I maestri tardoclassici: Skopas e gli altri scultori del Mausoleo di Alicarnasso
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Promuovendo la realizzazione del proprio sepolcro, il satrapo Mausolo di Caria è riuscito nello scopo di eternare la propria memoria in quello che è diventato il monumento funerario per antonomasia e la più rappresentativa realizzazione dell’architettura e dell’arte greche del IV secolo a.C. Nel Mausoleo di Alicarnasso si incontrano la sensibilità occidentale e quella orientale, trovando una mirabile sintesi espressiva grazie allo scalpello di alcuni dei principali scultori greci dell’epoca, tra cui Skopas di Paro.
La principale impresa architettonica e artistica greca del IV secolo a.C., destinata a diventare un simbolo dell’arte del tempo come il Partenone lo è per quella del V secolo a.C., si trova fuori della Grecia propria, ad Alicarnasso, città della costa sud-orientale della regione microasiatica della Caria; e non si tratta di un tempio, né di un grande edificio pubblico, bensì di una tomba: il monumentale sepolcro di Mausolo, satrapo della Caria tra il 377 e il 353 a.C. La fama straordinaria che ha da sempre accompagnato il Mausoleo di Alicarnasso è dimostrata dalla sua inclusione nell’elenco delle sette meraviglie del mondo antico fin dalle prime attestazioni note di questo canone, elaborato in ambito alessandrino nel corso del primo ellenismo; ma anche dal diffuso utilizzo del termine “mausoleo”, che probabilmente già a partire dalla conclusione dei lavori per la realizzazione del monumento passa ad indicare tutte le tombe monumentali di tipo principesco.
L’audace, innovativa costruzione si colloca al centro della disposizione scenografica a terrazze digradanti verso il mare del quartiere monumentale della città, frutto della profonda trasformazione dell’assetto urbano progettata dallo stesso Mausolo al fine di adeguare l’aspetto di Alicarnasso al nuovo ruolo di capitale conferitole dal satrapo agli inizi del suo regno; ed è da ritenere che il Mausoleo sia compreso fin dall’inizio nel progetto urbanistico, anche se le fonti assicurano che i lavori siano iniziati solo dopo la morte di Mausolo, per iniziativa di Artemisia, sua sorella e moglie.
Mausolo è un satrapo intraprendente ed innovatore, che ha saputo conquistarsi una certa autonomia di gestione del proprio territorio rispetto al regime persiano, e che certo dispone di consistenti risorse economiche; notevole la trasformazione, politica e culturale, che riesce ad imporre alla regione. Il trasferimento della capitale da Milasa ad Alicarnasso prevede anche un atto di sinecismo, che coinvolge sei piccole comunità; la città diventa vivace ed eterogenea, ricca di elementi culturali di diversa origine, tra cui quello greco esercita un’influenza considerevole. È da supporre che, in virtù di tale sinecismo e della conseguente fioritura della città, Mausolo si sentisse una sorta di nuovo fondatore di Alicarnasso, paragonabile ai mitici ecisti delle città greche: e la sua tomba si colloca al centro della città (proprio come i sepolcri dei personaggi legati alla nascita delle città in Grecia) ben distinguibile anche a grande distanza, a connotare fortemente, in senso dinastico e celebrativo, il profilo urbano. Le fonti letterarie antiche più importanti ai fini della conoscenza del Mausoleo di Alicarnasso sono Plinio il Vecchio (Nat. Hist. XXXVI, 30-31) e Vitruvio (Sull’architettura, VII Pref., 12-13); la loro testimonianza, combinata con i risultati delle campagne di scavo condotte tra 1856 e 1865 (da una missione britannica) e nuovamente a partire dal 1966 (grazie all’iniziativa della Missione Archeologica Danese), consentono di ricostruire l’aspetto del monumento e le sue dimensioni, anche se permangono alcune incertezze. La struttura si compone di un podio suddiviso in più gradoni, che sostiene una peristasi ionica (che Plinio chiama pteron) con nove colonne sui lati brevi e undici su quelli maggiori, sormontata da una piramide a 24 gradini coronata da una quadriga, simbolo del potere dinastico, ma forse anche allusione all’apoteosi del satrapo: è possibile che nella quadriga trovi posto una statua dello stesso Mausolo, accompagnato da una Nike o da una qualche divinità. Il monumento è adornato da una ricchissima decorazione scultorea, con statue a tutto tondo di varie dimensioni (dal modulo “colossale” di 3 metri di altezza fino a statue a grandezza naturale) e lastre scolpite a rilievo; l’effetto scenografico dell’insieme si avvale inoltre della sapiente contrapposizione di diversi tipi di materiali litici (tra cui il marmo bianco e una pietra calcarea di colore bluastro) e di una vivace policromia.
Il progetto si richiama alla tipologia dei sepolcri monumentali della Licia, di cui si conoscono superbi esempi, tra i quali basti citare il monumento delle Nereidi a Xanthos, databile intorno al 380 a.C.: ma ben più grandiosa è la scala dimensionale e assai più ricca ed eterogenea la decorazione scultorea, che affianca temi iconografici persiani ad altri greci, utilizzando però un linguaggio figurativo che è puramente greco. Vitruvio ricorda i nomi dei responsabili del progetto, gli architetti Satiro e Piteo: a quest’ultimo, sulla base della testimonianza di Plinio, è probabilmente da attribuire anche la realizzazione della quadriga che corona la sommità del monumento. Ma gli artisti più legati al Mausoleo, quelli che con il loro lavoro, secondo Plinio, lo hanno reso così straordinario, sono quattro scultori, ad ognuno dei quali il naturalista attribuisce la decorazione di un lato del monumento: Briasside per il lato nord, Timoteo per il lato sud, Skopas per il lato est e Leocare per quello ovest. Si tratta di artisti di altissimo livello, la cui attività è nota, in misura diversa, grazie alle fonti letterarie, alle copie di età romana e anche a qualche originale; e il recupero dell’enorme quantità di frammenti della decorazione scultorea del Mausoleo, iniziato già nel XV secolo (quando i Cavalieri di San Giovanni costruiscono una fortezza sul promontorio dello Zefirio, in precedenza occupato dal palazzo di Mausolo, reimpiegando numerosi frammenti del Mausoleo come materiale da costruzione) ha rappresentato, e rappresenta, per gli studiosi una eccezionale opportunità di associare sculture originali, ben contestualizzate e datate, nonché pertinenti ad una struttura così significativa, a personalità artistiche di spicco della Grecia classica. È però a questo punto necessario introdurre gli scultori del Mausoleo.
Il nome di Timoteo compare in una epigrafe greca (IG IV2 1, 102) che documenta i costi, i tempi e l’organizzazione del lavoro all’interno del cantiere del tempio di Asclepio ad Epidauro, costruito negli anni intorno al 380 a.C. Secondo questa fonte, Timoteo avrebbe ricevuto una somma considerevole per la realizzazione di typoi: alcuni studiosi hanno supposto che lo scultore avesse realizzato i bozzetti per tutte le sculture che componevano i due gruppi frontonali (quello est raffigurante la presa di Troia, quello ovest una Amazzonomachia), poi tradotti nel marmo da altri due scultori, i cui nomi sono ricordati nell’epigrafe. Ma il termine typos significa, generalmente, “rilievo” o “calco”, piuttosto che modello; e considerando anche che l’artista, nel periodo di attività all’interno di questo cantiere, doveva essere piuttosto giovane, e troppo poco esperto per sovrintendere alla progettazione di entrambi i gruppi frontonali, è più probabile che avesse realizzato dei rilievi, o delle matrici per rilievi, in terracotta o in gesso.
Sono invece sicuramente da ricondurre al suo scalpello (sempre sulla base della testimonianza fornita dall’epigrafe) gli acroteri della facciata ovest del tempio: due Aure a cavallo collocate alle due estremità e, al centro, una Nike in volo, nell’atto di planare. Un vento impetuoso sembra investire dal basso le tre figure femminili, incollando ai loro corpi le vesti sottili che formano pieghe increspate e viluppi di stoffa dall’effetto quasi metallico, e che scoprono indiscrete o velano, enfatizzandole, le delicate forme muliebri. Risulta convincente l’ipotesi di ricondurre a Timoteo anche una statua femminile, più piccola del naturale, rinvenuta nel tempio di Epidauro, e raffigurante forse Igea: la posa della figura, leggermente inclinata in avanti, e il tipo di panneggio, che scopre il seno sinistro scendendo in una piega voluminosa sul petto, avvicina molto questa statua all’acroterio sinistro della facciata ovest.
La medesima posa e la stessa trattazione del panneggio tornano in un tipo statuario che sembra aver goduto di notevole fortuna in età romana, forse per l’erotismo un po’ morboso del mito cui si ispira e per il languore manierato che emana, e che è noto in una trentina di repliche: il tipo, che è stato avvicinato all’attività di Timoteo pure in assenza di testimonianze letterarie, rappresenta Leda, sensualmente stretta al cigno, che solleva il braccio sinistro allargando le pieghe dell’himation che creano un bel contrasto coloristico con la carnosità del nudo; il suo volto si alza a seguire languidamente il movimento del braccio, con un atteggiamento che ricorda quello che caratterizza il Pothos di Skopas. A questo artista le fonti antiche riconducono anche la statua di Artemide che, accanto all’Apollo di Skopas e alla Latona di Cefisodoto il Giovane, costituiva la triade apollinea all’interno del tempio di Apollo sul Palatino a Roma: delle tre statue si riconosce un riflesso nel rilievo della cosiddetta Ara di Sorrento. Ben poco si sa dell’origine e della formazione di Timoteo; anche se originario del Peloponneso, come è stato proposto, si forma sicuramente ad Atene, forse presso i maestri della fine del V secolo a.C., Agoracrito e Callimaco. Timoteo viene ritenuto il più anziano tra gli scultori del Mausoleo per la sua sicura attività nel cantiere di Epidauro, ma anche per il suo indubbio legame con il manierismo postfidiaco.
Anche Skopas di Paro, prima della sua collaborazione al Mausoleo di Alicarnasso, lavora, sia come scultore che come architetto in base alla testimonianza di Pausania (Periegesi della Grecia VIII, 45, 4-7), nel cantiere di un grande tempio in costruzione, o meglio in ricostruzione: si tratta del santuario di Atena Alea a Tegea in Arcadia, distrutto da un incendio nel 395 a.C. e restaurato circa mezzo secolo dopo. I temi mitologici scelti per i due frontoni, la caccia al cinghiale di Calidone in quello orientale e lo scontro tra Achille e Telefo, figlio di Eracle, in quello occidentale, sono legati alle leggende locali: nel tempio infatti è esposta, a mo’ di reliquia, la pelle del cinghiale calidonio, qui dedicata dall’eroina arcade Atalanta, e si rammenta la leggendaria permanenza nel santuario della sacerdotessa Auge, madre di Telefo. I frammenti conservati delle sculture frontonali, anche se non di mano dello stesso Skopas (più probabilmente si tratta di opere del suo atelier), si configurano comunque come altamente rappresentativi dei caratteri più innovativi del suo stile, la cui cifra fondamentale consiste nel pathos, nell’espressione efficace e immediata dei sentimenti e delle passioni dell’anima.
La testa di Eracle coperta da leonté e una testa maschile con elmo, forse di Telefo, entrambe dal frontone ovest, illustrano nel modo migliore il patetismo dello scultore pario: gli occhi fortemente incavati sotto i prominenti muscoli sopracciliari lanciano sguardi gonfi di ansia, di attesa, di paura; i volti forti, quadrangolari, si inclinano sui colli robusti come a spiare in ogni direzione l’arrivo del Fato, mentre le labbra si schiudono; i contrasti chiaroscurali tra le superfici dei volti e le masse dei capelli si fanno netti e drammatici.
Una ben più accentuata torsione della testa caratterizza la posa dinamica di una statuetta conservata nell’Albertinum di Dresda, nella quale si è riconosciuta l’unica copia conservata di un’opera di Skopas che nell’antichità gode di una notevole fama e che rappresenta un soggetto privilegiato nella letteratura ecfrastica, quella cioè specializzata nella descrizione virtuosistica delle opere d’arte. Si tratta di una immagine di Menade in pieno furore dionisiaco, con il corpo giovane e muscoloso che si tende nell’estasi, svelato dal chitone che si apre sul fianco con il movimento, la testa arrovesciata all’indietro a spargere i lunghi capelli sulla schiena, il volto dall’espressione rapita. Un poeta, in un epigramma dell’Antologia Planudea (n. 60), chiede se sia stato Dioniso o Skopas stesso a condurre la Menade al furore: come nel Satiro di Mazara, l’esperienza dell’estasi dionisiaca appare colta nella sua più intima essenza, ed espressa nella sua coinvolgente complessità, in un momento in cui in Grecia i misteri dionisiaci sembrano assumere un’importanza sempre crescente.
E, come Prassitele, Skopas riesce a dare un proprio, originalissimo contributo non soltanto al repertorio figurativo dionisiaco, ma anche all’insieme dei soggetti legati alla tematica amorosa: allo scultore è stato ricondotto un tipo iconografico, noto in poco meno di 30 copie, in cui si riconosce l’allegoria del Pothos (cioè di un aspetto particolare del sentimento d’amore, il desiderio nostalgico per l’assente) che nel tempio di Afrodite a Megara, secondo Pausania (Periegesi della Grecia I, 43, 6) formava un gruppo allegorico con Eros (l’amore attivo) e Himeros (il desiderio irrefrenabile per l’essere amato presente). Il Pothos, perfetta rappresentazione allegorica della nostalgia d’amore, è un giovane appena uscito dall’adolescenza, dal nudo morbidissimo, ripreso in una posa instabile ed inquieta, con le gambe incrociate e il torso fortemente inclinato che si abbandona appoggiandosi lateralmente al tirso; la testa si inclina all’indietro, a seguire l’errabonda direzione dello sguardo. L’attitudine da eroe romantico, lo sguardo malinconico, e l’inquieta tensione della posa hanno fatto ricondurre a Skopas anche il Meleagro dei Musei Vaticani, che, pur nella freddezza accademica dovuta al copista, rivela l’intensità dello stile scopasico. Insieme a Prassitele, Skopas è certamente l’artista più poliedrico e rappresentativo della scultura greca del IV secolo a.C.: è stato giustamente osservato che, mentre Prassitele ha ripensato e rielaborato le regole dell’arte classica, Skopas le ha infrante, introducendo nella scultura un’inquietudine energica, talvolta violenta, che preannunzia alcune formule che saranno tipiche dell’arte ellenistica.
Come Skopas, anche Leocare è celebrato nella letteratura ecfrastica per una sua opera: il Ganimede in volo con l’aquila, apprezzato per la cautela con cui l’animale ghermisce le carni delicate del fanciullo (Plinio il Vecchio, Nat. Hist. XXXIV, 79). Di quest’opera famosa si è voluto vedere un riflesso in un modesto trapezoforo (un sostegno per tavolo) in marmo dei Musei Vaticani: ma la vaghezza, la banalità di questo tipo di apprezzamenti non consente mai una inattaccabile identificazione delle repliche di un tipo iconografico. L’artista è altresì noto nelle fonti per essere lo scultore di corte di Filippo II di Macedonia, come Lisippo sarà lo scultore di Alessandro Magno: ed è significativa la collaborazione tra i due artisti per la realizzazione di un donario a Delfi raffigurante la caccia al leone di Alessandro e Cratero, comandante della guardia macedone, voluto dal figlio dello stesso Cratero (Plutarco, Vita di Alessandro, 65), forse poco dopo il 321 a.C., quando cioè Leocare è verosimilmente a fine carriera.
Anche Filippo II affida a Leocare la realizzazione di un donario, ad Olimpia, votato a seguito della battaglia di Cheronea (338 a.C.): il monumento, noto come Philippeion, doveva ospitare i ritratti, realizzati nella costosa tecnica crisoelefantina, della famiglia reale macedone. All’epoca della realizzazione di questo monumento dinastico, Alessandro ha poco più di vent’anni: e una copia del suo probabile ritratto giovanile all’interno del Philippeion è stata riconosciuta in una bella testa marmorea rinvenuta sull’acropoli di Atene, che presenta un tipo ritrattistico del Macedone decisamente diverso da quello che verrà elaborato più avanti da Lisippo. Lo stile di questa testa-ritratto, in particolare la forma assai peculiare degli occhi piccoli e profondamente infossati, dai margini netti e sottili, e il morbido sfumato che caratterizza la resa delle labbra dischiuse, rende convincente l’attribuzione allo stesso scultore di uno dei più eleganti originali conservati della scultura greca del IV secolo a.C., la Demetra di Cnido, nota dal 1812 e attualmente conservata al British Museum di Londra.
Ma il nome di Leocare è legato soprattutto ad una icona della classicità: il suo Apollo, che Pausania ricorda di fronte al tempio di Apollo Patrôos ad Atene (Periegesi della Grecia, I. 3, 3), è stato infatti avvicinato all’Apollo del Belvedere, la notissima statua scoperta alla fine del XV secolo tra le rovine della villa di Nerone ad Anzio e da allora collocata nel cortile del Belvedere in Vaticano. In questa statua Leocare sceglie di raffigurare un Apollo giovanissimo, come fa Prassitele con il suo Apollo Sauroctono: ma a differenza di quest’ultimo, che sembra ignaro dell’osservatore, l’Apollo del Belvedere sembra compiacersi dell’ammirazione dello spettatore, allargando il mantello in una posa elegante che è quasi un passo di danza, e sollevando fiero il volto coronato dalla chioma ricciuta e preziosamente acconciata. “Questa statua di Apollo supera tutte le altre immagini del dio quanto l’Apollo di Omero supera quello dipintoci dai poeti successivi [...] Un’eterna primavera, come nel beato Elisio, riveste la seducente virilità della sua maturità con amabile giovinezza, e gioca con delicata tenerezza sulla superba struttura delle sue membra [...] Non ci sono vene, né nervi a turbare e agitare questo corpo, ma uno spirito celeste che vi si è gettato come un placido fiume e ha quasi colmato tutta la superficie di questa figura”. Così Johann Joachim Winckelmann nella sua Geschichte der Kunst des Altertums (Storia dell’arte nell’Antichità, 1764) descrive l’Apollo del Belvedere in uno dei più ispirati e lirici brani della letteratura archeologica mondiale.
Leocare è probabilmente piuttosto giovane nel periodo in cui lavora ad Alicarnasso, ed è evidentemente qui che lo scultore si conquista quella fama che lo condurrà alla corte macedone, anche perché la sua attività per Mausolo non si limita, forse, alla sola decorazione scultorea del suo sepolcro: Vitruvio ricorda infatti un acrolito nel tempio di Ares ad Alicarnasso (tempio sorto all’epoca della trasformazione urbanistica della città voluta da Mausolo), attribuendolo a Timoteo o a Leocare. È possibile che Filippo II avesse voluto riservarsi i servigi di un artista già attivo alla corte di Mausolo anche allo scopo di emulare questo principe, la cui figura affascinante costituirà un modello di riferimento ancora per i dinasti di età ellenistica. Altrettanto interessante ai fini dell’attribuzione a Leocare di un ruolo di “artista di corte” anche presso la dinastia ecatomnide risulta la proposta di inserire nella sua oeuvre la statua di Demetra rinvenuta a Cnido, isola per un certo periodo compresa nell’area di controllo della Caria.
Ben poco si può dire, infine, dell’ultimo scultore attivo nel cantiere del Mausoleo, Briasside, del quale non si conosce con certezza neppure l’origine (è forse un ateniese, o più probabilmente un cario formatosi professionalmente ad Atene). Sono due gli scultori dallo stesso nome che lavorano tra il 370 e il 270 a.C. circa; le fonti letterarie non distinguono chiaramente tra le due personalità artistiche e quindi è difficile stabilire, ad esempio, se le cinque statue colossali in bronzo raffiguranti divinità olimpiche che Plinio il Vecchio ricorda a Rodi (Nat. Hist. XXXIV, 42) siano da attribuire a Briasside I o a Briasside II, anche se la presunta origine caria di Briasside I lo rende un candidato più convincente per l’attribuzione di queste ed altre opere ricordate dalle fonti in ambito microasiatico, come una statua di Dioniso, in marmo, a Cnido e statue di Apollo e Zeus con dei leoni a Patara, in Licia.
Sembra ormai pacifica, invece, l’attribuzione al secondo Briasside del simulacro di Serapide in trono, realizzato per volontà di Tolomeo I Sotere: l’opera, che arricchisce la preziosità dei tradizionali simulacri divini crisoelefantini con l’utilizzo di una quantità enorme di pietre preziose e di materiali pregiati, fissa per la prima volta l’iconografia di Serapide, che diventerà immensamente popolare, riprodotta in tutti i mezzi e in tutte le dimensioni soprattutto nel corso dell’età romano-imperiale, quando il culto isiaco si diffonderà capillarmente in tutto l’impero. A Briasside I è da ricondurre la base di un tripode, rinvenuta ad Atene, con una teoria di cavalieri a rilievo, firmata con caratteri epigrafici che sono sicuramente riconducibili alla metà del IV secolo a.C.: ma l’opera, piuttosto modesta, non aiuta affatto a delineare la personalità artistica dello scultore.
Come già accennato, scultura a tutto tondo e scultura a rilievo, temi persiani e temi greci si affiancano nel monumento di Mausolo. Le statue a tutto tondo, riconducibili ad almeno tre distinti moduli dimensionali, e il cui numero, calcolato in base ai frammenti rinvenuti, si aggira tra le 300 e le oltre 400 unità, si associano in una serie di gruppi, a formare una scena di combattimento, forse tra Greci e Persiani; una scena di caccia, celebrazione del valore del satrapo e attestazione del suo elevato status sociale, vista la centralità dell’attività venatoria nella formazione degli aristocratici persiani; una scena di sacrificio con numerosi animali, forse allusiva a quello celebrato sulla spianata del Mausoleo durante le esequie del principe (testimoniato dagli abbondanti resti osteologici rinvenuti); e infine una affollata galleria di antenati della dinastia ecatomnide (quella cui Mausolo appartiene), forse alloggiata negli intercolumni dello pteron, e probabilmente nutrita con personaggi di fantasia e con immagini di divinità. Statue di leoni maestosi (ne sono state contate almeno 56) si collocano in due file affrontate alla base della piramide o a diversi livelli sui gradini della stessa, ad espletare il proprio tradizionale compito di guardiani del sepolcro. Alla serie delle statue a tutto tondo appartengono esemplari celebri come il cosiddetto Mausolo e la cosiddetta Artemisia (tali identificazioni sono probabilmente da rigettare), di elevata qualità formale, soprattutto per quanto riguarda il volto del Mausolo, fortemente individualizzato e dotato di grande intensità espressiva; per queste due figure è stato più volte proposto il nome di Briasside. A Leocare si è invece voluta ricondurre una bella testa di Apollo, che ricorda, per quanto più vivace ed energica, la testa dell’Apollo del Belvedere, e che secondo l’archeologo danese K. Jeppesen faceva parte di una statua collocata su uno degli acroteri che dovevano coronare la base della piramide. Ma, fino a questo momento, sono state principalmente le sculture a rilievo ad essere indagate ai fini della definizione dell’attività dei quattro scultori all’interno del Mausoleo.
Schemi iconografici scopasici sono stati riconosciuti nelle lastre con Amazzonomachia, da restituire probabilmente nella fascia di coronamento del podio, alla base della piramide a gradini: lo stesso movimento e lo stesso disvelamento del corpo della Menade di Dresda riecheggia infatti nelle figure delle Amazzoni, mentre i volti di alcuni dei Greci ricordano, nell’intensità patetica delle espressioni, le teste del frontone ovest del tempio di Tegea. Ma nelle lastre dell’Amazzonomachia (che compongono il rilievo più ampiamente conservato del Mausoleo) si riconoscono anche altre formule iconografiche, altri linguaggi stilistici, diversi tra loro, che si sono voluti ricondurre ad almeno altri due tra gli scultori del Mausoleo, Timoteo e Leocare. Il nome di quest’ultimo è stato proposto anche per il fregio in marmo pentelico raffigurante una corsa di carri, forse in origine sulle pareti esterne dello pteron colonnato o su quelle della camera funeraria, caratterizzato da straordinaria raffinatezza. Poco, anche a causa del cattivo stato di conservazione, si può dire del rilievo raffigurante una Centauromachia, probabilmente da interpretarsi come fascia di rivestimento della base della quadriga sommitale; e pochissimo dei cassettoni scolpiti che ornavano il soffitto interno allo pteron con le imprese di Teseo (solo una scena è attualmente leggibile), ad istituire forse un ideale parallelo tra l’eroe ateniese promotore del sinecismo dell’Attica e Mausolo. Ma ricondurre il complesso delle sculture del Mausoleo ai quattro artisti ricordati dalle fonti è difficile.
Troppo poco siamo informati sulle modalità di divisione del lavoro in un cantiere di questa mole, che certo contava decine di scalpellini ed operai, appartenenti alle botteghe dei vari maestri, i quali dovevano essenzialmente fornire i modelli e controllarne l’esecuzione; e non è improbabile che i progettisti del monumento, Satiro e Piteo, avessero un ruolo importante anche nell’ideazione della decorazione scultorea, limitando quindi la libertà di espressione di Skopas e degli altri scultori. Infine, non è sicuro che l’affermazione di Plinio circa l’assegnazione dei diversi lati del Mausoleo ai quattro scultori corrisponda a verità, configurandosi anzi come banalizzazione di una realtà probabilmente assai più complessa: di conseguenza, la posizione di ritrovamento dei frammenti scultorei è di scarso ausilio alle proposte attributive, anche a causa dei profondi rimaneggiamenti che il Mausoleo ha subito nel corso dei secoli. Le sculture di Alicarnasso, dunque, continuano a rappresentare una sfida per gli studiosi; ma continuano, soprattutto, a documentare uno straordinario momento di fioritura per l’arte greca e per i suoi maestri.