Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
In ambito cosmologico il dibattito seicentesco segna un passaggio “dal mondo chiuso all’universo infinito”, decostruendo cioè la concezione aristotelica per fondare il nuovo pensiero filosofico e scientifico. Sebbene i precedenti di questa rivoluzione si rintraccino già in testi più antichi, si può affermare che solo in età moderna le ipotesi della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo aprono prospettive nuove, anche grazie alla figura di Giordano Bruno.
Dal “mondo chiuso” all’”universo infinito”
Nel 1936 lo storico delle idee Arthur Lovejoy sostenne che una tesi prettamente filosofica – il “principio della pienezza” secondo cui “nessuna vera potenzialità dell’essere può restare inattuata” – e non la rivoluzione astronomica iniziata da Niccolò Copernico fu all’origine delle cinque più innovative tesi cosmologiche caratteristiche del pensiero moderno: la tesi che altri pianeti del sistema solare sono abitati da esseri viventi; il rifiuto delle “mura esterne” del cosmo e la dispersione nello spazio delle stelle che la tradizione aristotelica considerava come fisse; la convinzione che queste ultime siano il centro di sistemi planetari simili al sistema solare; l’ipotesi che anche in questi sistemi planetari esistano forme di vita razionale; l’idea dell’infinità dell’universo e dei mondi. Ventun anni dopo, Alexandre Koyré descriveva le principali trasformazioni introdotte in ambito cosmologico fra XVI e XVII secolo come un passaggio “dal mondo chiuso all’universo infinito”, sostanzialmente dipendente dall’assunzione di una concezione “geometrica” dello spazio. Se i libri di Lovejoy e di Koyré restano non solo il punto di riferimento indispensabile per ogni ulteriore indagine ma due dei più appassionanti classici della storia del pensiero filosofico e scientifico, le ricerche degli ultimi decenni hanno in parte modificato la loro ricostruzione, che ci appare certo brillantissima ma un po’ parziale ed eccessivamente lineare. I medievisti hanno messo in luce come la decostruzione del “mondo chiuso” di Aristotele inizi ben prima di Niccolò Cusano e di Marcello Palingenio Stellato: sappiamo in effetti che interessanti discussioni sulla possibilità teorica – pur senza prevederne l’esistenza fattuale – di una pluralità di mondi e di uno spazio infinito si trovano già in testi del XIII e XIV secolo. Gli storici del pensiero moderno hanno d’altra parte contribuito a offrire un quadro assai più articolato dei dibattiti cosmologici sviluppatisi fra Cinquecento e Seicento. Resta del tutto condivisibile l’idea, comune a Lovejoy e a Koyré, che in questi dibattiti un ruolo decisivo sia giocato da Giordano Bruno che, fondendo elementi risalenti alla tradizione dell’atomismo antico con un’originale rilettura di tematiche introdotte dalla rivoluzione copernicana, difende appassionatamente l’immagine di un universo privo di centro, infinito e omogeneo, nel quale la Luna e gli altri corpi del sistema solare sono analoghi alla Terra mentre le stelle sono circondate da pianeti abitati simili al nostro. È però emerso con sempre maggiore chiarezza che solo pochi autori dell’età moderna intrecciano così strettamente le ipotesi della pluralità dei mondi e dell’infinità dell’universo: molti accolgono la prima proprio per prendere le distanze dalla seconda ed evitare le conseguenze filosofiche e teologiche, assai pericolose, che Bruno ne trae. Inoltre se è vero che sia Copernico sia i tre maggiori astronomi del Seicento – Tycho Brahe, Keplero e Galileo – difendono l’idea di un cosmo finito e ordinato e rifiutano, con diversi argomenti, l’ipotesi dell’infinità dell’universo, il rapporto fra lo sviluppo della ricerca strettamente scientifica (in astronomia, ma anche in ottica e in fisica) e l’affermazione di una nuova immagine dell’universo è più stretto di quanto a prima vista non appaia.
È opportuno ricordare che nel lessico filosofico e scientifico moderno il termine “mondo” ha una notevole ambiguità, frutto della stratificazione di significati che esso aveva acquisito durante l’antichità e il Medioevo. Ora, mentre Platone e Aristotele avevano diffuso l’identificazione fra il mondo e il tutto – il De caelo di Aristotele, in particolare, presenta numerosi argomenti a favore dell’unicità del mondo – la tradizione atomista risalente a Democrito, Epicuro e Lucrezio ammetteva l’esistenza (simultanea e successiva) di molti, o addirittura di infiniti mondi simili al nostro, separati da spazi vuoti o nei quali la materia non presenta strutture organizzate. Se Bruno parla di “mondi” per riferirsi proprio a complessi sistemi planetari ruotanti attorno a una stella, non pochi pensatori del Seicento intendono invece per mondo un pianeta abitato, sia del nostro sia di altri sistemi planetari. Ne consegue una pluralità di modelli cosmologici che, molto schematicamente, possono essere ridotti a quattro.
Il primo modello è quello proposto da autori come Palingenio e da Francesco Patrizi, che non accettano l’eliocentrismo copernicano, difendono la centralità della Terra e l’esistenza di stelle fisse ma ritengono che, oltre questa parte propriamente fisica dell’universo, se ne estenda un’altra, infinita, immobile, tridimensionale e omogenea: prodotto e manifestazione dell’infinità divina, tale regione si configura come uno spazio metafisico, che non è concepito come vuoto: pieno di luce, è la sede di intelligenze più perfette degli esseri umani.
Il secondo modello è quello, già richiamato, di Bruno e dei suoi seguaci, che muovono anzitutto da un netto rifiuto della distinzione aristotelica fra mondo sublunare – luogo della generazione e della corruzione – e mondo celeste, costituito da una materia qualitativamente diversa da quella terrestre. Affermata l’omogeneità della materia e l’uniformità dello spazio, i sostenitori di questo modello contestano la teoria aristotelica dei luoghi naturali, negano che la distinzione fra alto e basso abbia un significato assoluto e rifiutano apertamente l’esistenza di un centro dell’universo. Influenzati dalla tradizione atomista, essi istituiscono un’analogia fra il Sole e le stelle da un lato, fra la Terra e i pianeti dall’altro, e sostengono che una pluralità di sistemi cosmici è dispersa nello spazio infinito: si distaccano però dall’atomismo antico perché, generalizzando il sistema astronomico copernicano, ritengono che i sistemi planetari non ruotino intorno a un corpo di natura terrestre ma a un astro.
Il terzo modello è quello di chi accetta sia l’analogia fra la Terra e i pianeti, sia quella fra il Sole e le stelle, ma rifiuta nettamente l’infinità dell’universo. Tale modello esclude quindi la più radicale fra le tesi proposte da Bruno ma accoglie tutte le maggiori implicazioni cosmologiche della rivoluzione astronomica: l’allargamento delle dimensioni dell’universo, l’abolizione della disomogeneità ontologica fra le sue parti, la tesi che nel nostro e verosimilmente in altri sistemi planetari possono essere presenti forme di vita, anche intelligente.
Emblematica, in questo senso, la posizione di Cartesio che, identificando materia e estensione, è condotto a negare non solo l’esistenza del vuoto, ma anche la finitezza dello spazio. Pur affermando che “la materia estesa che compone l’universo non ha limiti”, Cartesio sottolinea ripetutamente che l’universo è “indefinito” in quanto non è possibile assegnargli dei confini, ma non va dichiarato positivamente “infinito”: tale attributo, infatti, deve essere riservato solo a Dio.
Il quarto modello è quello di Keplero che, convinto che il mondo sia stato creato da un Dio geometra, ritiene che egli non vi abbia disposto le stelle irregolarmente, ma secondo un preciso ordine razionale, che sarebbe impossibile se lo spazio fosse infinito, perché in esso qualsiasi punto “sarà centro e non sarà centro”. Contro l’infinità dell’universo Keplero fa valere non solo la presunta contraddittorietà della nozione stessa di infinito, ma anche un’obiezione di diversa natura, che anticipa il cosiddetto “paradosso del cielo notturno” discusso fra XVIII e XIX secolo da astronomi come Edmond Halley e Heinrich Olbers: se si assume che nell’universo vi siano decine di migliaia, o anche solo migliaia di stelle “perché mai tutti quei Soli messi insieme non superano in splendore questo nostro Sole”? Secondo Keplero il nostro sistema planetario mantiene una posizione privilegiata: rifiutata l’analogia bruniana fra il Sole e le altre stelle – che a suo avviso sono molto meno distanti fra loro di quanto lo siano dal Sole – lo scienziato tedesco considera però plausibile la presenza di forme di vita in altri mondi del sistema solare e, nel Somnium seu opus posthumum de astronomia lunari (1634), immagina che la Luna sia abitata da enormi esseri di “natura serpentina” che, osservando la nostra Terra nel cielo, trovano evidente che essa si muova.
La critica dell’antropocentrismo
È noto che la rivoluzione astronomica provocò in molti un senso di smarrimento perché travolgeva quella visione del mondo che per secoli aveva assegnato all’uomo il suo posto nella natura esprimendo in termini di centralità spaziale il primato che la tradizione religiosa gli riconosceva fra le creature di Dio. Di fronte alla tentazione di semplificazioni eccessive, è stato più volte giustamente sottolineato dagli storici che geocentrismo non è necessariamente sinonimo di antropocentrismo; che il geocentrismo antico e medievale si è spesso configurato come una umiliazione dell’uomo, relegato nella regione inferiore e meno perfetta del cosmo; che l’adozione dell’eliocentrismo non significa di per sé un ridimensionamento del ruolo del genere umano all’interno della natura. In effetti, Galileo nel Dialogo fa dire a Salviati che presentare la Terra come un pianeta significa “nobilitarla e perfezionarla” considerandola “simile a i corpi celesti”, mentre Keplero, dopo aver reagito con una qualche apprensione alla notizia che lo scienziato pisano aveva individuato grazie al telescopio nuovi corpi celesti, sottolinea poi rincuorato che le scoperte annunciate nel Sidereus Nuncius non possono essere usate a sostegno delle tesi di Bruno. Se non è degno di stare al centro del mondo – luogo riservato da Dio al Sole, fonte di calore e origine della vita – l’uomo per Keplero è collocato sulla Terra proprio perché essa si trova in una posizione intermedia fra i pianeti: tale posizione è perfettamente adatta a una “creatura contemplatrice” che, trasportata nell’arco dell’anno sul suo “naviglio”, può godersi lo spettacolo dei moti celesti senza essere condannata all’“esilio” negli spazi infiniti di Bruno.
Ciononostante le nuove scoperte e le nuove teorie astronomiche non solo conducono a abbandonare il geocentrismo, ma spingono a rifiutare la concezione gerarchica del cosmo come distinto in regioni ontologicamente diverse e a diffondere l’idea che esso sia costituito da una materia uniforme. Ciò rende sempre più verosimile l’ipotesi che i pianeti del sistema solare o di altri sistemi cosmologici possano ospitare esseri viventi e offre forti argomenti a chi metteva in dubbio la posizione unica dell’uomo, contestava l’eccezionalità del suo punto di vista e si rifiutava di credere che l’intero universo esistesse solo per lui e in funzione dei suoi bisogni. Persino Galileo, di cui si è sottolineata con enfasi forse eccessiva la reticenza a pronunciarsi nettamente sull’infinità dell’universo, la pluralità dei mondi e l’esistenza di extraterrestri, ritiene improbabile l’esistenza di forme di vita simili alle nostre sulla Luna sulla base della constatazione empirica che su questo corpo celeste non si verificano piogge, ma non esclude che ve ne siano di “differentissime ed a noi del tutto inimmaginabili, chè così mi pare che ricerchi la ricchezza della natura e l’Onnipotenza del Creatore e Governatore”; e discutendo il problema delle dimensioni dell’universo si scaglia contro “coloro che vorrebbero che Iddio avesse fatto l’universo più proporzionato alla piccola capacità del loro discorso, che all’immensa, anzi infinita Sua potenza”.
È significativo che in questi passi di Galileo, come in quelli di molti suoi contemporanei, il rifiuto dell’antropocentrismo, l’insistenza sull’immensità, sulla ricchezza e sulla varietà della natura assuma connotazioni chiaramente religiose e divenga occasione per esaltare l’onnipotenza di Dio, per lodare l’imperscrutabile saggezza della sua provvidenza e per mostrare la vanità delle pretese umane di considerarsi il fine e l’unico destinatario della sua creazione. Se su questo punto si può verificare una forte convergenza fra scienziati e filosofi di diverso orientamento – da Galileo a Campanella, da Cartesio ai cartesiani francesi e olandesi – la critica dell’antropocentrismo non viene sviluppata solo in questo rassicurante senso apologetico: negli ambienti più sensibili all’eredità di Bruno e della tradizione atomista essa assume talora valenze più eterodosse, collegandosi a una riflessione nella quale il tema dell’infinità spaziale dell’universo viene collegato a quello della sua infinità temporale, quindi dell’eternità della materia, in una prospettiva deistica o addirittura ateistica. Bisogna inoltre ricordare che per tutto il Seicento ha uno straordinario successo un nuovo genere letterario, specificamente consacrato al tema della pluralità dei mondi abitati: basti pensare alla Discovery of a New World (1638) di John Wilkins, alla Description of a New World called the Blazing-World (1666) di Margaret Cavendish, alla Histoire comique des états et empires de la Lune (1656) di Cyrano de Bergerac, al Discours nouveau prouvant que les astres sont des terres habitées (1657) di Pierre Borel, agli Entretiens sur la pluralité des mondes (1686) di Bernard le Bovier de Fontenelle. Si tratta di una produzione assai composita, nella quale la riflessione filosofica si intreccia con la divulgazione scientifica e la narrazione “fantascientifica” di viaggi nello spazio, e che trova un suo comune denominatore proprio nella denuncia dell’“orgoglio insopportabile” dell’essere umano che – per riprendere le parole di Cyrano de Bergerac – pensa che il Sole “sia stato acceso soltanto per far maturare le sue nespole”.
L’idea che l’uomo non è il signore e padrone del creato ma solo uno dei tanti esseri prodotti dall’inesauribile fecondità della natura poteva avere serie conseguenze sul piano religioso, che però la maggior parte dei filosofi, degli scienziati e dei letterati del Seicento cerca prudentemente di minimizzare. In effetti la presa di coscienza che nell’universo non vi sono regioni privilegiate e che la Terra e gli uomini non sono collocati nel suo centro fisico pone seri interrogativi sul fatto che essi possano continuare a esserne il centro dal punto di vista teologico: se la Terra è solo uno degli innumerevoli corpi dispersi in un cielo immenso se non infinito, perché proprio essa ha rappresentato lo scenario nel quale si è svolto il dramma religioso della caduta e della redenzione? E se gli uomini non sono le uniche creature intelligenti dell’universo, perché Dio si è rivelato a loro e si è incarnato per la loro salvezza? L’ipotesi della vita extraterrestre, in altri termini, induce a riproporre, in forma diversa, alcuni dei più delicati interrogativi emersi all’indomani delle grandi scoperte geografiche nei dibattiti sul poligenismo e sui preadamiti. In questo caso però – diversamente da quanto era accaduto con i precisi resoconti attestanti le caratteristiche tipicamente umane degli indiani d’America – l’indefinita natura degli extraterrestri consente valide scappatoie. Già nell’Apologia pro Galileo, del 1616, Campanella indica tre possibili soluzioni ai problemi religiosi derivanti dall’eventuale presenza di esseri intelligenti in altri pianeti: si può argomentare che, non discendendo da Adamo, tali esseri non hanno peccato; si può invece immaginare che essi abbiano peccato ma siano stati riscattati dal sacrificio di Cristo sulla Terra, di cui si conferma l’unicità ed esalta l’universalità; si può sostenere che tali esseri non hanno nulla di simile agli uomini e che quindi il problema della loro redenzione non ha senso. Proprio la terza di queste soluzioni ha, non a caso, un grande successo. Non mancano però significative eccezioni: mentre nel Kosmotheros (pubblicato postumo nel 1698) il grande scienziato olandese Christiaan Huygens trae dall’uniformità delle leggi di natura la convinzione che gli extraterrestri non possono che essere notevolmente simili a noi per struttura fisica e persino per cultura, l’anonimo autore del Traité de l’infini créé, influenzato dalle idee di Malebranche, propone l’ardita tesi che l’incarnazione del Verbo divino si verifica in tutti i pianeti abitati.