Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
I racconti filosofici conoscono una rinascita moderna, alle soglie dell’età dei Lumi, in modo particolare in Francia. Modelli greci e latini vengono rimessi in auge con un intento nuovo: il rovesciamento critico delle idee ricevute, dei dogmi e delle tradizioni, in nome della libertà della ragione e dei suoi progressi. Racconto storico e razionalità critica vanno di pari passo: Voltaire è il primo maestro del genere. Il modello orientale del conte philosophique – collocato in un “altrove” ideale che sfida il presente storico – s’afferma in Montesquieu; Diderot ne sviluppa la forma del dialogo “questionante” e Rousseau la favola morale allegorica.
I peripli della ragione. L’incontro tra i Lumi e la classicità
L’arte del racconto allegorico a sfondo filosofico non è un’invenzione propria dell’Illuminismo. Nell’antichità classica gli scrittori greci e latini s’erano cimentati in questo genere nuovo, tipico di un’“età della crisi”, del romanzo a scopo illustrativo o formativo, portatore cioè di un “messaggio” filosofico di saggezza, di salvezza o di emancipazione. Esempio alto e paradigmatico sono le Metamorfosi (Metamorphoseon libri) di Lucio Apuleio, anche note sotto il titolo di L’Asino d’oro (Asinus aureus), viaggio allegorico del personaggio protagonista, Lucio, trasformato per magia in asino ma dotato comunque di coscienza e di ragione, contornato dal mito, celebre, di Amore e Psiche. Un viaggio dell’anima che pretende di “insegnare” al lettore le vie dell’elevazione (platonica) al bene e al vero.
Il modello greco lucianeo, cui s’ispirò verosimilmente Apuleio stesso – da Luciano di Samosata, autore del racconto fantastico dal titolo Storia vera, di analoga ispirazione didascalica – viene ripreso e trasfigurato, in Età moderna (secoli XVI e XVII), alle soglie dell’Illuminismo, da vari autori della tradizione libertina che ne piegano l’ispirazione a fini satirici, critici o talora “eversivi” nei riguardi dell’ortodossia religiosa, tanto cattolica quanto protestante, in una radicale messa sotto accusa delle idee ricevute. Tra questi autori emergono in particolare Charles Sorel, maestro dell’Histoire comique de Francion, Jean de La Fontaine, autore di celebri favole e racconti dal sapore a volte caustico e anticonformista, e soprattutto Cyrano de Bergerac, scrittore del lucianeo L’Autre monde. Histoire comique des états et empires de la Lune et du Soleil (postumo), che fungerà da modello letterario del vero e proprio conte philosophique illuministico di Montesquieu, Voltaire, Diderot, Rousseau. Il riso e la satira prendono il sopravvento nella figura fantascientifica del viaggio interplanetario, il cui protagonista – lo stesso Cyrano – sperimenta la maggiore saggezza filosofica dei Lunari e dei Solari rispetto agli umani. Analogamente, Voltaire nel racconto Micromega mostra che gli abitanti di Sirio e di Saturno la sanno più lunga dei Terresti.
L’eredità è cosciente, diretta: una tecnica narrativa del rovesciamento delle prospettive e dei giudizi (o pregiudizi) del senso comune; una scrittura “leggera”, densa d’ironia e di sottintesi, marche di compiacenza verso un lettore complice e disincantato (déniaisé), senza intenzioni moralizzatrici; il rinvio a un “altrove”, immaginario o geograficamente mitico. Su quest’ultimo punto s’aggiunge un tratto nuovo, il carattere volutamente polemico del racconto. L’Oriente, come “altrove” idealizzato che tanto Montesquieu quanto Voltaire e Rousseau prendono a esempio di un mondo scevro di pregiudizi, diviene l’arma principale indirizzata contro i bersagli della critica illuministica dell’Autorità e della Tradizione. La ragione “classica”, la ratio geometrica del Seicento, s’avventura nei lidi del Nuovo Mondo, iniziando un periplo che la condurrà a mettere in questione persino se stessa, i propri limiti e fondamenti di giudizio, la propria stessa “serietà”. Il gioco, il riso, l’ironia, lo scherzo divengono i tratti stilistici e contenutistici dominanti.
Ecco come Diderot definisce il genere: “Racconto, s. m. (Belle Lettere) è una narrazione (récit) favolosa, in prosa o in versi, il cui merito principale consiste nella varietà e nella verità delle pitture, nella finezza dello scherzo (plaisanterie), nella vivacità e nella convenienza dello stile, nel contrasto piccante degli eventi. Tra il racconto e la favola,c’è questa differenza, che la favola contiene un solo e unico fatto, racchiuso in un certo spazio determinato e compiuto in un solo tempo, il cui fine è quello di presentare qualche assioma di morale e di renderne sensibile la verità; mentre nel racconto non c’è né unità di tempo, né unità d’azione, né unità di luogo e il suo scopo è meno quello d’istruire che di divertire (amuser). La favola è spesso un monologo o una scena di commedia; il racconto invece è un seguito di commedie concatenate le une alle altre. La Fontaine eccelle nei due generi, benché abbia scritto qualche favola di troppo e qualche racconto troppo lungo” (Encyclopédie, vol. IV, p. 111a). Accanto all’articolo di Diderot, D’Alembert sottolinea, in un contributo parallelo, il carattere “amorale” del conte in rapporto alla favola e al romanzo, evidenziando il tratto loro comune, quello di essere delle menzogne intenzionali, costruite ad arte per risvegliare il senso critico
È da notare che nella definizione enciclopedica del conte è taciuta intenzionalmente e viene sottintesa la carica critico-filosofica del genere; vi si allude soltanto tra le righe. La cosa non stupisce, considerando il carattere “eversivo” dell’Encyclopédie e la sua esposizione alla censura, motivo per il quale l’opera-chiave dell’Illuminismo si fa portavoce della recente tradizione del pensiero eterodosso libertino del Cinquecento e del Seicento.
Il “mondo come va”. Voltaire, realismo storico-critico e narrazione favolosa
Nelle prime prove illuministiche del conte philosophique, eccelle tra tutti il modello di François-Marie d’Arouet, rampollo di una famiglia di notabili, giovane e brillante scrittore di versetti satirici che a seguito della condanna subita per delle “offese poetiche” recate all’onore del Reggente, il duca d’Orléans, sceglie subito come pseudonimo di battaglia l’anagramma imperfetto di Arouet: “Voltaire”. A suo tempo Voltaire conosce la massima notorietà quale autore di drammi, poesie e tragedie e come storiografo di Francia, autore di due opere fondamentali: Il secolo di Luigi XIV (1751, più volte riedito) e l’importante Saggio sui costumi e lo spirito delle nazioni e sui fatti principali della storia, da Carlo Magno fino a Luigi XIII (1756-1769) pubblicato in varie edizioni precedenti e nel quale Voltaire forgia il concetto-chiave, destinato a un grande futuro, di “filosofia della storia”. La produzione narrativa del philosophe costituisce un pezzo relativamente marginale della sua produzione, fino all’età contemporanea; e tuttavia i racconti filosofici restano un lato parallelo e sottinteso del pensiero storico di Voltaire. La trama della vita degli uomini – oggetto dell’interesse dello scrittore – è raccontata diversamente, nella narrazione storica (Secolo di Luigi XIV, Saggio sui costumi) e nel discorso immaginifico o fantastico del conte (Micromega, Candido ecc.). Nondimeno, le due specie di narrazioni (récits) sono complementari, rappresentano una visione diversa di ciò che, attraverso la civilizzazione o la fantasia, costituisce appunto la trama della vita degli uomini.
La domanda fondamentale del philosophe alla base del discorso storico e narrativo è la stessa: come avviene il progresso della ragione umana? Nella storia esso avviene nel modo tragico e spesso assurdo di una successione di atrocità e di crimini, dei quali la narrazione storica si fa spettatrice critica, ed essa stessa pretenderebbe di esserne il rimedio, l’Historia Magistra come si afferma nell’Essai: “…ci cade la penna dalle mani quando vediamo come gli uomini si comportano con gli uomini…”. Voltaire storico è il “ridente pieno di lacrime” (Jules Michelet), che svela e sferza le miserie umane del mondo storico. Dall’altro lato, secondo la modalità fantastica del conte, la ragione traccia le sue vie ulteriori, solo possibili, di salvezza dal male del mondo (Voltaire critica sprezzantemente l’idea di un’“armonia prestabilita” avanzata da Leibniz), nella beffa disincantata, specchio di una saggezza laica che s’alimenta di scetticismo e d’ironia, sempre sospese fra il tragico, il drammatico e il comico. Emerge in filigrana, fra tragico e comico della narrazione, la figura giocosa del grand homme, dell’eroe alla rovescia. Un protagonista o i protagonisti del racconto vivono sulla propria pelle le assurdità del mondo storico, ne diventano le vittime o se ne prendono gioco, a seconda delle situazioni. La metafora del viaggio o del periplo (un ritorno al punto di partenza, dopo lunghi giri) attraversa molti dei contes volterriani.
Il più noto, Candido o l’ottimismo, mostra la smentita più clamorosa, esperita di persona da Candido, di tutte le convinzioni ireniche circa la bontà degli uomini e dell’universo (non) retto da una provvidenza, concludendo sul leitmotiv borghese: “Pangloss [figura parodica di Leibniz] talvolta diceva a Candido: ‘Tutti gli eventi sono concatenati nel migliore dei mondi possibili; perché, alla fine, se voi non foste stato cacciato da un bel castello a calcioni nel sedere per amore di madamigella Cunegonda, se non foste stato sottoposto all’Inquisizione, se non aveste percorso l’America a piedi, se non aveste dato un bel colpo di spada al barone, se non aveste perduto tutte le vostre pecore nel bel paese di Eldorado, voi non mangereste qui con me cedri canditi e pistacchi’. ‘Ben detto’, rispose Candido, ‘ma bisogna coltivare il nostro giardino’” (Voltaire, Candido, trad. it. di R. Bacchelli, Milano, Mondadori, 1988, p. 179). Coltivare il proprio giardino significa valorizzare lo sforzo individuale, modesto e riservato, di un auto-perfezionamento che non s’affida più all’illusione consolante di un dio rimuneratore e vendicatore (“‘Lavoriamo senza ragionare’ disse Martino. ‘È l’unico modo di rendere sopportabile la vita’…”, ibidem). Il mondo come va, visione di Bacouc, scritta da lui stesso, segue il medesimo filo conduttore del disincanto e, insieme, della critica senza speranza (perciò ironica) dell’universo umano, naturale e storico. Il brevissimo Storia di un buon bramino s’interroga sui vantaggi e gli svantaggi della saggezza e dell’ignoranza, ai fini del raggiungimento della felicità in questa vita, dinanzi al modello del saggio orientale, simbolo dell’altrove migliore. La conclusione è problematica, il narratore non decide quale via prendere, tra ragionevolezza e felicità ferina, in una consapevole, scettica sospensione: “È dunque chiaro”, dicevo, “che bisognerebbe scegliere di non avere senso comune, per quel poco che il senso comune contribuisce al nostro malessere”. Tutti erano d’accordo con me e tuttavia non trovai nessuno disposto ad accettare il prezzo di diventare imbecilli per diventare contenti. Da ciò conclusi che, se diamo peso alla felicità, diamo ancor più peso alla ragione. Ma dopo avervi riflettuto, sembra che sia molto insensato preferire la ragione alla felicità. Come può dunque essere spiegata questa contraddizione? Come tutte le altre. C’è di che parlare a lungo” (Voltaire, Romans et contes, Paris, Gallimard, 1954, p. 126).
Il Voltaire narratore crea così un genere filosofico-letterario che molto deve al precedente lafontainiano e cyraniano, ma innova in profondità l’approccio alla lettura della narrazione storica degli eventi. Il conte stimola il giudizio critico del lettore intorno alle vicende umane, con l’occhio sempre fisso a una verità storica irrimediabilmente sfuggente per gli uomini.
I Lumi al servizio dell’emancipazione. Montesquieu, Diderot e Rousseau
Se le preoccupazioni morali o moralistiche sono assai deboli o quantomeno indirette, nel conte volterriano, l’aspetto morale (non moralistico), più o meno confessato, è centrale in Montesquieu e nei philosophes enciclopedisti. Il Montesquieu narratore è poco noto agli stessi lettori dello Spirito delle leggi (1748), ma è fra i primi ad aver messo alla prova il genere del conte philosophique all’orientale. Dopo il celebre romanzo epistolare Lettere Persiane (1721), in cui il protagonista Usbek, persiano in viaggio attraverso l’Occidente, realizza il rovesciamento di prospettive tipico del genere – mettendo in questione i valori e le idee ricevute in Occidente dal punto di vista dell’Altrove, Montesquieu scriverà tre racconti filosofici: Il tempio di Gnido (pubblicato nel 1725), Storia vera (postumo, 1892), Arsazio e Ismenia (postumo, 1783). Il primo, di argomento mitologico e di carattere simbolico, diviso in sette “canti”, ha come tema l’incostanza degli uomini in amore e mette in ridicolo i pregiudizi relativi all’eterna fragilità di uomini e donne, magnificando Eros, nel senso nobile del termine: “Il disegno del poema è di far vedere che siamo felici grazie ai sentimenti del cuore e non per i piaceri dei sensi; ma che la nostra felicità non è mai così pura al punto da non essere turbata dai diversi accidenti…” (Montesquieu, Œuvres complètes, vol. 1, Paris, Gallimard, 2004, p. 1603).
Gli altri due racconti, di ambientazione orientale, hanno per tema il viaggio fantastico. È il caso della Storia vera (di cui Arsazio e Ismenia rappresenta un frammento), saga spirituale di un personaggio senza nome, il “valletto di un vecchio gimnosofista”, il “più grande briccone di tutte le Indie”, la cui anima trasmigra da un essere all’altro, da uomo a animale e di nuovo a uomo, in anime di bassa e alta “qualità”, a seconda del suo comportamento. Il messaggio morale è quello di mostrare, da un lato – tramite l’ironia – l’insensatezza delle dottrine metafisico-religiose sulla metempsicosi, invitando il lettore a mettere in dubbio i dogmi ricevuti. Dall’altro, nel dialogo ironico con Ayesda, “viaggiatore indiano”, è fatta passare l’idea dell’unità di materia e spirito, della dipendenza di questo da quella, e l’opinione scettica attorno all’insensatezza dell’agire umano, sottomesso al dominio delle passioni: “L’Essere Supremo ha nondimeno prodotto all’inizio tutti gli spiriti come tutta la materia. Un grande agente come lui ha creato all’inizio tutto quello che deve creare in seguito; il tempo, un altro tempo, sono fatti per le sue creature, non per lui. Egli ha prodotto la materia per unirla, quando vuole, ai suoi spiriti, ma non crea affatto ciascuno spirito per unirlo a una nuova modificazione della materia; altrimenti bisognerebbe dire che sarebbe dipendente da un’azione capricciosa e spesso opposta alle sue stesse volontà. Giacché se egli ha all’inizio creato tutti gli spiriti, non è per tenerli in riserva, ma per farne uso e farli girare nei diversi luoghi che assegna loro nell’Universo” (Montesquieu, Œuvres complètes, vol. 1 cit., p. 432). Il dogma “orientale” della metempsicosi viene ironicamente armonizzato con letture eterodosse e materialiste del cosmo e del mondo morale.
La lezione montesquiana venne fatta propria dal giovane Diderot, autore del romanzo orientale a sfondo erotico I gioielli indiscreti (1747) e di racconti filosofici dal medesimo tono ironico e canzonatorio nei riguardi delle convinzioni metafisiche e religiose. Esemplare dello stile di Diderot è il dialogo, a due o più voci. Il ciclo parigino dei tre racconti – Questo non è un racconto, Madame de la Carlière, ovvero sull’incoerenza del giudizio pubblico delle nostre azioni private e il Supplemento al Viaggio di Bougainville, ovvero Dialogo tra A e B sull’inconveniente di collegare idee morali a certe azioni fisiche che non ne comportano – si presenta come un vero e proprio trittico etico-problematico sul tema della libertà, di costumi, di giudizio, di coscienza. La specificità del dialogo diderotiano, quale elemento portante del racconto filosofico, consiste nella sua voluta ambiguità e polisemia. Il narratore non prende partito, né incarna la propria posizione in uno dei personaggi dialoganti, bensì lascia al lettore il compito di giudicare e di entrare in scena, come spettatore/autore che stabilisce il senso da assegnare agli eventi narrati. È una preoccupazione di verità che smaschera il meccanismo di finzione al cuore del racconto stesso come genere. Ciò è detto a chiare lettere in Questo non è un racconto – racconto paradossale, che pretende di negare se stesso in quanto finzione: “Quando si fa un racconto, lo si fa a qualcuno che ci ascolta; e per poco che duri il racconto, è raro che il narratore non sia interrotto di tanto in tanto dal suo uditore- Ecco perché ho introdotto nella narrazione che state per leggere, e che non è un racconto, o che è un cattivo racconto, se ne dubitate, un personaggio che faccia più o meno la parte del lettore; e vado a cominciare…” (Diderot, Dialoghi filosofici, trad. it. di M. Brini Savorelli, Firenze, Le Lettere, 1990, p. 477).
Il trittico diderotiano verte sui temi sesso/amore, leggi, moralità pubblica e privata, dando conto delle antinomie – dilemmi a due soluzioni opposte – del comportamento pratico degli uomini alle prese con un sistema di costumi, di morale e di giustizia fondato su pregiudizi che il narratore intende scalzare dal loro interno. Si tratta di mettere all’opera un artificio finzionale che sveli al lettore il carattere non fittizio, bensì reale, di quanto viene narrato, che potrebbe accadere ora o essere accaduto nel medesimo tempo della lettura, a un secondo livello di realtà, ma non diverso, né lontano, da quello primario. Una conversazione viene colta, come per caso, da un uditore/lettore che entra in scena a giudicare il vero contenuto di ciò che accade – una donna che inganna e tradisce il suo uomo e viceversa (Madame de La Carlière, di cui esiste una rivisitazione cinematografica, del 1988, di Gisèle Braunberger), un sistema di leggi e di costumi (quello scoperto a Tahiti da Bougainville durante il suo viaggio) assolutamente altro rispetto a quello occidentale, che si propone come sfida, modello di libertà e di purezza, riproposizione del mito del “buon selvaggio”. Il significato del dialogo viene messo in questione dal lettore stesso – il sottotitolo è spesso indicativo di tale operazione –, il lettore diventa un interlocutore o un deuteragonista silenzioso, che incalza le idee dominanti, urtate dal nuovo senso comune instaurato dal/nel racconto. Il realismo del conte diderotiano svolge così una funzione critico-filosofica “eversiva” rispetto al “buoncostume” e al ben pensare dell’epoca.
I due amici di Bourbonne, racconto d’avventura che Schiller e Goethe ammirarono tanto, è centrato sul tema dell’amicizia naturale e dei legami di lealtà e di affetto come beni indipendenti dall’istruzione, dall’educazione e dalla classe sociale. Felix e Olivier sono due personaggi semplici, che conoscono quella che Diderot chiama “l’amicizia animale e domestica”, diversa dall’“amicizia riflessa” o di costume. Secondo la prima, si può essere contrabbandieri e fuorilegge, in un mondo in cui regnano la bricconeria e un sistema di leggi inegualitario – tematica presente anche in alcuni racconti di Donatien-Alphonse-François de Sade (Adelaide di Brunschwig, Justine) – e pur tuttavia si può mantenere integro il senso della morale naturale, sostanziata di generosità e di abnegazione reciproca. Tale è il destino di Olivier e Felix: di esser giudicati briganti da un interlocutore moralista (un ecclesiastico), che dialoga con i narratori, partecipi invece delle vicende dei due amici.
La Conversazione di un filosofo con la marescialla di *** è l’ultimo della serie di racconti che ha come protagonisti l’autore stesso, celebre ateo e materialista, e la devota marescialla De Broglie, madre di sette figli, tutta dedita alla famiglia e al culto della parola divina. Diderot, a differenza di quanto lascerebbe credere il pregiudizio antimaterialista della marescialla, si mostra uomo saggio, liberale e tollerante dinanzi ai propositi dell’interlocutrice. Il suo ateismo è sinonimo di comprensione, di ascolto delle ragioni della devota, non chiede “ricompense” ultraterrene per la propria onestà e probità, rispetta ugualmente, come la marescialla, le grandi leggi morali. In tutto e per tutto l’ateo agisce come se un dio esistesse – ciò gli viene rimproverato dalla marescialla –, ma egli non vi fa alcun caso nel determinare il proprio agire morale retto, che resterebbe tale anche se dio non esistesse. La prova di tolleranza offerta dal philosophe, come “ateo virtuoso ”(Pierre Bayle formula per primo l’ipotesi che religione e morale sono disgiungibili), ancora una volta scardina l’inveterato pregiudizio che aveva condotto al rogo, nei secoli precedenti, tanti pensatori accusati, a torto o a ragione, di “ateismo”. Il conte diderotiano diviene portavoce dell’istanza emancipatrice del materialismo e dell’ateismo, mostrandone una morale in atto del tutto indipendente dalla religione, incarnata nei personaggi/lettori/autori.
Di altra ispirazione sono i racconti filosofici di Rousseau, fedeli al modello lafontainiano della favola, a sfondo talora moralistico, piegata in direzione di interessi pedagogici e didascalici. L’autore dell’Emilio scrive quattro racconti, due dei quali rimasti allo stato di frammenti: La Regina Lunatica (1756), Gli amori di Chiara e Marcellino (1756) – prefigurazione della vicenda narrata poi nel grande romanzo Giulia, o la Nuova Eloisa (1762) – Il piccolo savoiardo, ossia la vita di Claude Noyer (1756), incompiuto, e infine Il levita di Efraim (1762), cui Rousseau teneva particolarmente, trattandosi di una rivisitazione letteraria e critica dell’episodio biblico del Libro dei Giudici (19-20) scritta in un momento di disgrazia: la condanna dell’Emilio e del Contratto sociale, nel 1762, che costringono l’autore a fuggire in Svizzera.
L’episodio della Regina Lunatica è l’occasione per sottolineare l’influenza dell’educazione sull’indole naturale e sul carattere degli uomini. Due figli gemelli, una femmina e un maschio, nati dalla Regina Lunatica e dal buon Re Fenice, sono allevati l’uno dalla prima, sotto il nome di Capriccio, l’altra dal secondo, sotto il nome di Ragione. Le diverse educazioni producono l’incostanza e il vizio in un caso, la ponderatezza e la saggezza nell’altro. La morale è duplice, come duplice è il finale che Rousseau propone al lettore, quale alternativa simbolica: secondo i principi della ragion di Stato, in un caso, è il maschio primogenito Capriccio che dovrà comunque governare e se ne concluderà, follemente “che il più insensato degli uomini è comunque preferibile alla più saggia delle donne, e che è necessario, per le regole della corretta politica, quando vi sia un maschio o un primogenito, foss’anche una scimmia o un lupo, che un’eroina o un angelo nato dopo di lui obbedisca alla sua volontà” (Rousseau, La Regina Fantasque, trad. it. di C. Prada, Ibis, Como, 1997, pp. 36-37). Nel secondo finale le parti s’invertono: in realtà la Regina Lunatica, senza saperlo, ha allevato il gemello femmina Capriccio e dunque, il Re buono ha avuto in sorte il figlio Ragione e tutto volge al lieto fine, come in una bella favola.
Il tema dell’oppressione della donna nella società è trattato da Rousseau anche ne Il levita di Efraim. La storia biblica è rivisitata e mutata nel finale. Le 400 vergini di Iabes fatte schiave da Israele e date in spose, forzatamente, ai 600 superstiti della tribù di Beniamino, per ripopolarla, vengono compatite da Rousseau: “Quali nozze per delle giovani e timide vergini! alle quali si sono appena sgozzati i fratelli, i padri, le madri dinanzi ai loro occhi, e che ricevono nuovi vincoli di attaccamento e d’amore dalle mani disgustose insozzate del sangue dei loro cari! Oh sesso sempre schiavo o tiranno, che l’uomo opprime o adora e che neppure può render felice, né esserlo, se non lasciandolo eguale a lui…” (Rousseau, Œuvres complètes, vol. 2, Paris, Gallimard, 2000, p. 1221). Così, anche il ratto delle figlie di Silo (Giudici, 21, 15-25), allo stesso scopo, viene trasformato moralisticamente in un atto volontario di sottomissione delle giovani donne alla virtù e alla volontà giusta di Dio. Parafrasando ovvero “profanando” il testo biblico, Rousseau inventa un modo alternativo di far proprie le istanze critiche, anticlericali ed emancipatrici del racconto filosofico, condivise dalla gran parte della repubblica letteraria illuministica.