I barbari: un'opportunita
Il contributo è tratto da Storia della civiltà europea a cura di Umberto Eco, edizione in 75 ebook
Per quanto il loro ingresso nell’impero sia senz’altro traumatico, spesso le popolazioni germaniche aspirano a trovare un modus vivendi con Roma, di cui ammirano il modello statale e l’amministrazione. L’autorità devolve ad alcune tribù barbariche interi territori in cambio del servizio militare: la simbiosi è possibile, ma la mancanza di controllo innesca però un circolo vizioso che porterà alla frammentazione e alla dissoluzione finale dell’impero d’Occidente.
Nonostante l’atteggiamento di chiusura e gli ovvi e numerosi problemi creati dalle invasioni, tutta una serie di elementi suggerisce che, soprattutto in Occidente, tra Romani e popoli germanici le relazioni almeno in qualche caso siano meno traumatiche di quanto l’immaginario collettivo possa far pensare: per quanto non senza difficoltà, gli accordi sono possibili, e anzi spesso cercati attivamente dai capi barbari, che generalmente li onorano. Certo, le differenti formae mentis e le contrastanti concezioni dell’autorità spesso creano malintesi: è il caso, ad esempio, dei patti e delle tregue stretti con i re germanici. Questi ultimi spesso si rivelano ligi ai termini dell’accordo fintantoché l’imperatore con cui è stato stipulato rimane in vita; alla sua morte la situazione torna in discussione, e in genere si riaprono immediatamente le ostilità nel tentativo di rinegoziare un nuovo accordo, magari migliore, con il successore del defunto. Il sacco di Roma del 455 da parte dei Vandali di Genserico, significativamente, segue di pochissimo la morte di Valentiniano III: questo e altri esempi sembrano dimostrare che i capi germanici, quando trattano con l’autorità imperiale, lo fanno su base personale, ritenendosi legati solo con il loro "omologo" romano, e non con lo stato da esso governato.
L’esistenza di simili accordi è comunque importante agli occhi dell’"opinione pubblica", così come il fatto che i territori dove i barbari si stanziano siano formalmente affidati loro dall’imperatore, in genere in cambio del servizio militare (talora si tratta di una reale e concertata concessione, talaltra, come nel caso della cessione della Sapaudia ai Burgundi intorno al 440, è poco più del riconoscimento di uno stato di fatto). Che in questa maniera vengano salvate le forme e, per così dire, tacitate le coscienze sembra dimostrato dal fatto che, in maniera per noi sconcertante, la progressiva devoluzione del territorio imperiale ai barbari non sembra costituire un elemento di particolare importanza agli occhi degli storici e dei cronisti che trattano della fine del IV e dei primi decenni del V secolo. Si può citare, ad esempio, il caso dei cosiddetti Annales Ravennates, compilati in un ambiente vicino alla corte di Ravenna, i cui frammenti superstiti vanno dal 411 al 454: sembra indicativo che, anno dopo anno, l’autore si sia preso la briga di indicare solamente imperatori, usurpatori, consoli, disastri naturali e poco altro, senza alcuna menzione dei barbari. Se dunque la concessione di terre alle popolazioni germaniche, almeno dal punto di vista istituzionale, non è percepita come un elemento di rottura, occorre però interrogarsi sulle modalità con cui ciò avveniva effettivamente.
In realtà non possediamo fonti coeve che riportino con precisione i termini degli accordi intercorsi tra autorità romana e popolazioni barbariche, soprattutto per quanto riguarda il V secolo. La storiografia tradizionale, basandosi su materiale legale posteriore (il Codice di Eurico per quanto riguarda i Visigoti, il Liber Constitutionum del re burgundo Sigismondo), era arrivata ad asserire che, nei territori ove si stanziano le popolazioni germaniche, sarebbe avvenuta una precisa spartizione dei terreni coltivabili, nel corso della quale un terzo rimane ai vecchi possessori, e due terzi passano invece ai nuovi arrivati; allo stesso modo, le terre boschive sono spartite a metà. In realtà, la situazione non sembra essere stata così semplice, né tanto meno univoca.
In alcuni casi, è stato ipotizzato che ai barbari siano concesse solo le rendite fiscali (probabilmente in natura) di parte dei terreni, sui quali dunque non avviene un insediamento effettivo: questo spiegherebbe da un lato l’assenza di toponomastica germanica in molte regioni "barbarizzate", e dall’altro, soprattutto in un’ottica romana, questo risulterebbe tutto sommato tranquillizzante, permettendo di inquadrare i nuovi arrivati come bande di soldati regolarmente stipendiati, i cui emolumenti, invece di pervenire dall’amministrazione centrale, vengono riscossi direttamente a livello regionale. Questa sorta di devoluzione probabilmente può combinarsi con un’altra istituzione romana, l’hospitalitatis munus, il diritto di ospitalità di cui godono gli ufficiali e i soldati che, al di fuori dei normali campi militari, possono essere acquartierati presso privati.
Una situazione dove l’hospitalitas si combina con l’attribuzione delle rendite fondiarie (formalmente stipendi militari) alle popolazioni germaniche può in effetti costituire un inquadramento legale abbastanza convincente per lo stanziamento dei barbari, e potrebbe costituire una buona spiegazione anche per il silenzio dei cronisti dell’epoca. Con questo, non si vuole certo affermare che il processo (sicuramente, tra l’altro, non omogeneo) sia stato privo di problemi, soprusi e gravi disagi per le popolazioni romane. In vari casi, come per lo stanziamento dei Vandali in Africa, tutto lascia anzi supporre che sia avvenuta una semplice confisca dei terreni senza alcuna forma di accordo. In linea di massima, però, la barbarizzazione delle regioni occidentali costituisce probabilmente un evento meno distruttivo e brutale, almeno dal punto di vista istituzionale, di quanto si potrebbe supporre. Lo stanziamento di una tribù barbarica (a differenza delle incursioni temporanee, con il loro carico di saccheggi e devastazioni) forse porta addirittura un certo grado di stabilità nelle regioni dove ha luogo. Non si deve nemmeno supporre che le concessioni dell’autorità romana siano state solo una sorta di capitolazione su tutti i fronti: non mancano fonti coeve che sottolineano come anche ai barbari sia chiaro che il mantenimento della struttura amministrativa romana è fondamentale per la gestione dei territori in cui si stabiliscono.
Questo risulta evidente, ad esempio, nel regno ostrogoto di Teodorico ma già Orosio, che scrive poco dopo il sacco di Roma, afferma (7, 43) di aver udito da un testimone che Ataulfo, il successore di Alarico al comando dei Visigoti, all’inizio pensava di spazzare direttamente via l’impero e di sostituire la Romania con la sua Gothia. In seguito, tuttavia, rendendosi conto che non conviene abolire l’apparato statale, per l’indisciplinatezza dei suoi uomini e soprattutto perché sine legibus res publica non est res publica, preferisce collaborare con Roma, in una sorta di simbiosi dove la forza dei Goti garantirà (almeno teoricamente) l’ordine e la sicurezza dell’impero. Lo stesso Alarico cerca in ogni modo di venire a patti con Onorio, prima di cedere all’esasperazione e di saccheggiare Roma. Finalmente inquadrati, peraltro dopo ulteriori scontri, nell’impero d’Occidente, i Visigoti stanziati in Aquitania onorano i termini del loro patto: il successore di Ataulfo, Vallia nel 416 combatte Alani e Vandali per conto di Onorio; il discorso potrebbe peraltro essere allargato anche ad altre popolazioni, come i Burgundi, che in maniera analoga contrastano gli Alamanni.
È notevole che proprio nella fase iniziale delle grandi invasioni i barbari si mostrino più inclini a scendere a patti con Roma e desiderosi di trovare una legittimazione che li inquadri al suo interno. Ciò risulta anche dal tentativo di stringere alleanze dinastiche: nel 414 a Narbona il re Ataulfo sposa solennemente Galla Placidia, sorellastra di Onorio, presa in ostaggio al tempo del sacco di Roma. Dall’unione (non riconosciuta dalla corte di Ravenna) nasce un bambino, significativamente chiamato Teodosio, a sottolineare l’appartenenza alla dinastia imperiale: purtroppo il neonato muore poco dopo la nascita, ma sarebbe interessante sapere quale sarebbe stato il suo ruolo se fosse sopravvissuto. Gli stessi Burgundi, precocemente inclini a stringere patti con l’autorità imperiale, rivendicano addirittura una parentela con i Romani, come ricorda alla fine del IV secolo Ammiano Marcellino (“fin dall’antichità, i Burgundi sanno di costituire una stirpe romana”). Simili affermazioni possono essere state divulgate nell’ottica di una legittimazione delle relazioni tra le due nazioni.
Questi gruppi barbarici, apparentemente inquadrati nel sistema amministrativo dell’impero (si fa riferimento alla parte occidentale) e desiderosi di ottenere una legittimazione, potrebbero veramente costituire una risorsa per la rigenerazione dello stato. Gli eventi successivi, tuttavia, prendono una piega diversa: in occasione della grande battaglia contro Attila avvenuta ai Campi Catalauni nel 451, infatti, il generale Ezio riesce ad ottenere l’aiuto di Burgundi, Alani e Visigoti, il cui apporto è determinante per la vittoria, solo a prezzo di estenuanti trattative. Ormai la corte di Ravenna ha un controllo effettivo solo sull’Italia e su parte della Gallia meridionale: nel resto dell’impero i barbari si sono ritagliati ampie nazioni pressoché indipendenti. Il loro assorbimento all’interno dello stato romano è vistosamente fallito. Sono anzi i regni germanici ad avere assorbito massicciamente elementi di romanità. In genere, infatti, al loro interno risultano conservati i gradi inferiori della burocrazia (affiancata e spesso rimpiazzata dalle gerarchie ecclesiastiche) ed il latino si va imponendo come lingua dell’amministrazione (nonché della maggioranza dei sudditi). Quello che viene irrimediabilmente meno è il raccordo con l’autorità centrale, che dall’Italia fin dall’inizio si rivela incapace di imprimere un corso agli eventi che eviti, alla devoluzione in atto, di raggiungere il punto di non ritorno della totale perdita di controllo. Le numerose usurpazioni e le lotte intestine che travagliano la prima metà del quarto secolo, peraltro, contribuiscono a lasciare ancor più campo libero alle nazioni barbariche, che già in circostanze normali potrebbero essere gestite solo con un polso fermo. Ad impedire un reale assorbimento dei nuovi arrivati, forse, contribuisce anche la stessa qualifica con la quale le popolazioni germaniche sono accolte nell’impero.
Quella dei soldati è già da tempo una categoria di professionisti che svolge il proprio compito in maniera disgiunta dagli amministratori o dalle autorità locali. Quando questo ruolo viene ricoperto volta per volta da intere nazioni barbariche, finisce per crearsi una casta separata di combattenti che, in presenza di un evidente vuoto di potere, arriva ad assumere il controllo della situazione pur essendo demograficamente inferiore agli abitanti originari, confinati al ruolo di contribuenti e burocrati. Allo stesso tempo, lo sviluppo di questa casta comporta necessariamente la diminuzione degli effettivi dell’esercito regolare, e incentiva il ricorso ad altri gruppi barbarici in una sorta di circolo vizioso che alla fine porta al collasso, anche economico, del sistema. La devoluzione di una regione ai barbari, infatti, comporta una diminuzione delle entrate per il governo centrale, che così ha meno fondi per pagare le truppe, a meno di non ricorrere ad ausiliari barbarici la cui remunerazione, però, consiste spesso nella devoluzione di altre terre, che a sua volta fa ulteriormente diminuire la capacità dello stato centrale di mantenere un esercito "regolare" che possa affermare la sua autorità sugli hospites, e così via. Senza contare le vere e proprie perdite territoriali, come quella dell’Africa, che quando cade in mano ai Vandali priva l’impero d’Occidente della sua base contributiva più importante senza il benché minimo contraccambio.
Le risorse dell’impero d’Occidente vanno sempre più diminuendo, e i commensali sono troppi e troppo voraci; soprattutto, finiscono ben presto per decidere autonomamente quali e quante parti accaparrarsi. Se in una prima fase le élite barbariche aspirano ad essere assorbite nell’ancora prestigioso sistema romano, la sempre più evidente impotenza dello stato li induce ad assumere un atteggiamento tutto sommato cinico che li porta a "spolparlo" spietatamente fino alla completa dissoluzione. I nuovi regni che così si vanno formando, è vero, sono spesso interessati da una profonda romanizzazione culturale (si pensi in particolare al dominio dei Merovingi in Gallia), ma le opportunità civili, culturali, economiche offerte dall’integrazione sono ormai perdute: una vera opportunità mancata, forse, si potrebbe ritenere, per entrambe le parti.