I Padri cappadoci
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
L’abitudine di raggruppare Basilio di Cesarea, Gregorio di Nissa e Gregorio di Nazianzo sotto la comune etichetta di Padri Cappadoci risale almeno alla fine del XIX secolo. Oggi, tuttavia, nonostante questa definizione sia ancora stabilmente nell’uso, c’è una crescente tendenza a mettere in luce i tratti distintivi di ognuno dei tre, le cui esperienze biografiche mostrano modi molto diversi di affrontare il ruolo di intellettuale e guida morale e politica in seno al cattolicesimo niceno.
Basilio viene alla luce a Cesarea di Cappadocia, in seno a una ricca e influente famiglia cristiana: il padre Basilio il Vecchio, originario del Ponto, è un retore piuttosto affermato, mentre la madre Emmelia, una cappadoce, proviene da un ambiente sociale cristianizzato da tempo. L’educazione di Basilio si svolge tra Costantinopoli, dove probabilmente è allievo di Libanio e Atene, dove sono attivi il retore cristiano Proeresio e il retore pagano Imerio, mentre la scuola neoplatonica è diretta da Prisco, un allievo di Giamblico. Che Basilio (insieme al suo compagno Gregorio di Nazianzo) sia entrato in contatto con questi personaggi è probabile, ma nessuna delle fonti lo afferma esplicitamente. È il 355 quando il futuro vescovo di Cesarea torna in patria, con l’intenzione di darsi alla carriera di retore. A metterlo sulla strada dell’ascesi è la sorella Macrina (che a buon diritto potrebbe definirsi la “quarta” cappadoce), ritiratasi nel frattempo ad Annisi con la madre, dove fonda due comunità monastiche, una femminile e una maschile (diretta dall’altro fratello Pietro). Prima di recarsi in Ponto, però, Basilio intraprende una serie di viaggi che lo mettono in contatto con i centri ascetici sparsi in Celesiria, Palestina, Egitto e Mesopotamia. Battezzato al suo ritorno nel 358, con una serie di inviti pressanti ottiene che l’amico Gregorio di Nazianzo lo raggiunga ad Annisi: è in questa occasione che i due compongono la Philokalia, un’antologia tratta dalle opere di Origene.
Passano pochi anni e Basilio scrive la sua opera teologica fondamentale: la Contro Eunomio, in risposta al vescovo di Cizico, un anomeo, che aveva difeso in un’Apologia le sue posizioni neoariane. In particolare Eunomio sosteneva una concezione trinitaria secondo cui il Padre aveva creato il Figlio senza trasmettergli la propria stessa sostanza. Il Figlio risultava quindi “diverso” (anomoios) dal Padre. La risposta di Basilio è chiara e riprende argomentazioni della tradizione nicena: Padre e Figlio, nell’unità inconfusa della Trinità, hanno una sostanza comune, mentre la diversità dei loro nomi riflette semplicemente proprietà particolari che non influiscono sulla loro consustanzialità. Qualche tempo dopo, Basilio si trasferisce nuovamente a Cesarea, di cui diventerà vescovo attorno al 370. In questo periodo si dimostra attento alle esigenze delle classi più disagiate, impegnandosi in un’opera di assistenza ai malati e ai poveri, che culminerà nell’aiuto fornito alla popolazione duramente colpita dalla carestia del 369. Negli anni successivi all’elezione al vescovato, Basilio compone uno degli scritti che meglio rispecchia la temperie culturale dell’epoca: L’orazione ai giovani. Qui descrive la maniera corretta di avvicinarsi alla cultura profana, da utilizzarsi (mantenendo comunque un occhio critico) come esercizio propedeutico alla lettura dei testi sacri, cardine della paideia cristiana.
Dal punto di vista politico, gli anni dell’episcopato sono caratterizzati da un’intensa attività volta a creare una rete di relazioni e alleanze utili a “blindare” la provincia di Cappadocia contro le influenze ariane. Dal punto di vista dottrinale, uno dei temi salienti è quello della divinità dello Spirito Santo, negata in quel periodo da Eustazio di Sebaste, di cui era stato amico: il vescovo di Cesarea consacra al problema il suo trattato Sullo Spirito Santo. Purtroppo, Basilio non riesce a veder maturare i successi della sua strenua battaglia dottrinale ed ecclesiastica: muore infatti il primo gennaio 379. Della sua produzione vanno ancora ricordate le Omelie sull’Esamerone, in cui, inserendosi nella tradizione del Timeo platonico, discute temi cosmologici, con una spiccata tendenza antiorigenista.
Ma una delle grandi eredità lasciata da Basilio al millennio bizantino è rappresentata dalle “regole” pensate per i monasteri di tipo cenobitico fondati in Ponto e Cappadocia. La tradizione è piuttosto complessa: si distingue un cuore, costituito dai precetti etici, in forma di 1500 versetti evangelici, ripartiti in 80 regole. C’è poi il Piccolo Ascetikon conservato nella traduzione latina di Rufino, in cui si trovano unite “regole diffuse”, ossia 55 “domande e risposte”, piuttosto lunghe, precedute da testi introduttivi (originariamente omelie) e accompagnate dalle lettere di Basilio alle sue comunità, e “regole brevi”, ossia 313 “domande e risposte” di tipo molto più succinto. Viene infine il Grande Ascetikon, con istruzioni per la vita monastica.
L’educazione di Gregorio di Nissa, la cui data di nascita oscilla tra il 332 e il 340, avviene presumibilmente nella città natale, sotto l’egida del fratello maggiore Basilio appena tornato da Atene. Al contrario di Basilio, però, nonché dell’amico Gregorio di Nazianzo e, soprattutto, della sorella Macrina, il Nisseno pare in un primo tempo rifuggire da una vita di tipo ascetico. Sceglie al contrario il matrimonio e la carriera retorica che era stata del padre. La sua esistenza viene sconvolta quando Basilio, intento a combattere contro la decadenza politica della sede episcopale di Cesarea, dopo la divisione amministrativa della Cappadocia, e il crescente potere del vescovo ariano di Tiana, Antimo, decide di nominarlo vescovo di Nissa nel 372. I primi anni non sono facili: l’opposizione esercitata dai sostenitori dell’imperatore filoariano Valente culmina nella deposizione di Gregorio da parte di un sinodo ariano nel 374. La svolta nella carriera ecclesiastica arriva con la morte dell’imperatore ad Adrianopoli nel 378 e con quella del fratello Basilio nel 379: una volta tornato dall’esilio, cresce infatti l’importanza del Nisseno tra i difensori dell’ortodossia, mentre si intensificano i rapporti con l’imperatore, come dimostrano le orazioni in morte di Pulcheria e Flaccilla, rispettivamente figlia e moglie di Teodosio. Gregorio svolge così un ruolo fondamentale durante il concilio di Costantinopoli del 381, che vede la condanna degli anomei. Dopo la metà degli anni Ottanta del IV secolo, sceglie però la vita monastica e decide di ritirarsi in un monastero basiliano, dedicando il resto della vita, fino al 394, data presunta della morte, all’attività letteraria.
In Gregorio di Nissa si realizza più che mai quella fusione tra “paideia esterna” (cioè profana) e “filosofia interna” (cioè cristiana), tipica della produzione dei Cappadoci e del loro ambiente culturale (per cui è stata coniata la controversa definizione di “platonismo cristiano”). Questa compenetrazione è visibile già dai generi praticati da Gregorio: esemplari a questo proposito la Vita di Macrina e il dialogo Sull’anima e la resurrezione. Nella prima, il Nisseno, rivisitando la classica struttura del racconto agiografico, crea una sorta di nuovo “romanzo” cristiano, capace di sfruttare e adattare al nuovo pubblico stilemi narrativi tipici della letteratura di intrattenimento pagana. Nel secondo, Gregorio, riprendendo lo schema del Fedone platonico, con Macrina al posto di Socrate, e integrando elementi del pensiero filosofico neoplatonico (specialmente Porfirio e Plotino), cerca di dare un’esposizione organica della psicologia cristiana e del rapporto anima-corpo.
Uno dei cardini del dialogo è rappresentato dagli interrogativi relativi alla funzione del corpo, al suo ruolo nel periodo successivo alla morte e allo stato intermedio dell’anima prima della resurrezione. Un problema affrontato anche nelle due opere Sui morti e De opificio hominis, fondamentale tentativo quest’ultimo di creare un’antropologia cristiana, capace di competere con quella dei filosofi pagani e destinata a completare il quadro presentato da Basilio nelle Omelie sull’Esamerone. Il punto cruciale esposto da Macrina nel dialogo di cui è protagonista è la profonda interconnessione tra anima e corpo (la cui forma è determinata dalle caratteristiche morali del soggetto), in conseguenza della quale entrambi concorrono a definire l’identità individuale (qui Gregorio contraddice la teoria origeniana della preesistenza delle anime). Anche dopo la morte e prima della resurrezione il corpo rimane parte integrante dei processi conoscitivi dell’anima e della sua esistenza.
Nel De opificio hominis, Gregorio si confronta anche con lo spinoso tema della creazione del genere umano, descritta come atto creativo dell’umanità nella sua totalità, immagine diretta di Dio nel suo aspetto intellettuale, prima di qualsiasi suddivisione individuale o di genere, atto destinato poi a perfezionarsi e completarsi nella contingenza delle singole esistenze (per questo motivo si usa parlare di “doppia creazione”, anche se il Nisseno concepisce la creazione come attività singola e istantanea). Quanto alla mistica gregoriana, uno dei punti centrali rimane la nozione di epektasis (termine di lontana ascendenza medioplatonica) esposta specialmente nella Vita di Mosé e nelle Omelie sul Cantico dei Cantici: si tratta del continuo processo di ascesa dell’anima verso Dio, un processo destinato a non compiersi mai data l’infinità e l’incircoscrivibilità di Dio. Va ricordato infine l’imponente sforzo dogmatico dei libri Contro Eunomio, volti a chiarire in senso niceno i rapporti tra il Padre e il Figlio nella Trinità e composti tra il 380 e il 384 in risposta all’Apologia dell’Apologia, con cui Eunomio aveva ribattuto alle accuse mossegli da Basilio. Originariamente in tre libri, il trattato circolerà in età bizantina in una versione in quattro libri, dopo l’aggiunta della Confutazione del credo di Eunomio, collocata dopo il secondo libro, a sua volta spostato alla fine dell’opera.
Già una sessantina d’anni dopo la sua morte, Gregorio di Nazianzo viene ricordato negli Atti del concilio di Calcedonia (451) semplicemente come il “Teologo”: un epiteto condiviso con Giovanni Evangelista e destinato a definirlo per tutto il Medioevo greco. Eppure, la vita di Gregorio di Nazianzo si presenta tutt’altro che lineare. Nato nella tenuta di famiglia di Karbala, in prossimità di Arianzo in Cappadocia, tra il 326 e il 330, viene allevato nella fede cristiana dopo che il padre, Gregorio il Vecchio, poi eletto vescovo di Nazianzo nel 329, si era convertito al cristianesimo dietro pressione della moglie Nonna, proveniente da una famiglia influente e colta. Gregorio, insieme al fratello Cesario (più tardi diventato medico a Costantinopoli e deceduto prematuramente attorno al 368-369), riceve un’educazione sofisticata, prima a Cesarea di Cappadocia, poi a Cesarea di Palestina (dove avverrà l’incontro fondamentale con gli scritti e la tradizione origenista), successivamente ad Alessandria (una delle tappe fondamentali nel percorso formativo dei giovani di buona famiglia in età tardoantica), e infine ad Atene, dove stringerà l’amicizia più importante della sua vita, quella con il conterraneo Basilio (ne celebrerà la vita nell’orazione funebre 43).
Gregorio torna in Cappadocia solo alla fine degli anni Cinquanta, dopo un decennio di “vagabondaggio culturale”, con la ferma intenzione di dedicarsi alla “filosofia”, termine con il quale designa (come usuale nella risemantizzazione cristiana del termine) una vita spesa nella contemplazione e nel ritiro spirituale. I propositi di Gregorio si scontrano però ben presto con l’energica attività di Basilio, che si serve del Nazianzeno per i suoi fini politici. Inoltre, a Nazianzo, il padre, ormai più che ottantenne, si trova a dover amministrare il seggio episcopale e richiede quindi il suo aiuto. Il lacerante dissidio tra theoria e praxis– che riecheggia per altro anche negli scritti dell’arci nemico pagano Giuliano l’Apostata, contro cui Gregorio scrive le orazioni 4 e 5 – è in effetti uno dei temi ricorrenti tanto nell’epistolario di Gregorio (249 lettere in tutto), quanto nei suoi versi autobiografici (parte della sua imponente composizione poetica è confluita nell’ottavo libro dell’Antologia Palatina, consacrato esclusivamente ai suoi versi).
Per più di una volta il Nazianzeno risolve il conflitto nel più semplice dei modi, con la fuga: la prima volta da Sasima (e si difende nell’orazione 2), dove era stato ordinato vescovo da Basilio, attorno al 372-73, poi di nuovo, nel 375, da Nazianzo, dopo la morte del padre di cui aveva preso il posto. Tuttavia, dopo la caduta di Valente, l’esigenza di rafforzare il partito pro-niceno lo spinge ad accettare l’incarico più importante e difficile della sua vita: il seggio episcopale di Costantinopoli (379-381). Qui ha anche occasione di fare da maestro a San Girolamo, che più tardi si rammaricherà della mancanza, tra i Latini, di una personalità come quella del Nazianzeno (Contro Rufino, I 13). Sono di questo periodo alcune delle sue orazioni più importanti, tra cui vanno ricordati soprattutto i cinque Discorsi teologici (27-31), in cui rafforza il tema niceno dell’unità e consustanzialità delle persone della Trinità, e che probabilmente Gregorio stesso pubblica in vita come un gruppo coerente e autonomo (sono in tutto 45 le sue omelie conservate dalla tradizione manoscritta). Le cinque orazioni sono indirizzate al pubblico di Costantinopoli, nel tentativo di distoglierlo dalle dottrine anomee di Eunomio di Cizico, contro cui si erano già battuti Basilio e Gregorio di Nissa. Il Nazianzeno elabora così il suo discorso teologico, essenzialmente apofatico, fondato sulla convinzione che l’essenza della divinità sia inconoscibile dalla ragione discorsiva o con i mezzi dialettici (e per questo accusa Eunomio di essere un “tecnologo aristotelico”). Un’altra parte consistente delle orazioni è consacrata all’esposizione della dottrina dell’omoousia nicena, che riprende la distinzione basiliana tra sostanza e ipostasi. Gregorio, inoltre, descrive nell’orazione 29 un processo di passaggio dalla Monade alla Triade che, descritto in termini di “movimento” e “riversamento”, ricorda molto da vicino la filosofia plotiniana. Ed è sempre lui a introdurre il termine di “processione” per indicare il modo in cui lo Spirito Santo proviene dal Padre, pur senza esserne generato come accade per il Figlio. È questa una terminologia che riecheggerà ancora nei secoli a venire negli scritti teologici bizantini.