Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gruppo di pensatori inglesi attivi all’università di Cambridge nel periodo tra le due Rivoluzioni, i platonici di Cambridge costituiscono un movimento autonomo che privilegia, alle teorie materialiste e meccaniciste di impronta cartesiana e hobbesiana, il recupero del neoplatonismo rinascimentale. L’esistenza di idee e principi morali innati costituisce la base teorica per una teologia aperta e per la rivendicazione di una Chiesa universale e tollerante che superi le divisioni settarie, in linea con le tesi dei “latitudinari”.
Caratteri generali del movimento
Per “platonismo di Cambridge” si intende un indirizzo filosofico di orientamento per lo più neoplatonico, che si sviluppa in reazione al meccanicismo di Hobbes e all’atomismo di Gassendi attorno all’università di Cambridge, nell’Inghilterra del Seicento. Grazie alla loro attività di docenti, Benjamin Whichcote e John Smith danno il via al movimento. Figure principali del gruppo sono Henry More, Ralph Cudworth e Nathaniel Culverwell; il dibattito vedrà poi i contributi originali della seconda generazione di platonici, da Joseph Glanvill a John Norris, da Thomas Baker a Richard Burthogge, George Rust e Anne Conway.
La prima cosa da evitare, nell’avvicinarsi alle dottrine di questi pensatori, è cercare di riassumerne il pensiero in termini speculativi unitari: non si può infatti parlare di una vera e propria corrente filosofica mentre, invece, appare più forte il legame di carattere accademico. Non solo: la categoria stessa che raccoglie questi pensatori sotto l’etichetta di “platonismo di Cambridge” è storiograficamente problematica, vista la sua origine tarda (metà del XIX secolo) e il sovrapporsi con quella secentesca di “latitudinari”. Fatte queste premesse, si possono tuttavia individuare alcuni tratti comuni: l’idea che esistano idee o forme delle cose, verità matematiche e principi morali innati; un dualismo fondato sulla priorità ontologica della sostanza pensante o spirituale sulla materia; la rivalutazione di temi teologici in accordo con i principi dell’argomentazione razionale, nella convinzione che la “capacità religiosa” appartenga essenzialmente all’uomo e gli consenta di tendere a Dio secondo gli stadi di perfezione delle sue facoltà razionali; l’apertura alle scoperte e ai procedimenti della scienza moderna; infine, un sincretismo religioso e filosofico che sostiene l’accordo di fondo tra la conoscenza scientifica e la teologia, se correttamente intese, e che trova le basi nel recupero della tradizione religiosa agostiniana e nella ripresa di temi neoplatonici e rinascimentali, ma anche stoici e aristotelici, esprimendo, nelle parole di Sarah Hutton, “una fruttuosa congiunzione di idee antiche e nuove, il cui impatto si riverbera attraverso l’illuminismo e oltre” (Hutton, Henry More, Ficino and Plotinus: The Continuity of Renaissance Platonism, 2007).
Per rivendicare l’armonia di fondo tra l’anima razionale dell’uomo e l’anelito innato verso Dio, e per sostenere politicamente la necessità di un’unica Chiesa universale in grado di superare le divisioni delle sette religiose che dilaniano l’Inghilterra della prima metà del Seicento, i platonici di Cambridge riprendono dal De veritate del filosofo inglese Edward Herbert di Cherbury (1583-1648) il concetto di “religione razionale”. Pur muovendo da differenti esperienze religiose, la ragione di ogni singolo credente è in grado di individuare una serie di elementi comuni e universali in cui i fedeli possano riconoscersi e nel nome dei quali trovare unità e accordo: l’esistenza di Dio, il dovere di credere in lui, l’espiazione dei peccati e la ricompensa o castigo dopo la morte. Si tratta di verità eterne e principi etici fondamentali, che Cherbury chiama “idee comuni” (notitiae communes) e “principi inviolabili” (principia sacrosanta), dati da Dio a ogni uomo dalla nascita: sono dunque idee innate che si trovano in una facoltà universale della ragione a sua volta in contatto con l’universalità divina. La mente dell’uomo è simile a un libro chiuso che contiene in sé tutte le nozioni fondamentali di un sapere eterno e universale che precede l’esperienza e che si apre al contatto sensibile con il mondo esterno. In modo speculare, la religione svolge un ruolo fondamentale nella filosofia: essa è al contempo il punto di partenza e il fine ultimo di ogni riflessione. Si tratta dei principi che Ralph Cudworth illustra, in un famoso sermone pronunciato il 31 marzo 1647 davanti alla Camera dei Comuni. La filosofia senza religione è sterile, ma è anche vero che la religione senza la filosofia si riduce a superstizione. Queste idee avvicinano le posizioni dei platonici di Cambridge a quelle dei “teologi della chiesa bassa” – l’arcivescovo di Canterbury John Tillotson e il teologo anglicano Edward Stillingfleet, che si formano sulle idee dei filosofi cantabrigensi – e più in generale ai “latitudinari” (latitude-men). Con questo termine sono definiti polemicamente, in un opuscolo anonimo del 1662, quei pensatori riconducibili al movimento cantabrigense – il quale tuttavia non esaurisce il più ampio contesto teologico del latitudinarismo. Essi si caratterizzano per l’individuazione di un nucleo essenziale di principi religiosi, oltre i quali è possibile concedere ampia libertà di coscienza; per un’esperienza della fede all’insegna della moderazione e della tolleranza; e infine si schierano apertamente contro ogni degenerazione del sentimento religioso a fanatismo e superstizione.
Il “latitudinarismo” si svilupperà poi come un movimento di riforma religiosa attivo nella Chiesa anglicana a partire dalla metà del Seicento, che rinvierà all’apertura e universalità di una Chiesa fondata su pochi culti e su un’idea di credenza molto “estesa” al cui interno possano convivere differenti interpretazioni della fede. Per quanto riguarda i precetti e le pratiche cultuali, essi possono essere accolti senza grande impegno ed eventualmente sostituiti qualora non concordino con la sensibilità dei fedeli. La fede cristiana è rivelata dalla Bibbia ma, senza arrivare agli estremi di quelle sette che sostenevano un’interpretazione personale di tutti i suoi punti, viene lasciata la libertà di interpretare le Scritture a seconda delle abitudini religiose e delle esigenze dei fedeli.
Dietro questa posizione tollerante risiede il progetto politico di cercare una pace religiosa che, dopo la restaurazione di Giacomo II, impedisca la continua lotta tra le sette sotto l’egida e nel nome di una vasta Chiesa di Stato di orientamento anglicano in grado di opporsi al ritorno del dogmatismo papista e agli eccessi del puritanesimo.
Per quanto l’università di Cambridge, nel periodo della rivoluzione inglese, sia abbastanza isolata dal resto del Paese e si presenti come una città degli studi pacificamente ripiegata su se stessa, tuttavia la struttura del neoplatonismo che costituisce l’ossatura del movimento si presta a costituire un sostegno concreto ai progetti di riforma politica del latitudinarismo: fondato sulla credenza in una scala o gerarchia degli esseri, il neoplatonismo può fornire all’episcopato anglicano e alla monarchia la base teorica per arginare il proliferare delle spinte dei vari culti e sette.
Nonostante i molti punti comuni, la posizione “tollerante” dei platonici ha origini teoriche e non politiche. Le radici delle idee dei cantabrigensi vanno ricercate nella ripresa della teoria neoplatonica di Marsilio Ficino (1433-1499) e dell’Accademia Fiorentina secondo cui non esiste un’unica via per arrivare a Dio e ogni sforzo va ugualmente premiato. La tradizione filosofica e religiosa si snoda lungo un percorso che, senza soluzione di continuità, collega e allinea le conquiste della scienza, il pensiero del Rinascimento, la patristica, il neoplatonismo, Platone e le Sacre Scritture. La storia è vista come un continuo rifiorire sotto diverse sembianze degli stessi temi secondo le linee di una philosophia perennis. L’influenza dei temi rinascimentali è testimoniata anche dal grande interesse che si nutre per l’esoterismo, la cabala e più in generale i fenomeni magico-ermetici. Interpretati come manifestazioni dell’elemento spirituale che muove il mondo, questi fenomeni vengono posti sullo stesso piano della scienza sperimentale e meccanicista.
Il fatto di aver radicalmente separato anima e corpo porta i platonici di Cambridge a dedicarsi con passione allo studio sperimentale dei corpi. L’indagine scientifica, integrata nella più generale prospettiva teologica dei rapporti tra Dio e la natura, gode della più grande dignità: grande attenzione viene per esempio dedicata agli studi di Boyle sul concetto di forza per le interpretazioni spiritualistiche a cui si presta questa idea. All’apprezzamento del metodo scientifico meccanicistico si accompagna sempre, tuttavia, un generale sentimento della fragilità e fallibilità umana, in campo epistemologico come in quello etico e religioso; in quest’ultimo, ad esempio, ricorre spesso il tema del peccato originale (cfr. l’analisi di F. Tomasoni, Dai platonici di Cambridge a John Toland in Riconda – Ravera – Ciancio – Cuozzo, Il peccato originale nel pensiero moderno, Morcelliana, Brescia 2009, pp. 423-448). La scienza non deve avere la pretesa di offrire una spiegazione onnicomprensiva della realtà bensì limitarsi all’analisi della materia. Se questo non si verifica, ecco che lo scienziato pecca immediatamente di dogmatismo e intolleranza: sono questi forse gli unici due punti su cui non si cerca di trovare un accordo, perché rendono impossibili quella tolleranza e quell’apertura al dialogo che sono i presupposti del movimento cantabrigense.
Il maestro dei platonici di Cambridge: Benjamin Whichcote
Dalle posizioni dei platonici di Cambridge emerge una posizione di fatto aperta al dialogo, moderata e aliena dal dogmatismo, che impedisce all’uomo di svolgere le sue ricerche in piena autonomia. Benjamin Whichcote, considerato il “padre fondatore” del platonismo cantabrigense, è sostenitore di una teologia razionale e tollerante: Dio, in quanto essere supremo e perfetto, non può che essere buono e amorevole. Per questo, sostiene Whichcote, “nulla è più specifico all’uomo della capacità di religione e del senso di Dio”; ma tale “capacità di religione” contempla l’uso della ragione come strumento per comprendere quella Rivelazione attraverso la quale Dio ha stabilito un dialogo con lui. Egli sostiene che solo dopo aver riflettuto ed esaminato con attenzione e in piena libertà le ipotesi che gli si pongono di fronte l’uomo può credere e, dopo aver deliberato razionalmente, impegnarsi in un’azione piuttosto che in un’altra. Per chiarire queste idee Whichcote ricorre a un’immagine biblica che vale anche come critica alla svalutazione della ragione che calvinisti e puritani vedono originarsi dal peccato originale. La ragione dell’uomo è paragonata alla “candela del Signore” che con la sua luce costituisce l’unico rimedio contro i danni che derivano dall’abbandonarsi all’entusiasmo disordinato delle passioni.
Questo connubio di fede e razionalità ritorna nei Discorsi (1660) di John Smith. L’uomo è “un animale capace di fede religiosa” (animal capax religionis), che per Smith equivale alla definizione classica di “animale razionale”: ateismo e superstizione sono errori del pensiero logico, fondati sull’inadeguata concezione di Dio prodotta da una ragione male utilizzata. Egli sostiene la necessità di affidare all’intuizione la possibilità di conoscere le principali verità sull’uomo, cioè l’immortalità e l’immaterialità dell’anima, la spiritualità della materia e la libertà dell’uomo. L’organo attraverso il quale si conosce è individuato, agostinianamente, nella ragione e non nell’intelletto. In particolare, l’intuizione razionale dell’immaterialità dell’anima permette l’avvicinamento alla teoria cartesiana del dualismo sostanza pensante/sostanza estesa.
Henry More
Anthidote adversus atheismus
Per questo motivo non ho voluto seguire qui come maestro di metafisica quel Cartesio il cui ingegno meccanico mai ho potuto saziarmi di ammirare. Così ho utilizzato soltanto la sua prima prova dell’esistenza di Dio: ma forse sarebbe più opportuno chiamarla prova scolastica, o mia, piuttosto che sua. Credo infatti di averla applicata, e sostenuta e rafforzata fermamente in ogni sua parte in modo tale, da poterla rivendicare come mia, a pari diritto di qualsiasi altro. Quanto poi alle altre prove, esse ipotizzano che la realtà oggettiva dell’idea di Dio sorpassi la capacità produttiva della mente umana, e che la mente umana avrebbe dovuto dare origine da sola a tutte quelle perfezioni di cui ha l’idea, se non le fossero venute da un altro ente; e infine che, non avendo alcuna capacità di conservarsi, perché il tempo presente e il futuro non hanno alcun rapporto necessario di conseguenza l’uno dall’altro, venga riprodotta continuamente, cioè venga conservata da una qualche causa più elevata, che di necessità è Dio. Ora, su argomentazioni di questo genere non avrei mai osato adagiarmi, poiché possono troppo facilmente essere schivate da un ateo, a meno che per difenderle non possedessi l’ingegno dell’autore, che era in grado di difendere qualsiasi posizione, tanta era la sua bravura (...) La mente umana, infatti - come sarebbe pronto a rispondere l’ateo - può formare traendola da se stesso quell’idea di Dio di cui qui si discute. Quest’idea non sarà altro che una modificazione presente della mente, così come lo sono le altre nozioni, e un effetto della sua essenza e potenza (...) Cosicché non c’è alcuna sovrabbondanza dell’effetto sopra la capacità produttiva della causa, e non si estendono i pensieri al di là della mente stessa. Questa nozione di Dio, infatti, la mente la forma naturalmente e senza bisogno di alcuna causa più elevata, tanto quanto qualsiasi altra cosa agisce in qualsiasi altro modo.
Il razionalismo del Seicento, a cura di A. Pacchi, Torino, Loescher, 1982-1988
Henry More
Epistola ad V. C.
Lettere
E benché sia ben certo che un buon numero di fenomeni naturali possano venir spiegati in base a leggi meccaniche, di nulla tuttavia son tanto persuaso quanto del fatto che neppure la loro millesima parte possa essere spiegata in tale maniera. In primo luogo, infatti, se la costruzione del mondo intero fosse avvenuta per il solo fatto che Dio avesse agitato fino a un certo grado la materia, e l’avesse messa in movimento - compresi piante, corpi di bestie e perfino di uomini - la creazione dell’universo sarebbe da attribuire soltanto alla divina benevolenza e onnipotenza, escludendone la sapienza. A meno che qualcuno per caso ritenesse che non sia segno di minor sapienza aver creato di proposito la materia del mondo in modo tale che si manifestasse in tutta la sua bellezza in virtù delle sole leggi meccaniche necessarie, piuttosto che averne creata una che richiedesse innumerevoli correzioni e raffrenamenti dei movimenti che sviassero dai disegni prestabiliti. E poi, quelle leggi del movimento sono così semplici, e vanno indifferentemente in tutte le direzioni, che sembra del tutto incredibile che possa derivarne questa meravigliosa varietà delle cose (...), vai un po’ a considerare quanto siano leggiadre le forme di quelle cose che dovrebbero nascere dal cieco incontro, impatto e conglomerarsi di questi disordinati frammenti, con quale raffinata perizia movimenti di questo genere dipingano le ali delle farfalle e le code dei pavoni. Per non dire della stupefacente avvedutezza dimostrata dalla mente divina nella formazione delle parti interne degli animali: dove non c’è posto per nulla che sia a sproposito, ma i singoli organi sono realizzati con un’arte così accurata da rendere necessario riconoscere che a questa giurisdizione sovrintenda un principio molto più santo e divino della materia e del movimento corporeo. Infatti, anche se concedessimo (cosa che tuttavia in nessun modo concederei) che taluni animali inferiori possano venir prodotti in questo modo, è tuttavia assolutamente impossibile che tutte le specie animali siano state prodotte così, e che in questo caso nessuna sia stata formata a sproposito, da un principio così cieco e fortuito (...) In conclusione, a me sembra che confidare, per il fatto che il semplice movimento della materia può produrre alcuni fenomeni, nella possibilità di spiegarli tutti in questo modo, sia una volgarissima, ridicola e superstiziosa forma di adorazione e di culto della cieca materia, piuttosto che un legittimo modo di filosofare. E se di questo sono sempre stato sufficientemente persuaso, è certo che sono uscito dalla lettura di Cartesio persuaso al massimo. Non dubito infatti che questo filosofo incomparabile abbia dimostrato tutto quanto l’umano ingegno possa mai dimostrare partendo dalla spiegazione meccanicistica del reale. Ma mi sorprende che molto spesso egli sia venuto meno a quelle sue reiterate promesse sull’ininterrotta certezza delle conclusioni che si dovevano dedurre dalle leggi necessarie della meccanica, e ciò nel render ragione dei fenomeni naturali più rozzi e generali: infatti egli non si era spinto ancora al di là di quei limiti. E che cosa allora possiamo pensare che sarà per fare se tenterà di spiegare, in base a questi soli principi, la generazione del corpo umano o di qualche altro animale? (...) Per tutto ciò non si deve fare alcun torto al meraviglioso ingegno di Cartesio, benché nella sua filosofia generale, facendo ricorso a questo nesso meccanico e chiaramente necessitante, tutti gli elementi non combacino, così da poter presentare un’ininterrotta e omogenea catena; tuttavia bisogna ammettere che non poche catenelle di tal genere le riscontriamo auree, e realizzate con maestria; da tutte queste catenelle, rinserrate e legate insieme, non dalle nude leggi della materia, ma da una forza più divina, si fa una concatenazione di tutte le conclusioni, bella, certo, e solida quanto basta.
Il razionalismo del Seicento, a cura di A. Pacchi, Torino, Loescher, 1982-1988
Henry More
L’introduzione di Cartesio in Inghilterra si deve a Henry More, il più prolifico dei platonici di Cambridge e il più impegnato nel dibattito filosofico contemporaneo. More utilizza la prova ontologica di Cartesio per avallare l’ipotesi di un Dio creatore e conservatore dell’ordine dell’universo. Il pensiero di Cartesio viene quindi inserito in un’apologetica che ripercorre a ritroso le tappe della storia del pensiero occidentale, in accordo con il sincretismo rinascimentale di Pico della Mirandola e Ficino, fino a trovare un filo conduttore tra Cartesio, Democrito e il pensiero delle Scritture.
La filosofia cartesiana influenza comunque More sino a un certo punto. In un lungo carteggio, il filosofo inglese delinea quali sono i suoi punti di dissidio. Il centro del problema riguarda l’estensione delle sostanze spirituali: per Cartesio l’estensione si identifica con la corporeità, rimane quindi un problema da risolvere il rapporto con l’anima inestesa. La soluzione fornita da More verte sul fatto che la distinzione tra corpo e anima è preceduta dal rapporto tra la sostanza e l’estensione: quest’ultima in particolare è un attributo della prima. Quindi, dato che l’estensione è antecedente alla suddivisione della sostanza, il problema di Cartesio è risolto alla radice. Infatti si può tranquillamente concepire un’estensione spirituale che precederà quella corporea: in entrambi i casi si tratta di attributi della stessa sostanza. Nell’originale soluzione di More ogni sostanza, sia essa materiale o spirituale, è estesa. Si può vedere in questo il tentativo di risolvere il problema dell’unità della sostanza muovendo da un punto di vista “spirituale”, o, come diremmo oggi, mentale. Dio è concepito come un’infinita estensione spirituale. In questo modo, lo si può anche far equivalere al vuoto inesteso che circonda il mondo corporeo esteso.
Le osservazioni di More a Cartesio con l’ammissione del vuoto e la negazione dell’identificazione di materia ed estensione, poi riprese da Newton, portano ad asserire quindi l’esistenza dello spazio vuoto e ad associarlo a Dio. Poiché lo spazio è necessario, eterno e infinito, esso possiede alcuni attributi fondamentali della divinità. Se perciò Cartesio ipotizza una coincidenza di spazio e materia, le sue tesi finiranno col divinizzare la materia, giustificando l’accusa di ateismo rivolta alla sua dottrina. È infatti impossibile delimitare lo spazio senza che oltre i suoi limiti non ci sia altro spazio e quindi materia, ma questo annulla la sua creazione poiché prima della materia ci sarebbe ancora lo spazio che con quella si identifica. La materia sarebbe allora necessaria proprio come Dio: si aprono le porte così alla teoria di Spinoza. A questa accusa Cartesio risponde che prima della creazione il nulla e non lo spazio occupa il posto della materia, ma sia More sia Newton gli obiettano l’impossibilità di pensare l’annientamento dello spazio. Se anche i corpi cessano di esistere, al loro posto sussisterà sempre qualcosa: lo spazio per l’appunto, le cui caratteristiche ricadranno ancora sulla materia implicando la sua divinizzazione. In realtà sono i due pensatori inglesi a considerare lo spazio come eterno e increato e ad accusare poi Cartesio di divinizzare la materia identificandola con la loro concezione di spazio.
La costituzione gerarchica degli esseri propria del neoplatonismo costituisce un valido impianto in cui inserire il sistema di More. Tutta la realtà, scrive More nell’Enchiridion metaphysicum , è costituita da un principio spirituale, “lo spirito plastico” o “spirito della natura”, che altro non è che una rielaborazione della dottrina medievale dell’anima mundi e di quella stoica del pneuma. Lo spirito plastico parte dall’assoluta spiritualità di Dio e per emanazione degrada man mano che si discende verso gli esseri materiali. Anche la più infima parte di materia, tuttavia, conserva un qualche residuo di spiritualità, permettendo di mantenere unita la sostanza, anche da un punto di vista epistemologico. L’idea del degradare dello spirito permette un intervento ordinatore da parte di Dio nell’ordine dei fenomeni. Le leggi della meccanica non vengono per questo abolite: esse, sempre create da Dio, regolano gli eventi generali della natura. Il compito dello “spirito plastico” è quello di perfezionare i “meccanismi” più raffinati. Una tale concezione porta More a criticare ogni forma di materialismo e di meccanicismo. L’obiettivo polemico principale di More è Hobbes, le cui tesi deterministiche portano alla negazione dell’azione divina, della libertà umana e dell’attività e immortalità dell’anima, e costituiscono una delle forme più pericolose dell’ateismo speculativo, che More condanna non dal punto di vista di un’ortodossia religiosa, ma come forma di ragionamento infondato.
L’attività dell’anima viene spiegata dal filosofo di Cambridge con il ricorso al principio dell’estensione spirituale: l’anima è concepita come un punto spirituale esteso che si differenzia nelle varie funzioni per emanazione. Dal suo carattere puntuale deriva la sua unitarietà. Il suo collegamento con il corpo lo deve al fatto che ne condivide l’estensione; l’interazione anima-corpo si spiega con l’attrazione simpatetica posta tra di essi dallo spirito plastico. La teoria monadologica di Leibniz risentirà di quest’idea. Per dimostrare le sue tesi More non solo fa uso di temi filosofici, ma attinge largamente dalla tradizione magico-ermetica e cabalistica, producendo così una difficile letteratura del tutto priva di ordine, piena di rimandi occulti e da decifrare all’interno delle tradizioni più disparate. Questo stile si può ritrovare anche nell’Enthusiasmus triumphatus (la più politica delle opere del filosofo inglese) in cui si cerca di dimostrare l’equivalenza tra fanatismo, entusiasmo religioso e ateismo egualmente nemici della tolleranza e del razionalismo religiosi. Il tentativo di trovare prove scientifiche per l’ipotesi dell’esistenza di uno Spirito della Natura lo porterà a sostenere l’esistenza di spiriti e demoni e a utilizzare in tal senso i risultati di alcuni esperimenti condotti da Robert Boyle e da altri scienziati della Royal Society, attirandosi l’accusa di credulità e il biasimo per l’uso inappropriato di quei dati.
Sviluppi del platonismo: Cudworth
L’opposizione al materialismo è un tratto che contraddistingue anche il pensiero di Ralph Cudworth, docente a Cambridge come l’amico More. Anche per Cudworth la realtà si fonda su un principio spirituale. Fare ricorso all’estensione materiale, e quindi al meccanicismo, per spiegarla, equivale a negare ogni attività nella natura. Non si vuole, con questo, negare validità al meccanicismo nell’analisi della natura inorganica, ma neppure lo si può assumere come ipotesi esaustiva nella spiegazione dei fenomeni. Se la materia è infatti passiva, cosa dire dell’attività della mente, del pensiero, della volontà, delle azioni e, in filosofia naturale, delle forze e dei movimenti? Non resta che ammettere l’esistenza di un principio attivo che muove la materia e che le è estraneo: la “mente”. La materia è messa in forma dal principio della “natura plastica”, che è l’equivalente dello “spirito plastico” di More e che costituisce l’intermediario tra il divino e il mondo naturale, riecheggiando l’anima mundi platonica. Come in More, anche in Cudworth la gerarchia neoplatonica degli esseri costituisce la cornice entro cui inserire il percorso che collega la materia più infima a Dio.
Per quanto riguarda la conoscenza, Cudworth sviluppa una teoria epistemologica innatista tra le più complete nel panorama del platonismo cantabrigense. Idee e principi morali sono realtà eterne nella mente divina e innate nell’uomo: conoscere equivale a usare le idee presenti nell’intelletto umano, poste da Dio, per “anticipare” la presenza delle cose. È un processo attivo, così che la conoscenza nel senso più autentico del termine è quella innata. Ciò non toglie l’importanza delle sensazioni, seppur sempre elaborate dall’intelletto, per la conoscenza del mondo naturale, che si presenta intellegibile in quanto ordinato secondo il modello degli archetipi divini.
Meno originale di More, Cudworth è più inserito nella vita politica: si adopera infatti per adattare le sue idee sull’anima e sul mondo all’elaborazione di un’etica. I principi morali sono da annoverare tra le idee universali: sono quindi immutabili e non dipendono dalla volontà. Il fatto che non si rispetti una norma è un errore dell’intelletto e non della volontà. Questa posizione permette una grande libertà. Ognuno può scegliere di agire secondo la coscienza della propria decisione razionale. Dio garantisce l’universalità dei principi etici, che sono però pur sempre generati dalle singole menti. La volontà è sì subordinata al giudizio della ragione, ma è anche vero che in questo modo è libera di prendere posizione e di autodeterminarsi.
Leggi della natura e leggi morali: Culverwell
Il nucleo della riflessione di Nathaniel Culverwell, che si trova nel Discorso sul lume naturale, ruota attorno alla capacità della ragione di illuminare la via dell’uomo. Per illustrare quest’idea viene ripresa l’immagine biblica, già usata da Whichcote, della “candela del Signore”. Il punto di avvio di tutta la riflessione viene individuato in un’analisi della conoscenza in cui si sostiene con decisione un’epistemologia di stampo innatista insieme al ruolo dell’esperienza sensibile. Culverwell parla di alcuni “chiari e indelebili principi”, “stampati nella mente”, e di un “lume intellettuale” (la ragione) posto da Dio nell’anima per renderle possibile la comprensione delle leggi della natura stabilite dalla volontà divina. In anticipo su Locke, Culverwell enfatizza al contempo il ruolo epistemologico della sensazione: l’evidenza delle percezioni elimina i pericoli dello scetticismo e mette fuori gioco le tesi preconcette dei dogmatici aristotelici. Inizia a partire dalla sensazione quel processo che grazie alla luce della ragione porta a riconoscere le leggi naturali e morali che Dio ha stabilito per reggere il mondo e gli uomini.
Ciò che soprattutto interessa Culverwell è capire quali sono le leggi che regolano l’attività morale dell’uomo. Il richiamo al volontarismo è dunque fondamentale e va inteso in due modi: da un lato il volontarismo della legge divina che crea il mondo e, dall’altro, la volontà umana di usare la ragione per chiarire quelle leggi innate che sono a fondamento del suo agire.
Esiti e sviluppi del movimento
Dopo le sintesi dei suoi maggiori interpreti, l’indirizzo della filosofia di Cambridge si parcellizza nell’opera di alcuni studiosi che valorizzano un singolo aspetto dei tanti temi considerati, dimenticando che la caratteristica principale della corrente era l’accogliere e cercare un accordo tra diverse posizioni. In particolare, a partire dalla metà del secolo assistiamo all’accentuarsi di temi fideistici e scettici. Questo indirizzo è stato sicuramente influenzato da Joseph Glanvill. Studioso e uomo politico di estrazione oxoniense, Glanvill è legato agli intellettuali di Cambridge dai rapporti di amicizia intrattenuti con More sulla base del comune interesse per i fenomeni di magia (uno dei modi in cui si manifesta la spiritualità che anima l’universo) e della comune avversione al meccanicismo materialista, equiparato a un moderno sadduceismo.
L’intento di Glanvill è quello di evitare ogni posizione dogmatica: nella sua opera maggiore, Vanità del dogmatismo , si trova espressa una posizione tollerante con una decisa interpretazione in chiave erastiana dei rapporti tra Chiesa e Stato. Per quanto riguarda l’analisi della conoscenza, Glanvill esamina in modo approfondito tutte le grandi indagini sui suoi fondamenti, come il rapporto mente-corpo o il nesso di causa-effetto, ritenendole insoddisfacenti. L’analisi meccanicistica e l’induzione sperimentale si rivelano strumenti limitati solo ai fenomeni più generali della natura. Lo stato migliore per il progresso della conoscenza e della scienza è quello di una continua incertezza: “La sicurezza nelle incertezze è il maggior nemico di ciò che è certo”.
La salvaguardia di alcuni punti della matematica e dei precetti teologici impediscono di vedere in Glanvill il sostenitore di uno scetticismo totale. La stessa cosa non può essere affermata invece per quanto riguarda il pensiero di Thomas Baker che sostiene la tesi dell’incertezza di tutte le scienze: esse infatti dipendono da ipotesi i cui assunti di fondo non potranno mai essere dimostrati, né provati. L’unica soluzione è quella di affidarsi in tutto e per tutto alla rivelazione.
Vicino alle idee di Baker è anche Richard Burthogge che si caratterizza per una posizione che relativizza ogni conoscenza al soggetto. Principi come quello della connessione tra causa ed effetto o del rapporto tra sostanza e accidente (o ancora il rapporto tra l’intero e la parte) hanno un’esistenza esclusivamente nella mente del soggetto che li pensa: un’idea di cui risentiranno Berkeley e Hume. Anche l’interpretazione della verità segue questa posizione: essa infatti non è concepita come un accordo tra l’intelletto e una cosa (o uno stato di cose) esterna, quanto come un’armonia tra contenuti mentali. Proprio per evitare ogni forma di filosofia che, ponendo l’accento sulla volontà individuale, conduca a esiti scettici e a posizioni individualiste, studiosi come George Rust pongono tutto l’interesse delle loro ricerche su una rigorosa difesa dell’eternità e necessità di quelle idee e principi morali che sono innati nella ragione di ogni uomo.