SEGRE, Guido Isacco
– Nacque a Torino il 7 novembre 1881, secondogenito di Vittorio Emanuele e di Enrichetta Ovazza; il figlio di suo fratello Arturo, Vittorio Dan Segre, scrisse di lui nella propria autobiografia (Segre, 1985).
Quella dei Segre era una famiglia ebraica di agiata borghesia, profondamente integrata nell’economia e nella società piemontese, di sentimenti liberali ma conservatori e monarchici. Il padre di Guido, agente di cambio, dopo il matrimonio aveva assunto una parte di primo piano nella gestione della banca di proprietà del suocero – la Vitta Ovazza & C., fondata nel 1866 –, un istituto finanziario privato di piccole dimensioni ma molto attivo nel contributo allo sviluppo dell’industria regionale.
Destinato a seguire le orme della famiglia in campo bancario, Guido Segre non riuscì tuttavia, anche a causa della scomparsa prematura del padre, a completare il regolare corso superiore degli studi e preferì cercare un’autonoma strada professionale. Dopo aver frequentato per un biennio i corsi di matematica all’Università di Torino, nel 1901 si trasferì in Germania, a Francoforte sul Meno – uno dei centri finanziari più importanti d’Europa –, dove frequentò i corsi della Handelsakademie (una nota scuola superiore di commercio), e successivamente compì un tirocinio presso la filiale locale della Allgemeine Elsässische Bankgesellschaft.
Rientrato a Torino e registratosi nel 1903 all’albo degli agenti di cambio, l’anno successivo fu assunto alla filiale locale del Credito italiano, di cui nel 1910 divenne condirettore. Nella seconda metà del 1915 – la data precisa è ignota –, in un momento di acute difficoltà nella conduzione societaria della FIAT, venne nominato direttore amministrativo di questa azienda, ma dopo pochi mesi le divergenze manifestatesi con Giovanni Agnelli (allora consigliere delegato) lo indussero a lasciare l’incarico. Richiamato alle armi nel febbraio del 1916 come ufficiale di complemento del Genio, compì tutta la campagna sul fronte italo-austriaco, salendo nello stato di servizio per meriti di guerra fino al grado di tenente colonnello e ricevendo numerosi riconoscimenti, come la medaglia d’argento al valor militare e importanti decorazioni francesi e britanniche.
Nel novembre del 1918 arrivò a Trieste al seguito del governatore militare della città, generale Carlo Petitti di Roreto. L’esperienza maturata nel settore bancario e la padronanza della lingua tedesca si rivelarono elementi decisivi affinché Segre potesse inserirsi tra gli alti comandi militari che venivano a insediarsi nella Venezia Giulia, dotati di grande potere e destinati a svolgere funzioni anche politiche e civili nella prima fase del trapasso istituzionale dei nuovi territori annessi dall’Italia. Durante questo periodo, prolungatosi fino all’estate del 1919, Segre svolse l’incarico di capo dell’Ufficio affari economici del Governatorato militare e di capo della missione italiana a Vienna per il recupero dei valori della Venezia Giulia.
In questa veste curò – in stretto collegamento con il Comando supremo dell’esercito, con gli enti governativi responsabili dell’economia italiana (i ministeri degli Esteri, del Commercio, del Tesoro) e soprattutto con la Banca d’Italia e con il suo direttore generale, Bonaldo Stringher –, il delicato processo di italianizzazione del cospicuo apparato industriale e finanziario giuliano. L’assorbimento degli affari delle banche austriache e slovene e della loro consolidata rete organizzativa nella Venezia Giulia a vantaggio delle banche italiane, la sorveglianza sulla disponibilità del capitale azionario delle principali industrie cantieristiche e delle linee di navigazione triestine, il trasporto nella città adriatica dei titoli depositati a Vienna durante la guerra, la complessa vicenda del cambio valutario lira-corona: furono tutte problematiche da Segre impostate e portate a soluzione esercitando una costante funzione di raccordo, di equilibrio e di compromesso tra le esigenze di italianizzazione del governo di Roma e gli interessi ancora ingenti dell’élite economica triestina di matrice austro-ungarica, intesa a non ostacolare quei progetti – preludio di una futura penetrazione economica italiana nel Centro Europa –, ma anche decisa a difendere i propri interessi nei confronti dei gruppi capitalistici della penisola intenzionati a stabilirsi nella Venezia Giulia.
Nell’alleanza e nell’intreccio che così venivano a realizzarsi, Segre rappresentò le forze venute dall’Italia, e segnatamente il gruppo FIAT, con il quale non aveva dismesso i rapporti, com’è provato dalla vicenda dell’acquisto – nel 1919 in Austria – delle miniere della società Österreichisch-Alpine Montangesellschaft, ottenute dall’Italia alla Conferenza della pace tenutasi a Versailles, ma rivendute nel 1920 – al gruppo siderurgico tedesco diretto da Hugo Stinnnes – perché considerate investimento non conveniente. Nello stesso tempo Segre riuscì a conquistare a Trieste quel ruolo di fiducia e di garanzia che gli valse fin dal 1919 l’ingresso nel consiglio di amministrazione della Banca commerciale triestina, destinata a rappresentare, fino al tracollo del 1929-30, il cuore finanziario del capitalismo giuliano.
Nel 1923 – quando il processo di transizione dell’economia locale all’interno di quella italiana poteva dirsi compiuto – Segre appariva ormai saldamento inserito tra i gruppi di comando delle imprese che costituivano l’asse portante del capitale locale, dall’industria cantieristica e armatoriale – che scontava ancora una difficile e contrastata ricostruzione della sua attività e alla quale egli in effetti non fece venir meno il sostegno delle sue consolidate relazioni governative (come consigliere della Società triestina di navigazione Cosulich, di cui nel 1930 avrebbe assunto la presidenza, e della Navigazione libera triestina, come vicepresidente del Cantiere S. Rocco, come presidente dello Stabilimento tecnico triestino) – alle Assicurazioni generali, la più grande società assicurativa italiana a dimensione internazionale, di cui divenne consigliere d’amministrazione nello stesso anno 1923 in cui esse registravano con soddisfazione l’annullamento del temuto provvedimento di nazionalizzazione del ramo vita.
Conseguita – in riconoscimento dei suoi meriti come imprenditore – la laurea honoris causa in scienze economiche e commerciali, ottenuto nell’anno accademico 1919-20 l’incarico per l’insegnamento di ‘banco modello’ (la riproduzione in aula dello svolgimento concreto di operazioni bancarie o commerciali) e di economia bancaria, nel 1923 Segre fu nominato delegato del governo nel consiglio di amministrazione dell’Istituto superiore di scienze economiche e commerciali, che nell’agosto 1924 assunse la denominazione di università, un’istituzione che – coronando un’aspirazione a lungo coltivata dalla classe dirigente della città – doveva porsi come faro di cultura italiana nei progetti di egemonia politica ed economica verso l’Europa centrale.
Negli anni del primo dopoguerra, cogliendo altre opportunità imprenditoriali rappresentate dal ritiro dei capitali austriaci nell’area alto-adriatica, Segre aveva acquisito alcune industrie minori, specialmente nel settore alimentare e tessile (Pilatura del riso, Jutificio, Oleificio, Pastificio triestino, conservificio Ampelea di Rovigno e Isola d’Istria), che per la ripresa abbisognavano di nuovi investimenti. Non trascurò occasioni al fuori dell’ambito strettamente locale: produzioni di legname e uno stabilimento di estrazione dell’amido in Polonia, una fabbrica di catene per la marina militare a Lecco, le acciaierie Weissenfels di Fusine in val Romana, presso Tarvisio (nelle quali dal 1929 lavorò il fratello Alfredo). In tutte queste operazioni si era associato alla banca Ovazza di Torino – ora diretta dallo zio Ernesto Ovazza –, che così allargava il suo raggio d’affari nelle nuove province annesse dall’Italia.
Presente negli organismi direttivi della Camera di commercio di Trieste fin dal 1922, Segre nel 1928 venne nominato vicepresidente dell’ente (presieduto per legge dal prefetto) che ne assunse le funzioni, il Consiglio provinciale dell’economia corporativa. Nell’accentramento operato dal dirigismo fascista, egli si vide dunque confermato in quel ruolo attivo di mediazione e di rappresentanza delle istanze dell’economia locale che aveva esercitato fin dal 1919, in accordo con il potere centrale.
La crisi del 1929-30 e le sue conseguenze sull’economia triestina – il tracollo della Banca commerciale triestina, il dissesto di uno dei principali gruppi industriali, il gruppo Brunner (che Segre aveva osteggiato), il salvataggio dei cantieri e delle linee di navigazione –, con il conseguente intervento del capitale pubblico, ruppero gli equilibri che fino a quel momento avevano permesso al capitale triestino di conservare le proprie posizioni. Nel 1935 Segre si trovò così ad appoggiare i concorrenziali interessi della FIAT nella sistemazione dei neocostituiti Cantieri riuniti dell’Adriatico, ma l’operazione fu bloccata dal ministero delle Finanze, segno di una ancora esistente – seppure residua – influenza degli interessi economici giuliani.
Dell’imponente opera che portò l’imprenditoria locale a essere coinvolta nel processo di ‘irizzazione’ (cioè di passaggio all’interno del sistema delle partecipazioni statali), Segre riuscì a diventare un interprete di spicco in un settore, quello dei combustibili fossili, fino ad allora marginale, ma destinato ad assumere un’imprevedibile crescita con il sopraggiungere dell’autarchia e dei conseguenti piani di sviluppo di un’industria carbonifera nazionale.
Le principali miniere di carbone dell’Istria, quelle della zona di Albona (odierna Labin, in Croazia), erano entrate nell’orbita dal capitale triestino fin dal 1919-20, quando imprenditori guidati da Segre e legati alla cantieristica e all’armatoria pensarono in questo modo di impadronirsi di un’importante fonte di produzione di energia, da impiegare in primo luogo sulle loro navi. I notevoli ammodernamenti degli impianti estrattivi e l’aumento della manodopera impiegata nel corso degli anni Venti non erano tuttavia riusciti a superare le difficoltà incontrate sul mercato dalla cattiva qualità del prodotto estratto e dall’alto prezzo di vendita.
Dopo alterne vicende sul piano della proprietà societaria, nel 1929 la Società anonima carbonifera Arsa (dal nome del fiume – odierno Raša – che attraversa la zona di Albona) si trovava ormai sull’orlo del dissesto, ma nel 1930 riuscì a salvarsi, grazie a un primo intervento dello Stato per contenere il passivo di bilancio e a un successivo finanziamento del Consorzio di credito per le opere pubbliche, che avrebbe dovuto permetterne il definitivo risanamento. L’Arsa, presieduta da Segre, riprese la sua attività, non senza prevedere nelle nuove norme statutarie quell’allargamento della sua ragione sociale che tre anni dopo le consentì di restituire alle autorità politiche il favore ricevuto. Nel 1933, «per assecondare il desiderio delle superiori gerarchie» (come si legge nel verbale dell’assemblea degli azionisti dell’Arsa del 30 aprile 1930), essa si assunse il compito di partecipare «largamente» alla costituzione della Società carbonifera sarda, sorta per rilevare le miniere del giacimento di Bacu Abis presso Carbonia – dalla vita industriale altrettanto stentata –, senza tuttavia che tanto il precedente quanto il nuovo investimento producessero i risultati sperati.
Nel luglio del 1935, per decisione governativa, nacque con sede in Roma l’Azienda carboni italiani (ACaI), l’ente a capitale pubblico che, mettendo mano alla ricapitalizzazione, rilevò, accanto agli azionisti privati, il 60% delle azioni dell’Arsa e della Società carbonifera sarda, proponendosi di realizzare un piano di controllo nel settore dei combustibili fossili, in connessione con le tendenze al riarmo che stavano emergendo anche in Italia. Tra il 1936 e il 1937 il capitale sociale dell’ACaI fu portato da 40 a 65 milioni di lire, fino ad arrivare ai 100 milioni nel 1940, e venne anche aumentato il contributo annuo dello Stato a favore dell’azienda, nell’intento di rafforzarne l’espansione produttiva e commerciale.
Segre assunse la presidenza della nuova società pubblica, trovandosi così a capo dei due poli carboniferi di Arsia (odierna Raša) presso Albona (che nel 1939 impiegava quasi 9000 operai, per un milione di tonnellate di produzione annua) e di Carbonia in Sardegna (con 5000 operai e 400.000 tonnellate prodotte).
Nel settembre del 1936, alla prime avvisaglie del sorgere di orientamenti antisemiti all’interno del regime fascista, Segre aveva ottenuto dal Tribunale di Torino la cancellazione dall’atto di nascita del suo secondo nome, Isacco, volendo così esprimere la propria estraneità rispetto all’ebraismo, al quale non sentiva più di appartenere, e nell’agosto del 1938 notificò alla comunità ebraica di Trieste la propria abiura, in conseguenza del battesimo che aveva ricevuto qualche mese prima. Tutto questo non impedì che nel novembre del 1938, all’entrata in vigore della legislazione razziale, egli fosse allontanato da tutte le cariche rivestite in enti pubblici e società industriali. Nell’aprile del 1939 ottenne il provvedimento di ‘discriminazione’ – vale a dire la riammissione ai diritti civili –, rilasciato per «benemerenze fasciste» (si era infatti iscritto al fascio di Trieste nel settembre del 1922, quindi prima della ‘marcia su Roma’).
Dopo l’8 settembre 1943, per sfuggire alla cattura da parte dei tedeschi, trovò rifugio a Roma, entro le mura vaticane. Minato nel fisico a causa delle tempestose vicende che aveva dovuto attraversare, morì a Roma il 12 aprile 1945.
Coniugato nel 1930 con un’austriaca di religione cattolica, Gabriella Metz (il cui cognome fu poi italianizzato in Melzi), ebbe due figli, Maria Enrichetta e Carlo Emanuele.
Fonti e Bibl.: Trieste, Archivio dell’Università degli studi, Aut. 9/B-4, f. Segre Guido; Archivio centrale dello Stato, Ministero dell’Interno, Direzione generale della pubblica sicurezza, Divisione affari generali e riservati, Associazioni, b. 205, f. Comunità israelitica di Trieste, Cancellazioni eseguite presso la comunità israelitica di Trieste dal 18 al 31 agosto 1938-XVI, ad nomen; Direzione generale per la demografia e la razza, Affari diversi (1938-1945), b. 5, f. 17, Ebrei discriminati.
V. Castronovo, Giovanni Agnelli: la Fiat dal 1899 al 1945, Torino 1971, rist. 1977, pp. 99, 207, 387 s.; A. Millo, La Società Anonima Carbonifera Arsa: vicende finanziarie e industriali (1919-1940), in Qualestoria. Bollettino dell’Istituto regionale per la storia del movimento di liberazione nel Friuli-Venezia Giulia, IX (1981), 2, pp. 58-76; V. Bettini, Borotalco nero. Carbone tra sfida autarchica e questione ambientale, Milano 1984, pp. 19-81; V. Segre, Storia di un ebreo fortunato, Milano 1985, pp. 25 s., 29-35; A. Millo, L’élite del potere a Trieste: una biografia collettiva, 1891-1938, Milano 1989, pp. 238-240, 260-270, 284-287; G. Sapelli, Trieste italiana: mito e destino economico, Milano 1990, pp. 32-36, 43-48; A. Stille, Uno su mille: cinque famiglie ebraiche durante il fascismo, Milano 1991, pp. 13-27; A. Visintin, L’Italia a Trieste: l’operato del governo militare italiano nella Venezia Giulia, 1918-1919, Gorizia 2000, pp. 217-219; E. Carignani Melzi, Un imprenditore tra le due guerre: la vicenda umana di G. S. nel racconto della figlia, testo raccolto da P. Grandis, Trieste 2005; P. Cuomo, Il miraggio danubiano: Austria e Italia, politica ed economia, 1918-1936, Milano 2012, pp. 47-67.