degli Schiavoni, e di creare una grande arena nautica fra i giardini pubblici e l’isola. Secondo quanto è riportato nel testo del bel volume che accompagnava il progetto (di oltre cento pagine!), Torelli aveva lavorato a tale piano fin dal giugno del 1867(38); con quest’opera, egli intendeva porre il proprio sigillo al lavoro che aveva svolto per la città. Prima di esaminare in modo approfondito il nuovo piano, accennava ai vari progetti che aveva sostenuto. La paternità dell’idea di una via pensile spettava all’ingegnere Angelo Milesi, di Bergamo, che aveva diretto i lavori nella cripta di S. Marco, altra iniziativa nella quale Torelli aveva svolto un’importante funzione di mediazione. Il prefetto riconosceva che la carrozzabile sopraelevata e l’ampio giardino pubblico erano assolutamente estranei alla cultura storica della città di Venezia; in tal senso, il piano si ricollegava a una serie di progetti (in alcuni casi cervellotici) presentati da vari architetti e ingegneri su invito della commissione per la sistemazione delle vie e canali della città, istituita dal Comune poco dopo l’annessione(39). Ciò nonostante, Torelli espose la propria idea nei minimi dettagli. In apertura, osservava con una certa amarezza che troppi veneziani lasciavano la città durante l’estate, oppure passavano la domenica sulla terraferma. I giardini pubblici di Castello, situati in una zona fresca e ventilata, avrebbero avuto molto da offrire, se non fosse stato che i cittadini ritenevano che nei mesi estivi la strada di accesso lungo la riva degli Schiavoni fosse eccessivamente calda. I dati statistici raccolti da Torelli dimostravano che ad un’altezza di tre metri e mezzo da terra le temperature estive erano più sopportabili. Inoltre, egli dimostrò che le 415 famiglie veneziane proprietarie di cavalli avrebbero potuto tenerli in stalle situate in città(40). Il suo principale intento era «dotare Venezia di un grandioso Giardino Pubblico con parco», un’idea che si armonizzava perfettamente con gli obiettivi della Società per l’aereazione delle calli e — più in generale — con l’idea, allora in voga, dell’abbellimento e dell’igiene urbani(41). Perché il progetto fosse economicamente fattibile, i viaggiatori che passavano sulla strada sopraelevata avrebbero dovuto pagare un pedaggio; quanto ai terreni necessari per l’arena nautica, la loro acquisizione non sarebbe costata molto, se fossero stati dichiarati di pubblica utilità.
Prima che il progetto venisse presentato ufficialmente alla giunta municipale e al consiglio, il Ministero dell’Interno, attraverso lo stesso Giovanni Lanza, aveva formulato forti obiezioni: «Non ti debbo però dissimulare che l’iniziativa assunta così risolutamente, esce, a mio avviso, dal campo che la legge segna al Prefetto, e invade le competenze del Consiglio Comunale e del Sindaco, che di diritto sono i soli interpreti degli interessi e delle aspirazioni della cittadinanza che li elesse o li additò al Governo»(42).
Oltre a ciò, il dibattito pubblico si sarebbe svolto in un clima caratterizzato da un lungo conflitto riguardante la nomina del sindaco. In merito al suo progetto Torelli aveva ottenuto l’appoggio di Giuseppe Giovanelli, il quale però si era dimesso dall’incarico di sindaco nel settembre del 1870. Il suo successore, l’assessore anziano Antonio Fornoni, il quale non accettò la nomina ufficiale a sindaco fino al marzo del 1872, era assai meno convinto dell’attuabilità del progetto. Di fatto, la giunta municipale affossò il piano di Torelli ancor prima che il consiglio comunale potesse discuterne. Il tentativo del prefetto di salvarlo, richiamandosi alle opportunità che ne sarebbero derivate per la possibilità di avviare la coltivazione di testacei e la piscicoltura nell’arena si rivelò inutile(43). Nella seduta del 12 luglio 1872 — due settimane prima del decreto che avrebbe collocato Torelli in aspettativa — il consiglio comunale rifiutò la proposta in quanto non la ritenne di pubblica utilità, con 22 voti contro 16(44).
L’avvertimento che Lanza aveva indirizzato a Torelli affinché non travalicasse la sfera amministrativa del suo incarico può essere considerato un segno dei tempi. Il successore di Torelli, Carlo Mayr (nato a Ferrara nel 1810, morto nel 1882), era molto più un burocrate e molto meno quell’homo universalis che Torelli aveva cercato di essere: aveva svolto un ruolo di spicco nella Repubblica romana del 1849, e fin dall’unificazione aveva regolarmente ricoperto incarichi prefettizi. Avrebbe concluso la sua carriera come presidente di sezione del Consiglio di Stato. Sulla sua figura non sappiamo molto; pubblicò solo pochi scritti e — contrariamente a Torelli e a Sormani Moretti — non sembra che attribuisse molta importanza al suo ruolo pubblico di presidente della deputazione provinciale di Venezia.
È molto probabile che Lanza lo nominasse in quanto condivideva con lui un chiaro orientamento anticlericale. Se si esclude Roma, Venezia era forse la città che presentava la situazione più esplosiva quanto alla presenza di un movimento cattolico intransigente. Torelli aveva sempre cercato di mantenere relazioni cordiali con il patriarca di Venezia, e il restauro della cripta di S. Marco era stato un chiaro segno di buona volontà. Mayr era invece portato a prendere molto sul serio la separazione fra Stato e Chiesa. Inoltre il suo arrivo a Venezia coincise con un momento in cui le forze cattoliche si andavano riorganizzando; la prolungata presenza in città del leader cattolico Giuseppe Sacchetti contribuì poi notevolmente ad alimentare l’ostilità fra i liberali e i cattolici intransigenti. Proprio a Venezia si tenne, nel 1874, il primo raduno dell’Opera dei Congressi, presieduto dal patriarca Giuseppe Luigi Trevisanato. Questo evento e altri incontri degli attivisti cattolici vennero seguiti con notevole sospetto dai rappresentanti dello Stato. Ciò che preoccupava particolarmente Mayr e ne suscitava l’incessante attenzione fu l’improvviso interesse che i cattolici veneziani mostrarono per partecipare alle elezioni amministrative del 1873. Il 7 marzo di quell’anno, quasi anticipando l’emancipazione politica dei cattolici a livello locale, Mayr indirizzò ai commissari distrettuali una circolare nella quale sottolineava che solo un’alta affluenza alle urne avrebbe costituito una manifestazione di «quella legale maggioranza che è fondamento del governo costituzionale». Egli aveva notato che nella «parte liberale» degli elettori si era diffusa una certa apatia, e di conseguenza sollecitò i suoi commissari ad impegnarsi per registrare «quei cittadini che per inerzia o dimenticanza non figurano nelle liste dello scorso anno, sebbene ne avessero diritto»(45). Entro una settimana informò il ministro dell’Interno che il «movimento elettorale» aveva preso avvio ma, forse inaspettatamente, ciò era avvenuto soprattutto «per parte dei clericali, i quali nel loro diario e con le numerose loro domande per essere inscritti nelle liste amministrative» avevano mostrato di essere pronti a entrare in lizza. Mayr riferì a Lanza di aver dato istruzioni ai periodici liberali affinché diffondessero l’allarme. Rendendosi conto che iniziative del genere erano ai limiti della legalità, aggiunse che avrebbe fatto in modo da «intromettere, con quella cauta riservatezza che è del caso, i [suoi] uffici e la [sua] direzione, onde dalle elezioni emergano consiglieri schiettamente attaccati al Governo, ed alla libertà»(46). I tentativi del prefetto di controllare le elezioni locali in modo da favorire i sostenitori del governo non ebbero comunque molto successo, e alle urne si recò meno di un terzo degli elettori. Ciò nonostante, sette dei quattordici seggi del consiglio comunale furono ottenuti dai liberali, cinque dai clericali, due da consiglieri sostenuti da entrambi i partiti.
I poteri del prefetto (o i loro limiti) emersero nuovamente in occasione delle elezioni amministrative del 1874. In una circolare riservata ai capi dei vari servizi amministrativi Mayr riconobbe che ormai le elezioni locali avevano un chiaro significato politico, semplicemente perché «un partito nemico al Governo ed ostile alle patrie istituzioni accenna di valersene come mezzo per combattere questo governo, per minare quelle istituzioni»(47). Il riferimento era evidentemente alla mozione approvata dall’Opera dei Congressi, la cui riunione si era tenuta dal 12 al 16 giugno 1874, per consentire agli esponenti cattolici di partecipare alle elezioni amministrative. Nonostante gli sforzi del prefetto, l’affluenza alle urne e i risultati del voto non furono del tutto soddisfacenti. Due fra coloro che risultarono eletti nel partito liberale non erano stati registrati in modo corretto, e dovettero quindi lasciare il posto a due candidati cattolici. Ma ancora più preoccupanti, dal punto di vista del prefetto, furono le elezioni amministrative del 1875. In quel caso la circolare riservata nella quale Mayr esprimeva a chiare lettere il desiderio che «i candidati del partito clericale-retrivo rima[nessero] soccombenti» venne intercettata, dando luogo ad un’ampia discussione sia sui giornali locali che su quelli a diffusione nazionale. Il dibattito ruotò attorno all’esplicito appello che Mayr aveva rivolto ai capi dei vari servizi amministrativi, compresi i sindaci, perché influenzassero il voto: «faccio appello al di lei patriottismo ed all’affetto che ella nutre pel paese, affinché a tale scopo sia rivolta la influenza di lei e dei cittadini più stimati»(48). «Il Tempo», di orientamento liberale progressista, definì la circolare uno strappo alla Costituzione; «Il Rinnovamento» invece lodò l’iniziativa del prefetto, accontentandosi del fatto che la votazione in sé rimanesse segreta. Lo scompiglio provocato dalla pubblicazione della circolare produsse l’effetto opposto a quello desiderato da Mayr: fra i quindici nuovi consiglieri eletti, undici appartenevano alla lista cattolica. Il prefetto non ebbe tuttavia rimpianti sul proprio operato; riteneva infatti di non poter essere biasimato, in quanto perlomeno aveva messo in guardia i liberali dal pericolo cattolico(49).
L’apatia che Mayr imputava ai cittadini che avevano diritto al voto, e in particolare ai liberali, era un fenomeno più complesso di quanto si sia portati a credere. Di fatto, quella che Mayr interpretava come «apatia» poteva essere anche una vera e propria strategia adottata da una parte dei votanti, ad esempio per testimoniare il proprio dissenso nei confronti del sistema liberale o (nel caso di una sconfitta scontata) per enfatizzare una posizione di minoranza. È difficile pensare che a Venezia — luogo nel quale la società civile mostrava una relativa vitalità — i cittadini che avevano diritto al voto non avessero ancora preso una decisione prima del giorno delle elezioni. L’astensione era spesso frutto di una scelta deliberata, tanto quanto lo era l’espressione del voto per il candidato di propria preferenza. Le relazioni prefettizie sul «movimento elettorale» facevano spesso riferimento a meetings pubblici e a riunioni private, in cui si discuteva diffusamente di candidati e di temi politici. Da parte sua, la vivace stampa locale lasciava ben pochi cittadini all’oscuro riguardo a quale fosse la posta in gioco. Per un altro verso, il fatto che le elezioni locali indette annualmente per rinnovare un quinto del consiglio comunale si tenessero in estate comportava che una parte notevole dei benestanti (e quindi degli elettori) non vi prendessero parte, in quanto essi erano soliti trascorrere i mesi più caldi dell’anno nelle loro proprietà di campagna. Infine, di importanza non minore è il fatto che nei paesi con sistema elettorale a suffragio ristretto la bassa affluenza al voto era un problema comune, e quindi rappresentava un esito elettorale ampiamente prevedibile.
L’emancipazione politica dei cattolici non fu l’unico problema che Mayr dovette affrontare durante il suo mandato. Dal 1° gennaio 1874 a Venezia venne tolta la qualifica di portofranco, in conseguenza di un provvedimento che era stato preso molti anni prima per porre su uno stesso piano tutti i porti italiani. Sebbene lo status di portofranco avesse già perso gran parte del suo significato, la Camera di commercio temeva che tale cambiamento avrebbe provocato gravi conseguenze, e richiese una qualche forma di compensazione. Mayr fece da mediatore fra la Camera di commercio e il Ministero delle Finanze per risolvere la questione dei dazi di importazione che dovevano essere pagati per le giacenze dei prodotti esteri. Il presidente della Camera, Nicolò Antonini, mostrò di apprezzare molto l’interessamento del prefetto e in una lettera di ringraziamento gli si rivolse come al «quasi secondo cittadino di Venezia»(50). Mayr continuò a difendere gli interessi commerciali di Venezia, tentando più volte di ottenere l’approvazione del governo all’istituzione di alcuni «punti franchi», dai quali ci si attendeva che avrebbero contribuito a sostenere alcuni specifici settori commerciali.
Com’è noto, il sommovimento politico nazionale del 1876 fu seguito da un rimpasto nel campo degli incarichi prefettizi. Il 30 aprile 1876 venne nominato prefetto di Venezia l’emiliano Luigi Sormani Moretti (nato a Reggio Emilia il 3 dicembre del 1834, morto il 9 gennaio 1908), che all’epoca del governo provvisorio aveva ricoperto incarichi nel Ministero della Guerra a Modena e nel Ministero degli Affari esteri, era stato deputato parlamentare del collegio di Correggio fin dal 1865 e consigliere provinciale di Reggio Emilia fin dal 1868. Paradossalmente, fu proprio la sua esperienza di deputato a renderlo acutamente consapevole delle responsabilità che gli spettavano in qualità di prefetto. Come Torelli, egli espose il suo progetto amministrativo di fronte ai rappresentanti provinciali, la consueta tribuna utilizzata dai prefetti più intraprendenti. Fu subito chiaro che Sormani intendeva anteporre l’amministrazione alla politica, non perché nutrisse dubbi sul sistema rappresentativo, ma per timore dell’effetto disgregante che i contrasti personali e ideologici potevano provocare, soprattutto a livello locale. Egli impersonava chiaramente la tradizione statalista del Risorgimento; prendendo le mosse da interventi concreti in campo amministrativo, credeva di appianare i dissensi e i conflitti politici: «Esecutore degli ordini ed interprete delle intenzioni del Governo del Re ho procurato di dare un vigoroso impulso a tutti i servizî pubblici, favorendo per tal modo coll’esempio e coll’opera l’individuale attività promuovitrice di sapere, animatrice di virtù, fonte di prosperità. […] Le accidentali divergenze di partiti politici possono scomparire di fronte agli interessi amministrativi ed economici, come un dì fortunatamente scomparvero di fronte allo straniero oppressore e in presenza di chi ci teneva divisi per signoreggiarci a suo talento»(51).
Nonostante la fraseologia ispirata a una retorica di impronta risorgimentale, Sormani era convinto di quanto diceva, e cercò di agire di conseguenza. Egli organizzò un giro di ispezioni intensivo nei comuni della provincia. Le istruzioni che accompagnavano la legge comunale e provinciale prescrivevano un «giro di ispezione» annuale, ma a metà degli anni Settanta il Ministero dell’Interno tendeva ormai, per ragioni di bilancio, a scoraggiare lo svolgimento di ispezioni su vasta scala (per le quali i prefetti di solito ricevevano una «indennità giornaliera»). Sormani non sembrò preoccuparsi delle direttive ministeriali. Non solo visitò gli uffici governativi locali, ma estese la sua attività ispettiva a istituzioni pubbliche, scuole, chiese, monumenti e fabbriche. Nel suo indirizzo al consiglio provinciale dell’agosto del 1878 annunciò con orgoglio che aveva completato il proprio giro d’ispezione, avendone ricavato una quantità di idee preziose, che non gli sarebbero di certo venute in mente se fosse rimasto in ufficio dietro la sua scrivania(52). Nella stessa occasione annunciò una nuova indagine statistica sulla provincia — che avrebbe continuato il resoconto statistico di Torelli — da pubblicarsi nel 1880.
Se in pubblico Sormani continuò a mostrarsi ottimista, la sua relazione ufficiale al Ministero fu improntata a un maggiore realismo, e mise in luce numerosi problemi ancora irrisolti. Molte delle sue preoccupazioni erano connesse alla limitata efficienza dei comuni più piccoli, come Malamocco, Murano e Burano (che in epoca più tarda furono infatti aggregati a Venezia). Egli notò inoltre che lo status di ex capitale regionale comportava che Venezia si facesse carico di numerosi compiti che travalicavano i confini provinciali e appesantivano notevolmente il lavoro della prefettura. Ma soprattutto egli si lamentava dell’insufficiente interesse del governo per le «osservazioni e proposte che la Prefettura, con coscienza e conoscenza delle necessità locali non esita d’inoltrare ai competenti ministeri»(53).
Un tono analogo emerge dalle relazioni semestrali sullo spirito pubblico redatte da Sormani. Oltre alle consuete analisi politiche, il prefetto vi dedicava una grande attenzione alle condizioni economiche e amministrative della provincia e della città di Venezia. Per la supervisione tecnica e finanziaria sui comuni egli poteva sicuramente contare sul capo della seconda divisione (amministrazione comunale e provinciale), Alessandro Bonafini, che svolse la maggior parte della sua carriera a palazzo Corner e conosceva a fondo i dettagli più minuti della legislazione sul governo locale. Sormani stesso era particolarmente interessato alla modernizzazione dei trasporti (terrestri e marittimi) e alla questione lagunare; non riteneva che vi fosse un vero futuro per Venezia senza una definitiva soluzione delle numerose minacce che insidiavano la laguna (che avrebbero dovuto in buona parte essere risolte innanzitutto con «l’esilio del Brenta dalla laguna») e senza il completamento di tutte le opere necessarie per consentire al porto di raggiungere standards moderni. Egli era solito concludere le sue relazioni semestrali enumerando i «bisogni della provincia», i quali — data l’eccezionale importanza della città di Venezia rispetto agli altri comuni — erano tutti strettamente connessi con gli interessi della capitale. Via via che Sormani acquisiva una migliore conoscenza della provincia, la lista dei bisogni si allungava, e la sua frustrazione cresceva. I funzionari di cui disponeva erano troppo pochi per consentirgli di guidare in modo adeguato la prefettura e, cosa ancor più grave, egli si sentiva tagliato fuori dai suoi superiori. Nella sua ultima relazione periodica in veste di prefetto di Venezia mise direttamente in relazione la crisi della politica parlamentare e la debolezza del governo centrale con la scarsa attenzione che i suoi suggerimenti ricevevano a Roma. In generale, lamentava che «nelle provincie risentesi la mancanza di quell’impulso o di quell’indirizzo che dal centro dovrebbe esser dato e spesso ripetuto». Si dispiaceva anche che i contatti personali fra i ministri e i prefetti fossero scarsi o addirittura inesistenti. Ne derivava una situazione alquanto insolita, per cui le idee e le proposte dei prefetti venivano in alcuni casi semplicemente ignorate, «mentre invece le mozioni e i reclami di privati individui, di corpi morali amministrati, siano municipi, opere pie od altri, persino echi di diari partigiani, sono ricevute e spesso ascoltate, senza pur si consulti prima chi ha locale responsabilità e può e deve dar spiegazioni e dilucidazioni»(54). E certo doveva essere molto imbarazzante, per un ex deputato, rilevare una tale discrepanza.
Oltre a un vasto patrimonio di buone idee (molte delle quali sarebbero state tradotte in realtà dopo la sua partenza da Venezia), Sormani lasciò dietro di sé un’approfondita monografia statistica, che riassumeva quanto era stato fatto e quanto rimaneva da fare per salvaguardare la prosperità della provincia. Nella migliore tradizione delle statistiche prefettizie, egli si era assicurato la cooperazione sia di privati cittadini che di funzionari pubblici, per poter gettare «uno sguardo retrospettivo su quanto avvenne o si compié qui nell’ordine economico-amministrativo da che Venezia si ricongiunse al Regno d’Italia» e compilare quindi «un inventario delle materiali e morali sue condizioni presenti, dal quale trarre criterî abbastanza esatti di ciò che conviene provvedere e predisporre per un migliore avvenire»(55). Di particolare interesse è il capitolo dedicato alla storia amministrativa di Venezia. Sormani non si faceva impressionare più di tanto dal glorioso passato repubblicano; piuttosto, proiettava il mito di Venezia nel futuro. La caduta della Repubblica, a suo avviso, non aveva dapprima portato niente di nuovo se non la radicale distruzione del sistema aristocratico. Un cambiamento fondamentale, però, si era verificato con l’annessione alla Francia e l’istituzione del dipartimento dell’Adriatico: «Sostituito il codice civile e tanti parziali Statuti, aboliti i privilegî nobiliari e di corpi comunali, sparivano quasi del tutto le originarie instituzioni già dalla ruggine dei tempi condannate a languire, e le nuove erano improntate di quel sapiente vigore che ancora si ammira nelle leggi di quell’età veramente rigeneratrice, che ridestò la coscienza nazionale, fondamento dell’unità conseguita a’ giorni nostri»(56).
Come molti altri prefetti, Sormani risaliva al periodo napoleonico per far riferimento a un tipo di intervento dall’alto efficiente e, allo stesso tempo, richiesto dalla realtà sociale alla quale si applicava. Anche Pietro Manfrin, prima di essere chiamato a Venezia come prefetto, parlò con ammirazione dell’impulso che Napoleone aveva impresso dall’esterno. Egli si doleva che l’élite locale fosse priva del dinamismo necessario per dare alla città una spinta positiva dall’interno. A suo avviso, «cessato l’esterno impulso [di Napoleone], il conservatismo, il grande nemico della vecchia metropoli, riprese il disopra, quindi il passo del viandante o il remo del gondoliere, rimasero i grandi motori della città»(57). L’aspetto contraddittorio della prefettura di Sormani (e di altri prima e dopo di lui) stava nel fatto che anche un’amministrazione pubblica attiva era destinata a rivelarsi insufficiente (come forse lo era stata sotto Napoleone) se le élites locali non avevano la volontà di procedere nella stessa direzione e il governo centrale ignorava i suggerimenti dei prefetti. Ciò era vero non solo per Venezia ma anche per molte altre province italiane.
L’inadeguatezza di palazzo Corner, segnalata sia da Pasolini che da Torelli nei primi anni successivi all’annessione della provincia di Venezia all’Italia, continuò nei decenni seguenti a ingenerare tensioni fra il prefetto e l’amministrazione provinciale. Innanzitutto, la legge comunale e provinciale imponeva che la Provincia acquistasse tutta la mobilia e le attrezzature degli uffici, compresa la mobilia per la residenza del prefetto. Una volta risolto tale problema, le due autorità furono impegnate per un altro decennio nella questione della divisione dei locali fra gli uffici prefettizi e quelli della Provincia. Nei primi anni Novanta furono finalmente approvati i piani di ampliamento del palazzo, che risolsero gran parte dei problemi di spazio. Tali conflitti di competenza non erano inconsueti nel groviglio burocratico dei vari livelli di governo nel quale i prefetti dovevano districarsi. In tal senso i compiti dei prefetti di Venezia non erano molto più complessi di quelli degli altri loro colleghi.
Venezia, naturalmente, poneva delle sfide specifiche. Il suo status di ex capitale di un territorio più vasto addossava ai prefetti il carico di molte attribuzioni che eccedevano la consueta sfera di azione di una prefettura. Per tutto il periodo postunitario i prefetti veneziani continuarono a lamentarsi delle carenze di organico e della mancanza di spazi adeguati in palazzo Corner. Le limitate dimensioni della provincia in confronto al suo capoluogo accrescevano ulteriormente le difficoltà. Tutta la seconda parte dell’Ottocento fu per Venezia un periodo di riconversione delle attività produttive e commerciali e di ricorrenti crisi economiche. Luigi Torelli si fece carico con energia del processo che avrebbe dovuto permettere a Venezia di vivere una nuova epoca gloriosa, ma forse le sue speranze furono eccessive. Verso la fine del 1867 Paleocapa capì che l’amico Torelli stava pretendendo troppo da se stesso nel tentativo di cambiare in breve tempo il futuro della città: «L’impazienza vostra per conseguire i fini che vi proponete, anziché far bene farà male se non date il giusto peso a codeste circostanze [cioè il declino conseguente alla caduta della Repubblica] e se vi darete a credere che tutto possa cambiarsi ad un tratto, dalle condizioni materiali sino all’indole dei cittadini»(58). Con il senno di poi si può dubitare che il limitato successo delle iniziative di Torelli fosse imputabile soltanto al suo carattere. La maggior parte dei suoi progetti richiedeva investimenti consistenti, che né la città né lo Stato potevano garantire. Inoltre, non si deve dimenticare che di fronte alla prospettiva di costi ingenti l’imprenditoria privata si mostrò cauta almeno quanto il settore pubblico.
Diversamente dal cliché che sostiene l’esistenza di un eccessivo centralismo, del quale l’amministrazione prefettizia costituirebbe l’esempio paradigmatico, i prefetti avevano poteri limitati, nei confronti sia dello Stato centrale che del governo locale. Così, lo stesso Torelli dovette far ricorso a un’interpretazione alquanto creativa delle sue attribuzioni, ad esempio mescolando le funzioni pubbliche con quelle private, per riuscire a realizzare almeno una parte dei suoi progetti. Inoltre, ogni prefetto aveva un proprio stile. Il successore di Torelli, Carlo Mayr, dette maggior peso alla natura politica della funzione del prefetto, mentre Luigi Sormani Moretti non cessò mai di enfatizzare il primato dell’amministrazione. L’elemento comune a tutti i prefetti fu il ruolo attivo che essi svolsero in veste di difensori degli interessi locali, il cui nucleo centrale consisteva nel porto di Venezia e nella produttività della laguna. Quando i prefetti tentarono di imporre politiche che non si armonizzavano con l’idea generale che l’élite locale aveva del futuro di Venezia, come avvenne nel caso dei progetti di rinnovamento urbano di Torelli, la loro azione si risolse di solito in un fallimento. Analogamente, le innumerevoli richieste di Sormani per ottenere il sostegno del governo centrale si incagliarono nel disinteresse dei superiori. Anche questo era un aspetto del «centralismo all’italiana».
Negli anni Ottanta e Novanta i prefetti di Venezia sembrarono condizionati in misura ancora maggiore dai divergenti interessi dei vari livelli del governo, in sede locale, provinciale e centrale. Nessuno di essi sembrò elevarsi a un’altezza e a un ruolo analoghi a quelli raggiunti dalla prima generazione dei prefetti italiani. Alla fine dell’Ottocento, il corpo prefettizio nel suo complesso stava subendo un processo di adattamento. La crisi di fine secolo ne segnò la trasformazione da prestigiosa élite burocratica a semplice riserva alla quale i vari raggruppamenti politici potevano attingere e che difficilmente riuscì a lasciare la propria impronta nella vita amministrativa delle province. Quanto a Venezia, «il passo del viandante o il remo del gondoliere, rimasero i grandi motori della città».
Traduzione di David Scaffei
1. Emilio Franzina, Introduzione, in Venezia, a cura di Id., Roma-Bari 1986, pp. 33-34 (pp. 3-113).
2. Giandomenico Romanelli, Venezia Ottocento. L’architettura, l’urbanistica, Venezia 19882, p. 372.
3. Luigi Sormani Moretti, La Provincia di Venezia. Monografia statistica-economica-amministrativa, Venezia 1880-1881.
4. Mentre nel 1868 il regio delegato straordinario Ferdinando Laurin accennò a «qualche irregolarità, più che alle persone, imputabile alla novità delle Leggi introdotte, fors’anche a qualche imperizia negli affari pubblici, ed alle speciali condizioni d’un tempo in cui cedevasi alla fretta delle riforme e delle innovazioni», Carlo Astengo rilevò che nel 1882-1883 «i servizî pubblici procedevano tutti in modo soddisfacentissimo» (Ferdinando Laurin, Relazione fatta al consiglio comunale di Venezia dal regio delegato straordinario nella seduta 10 dicembre 1868, Venezia 1868, p. 9; Carlo Astengo, Relazione del regio delegato straordinario al consiglio comunale di Venezia letta nella seduta d’insediamento del 21 febbraio 1883, Venezia 1883, p. 6).
5. Ho sviluppato questo aspetto in Nico Randeraad, Authority in Search of Liberty. The Prefects in Liberal Italy, Amsterdam 1993 (trad. it. Autorità in cerca di autonomia. I prefetti nell’Italia liberale, Roma 1997).
6. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 40, 15, 6/1.
7. Ibid., 15, 7/1; cf. anche Nico Randeraad, The State in the Provinces: the Prefecture as a Palace after Unification, in The Power of Imagery. Essays on Rome, Italy and Imagination, a cura di Peter van Kessel, Rome 1992, pp. 98-108, 280-284.
8. Raffaele Romanelli, Il comando impossibile: la natura del progetto liberale di governo, in Id., Il comando impossibile. Stato e società nell’Italia liberale, Bologna 1988, pp. 7-30.
9. Gli archivi dei regi commissari nelle province del Veneto e di Mantova, II, Documenti, Roma 1968, pp. 242-245, 268-274.
10. Ibid., pp. 264-265.
11. Circolare 30 maggio 1867, nr. 1145.
12. Luigi Torelli, L’Istmo di Suez e l’Italia, Milano 1867.
13. In una lettera a Torelli del 14 maggio 1867, Pietro Paleocapa scrisse che l’ebreo veneziano Lattes era in viaggio da Alessandria alla sua città per fondare una società di navigazione a vapore. Non è improbabile che a sua volta Lattes mettesse al corrente Torelli di un’offerta presentata da Pini Bey per conto della società egiziana Azizieh: cf. Gli italiani e il canale di Suez, a cura di Antonio Monti, Roma 1937, p. 457, e inoltre E. Franzina, Introduzione, pp. 102-103.
14. Circolare 4 luglio 1867, nr. 1502.
15. Guido Zucconi, La cultura degli ingegneri: acque e strade ferrate all’indomani dell’annessione, in AA.VV., Storia della cultura veneta, 6, Dall’età napoleonica alla prima guerra mondiale, Vicenza 1987, pp. 625-626 (pp. 625-650).
16. Luigi Torelli, Parallelo fra il progresso dei lavori delle due grandi opere: il Traforo del Moncenisio ed il Taglio dell’Istmo di Suez, «Atti del R. Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», ser. III, 12, 1866-1867, nr. 25, p. 1170 (pp. 1164-1172).
17. Id., Sesto Parallelo della galleria del Moncenisio e del canal di Suez seguito da una dissertazione sulla marina a vela e la marina a vapore, ibid., 14, 1868-1869, nr. 27/1, pp. 118-155.
18. Douglas Antony Farnie, East and West of Suez. The Suez Canal in History 1854-1956, Oxford 1969, p. 141.
19. Luigi Torelli, Le condizioni della provincia e della città di Venezia nel 1867, Venezia 1867, p. 10.
20. Ibid., pp. 6-8; v. anche G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 369.
21. Stuart Woolf, Statistics and the Modern State, «Comparative Studies in Society and History», 31, 1989, p. 602 (pp. 588-604).
22. Statistica della provincia di Venezia, a cura di Luigi Torelli, Venezia 1870, p. VII.
23. Ibid.
24. Gaetano Cozzi, ‘Venezia e le sue lagune’ e la politica del diritto di Daniele Manin, in Venezia e l’Austria, a cura di Gino Benzoni-Gaetano Cozzi, Venezia 1999, pp. 328-333 (pp. 323-341).
25. L. Torelli, Le condizioni, p. 23.
26. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1865-1869, IX-2-64.
27. Antonio Monti, Il conte Luigi Torelli, Milano 1931, p. 279.
28. Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, Manoscritti nr. 1093, Memorie autobiografiche di Luigi Torelli (copia dattiloscritta), pp. 301-302.
29. G. Romanelli, Venezia Ottocento, p. 372.
30. Ibid., pp. 410-412, per una discussione del contesto urbanistico del bacino Orseolo.
31. Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, Manoscritti nr. 1093, Memorie autobiografiche di Luigi Torelli, p. 303.
32. Ibid., p. 304.
33. Adolfo Bernardello, La ‘società edificatrice di case per operaj a Venezia’ e la demolizione della Chiesa di S. Agostino, «Atti dell’Istituto Veneto di Scienze, Lettere ed Arti», 151, 1992-1993, pp. 305-318.
34. La citazione è tratta da una lettera di Jacini a Torelli, 10 maggio 1869, pubblicata in A. Monti, Il conte Luigi Torelli, p. 288.
35. Roma, Istituto per la Storia del Risorgimento, Manoscritti nr. 1093, Memorie autobiografiche di Luigi Torelli, pp. 323-324; v. anche I teatri di Venezia coll’elenco delle opere e dei balli alla Fenice dalla sua prima apertura al 1869, Milano 1869.
36. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1866-1871), b. 5, 3, 4/1, lettera del prefetto, 22 agosto 1867.
37. Cf. le varie lettere di Paleocapa a Torelli pubblicate in Giuseppe Di Prima, L’opera politica e tecnica di Pietro Paleocapa alla luce di un epistolario inedito, Milano 1940, pp. 252, 255, 265-269.
38. Luigi Torelli, Progetto di congiunzione della Piazzetta di S. Marco e l’Isola di S. Elena mediante una via pensile lungo la riva degli schiavoni e la formazione di una grande arena nautica fra i giardini pubblici e l’isola suddetta proposto dal prefetto senatore L. Torelli ai cittadini di Venezia nel 1871, Venezia 1872.
39. G. Romanelli, Venezia Ottocento, pp. 378-402.
40. Ibid., pp. 449-450, per una valutazione critica del piano di Torelli.
41. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1870-1874, IX-6-12, lettera del prefetto al sindaco, 10 maggio 1872.
42. A. Monti, Il conte Luigi Torelli, p. 299.
43. Venezia, Archivio Storico Comunale, Archivio Municipale, 1870-1874, IX-6-12, lettera del prefetto al sindaco, 4 luglio 1872.
44. Atti del Consiglio Comunale di Venezia, Venezia 1872, pp. 228 ss.
45. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1872-1876), b. 9, 5, 3/1, circolare del prefetto ai commissari distrettuali, 7 marzo 1873.
46. Ibid., lettera riservata del prefetto al Ministero dell’Interno, 13 marzo 1873.
47. Ibid., circolare riservata ai capi di varie amministrazioni, 2 luglio 1874.
48. Ibid., circolare riservata ai capi di varie amministrazioni, 15 giugno 1875.
49. Ibid., lettera riservatissima del prefetto al Ministero dell’Interno, 13 luglio 1875.
50. Ibid., 3, 10/1, lettera del presidente della Camera di commercio al prefetto, 24 febbraio 1874.
51. Luigi Sormani Moretti, Le condizioni economiche ed amministrative della provincia di Venezia, esposte al consiglio provinciale nella prima seduta della sua sessione ordinaria del 1877, Venezia 1877, p. 41.
52. Id., Le condizioni economiche ed amministrative della provincia di Venezia, esposte il 12 agosto 1878 al consiglio provinciale nella prima seduta della sua sessione ordinaria del 1878, Venezia 1878, p. 21.
53. A.S.V., Gabinetto di Prefettura (1877-1881), b. 10, 5, 5/8, relazione sulle risultanze della visita a tutti i comuni della provincia, 25 maggio 1878.
54. Ibid., 19, 1/1, relazione semestrale sullo spirito pubblico, secondo semestre 1879, 20 febbraio 1880.
55. L. Sormani Moretti, La Provincia di Venezia, pp. n.n.
56. Ibid., p. 337.
57. Pietro Manfrin, L’avvenire di Venezia. Studio, Treviso 1877, p. 194. Manfrin fu prefetto di Venezia dal novembre 1880 al dicembre 1881.
58. G. Di Prima, L’opera politica e tecnica, p. 258.