Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Gli ultimi vent’anni del Cinquecento segnano, per la storia della pittura in Italia e dunque in Europa, una svolta profonda e dalle enormi conseguenze. Protagonisti di questa rivoluzione, inizialmente appartata e all’apparenza mite, tre artisti bolognesi: Ludovico, Agostino e Annibale Carracci, legati da uno stretto vincolo di parentela. Teatro della loro azione, Bologna, la seconda città dello Stato della Chiesa. È qui che nell’arco breve di un quindicennio, entro la metà degli anni Novanta, i tre pittori decretano – lavorando fianco a fianco, spesso in imprese comuni – l’archiviazione definitiva della civiltà della Maniera, ormai giunta all’esaurimento. Capisaldi programmatici: un’attitudine osservativa inedita nei confronti dell’uomo e della natura e il recupero appassionato dei grandi maestri di inizio secolo, Correggio e i Veneziani in primis. Accanto alla sperimentazione nel campo della nascente pittura di genere, è soprattutto la pittura di storia, più che mai quella sacra, a uscirne del tutto rigenerata, per farsi di nuovo racconto, emotivamente connotato e di chiara leggibilità. Dopo il trasferimento di Annibale a Roma nel 1595, che apre il grande capitolo dell’Ideale classico seicentesco, le strade dei tre pittori si separano, ma gli effetti del loro passaggio plasmeranno in vario modo la pittura dei due secoli a venire.
Gli esordi: il naturale e gli affetti
All’aprirsi degli anni Ottanta, è Ludovico, cugino maggiore dei due fratelli Agostino e Annibale, a fare con ogni probabilità da apripista nell’ostile ambiente artistico bolognese, permeato dai principi della tarda Maniera tosco-romana e dai rigori della Controriforma, che proprio a Bologna conta uno dei suoi più zelanti portavoce: il cardinale Gabriele Paleotti, impegnato sul fronte caldissimo del controllo “morale” delle immagini (suo un testo chiave come il Discorso sopra le immagini sacre e profane, pubblicato nel 1582). Sugli altari delle chiese o nelle case della nobiltà, la lingua comune è quella della retroguardia manierista, e la pittura ben accetta quella di artisti già scomparsi, come Orazio Samacchini e Lorenzo Sabatini, campioni di un formalismo normato, o tuttora attivi, come Ercole Procaccini il Vecchio e Prospero Fontana (primo maestro di Ludovico e pro tempore anche di Agostino), inclini ad accogliere in tarda età il rigorismo cattolico promosso da Paleotti; e di altri ancora, tra cui Bartolomeo Passerotti, pittore dai toni grotteschi e umorali, e l’anversano-bolognese Denys Calvaert, latore di acutezze ottiche e grazie pungenti di origine nordica. Le prime cose di Ludovico segnano subito uno stacco nei confronti di quella tradizione. Il piccolo San Vincenzo martire del 1580 circa (Bologna, Unicredit) è acceso da un fervore nuovo e umanissimo che si espande nel paesaggio, brano mirabile, invaso di luce naturale e battuto dal vento. La dimensione meteorologica e sentimentale, nella resa del soggetto sacro, straccia le maglie formali della Maniera e spalanca un orizzonte esitenziale inedito. Ma è Annibale a esporsi per primo, nel 1583, su un altare cittadino con una grande pala per San Nicolò (il Crocefisso oggi in Santa Maria della Carità), e a generare scandalo per la rudezza scapestrata della stesura e l’irruenza del sentimento che suonano irriverenti, poiché prive di ogni decoro. Proprio come, e qui sta lo scandalo, nella coeva produzione di genere: vedi le famose Macellerie a Oxford e a Fort Worth, connotate da identica foga. Nello stesso anno i tre artisti si misurano, in un palazzo senatorio, sul terreno della decorazione profana, affrontando la prima impresa comune: il fregio a fresco con Storie di Giasone per il conte Fava, terminato nel 1584. Un illusivo, semplice loggiato di finte statue – che fa piazza pulita dell’accumulo di cartigli e cornici caro al gusto locale – introduce alle storie, di ineffabile freschezza. Il manichino manierista e la sintassi capziosa si sciolgono in un racconto piano; il gesto recupera senso, la carne calore, il paesaggio aria e luce. Allo stesso momento risale la prima pala certa di Ludovico, per l’altare di un oratorio destinato all’educazione dei fanciulli. Più che mai in questa Annunciazione (Bologna, Pinacoteca Nazionale), concepita all’insegna della semplicità di cuore e di sguardo, la Maniera è liquidata, in silenzio, ma una volta per tutte. L’evento sacro si incarna nel quotidiano, nell’intima penombra di una camera da letto: vera, ordinata, modesta, quasi un’elegia borghese. E il sentimento si fa palpabile, tanto nelle personae, quanto nelle cose.
Quella degli affetti è forse la molla profonda che muove il rinnovamento. Affetti che i tre artisti, soprattutto Annibale e Ludovico, studiano dal vero, sull’umanità più comune, di cui registrano sulla carta pose, gesti, attitudini, fisionomie, che serviranno a rendere nuovamente autentico il racconto per immagini. Perché infatti il portato di questa esplorazione travasa direttamente, cuore della “riforma” carraccesca, nella pittura a soggetto alto, quella di storia, che è ancora la pittura. È qui che si combattono le battaglie vere, come sarà di lì a qualche anno per Caravaggio. A guidare Annibale in questa direzione è l’astro di Correggio, il sublime poeta degli affetti quasi dimenticato durante la dittatura manierista ma al quale già si era rivolto un manierista di fronda come Federico Barocci. L’incontro con le opere dell’Allegri a Parma, e poi a Reggio, accende un amore intenso i cui effetti si misurano già nel fregio Fava o nell’incantevole Allegoria oggi a Hampton Court, e debordano nel Battesimo di Cristo in San Gregorio (1585) e nella coeva Pietà per Parma (Parma, Pinacoteca Nazionale).
Il disegno e l’Accademia degli Incamminati
Strumento principe del loro operare, secondo una prassi consolidata nel Cinquecento, il disegno, praticato in abbondanza dai Carracci (lo dimostra la mole dei fogli superstiti) in tutte le sue varianti tecniche, espressive e funzionali; ma non solo, com’era consuetudine, a scopo progettuale, per elaborare e perfezionare un’invenzione, e quasi mai come mero esercizio anatomico. Esso è piuttosto un mezzo di indagine sull’infinita varietà, appunto, del teatro umano, anche a prescindere dalle necessità progettuali. Fin dal 1582 i Carracci aprono bottega, la famosa “stanza”, e fondano un’Accademia, detta delli Desiderosi, poi del Naturale, quindi degli Incamminati. Il disegno è praticato lì, sul modello, nudo o abbigliato, ma dotato spesso – cosa nuova – di una concreta identità: a volte uno di loro, più spesso un lavorante o un garzone della bottega stessa. I tanti fogli sparsi con teste di giovani o di fanciulli, veri e propri ritratti, testimoniano però che il disegno è praticato anche al di fuori dell’atelier, in mille altre occasioni, per strada, in osteria. Nell’Accademia si discute di tutto, ma più che altro si mette alla berlina la Maniera tosco-romana, svelandone gli abusi e l’insincerità, in nome della natura e della grande tradizione settentrionale, ingiustamente emarginata; lo testimoniano le sarcastiche “postille” alle Vite del Vasari, stilate da Annibale. Il contributo di Agostino è soprattutto sul fronte erudito ed è lui, abile incisore (la sua prima formazione avviene proprio in quest’ambito, presso Domenico Tibaldi), che da subito inonda la stanza di una quantità di stampe di traduzione: dalle glorie locali, ma anche, quel che più conta, dai grandi testi della pittura veneziana moderna. Che il fratello e il cugino imparano a conoscere così.
Una nuova pittura di storia e la scoperta di Venezia
Negli ultimi anni Ottanta Ludovico, in anticipo sugli altri, rompe le resistenze in città. Prima, sul 1585, due capolavori misurano gli estremi del suo arco espressivo: la grande Flagellazione oggi a Douai, quasi un annuncio di Caravaggio per la violenza cruda della luce e della realtà che essa svela; e la piccola Visione di san Francesco (Amsterdam, Rijksmuseum), idillio notturno ai margini di un bosco, dalla sintassi elementare, dove il poverello di Assisi accoglie fra le braccia il piccolo Gesù come uno zio impacciato e premuroso. Questa capacità di adattare il registro espressivo alla situazione iconografica guida l’artista nelle prime commissioni di prestigio, destinate a un altare pubblico: la Conversione di Saul per gli Zambeccari (1587-88 ca.) e la Madonna in trono e santi (1588) per Cecilia Bargellini Boncompagni (entrambe a Bologna, Pinacoteca Nazionale). Dopo il bagno di “natura” dei primi tempi, è del tutto fugato il rischio di ricadere nel formalismo astratto affrontando la grande misura di una pala d’altare e i soggetti canonici dell’iconografia sacra. È nata una nuova lingua ufficiale, capace di ridare senso e forza alla rappresentazione. Il miracolo della Conversione si trasforma in un evento in atto, di fulmineo impatto meteorologico, in un’azione aperta e continua, per certi versi già barocca. Nella Pala Bargellini, viceversa, un’aura cordialmente familiare conferisce verità a questa accolita di sacri personaggi dalle fattezze riconoscibili, sotto il battito sincero di una luce tutt’altro che spettacolare. Sul fondo, Bologna spunta caliginosa con le sue torri. L’effetto è quello di un’accostante presenza, un senso tangibile del qui e ora, nel quale spira la malinconia del presente, capace di ridurre a misura confidenziale, prossima al fedele, persino l’aulica impostazione diagonale di ascendenza veneziana. Mutuata forse da Annibale che nel frattempo ha appena conosciuto dal vivo, con un viaggio in Laguna, la grande pittura veneziana moderna. Tiziano, Veronese, Tintoretto sono i nuovi amori del cugino. La sua Madonna in trono e santi per Reggio (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister), dello stesso 1588, ne reca vistosi i segni. Il calore affettivo di Correggio, che Annibale non scorderà mai, si apre in un fraseggio ampio e solenne di marca veronesiana; la luce solare, bionda, riscalda le carni e fa brillare il raso rosso della cortina. La misura monumentale, nobilmente pausata, è però già indizio di un’aspirazione classica che lo porterà lontano. E se ancora la materia pittorica di Ludovico è solida, compatta, come l’immagine che essa plasma, quella di Annibale fermenta di entusiasmo, è carica di sensi. La febbre veneziana sale in lui sempre più e si misura per alcuni anni in un crescendo rapinoso di libertà pittoriche e ricchezze cromatiche. Egualmente sfogate nel quadro d’altare come in quello da stanza. A dimostrazione bastino, da un lato, la Madonna di san Ludovico (Bologna, Pinacoteca Nazionale), quella di San Luca (Parigi, Louvre) o la piccola Assunzione oggi al Prado, e dall’altro la Venere degli Uffizi. Quella febbre finisce per contagiare anche gli altri e nel cuore di questa stagione infervorata, sul 1590, si situa l’impresa decorativa comune più importante degli anni bolognesi: il grande fregio a fresco per il neosenatore Lorenzo Magnani con Storie di Romolo e Remo (Bologna, Palazzo Magnani). Capolavoro di festosa libertà che può permettersi il recupero di una misura monumentale e di un apparato decorativo sontuoso e complesso, perché spirante nello spazio vero. Le scene, come finte tele riportate alla veneziana, grondano di colore e di sensi accesi, la sintassi sciolta, esuberante, espande il gesto e lo spazio. Che si apre a volte su paesaggi frondosi dove circola un’aria nuova. Specie nei riquadri di Annibale, che non a caso, con la celebre tela oggi a Washington (National Gallery), ci regala il primo paesaggio autonomo della pittura moderna. La suggestione del colore e di un ductus denso e ricco genera effetti diversi in Agostino e soprattutto in Ludovico, che se ne avvale per accrescere l’impatto emotivo del racconto, il senso della carne e del dramma, veicolato da una luce chiazzata, a “macchia”. Ne nascono pale memorabili, ad esempio quella di Cento (Pinacoteca Civica), da cui molto Seicento discende, Guercino in primis.
Annibale (e Agostino) a Roma
Verso la metà degli anni Novanta, Annibale, senza tradire i suoi trascorsi, va ricomponendo il linguaggio in una misura sempre più calcolata che si può definire classica. Aspirazione che già da tempo muove i passi di Agostino, il quale con la sua Comunione di san Gerolamo (Bologna, Pinacoteca Nazionale) licenzia un dipinto paradigmatico per il futuro classicismo seicentesco, e che Annibale condensa nella grandiosa Elemosina di san Rocco (Dresda, Gemäldegalerie Alte Meister), consegnata all’indomani del trasferimento a Roma, nel 1595, su richiesta del cardinale Odoardo Farnese, presso il quale entra a servizio come un famiglio. Si avvia così, col padrone del più superbo palazzo romano dopo quelli papali, ma anche il più ingrato dei committenti, un rapporto lungo, e fra i più tormentati e difficili della storia dell’arte. L’incontro con l’Urbe, con l’antico e coi testi sacri dell’arte moderna, quelli di Michelangelo e Raffaello, risulta fatale per Annibale. Anche se nulla delle precedenti esperienze è rinnegato, le poche opere mobili dei primi anni romani sono gioielli di grazia elegante e di correttezza suprema. Ma tutte le sue energie sono presto assorbite dai progetti decorativi richiesti da Odoardo all’interno del palazzo: la volta del cosiddetto camerino, ovvero la camera da letto del cardinale, con Storie di Ercole, eroe virtuoso, e quella, con Gli amori degli dèi, della galleria, ambiente di rappresentanza destinato ad accogliere una piccola parte della sterminata collezione farnesiana di antichità, che rivaleggia con quella del papa. Al centro della prima, una tela riportata con Ercole al bivio (Napoli, Capodimonte) dichiara sin dalla visione frontale, anti-illusionistica, una scelta precisa: la tavolozza chiara, la forma levigata e monumentale, la sintassi limpida sono il frutto di una esplicita idealizzazione. E il risultato è già Poussin. La prosa travasa in poesia. Raffaello, Michelangelo e l’antico ne sono alla base. All’antico egli si accosta però non da erudito ma da artista, con la tenerezza di cuore che gli è propria, e in chiave, appunto, poetica e sentimentale. Chiave che trionfa nella stupefacente volta della galleria, scoperta nel 1601, cui collabora anche Agostino. Al programma iconografico, qui come nel camerino, attende l’erudito di palazzo Fulvio Orsini, ma genesi e finalità di questo capolavoro restano in parte dibattute. Certo è invece che quasi subito essa assurge al rango di modello normativo e assoluto dell’arte moderna, da accostarsi nell’opinione comune alle Stanze Vaticane e alla Sistina. Espliciti i rimandi a quest’ultima, da un lato, e al Convito degli dèi di Raffaello, dall’altro, ma in termini, se vogliamo, di scanzonata citazione, poiché tutto suona nuovo. Il respiro illusionistico, relegato nel camerino ai finti stucchi, qui è totale. Tanto che forse l’aspetto più sbalorditivo dell’impresa è proprio l’insieme decorativo, chiaro e razionale a dispetto della sua complessa orchestrazione. Più che scompartito, il soffitto è infatti “occupato” da un’intelaiatura architettonico-scultorea in marmo bianco che funge da supporto per le storie, concepite a loro volta come veri e propri quadri, talvolta provvisti di una luccicante cornice dorata: al centro, il grande Trionfo di Bacco e Arianna. Alle “presenze” inanimate di erme, telamoni, medaglioni bronzei, si aggiungono quelle vive dei putti e dei carnalissimi ignudi che, poggiando sul cornicione reale della stanza, abitano lo spazio reale dell’osservatore, insieme a rigonfi festoni vegetali, fra cui ammicca una folla di mascheroni grotteschi. Il che fa di loro, degli ignudi, ragazzoni palestrati, i custodi felici di una felice finzione: una sola luce infatti, dolcissima e dorata, proveniente dal basso, quasi quella stessa che entra dalle finestre, uniforma con regia miracolosa l’insieme, che assume così il senso di un allestimento temporaneo, composto dai frammenti di un mondo perduto – quello del mito – issati sul soffitto. Agli angoli, quattro spicchi di cielo aperto, con Eros e Anteros che lottano su aeree balaustre, ne confermano la natura effimera. Perciò, se la galleria Farnese diviene presto la Bibbia del nascente credo classicista, non ne trarrà minor partito la generazione barocca, cui basterà rimuovere quel magnifico telaio per ottenere uno sfondato.
Ludovico a Bologna e gli anni estremi di Annibale a Roma
Lungo gli anni Novanta Ludovico non segue i cugini sulla via della normalizzazione classica, se non episodicamente (vedi la Samaritana Sampieri, oggi a Milano, Brera). Al contrario, è questo il decennio in cui la sua immaginazione si fa più turbata. Il colore veneto annega in gorghi d’ombra, il sentimento e il gesto si fanno sempre più eccitati, tempestosi, iperbolici, mentre lo spazio si dilata all’infinito. Lo testimoniano impressionanti dipinti d’altare come il Martirio di sant’Orsola del 1592 (Bologna, Pinacoteca Nazionale) o la Visione di san Giacinto (Parigi, Louvre) del 1594, anticipo di tanto Seicento non classico. Dopo la partenza di Annibale, e poi di Agostino, resta lui il punto di riferimento a Bologna per un’intera generazione di giovani che giocheranno un ruolo importante nei decenni a venire, in patria e non. Francesco Albani, Leonello Spada, Giacomo Cavedone e persino Guido Reni passano di lì. Dopo il 1600, il suo percorso è ondivago ma mai stanco. A una breve parentesi classicista sui primi del secolo, nella quale rientrano in parte i perduti murali per San Michele in Bosco a Bologna (1604-1605), segue il gigantismo onirico delle opere per il duomo di Piacenza (1607-1609). Oltre il 1610, il vecchio artista vira infine verso una sorta di naturalismo ispido, selvatico, del tutto originale.
Gli ultimi anni di Annibale a Roma sono segnati invece, dopo le fatiche della galleria, dal progredire di un male, forse una grave depressione, che finisce per stroncarlo assai prima della morte. Il suo nome, tuttavia, richiama presso di lui dall’Emilia molti giovani artisti, anche ludovichiani, alcuni dei quali, come Lanfranco e Domenichino, destinati al successo. Nel frattempo a Roma è giunto Caravaggio. L’approdo finale di Annibale sembra porsi agli antipodi (ma non è del tutto vero). Quella che il bolognese elabora negli ultimi anni è una lingua pittorica nobilissima, all’insegna dell’Ideale, ma un Ideale estremo, profondamente morale, lontano dal paganesimo felice della galleria. Con la Fuga in Egitto, una delle sei lunette Aldobrandini (Roma, Galleria Doria Pamphilj), apre il grande filone del paesaggio classico seicentesco a figure piccole: una natura solenne, ragionata come un’architettura, nella quale circola nondimeno, respirabile a pieni polmoni, l’aria vera. L’acme di una pittura di storia di purgata essenzialità è raggiunto nei pochi dipinti che la malattia gli consente di portare a termine. Uno per tutti, le Tre Marie oggi a Londra (National Gallery), sublime teatro degli affetti scolpito da una luce diaccia (Caravaggio?), che lanciava un ponte verso la tragedia greca, da un lato, e dall’altro verso Poussin, Racine. E David. La sepoltura al Pantheon, accanto a Raffaello, come egli desiderava, rende giustizia postuma alla sua grandezza.